Zygmunt Bauman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Confini e superamenti. La mobilità umana come terreno di conflitto https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/confini-e-superamenti-la-mobilita-umana-come-terreno-di-conflitto/ Tue, 25 Jun 2019 21:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53341 di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri [...]]]> di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.

Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.

Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).

Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».

Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».

Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».

Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.

«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».

I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».

Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».

Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.

Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.

 

 


  1. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2018 

  2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005 

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Estetiche del potere. Comunità a tempo determinato, mercificazione e politica simbolica https://www.carmillaonline.com/2018/03/06/reale-dellenelle-immagini-divismo-allepoca-dei-social-media-comunita-tempo-determinato-corpi-mercificati-politica-simbolica/ Mon, 05 Mar 2018 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41986 di Gioacchino Toni

Tra i diversi motivi del successo dei reality show televisivi probabilmente vi è anche la loro promessa di soddisfare il desiderio contemporaneo degli individui di essere inquadrati da una qualche telecamera. Scrive a tal proposito Vanni Codeluppi nel saggio Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017): «È fondamentale per tutti gli individui, cioè, riuscire a trasferirsi all’interno di uno dei tanti schermi che hanno quotidianamente davanti. Proprio per questo per essi è necessario sviluppare una modalità di comunicazione basata su un modello relazionale di conflittualità simbolica con gli altri» (p. 45).

Se la tv degli anni Ottanta prometteva [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra i diversi motivi del successo dei reality show televisivi probabilmente vi è anche la loro promessa di soddisfare il desiderio contemporaneo degli individui di essere inquadrati da una qualche telecamera. Scrive a tal proposito Vanni Codeluppi nel saggio Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017): «È fondamentale per tutti gli individui, cioè, riuscire a trasferirsi all’interno di uno dei tanti schermi che hanno quotidianamente davanti. Proprio per questo per essi è necessario sviluppare una modalità di comunicazione basata su un modello relazionale di conflittualità simbolica con gli altri» (p. 45).

Se la tv degli anni Ottanta prometteva di ricostruire quei legami personali e affettivi frammentatisi nella società, il modello dei reality si muove in direzione opposta: tutti contro tutti, spettatori contro concorrenti, concorrenti contro concorrenti.

Se lo spettatore all’interno del modello del reality vota per eliminare un concorrente del programma, in realtà elimina anche se stesso. Perché quel concorrente è profondamente simile a lui. Il reality infatti illustra molto bene la natura del divo. Se questo, come sosteneva Edgar Morin [I divi, Garzanti, 1977], è una figura dalla duplice natura (umana e sovrumana) e deve dimostrare di essere una persona come le altre ma di possedere al contempo delle particolari qualità, così anche il protagonista del programma di reality si colloca perfettamente in bilico tra l’ordinarietà e la straordinarietà, tra la persona comune che lo sta guardando e il divo che vive in un mondo lontano e prestigioso (pp. 45-46).

Nel reality lo spettatore si trova contemporaneamente davanti e dentro allo schermo. «Il modello del reality show però ha successo principalmente perché tra il flusso della vita quotidiana e il flusso televisivo esiste una naturale affinità. Entrambi si basato infatti sull’idea di contemporaneità, di evento che si svolge proprio nel momento in cui lo si sta guardando» (p. 46). Per certi versi il reality porta a compimento la promessa televisiva di catturare e restituire allo spettatore la realtà mentre questa si svolge. Tutto appare imprevedibile, apparentemente senza rispettare un copione prestabilito, e ciò produce nello spettatore l’impressione di avere il controllo su tale imprevedibilità, cosa che non ha nella vita reale. Nei reality lo spettatore guarda e si guarda, si sente giudicato e giudica. «Ne deriva che tra lo spettatore e la realtà rappresentata si ricostruisce, seppure filtrato attraverso lo schermo, quel rapporto basato sulla reciprocità che, secondo Simmel [Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, Feltrinelli, 1983], si trova alla base della vita sociale e rappresenta probabilmente una delle ragioni del successo ottenuto oggi dal genere reality» (p. 47).

Se, come sostiene Zygmunt Bauman (Voglia di comunità, Laterza, 2001), le società contemporanee sono caratterizzate dalla solitudine degli individui, il reality rappresenta una forma di comunicazione, per quanto artificiale ed illusoria, una forma di comunità, seppure a tempo determinato.
Secondo Codeluppi, rispetto ad altre forme di spettacolo, il reality sembra intensificare l’identificazione: la sensorialità del corpo anziché venire soffocata viene amplificata. Il corpo dello spettatore non è più immobile e al buio. In quella che lo studioso definisce “Transtelevisione” (Stanno Uccidendo la tv, Bollati Boringhieri, 2011) – «lo spettacolo non è scomparso, ma al suo interno sono presenti, anziché dei professionisti, gli stessi spettatori, naturalmente attraverso dei loro credibili rappresentanti» (p. 47).

Affinché il reality funzioni occorre che tra spettatori e protagonisti vi sia somiglianza, dunque la televisione diviene una sorta di specchio in cui allo spettatore sembra di parlare a se stesso trasformandosi così in un divo. Parte del successo dei reality, soprattutto dei talent show, è data dall’impressione che uno sconosciuto, come lo spettatore, possa divenire improvvisamente una celebrità e chi partecipa al programma deve dimostrare di essere il migliore nella competizione televisiva nel

gestire pubblicamente la sua immagine, nel trasformare la sua vita in spettacolo. Il che lo fa sentire pienamente parte di una realtà sociale come quella contemporanea, in cui gli viene chiesto in continuazione di costruire un’identità adeguata all’impiego nelle situazioni pubbliche che affronta e in cui ha la necessità di difendersi dall’invadenza del prossimo. E non importa se non vince oppure viene escluso. Ciò che conta, comunque, è riuscire a raggiungere la popolarità, avere la propria parte di applausi, anche se per un tempo estremamente limitato (p. 48).

Il volume di Codeluppi, dopo aver passato in rassegna i fenomeni del divismo nel mondo del cinema, della televsione, della musica, dello sport e della moda, si sofferma sul divismo nei social media. Questi ultimi, oltre a essere strumenti che, grazie al loro aumentare il contato tra divo e fan, risultano utili nel supportare tutte le altre forme di divismo contemporaneo, risultano importanti anche perché permettono un ruolo partecipativo ai fan e in generale agli utenti. Anche se la distinzione tra divo e fan sembra restare salda, è innegabile che l’era dei social media abbia comportato una generale esposizione mediatica che si estende anche ai normali utenti che, proprio come i divi, si trovano a curare l’immagine di sé che intendono trasmettere al pubblico più o meno allargato e la ricerca di un audience sempre più vasta, sostiene Codeluppi, tende a far adottare all’individuo un modello culturale decisamente conformista «virato al positivo dove non è previsto uno spazio per le lamentele e le critiche e tutto dev’essere presentato come allegro e spensierato» (p. 71). Su tale aspetto si veda lo scritto “Il reale delle/nelle immagini. Esibizionismo, selfie, mercificazione e costruzione identitaria” [su Carmilla].

A dispetto dei racconti che vogliono lo youtuber di successo come un geniale e abile comunicatore improvvisato, non di rado, sottolinea lo studioso, si ha a che fare con personaggi meticolosamente costruiti da agenzie specializzate nella creazione di corpi da/in vendita. Corpi da vendita perché finalizzati alla promozione di merci all’audience e corpi in vendita perché, in fin dei conti, è il corpo stesso della star del web ad essere venduto. «Nessuna meraviglia allora se nel nuovo mondo digitale il successo arriva soprattutto a chi accetta maggiormente di diventare una merce per propagandare nove merci» (p. 72).

Da una ricerca empirica condotta da Letteria Fassari (Poplife. Il realitysmo tra mimetismo e chance sociale, Carocci, 2014) sugli aspiranti partecipanti al Grande Fratello dell’edizione italiana, emerge l’aspirazione di questi giovani a «collocarsi in un flusso informativo che tende a fa coincidere il lavoratore e il comunicare» (p. 117), in altre parole pare divenire sempre più importante

saper comunicare al meglio con il prossimo. Anche perché ciò oggi [appare come] un vero e proprio obbligo sociale imposto dalle retoriche della creatività e della performance. In questa situazione, per i candidati al Grande Fratello il modello del reality si propone come una rassicurante fuga da una realtà che offre solitamente limitate possibilità di realizzare il proprio progetto di vita. Ovvero il reality si presenta come un luogo particolare che non appartiene né alla realtà esterna, né al mondo interiore del soggetto (pp. 117-118).

Nell’era contraddistinta dai media partecipativi, secondo Nick Abercrombie e Brian Longhurst (Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, 1988), «tutti sono indotti a compiere quotidianamente delle performance davanti a un pubblico immaginario. Sono ciò dei performer che sentono di doversi esibire in continuazione davanti a una vera e propria “audience diffusa”» (p. 118).

Le ultime pagine del volume di Codeluppi sono dedicate al rapporto tra divismo e politica e in particolare al venir mendo della netta distinzione tra divi dello spettacolo e personaggi delle élite tradizionali, economiche e politiche, così come era stata delineata nei primi anni Sessanta da Wright Mills (L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 1962). Le televisioni e il web hanno progressivamente avvicinato questi due ambiti e la gestione del potere sembrerebbe sempre più avere «a che fare con il possesso delle informazioni che contano in un determinato momento e con entrare in contatto con tali informazioni. Ciò comporta la necessità di frequentare gli ambienti e i rituali sociali adeguati. E far parte dell’élite dei divi dello spettacolo certamente aiuta i politici in questo compito» (p. 120).

Tutto ciò sembrerebbe però indebolire la forza della politica che «impiegando progressivamente il linguaggio del gossip del mondo dei divi, riduce inevitabilmente il potere del suo specifico linguaggio e tende perciò a perdere prestigio» (p. 121). Il politico contemporaneo tende a trasformarsi in una specie di celebrità che si occupa principalmente della politica simbolica delegando la politica reale ad agenzie che non necessitano di consenso in quanto autoprodotte direttamente dal potere economico.


Serie completa: Estetiche del potere

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Futuro prossimo o remoto: mala tempora currunt https://www.carmillaonline.com/2016/12/19/futuro-prossimo-remoto-mala-tempora-currunt/ Mon, 19 Dec 2016 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35013 di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente [...]]]> di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente percepite difficoltà e paure odierne di pensare, immaginare, progettare il tempo futuro. La società nel suo insieme ed ogni singolo individuo per la propria parte vivono a capo chino, con lo sguardo rivolto ad un angusto presente, come timorosi di guardare davanti a sé o impossibilitati a farlo per la miopia di un occhio per cui la linea dell’orizzonte è così lontana da risultare sfocata ed indefinita.

È alla cultura allora che si richiede di diradare le nebbie, di tracciare e definire i contorni delle cose, immaginando la società del futuro, prossimo o remoto ed è uno sforzo predittivo ed immaginativo non facile a compiersi nell’epoca di quella post-modernità che sembra aver mortificato ed inibito le moderne speranze/velleità di leggere e comprendere in continuità il passato ed il presente e di indirizzare/immaginare il futuro; non facile – scrive Bordoni – per «lo spirito odierno, permeato d’incertezze, che spinge ad aggrapparsi al presente e a farne una nicchia di sopravvivenza, di cui si conoscono almeno i contorni e le criticità» (p. 9). Il presente critico e problematico impaurisce e preoccupa, ma il futuro – osserva l’autore – indefinibile, inafferrabile, insomma ignoto, sembra atterrirci e immobilizzarci con il raggelante sentimento dell’angoscia oppure ci sprofonda nella più rassicurante, ma sterile, nostalgia del passato.

Dalle opinioni raccolte in questo volume risulta evidente come non solo nella percezione comune, ma anche sul piano dell’immaginario colto oggi prevalgano le letture in negativo del futuro che ci attende, visioni talvolta catastrofiche, che «richiamano gli echi delle apocalissi medievali che predicavano la fine del mondo se gli uomini non si fossero pentiti dei loro peccati e non avessero seguito gli insegnamenti della religione» (p. 15). Ma al posto del pentimento del peccatore, oggi si richiederebbe il «ravvedimento dei sistemi politici e dei governi che non si preoccupano dell’esaurimento delle risorse e del degrado del pianeta. […] La differenza è però evidente: allora la minaccia della fine del mondo era strumentale, serviva a controllare il comportamento delle moltitudini in assenza di un forte potere sovrano, lo Stato-nazione. Adesso la minaccia è concreta, fondata e quantificabile. Più che una maledizione, è una denuncia pubblica al fine di risvegliare le coscienze e spingere a prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi» (p.15).

Il tempo, la storia, il loro senso costituiscono una materia complessa ed opaca che spesso la filosofia si è sforzata di mettere a tema e per questo iniziamo la presentazione di alcuni dei tanti contributi raccolti da Carlo Bordoni proprio da un filosofo, Remo Bodei, che muove da un assunto fondamentale: l’idea di una storia orientata da una logica intrinseca che la guida appare ormai tramontata definitivamente; abbiamo dovuto rinunciare ad essa e scivolare dal piano di una Storia a quello di molteplici particolari storie che faticano a rientrare in un quadro comune di destini interconnessi. La prospettiva escatologica o comunque variamente finalistica del tempo storico che aveva spronato e sostenuto la progettualità umana nel corso dei secoli ha lasciato il posto ad una storia “invertebrata”, di cui si dimentica la provenienza e si ignora la destinazione.

Tre – ritiene Bodei – sono le conseguenze immediate di questa situazione i cui effetti a lungo termine ancora non sono del tutto evidenti. In primo luogo, la difficoltà odierna di rapportarsi al futuro secondo una modalità proiettiva, che sia in grado di collocarvi traguardi da raggiungere. Ne consegue che la prospettiva della nostra attesa viene a tal punto ridotta da risultare tutta schiacciata sul presente, ma un presente immediato e puntuale, o poco più, che fatica a costruire relazioni con un tempo che lo trascenda. Viene meno la possibilità di pensare ad un riscatto prossimo di qualsivoglia specie – il progresso, la libertà, la società senza classi – e questo alimenta l’indifferenza, la rassegnazione o induce all’angoscia. Ma produce anche qualcosa di peggiore: l’assolutizzazione del presente, un presente senza futuro che induce all’opportunismo predatorio, proprio di uomini e società, sistemi economici e politici che non sono più in grado di «preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato» (p. 33).

In secondo luogo, lo sbriciolamento di aspirazioni e progetti collettivi, pubblici ed universalistici, che dal secolo dei Lumi in poi avevano tracciato l’orizzonte di senso dell’uomo in Occidente, ha dato spazio ad aspettative sempre più private e quindi particolaristiche ed atomizzate, ad una privatizzazione del futuro che si trasforma nella «fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa» (p. 33). In terzo luogo, sia il pensiero politico sia la sua prassi non sono più in grado di proporsi come strumenti di ideazione e realizzazione di traguardi venturi, prossimi o remoti e finiscono per essere imprigionati nel ristretto spazio amministrativo del presente contingente.

Conclude pertanto Bodei che il «presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. […] Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico ed insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro — che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto — tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente» (p. 33).

L’arroccamento nella cittadella fortificata del presente per fuggire da un futuro che ci terrorizza è – secondo Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma – il nostro odierno atteggiamento verso il tempo e l’esistenza. Seguendo concetti e stilemi di pensiero heideggeriani, Di Cesare fissa il mal-essere attuale «nella chiusura dell’avvenire» (p. 61), in quanto “l’aspettare” (erwarten) ha sostanzialmente sostituito “l’attendere” (warten) come modalità di rapportarsi al futuro. “L’aspettativa” riguarda qualcosa di conosciuto, programmato, immaginato che, pertanto, induce l’uomo al calcolo, alla previsione, alla proiezione statistica, nell’estremo tentativo di estendere il controllo anche sul tempo, sul futuro per renderlo anticipatamente familiare, per disinnescarne la carica di potenziale inquietudine. «Il dominio del futuro è l’aspirazione ultima, il contrassegno e il sigillo della nostra epoca. Quanto più il futuro ci terrorizza, tanto più vogliamo dominarlo. In una vertigine senza fine, dove si moltiplicano analisi, misurazioni, sondaggi, previsioni» (p. 62).

“L’attesa” invece riguarda qualcosa di inaspettato, di non calcolabile, contempla l’alterità, l’eterogeneità dell’imprevedibile; l’attesa è apertura dell’avvenire. Abbandonarsi all’attesa vuol dire aprirsi all’avvenire. «Nell’attesa di ciò che viene, e avviene […] l’apertura non è preclusa e il futuro si rivela perciò a-venire, tempo che porta con sé la possibilità dell’impossibile. Nell’avvenire aperto dell’attesa si mantiene l’eterogeneità dell’evento che interrompe il presente, lo oltrepassa, eccedendo ogni estremo, superando ogni éschaton» (p. 62).
Pare essere proprio l’attuale incapacità di attendere il tempo a-venire che ci induce a rifugiarci nella cittadella fortificata del presente assediata dai fantasmi di un futuro che, disorientati ed impauriti, aspettiamo.

Zygmunt Bauman ritiene che se prevedere il futuro è operazione di per sé difficile, a maggior ragione lo è oggi, in un’epoca in cui si moltiplicano gli «eventi che testimoniano l’assenza di una logica di sviluppo nella condizione umana e quindi anche di conseguenza nelle imprese umane» (p. 25). Le società contemporanee si trovano nella condizione di non essere più in grado di concepire le forme del proprio futuro e i modelli del proprio sviluppo, in particolare a causa del fatto che è venuta meno la fiducia riposta nelle principali «agenzie di azione collettiva – i partiti politici, i parlamenti, il governo – di riorganizzare/riformare e mantenere le loro promesse» (p. 26).
A monte di questa inettitudine di istituzioni ed organi socio-politici, il sociologo polacco colloca la separazione attualmente prodottasi tra potere e politica, «tra il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose devono essere fatte)» (p. 26); una divergenza che a sua volta è conseguenza della globalizzazione in atto, che ha investito il potere, ormai globalizzato, ma non la politica. «La maggior parte dei poteri epocali», scrive Bauman, «che determinano la condizione e la capacità umana di agire in modo efficace sono già sul globale, sfidando il principio della sovranità territoriale degli organismi politici – mentre gli attuali organismi politici, le cui competenze sono racchiuse entro i confini di uno stato territoriale, rimangono confinati a livello locale come un centinaio di anni fa. I poteri globalizzati si trovano oltre la portata delle attuali istituzioni politiche. Ci sono poteri esenti dal controllo politico, a fronte di una politica spogliata di gran parte del suo antico potere» (p. 26-27).

In assenza di strumenti socio-politici adeguati a poteri globalizzati, l’attuale condizione degli uomini, considerati individualmente o collettivamente, è del tutto simile – sostiene Bauman con una immagine oltremodo efficace – a quella del plancton: siamo come organismi acquatici, sospesi in balia delle correnti, per i quali non è ragionevolmente possibile prevedere alcuna direzione di spostamento.

Sul piano dell’analisi economica dell’odierno capitalismo globalizzato si sviluppa il ragionamento di un altro sociologo, Wolfgang Streeck, docente dell’Università di Colonia, che vede le società occidentali avviate a proseguire nei prossimi decenni un trend complessivo di declino sociale che già da anni si manifesta nelle forme della disuguaglianza crescente, della stagnazione economica, dell’aumento dell’insicurezza e della frammentazione politica. Si tratta di un piano inclinato lungo il quale la società contemporanea sta precipitando con accelerazione crescente e senza che si intravedano possibilità concrete di frenare tale corsa rovinosa. Questo processo ha «a che fare con la rapida espansione dell’economia capitalista su scala globale. Vale a dire una scala che le regole della politica democratica e le altre forze contrarie al capitalismo non possono assolutamente arginare, benché in passato fossero riuscite nell’insieme a contenerle e a incorporarle» (p. 143).

Rifacendosi al pensiero di Karl Polanyi, Wolfgang Streeck ritiene che la globalizzazione abbia ormai impresso una forma “mercantile” all’intero mondo e abbia prodotto un’accelerazione mai vista prima alla mercificazione del lavoro, del denaro e della natura, che possono «essere trattate come merci pure e semplici solo a rischio di una catastrofe sociale. Si stanno cominciando a vederne i risultati: mercati del lavoro deregolamentati con successo e declino a livello globale delle condizioni di lavoro, a fronte di un rapido avanzamento del degrado ambientale e di sempre più gravi crisi finanziarie. Al centro del marciume sociale che vedo avanzare trovo l’economia capitalista liberata di ogni controllo, avendo sciolto il suo matrimonio forzato con la democrazia, che era stato consumato dopo la seconda guerra mondiale» (p. 144).

Pertanto, continua Streek, il neoliberismo mondializzato, liberatosi da ogni vincolo o condizionamento politico, ha fatto sì che oggi l’economia capitalista non sia più capace di sostenere la società capitalista e abbia prodotto disordine, ingovernabilità e ingiustizia dilaganti.
«L’ascesa inarrestabile della disuguaglianza nei paesi che una volta avevano fatto dell’uguaglianza uno dei loro obiettivi etici e politici più importanti, è solo un altro aspetto della crescente ingovernabilità del capitalismo globale» (p. 144), che conduce Streek a conclusioni desolanti riguardo l’immediato futuro che ci attende. «L’ordine sociale del momento è rappresentato da lavoratori precari trasformati in consumatori fiduciosi (Colin Crouch) per effetto di continue pressioni sociali generate dalla grande industria della pubblicità e dello spettacolo, alleata a uno sproporzionato settore finanziario. […] Gli immigrati, che in numero sempre maggiore forniscono alla classe media servizi privati a prezzi accessibili – in forza della sottomissione a un modello orientato al mercato e sempre meno in grado di rinunciarvi – saranno esclusi formalmente o di fatto dai diritti civili. Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico, essendo abituate dalla privatizzazione a difendersi e a pagare per sé, perderanno interesse per la politica. Ciò corrisponderà alla crescita del dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali, imponendo ai governi l’austerità e il consolidamento per fare spazio al consumo privato e dare nuova fiducia ai mercati finanziari. La partecipazione politica diminuirà ancora di più tra il sottoproletariato, che non ha più nulla da aspettarsi dalla politica pubblica» (p. 145-146).

Questi qui considerati sono solo alcuni degli interventi che compongono l’interessante lavoro curato da Carlo Bordoni che fornisce un contributo apprezzabile allo sforzo odierno di pensare ed immaginare il futuro, in un contesto di incertezza e disorientamento crescenti ad ogni livello della vita sociale, ma anche con la consapevolezza che – come dice J.M.Keynes, da Bodei citato nel suo breve saggio – l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

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Il libro raccoglie saggi di: Marc Augé, Zygmunt Bauman, Remo Bodei, Edoardo Boncinelli, Valerio Castronovo, Vanni Codeluppi, Domenico De Masi, Donatella Di Cesare, Àgnes Heller, Giuseppe O. Longo, Michel Meffesoli, Patrizia Magli, Paolo Maria Mariano, Michel Meyer, Edgar Morin, Elga Nowotny, Alberto Oliverio, Telmo Pievani, Stefano Rodotà, Alessandro Scarsella, Denise Schmandt-Besserat, Wolfgamg Streeck, Keith Tester, Silvia Vegetti Finzi.

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Italiani… cattiva gente o popolo di giusti? https://www.carmillaonline.com/2016/09/02/32918/ Fri, 02 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32918 di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria. «Io non posso aver fatto questo» – dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine – è la memoria ad arrendersi. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa [...]]]> di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria.
«Io non posso aver fatto questo»
– dice il mio orgoglio e resta irremovibile.
Alla fine – è la memoria ad arrendersi.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa o alla volontà di sfuggire alle proprie responsabilità.
La memoria è fatta di materia facilmente modellabile, ha una natura cangiante, dinamica e sfuggente; può allo stesso tempo essere pietra angolare od ostacolo nel processo di costruzione della coscienza di sé, tanto individuale quanto collettiva, tanto personale ed esistenziale quanto sociale e storica.
Ed è della coscienza collettiva e della memoria storica italiane che, come in altre occasioni, [su Carmilla 1 e 2] torniamo a parlare, proponendo la lettura del libro di Simon Levis Sullam, uscito per la prima volta nella collana Storie di Feltrinelli nel 2015 e nell’Universale Economica nel 2016, in cui lo storico dell’Università Ca’ Foscari di Venezia affronta il tema, ancora oggi (e non a caso!) poco noto all’opinione pubblica, della partecipazione italiana al processo di sterminio degli ebrei italiani nel biennio 1943-’45.

Un libro che può dare un prezioso contributo alla correzione dello strabismo e della miopia della memoria collettiva del nostro paese a patto che i dati, le riflessioni e le conclusioni qui contenute oltrepassino i confini del ristretto ambito di lavoro degli storici, i quali – come è avvenuto anche per altre pagine decisive e controverse della nostra storia/memoria, come il colonialismo e il razzismo africani, i crimini di guerra e le stragi tanto in Africa quanto sui fronti del secondo conflitto mondiale ed in particolare in Jugoslavia e in Grecia – hanno ormai condotto molto avanti la ricerca e gli studi sulla Shoah italiana e di conseguenza anche quelli sull’antisemitismo fascista e sulle responsabilità e complicità dell’Italia fascista, prima e dopo l’8 settembre 1943, nell’azione genocida intrapresa e condotta a fianco dell’alleato nazista.

Ma – ed è questo il punto decisivo – il moltiplicarsi delle ricerche e l’articolarsi sempre più complesso e completo degli studi ancora non sono riusciti a scalfire la corazza di quella falsa coscienza, così radicata e diffusa da essere un vero e proprio abito nazionale, che rappresenta gli italiani come brava gente, incapaci di commettere atrocità o crimini efferati, in quanto per indole, storia e tradizione portati alla mitezza d’animo e all’umanità del comportamento. Una autorappresentazione collettiva, tanto fuorviante quanto autoassolutoria, che immediatamente si riproduce, censurando, rimuovendo, edulcorando e minimizzando, ogniqualvolta venga avanzata la richiesta, resa ormai ineludibile dalla ricerca storica, di riconoscimento delle responsabilità della società e del popolo italiani proprio in quella azione genocida che più di ogni altra ha segnato il secolo da poco trascorso.

E allora di “carnefici italiani” si può, si deve parlare; sebbene – precisa Levis Sullam – «l’atto finale dello sterminio generalmente non avvenne su suolo e per mano italiana – anche gli italiani presero l’iniziativa, al centro e alla periferia del rinato Stato fascista, partecipando al progetto e al processo di annientamento degli ebrei, con decisioni, accordi, atti, che li resero attori e complici dell’Olocausto, seppur con diversi gradi e modalità di coinvolgimento, secondo i differenti ruoli, contributi pratici e forme di partecipazione» (p.11).

Infatti, come hanno recentemente sostenuto nel loro bel libro, Orgoglio e genocidio, Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa, [su Carmilla] la nota e fortunata tipizzazione proposta da Raul Hilberg nel saggio del 1992, Perpetrators Victims Bystanders: The Jewish Catastrophe, 1933-1945 (Carnefici, vittime e spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, ed. italiana 1994), necessita di una fondamentale integrazione o più specifica articolazione che comprenda anche la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (Bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati” (Perpetrators).
Essa comprende quella grande quantità di individui che, pur non commettendo personalmente e direttamente l’atto omicida, collaborarono – più o meno consapevolmente riguardo all’esito finale delle loro azioni, ma di certo volontariamente – al progetto genocida, individuando e schedando le vittime, arrestandole, trasferendole e trasportandole, impossessandosi dei loro averi, imprigionandole e sorvegliandole, denunciandole attraverso ignobili e vigliacchi atti delatori, ecc. E lo fecero per differenti e personali, a seconda di casi e circostanze, motivi e finalità, che andavano dalla convinzione ideologica e dal fanatismo antisemita fino al tornaconto personale in termini di avanzamento di carriera o di arricchimento economico, passando attraverso il conformismo, l’acquiescenza a qualsiasi legge od ordine, la paura, ecc.

Campo di Fossoli - esterno

Campo di Fossoli – esterno

E applicando i modelli di ragionamento hilberghiani al caso italiano, possiamo sostenere, insieme a Levis Sullam, che il coinvolgimento della società e dello stato italiani – in particolare di quello repubblicano di Salò dopo l’8 settembre ’43, ma senza dimenticare quello monarchico dal 1938 in poi – fu globale e complessivo e che diverse istituzioni, vari uffici ed apparati burocratici, numerosi soggetti economici, le forze di polizia e sicurezza nel loro complesso (Carabinieri, Polizia, MVSN e poi GNR e Brigate Nere) e comuni cittadini italiani si accanirono sui loro concittadini ebrei, spianando la strada all’azione di deportazione e sterminio voluta dall’alleato tedesco e in molti casi compiendo in prima persona tutti i concatenati passi dell’azione genocida fino alla spedizione dei prigionieri dal campo di Fossoli, prima e da quello di Bolzano-Gries, poi, verso i campi di sterminio nazisti.

Nel caso italiano e in quello di molti dei paesi occupati dalla Wehrmacht la collaborazione di apparati, istituzioni, forze di polizia, semplici cittadini fu decisiva, come riconobbe – scrive Levis Sullam – un consigliere diplomatico tedesco che, in un appunto per il ministro Ribbentrop, «al principio delle deportazioni del dicembre 1943 […] constatava infatti: “Con le forze che abbiamo a disposizione in Italia non è possibile setacciare tutti i comuni minori, medi e grandi”» (p. 47).
A impartire l’ordine di setacciare, rastrellare, arrestare, imprigionare, sorvegliare e inviare verso la morte ci pensarono solerti prefetti e questori italiani – a seconda dei casi, convinti fascisti antisemiti o cinici carrieristi o meschini esecutori della legge – ad attuare gli ordini provvidero uomini e militi delle forze di sicurezza e polizia della Repubblica sociale italiana, i quali – ed è decisivo ricordarlo – avevano a disposizione le liste anagrafiche dei cittadini ebrei censite a seguito delle leggi razziali del 1938 e alle spalle provvedimenti persecutori quali l’arresto e l’invio verso campi di concentramento di ebrei stranieri, prima ed ebrei italiani “pericolosi”, poi, intrapresi a partire dal 1940 e nel corso dei primi anni di guerra; insomma anteriormente al famigerato «primo ordine italiano di arresto generalizzato, emesso dal ministro Buffarini Guidi come ordine di polizia il 30 novembre 1943 […], subito prima o in parallelo con i provvedimenti di confisca dei beni ebraici già sequestrati (4 gennaio 1944), seguiti poi dallo scioglimento delle comunità ebraiche e di sequestro dei loro beni (28 gennaio 1944)» (p.45). E prima anche del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943 che al punto 7 definiva così i cittadini ebrei italiani: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.

Insomma, l’antisemitismo fascista, che nella Rsi conobbe il suo apice, già aveva una lunga storia alle spalle e aveva conosciuto una genesi ed uno sviluppo autonomi rispetto a quello nazista, essendosi inizialmente innestato sul tronco del precedente razzismo coloniale africano – che già in Libia, e ancor di più in Etiopia, aveva condotto gli italiani ad introdurre ed applicare leggi razziste e segregazioniste e ad attuare operazioni criminali e stragiste – e dell’antigiudaismo tradizionale di matrice religiosa cattolica.

Lager Bolzano-Gries

Lager Bolzano-Gries

Chiarito quale fosse il quadro complessivo entro il quale si svolsero i fatti che Levis Sullam fa oggetto della sua indagine, occorre precisare che il libro si concentra esclusivamente su quanto accadde nei due anni scarsi di vita della Repubblica sociale italiana e cioè sul momento finale e più tragico della persecuzione degli ebrei italiani ad opera di fascisti ed alleati nazisti. E lo fa in poco più di cento pagine e pertanto in modo sintetico, ma puntuale e comunque esauriente, sviluppando un discorso accuratamente circostanziato e in alcuni casi anche “drammatizzando” con efficacia le situazioni, gli episodi, gli attori – vittime e carnefici – di queste – come recita il sottotitolo del libro – “scene dal genocidio degli ebrei”.
Come, a titolo d’esempio, nelle pagine del Prologo (Una sera del 1943): «La sera di sabato 5 dicembre 1943, alcune ore prima della retata di ebrei che a Venezia avrebbe condotto all’arresto di oltre centosettanta tra uomini, donne e bambini, il giovane pianista Arturo Benedetti Michelangeli teneva un concerto al Teatro La Fenice. L’indomani, poche ore dopo che gli ebrei arrestati fossero stati provvisoriamente consegnati alle carceri locali, la squadra cittadina di calcio disputava un incontro alla stadio di Sant’Elena. Gli arresti erano avvenuti nottetempo, in una città avvolta dall’oscuramento, nel cuore di un inverno piuttosto rigido. Mentre prendeva avvio anche a Venezia il genocidio degli ebrei, le giornate scorrevano come sempre, in un intreccio indissolubile di vita e di morte: forse il prefetto che aveva dato l’ordine di arresto degli ebrei aveva poi assistito al concerto di Benedetti Michelangeli. E qualcuno, tra i poliziotti o tra i volontari fascisti che avevano partecipato agli arresti, poche ore più tardi si era recato allo stadio per assistere alla partita domenicale» (p. 9).

Sul piano dei riferimenti teorico-storiografici il discorso di Levis Sullam esplicitamente richiama le analisi del prevalente funzionalismo di Raul Hilberg, che legge la Shoah come un processo di radicalizzazione cumulativa che si nutrì di molteplici e svariati apporti della società e dello stato tedeschi nel loro insieme (e di quelli alleati e fiancheggiatori, possiamo aggiungere), a cui si sommano le note riflessioni di Zygmunt Bauman riguardo i legami tra il funzionamento della macchina genocida e quello degli apparati burocratico amministrativi degli stati moderni ed infine le altrettanto note e fortunate pagine di Claudio Pavone sulla “guerra civile” italiana, combattuta tra il 1943 e il 1945.

E proprio la “guerra civile”, che comporta definizioni e distinzioni identitarie nette ed assolute tra “amici” e “nemici”, contribuì – pensa Levis Sullam – in maniera decisiva allo sterminio degli ebrei italiani, che per il rinato fascismo di Salò rientravano nella categoria degli “odiati nemici traditori”, insieme ad antifascisti e partigiani, disertori, renitenti alla leva e badogliani. E sempre all’interno della cornice di una guerra fratricida si inscrivono i numerosissimi ed odiosi casi di delazione e denunce, così come i frequenti tradimenti e le imboscate compiuti da guide e “passatori” che consegnavano alla polizia della frontiera italo-svizzera gli ebrei che a loro si erano incautamente affidati, intascando tanto il denaro pattuito con uomini disperati in fuga quanto la taglia fissata per ogni ebreo catturato.

Nelle Conclusioni (Amnistie, rimozioni, oblio), Levis Sullam ricorda che «Nessuno [dei carnefici italiani] fu processato nel dopoguerra per la partecipazione alla politica antiebraica del fascismo: né quella risalente al 1938, né quella della Repubblica sociale italiana […]. Generalmente la persecuzione degli ebrei non venne ritenuta un reato o una colpa specifica, né un’aggravante di altri reati, nel più ampio contesto di una complessiva sottovalutazione delle responsabilità del fascismo italiano del Ventennio e di Salò» (pp. 111-112).
Come ha spiegato – tra gli altri – Claudio Pavone, fu la continuità tra stato monarchico e fascista da un lato e stato postfascista, repubblicano-democratico dall’altro a prevalere sulla discontinuità, come la cosiddetta amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 oppure il comportamento nei processi postbellici della magistratura italiana – a sua volta «rimasta largamente ingiudicata [e] quindi in assoluta continuità con quella fascista» (p. 112) – comprovano.

«Anche volendosi limitare alle politiche razziste del fascismo», fa notare puntualmente Levis Sullam, «risulta evidente come proprio nella magistratura figure direttamente implicate nell’applicazione della legislazione razziale proseguirono nel dopoguerra con onorate carriere […]» (p. 113). Tra i casi considerati dall’autore, ricordiamo come esempio quello di «Gaetano Azzariti che, già presidente del Tribunale della razza dal 1938 al 1943, fu ministro di Grazia e Giustizia di Badoglio, quindi capo dell’ufficio legislativo di Togliatti presso il medesimo ministero, e concluse infine la sua carriera come presidente della Corte Costituzionale negli anni cinquanta» (p. 113).

Pertanto, il mancato riconoscimento delle responsabilità italiane, innanzi tutto sul piano giudiziario, è da considerarsi – ritiene lo storico – il primo passo, a cui se ne aggiunsero poi altri di tipo «politico, militare, diplomatico, memorialistico, storiografico» (p. 114), verso quel «vuoto conoscitivo» (p. 113) riguardo alle responsabilità italiane nello sterminio degli ebrei che ha caratterizzato, dall’immediato dopoguerra e che ancora oggi fatica a tramontare, la memoria e la coscienza collettive del nostro paese.
Un “vuoto di memoria” dentro al quale ha trovato il suo habitat naturale lo stereotipo, di per sé risibile se non fosse così pernicioso e venefico, del bravo italiano, alla cui elaborazione, rispetto a Shoah ed antisemitismo, nell’immediato dopoguerra ha contribuito anche – secondo Levis Sullam – l’atteggiamento della «medesima classe dirigente ebraica italiana. La diminuzione delle responsabilità italiane da parte ebraica rispondeva da un lato ad esigenze di allineamento e riconciliazione degli ebrei con la società italiana che nuovamente li aveva accolti; dall’altro esprimeva la sincera gratitudine da parte di coloro che erano stati salvati dalla deportazione. Vi era, su un altro piano, una cancellazione delle corresponsabilità di molti ebrei nel sostegno al regime fascista fino al 1938, sostanzialmente identiche a quelle della maggioranza degli italiani» (p. 115).

Si diffondeva in tal modo una interpretazione riduzionistica e giustificazionistica del ruolo del fascismo e del popolo italiano nella Shoah che di seguito trovò in ambito storiografico l’equivalente nella lettura proposta da De Felice per la prima volta nel 1963 che sosteneva «la tesi di un rifiuto italiano della politica di sterminio» (p. 116). Se sul piano degli studi i lavori dei – per citarne solo alcuni – Sarfatti, Picciotto Fargion, Collotti e tanti altri hanno da alcuni anni fatto luce sui fatti, i contesti, le responsabilità e i diversi aspetti dello sterminio degli ebrei italiani, dal punto di vista dell’opinione e della consapevolezza pubbliche diffuse le cose sono rimaste pressoché immutate.
Negli anni ottanta– scrive l’autore – paradossalmente in corrispondenza con la crescente attenzione a livello internazionale per lo sterminio degli ebrei d’Europa, in Italia si è ulteriormente radicato lo stereotipo riduzionistico ed innocentista dell’italiano “amico dei concittadini ebrei”.
«Gli anni novanta e i primi anni duemila furono poi il periodo di trasmissioni divulgative, libri giornalistici e serie tv come quelli dedicati al Giusto Giorgio Perlasca», che corroborarono il mito collettivo del non coinvolgimento italiano nella “brutta faccenda” del genocidio, che poteva così essere imputato tutto quanto e solamente ai “cattivi tedeschi”.

E per concludere con le parole di Simon Levis Sullam: «Per molti versi l’Italia è passata dall’”era del testimone”, che ha dato centralità all’esperienza e memoria delle vittime, a quella che potremmo chiamare l’”era del salvatore”, che celebra i soccorritori. Senza passare per alcuna “era del carnefice”, che ne esaminasse a fondo i misfatti, su cui è sceso anzi un colpevole oblio» (p. 119).

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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Risorse (in)umane: la rigenerazione della forza lavoro tedesca nei lager nazisti https://www.carmillaonline.com/2016/04/20/risorse-inumane-la-rigenerazione-della-forza-lavoro-tedesca-nei-lager-nazisti/ Wed, 20 Apr 2016 21:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29889 di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40) Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager. [...]]]> di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40)
Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager.
E proprio dei guardiani dei lager ci parla l’interessante ed originale studio di Fabrice d’Almeida, storico dell’università Paris II Panthéon-Assas, uscito nel 2011 con il titolo Ressources inhumaines. Les gardiens de camp de concentration et leurs loisirs e tradotto e pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2015.

Un libro che si colloca all’interno di quell’ambito di analisi e studi storiografici, sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni (si vedano a questo proposito i saggi di Ch. Browning, D. J. Goldhagen usciti a metà degli anni ‘90 e di altri), che affronta il tema dei lager e della Shoah concentrandosi sui carnefici e non sulle vittime, sugli esecutori dello sterminio o comunque, come in questo caso, sui guardiani dei campi e non sui detenuti.
Una scelta di argomento e di prospettiva che comporta – precisa l’autore – la violazione di almeno due resistenze psicologico-morali e se la prima, soffermarsi sugli assassini o sui loro collaboratori e non sulla tragedia dei deportati, può più facilmente essere superata perché rispondente all’intento di una lettura completa ed esaustiva del fenomeno che tenga conto di tutte le parti coinvolte, la seconda, tralasciare le violenze e la ferocia praticate dai sorveglianti dei campi per studiare l’organizzazione del loro “lavoro” e soprattutto del tempo libero e la predisposizione di spazi e azioni di svago per questa risorsa (in)umana dell’industria concentrazionaria del Terzo Reich, potrebbe sembrare provocatoria, irrispettosa della memoria delle vittime e straniante.

Ma proprio lo studio degli aspetti inizialmente e comprensibilmente considerati meno urgenti dalla storiografia del Terzo Reich e della Shoah in particolare può contribuire oggi ad una comprensione del fenomeno sempre più ampia, ora che la letteratura sull’argomento, sui meccanismi del sistema concentrazionario e del processo di sterminio nazisti può dirsi già copiosa ed approfondita.
Pertanto la scelta di Fabrice d’Almeida di considerare le attività ricreative dei guardiani dei lager, il loro tempo libero e più in generale la politica tedesca di gestione del personale delle unità speciali delle SS impiegate nei campi di concentramento e sterminio – le Totenkopfverbände – ci sembra non solo di grande interesse, ma oltremodo fertile sia per quantità sia per qualità dei contributi euristici forniti, in quanto se da un lato chiarisce aspetti certamente meno noti di altri del funzionamento dei campi di internamento nazisti, dall’altro conferma e rafforza alcune delle principali tesi interpretative di questo capitolo della storia novecentesca. E ci riferiamo non solo alla arendtiana “banalità di un male” che risulta sempre più tale, cioè banale, quando osserviamo ad esempio gli scatti dell’album fotografico Höcker, custodito all’Holocaust Memorial Museum di Washington dal 2007, che documentano momenti di svago e divertimento di ufficiali e ausiliarie SS del campo di Auschwitz (e proprio dal ritrovamento di questo peculiare materiale fotografico ha tratto spunto lo studio di d’Almeida), ma ci riferiamo anche alle tesi di Raul Hilberg riguardo al coinvolgimento “sistemico” dell’intera Germania nazista nel processo di sterminio e alle riflessioni di Zygmunt Bauman sulla “modernità” e razionalità industriale della macchina concentrazionaria e di annientamento predisposta dal Terzo Reich.

ALBUM HOCKER 1_2_3Ma proseguiamo con ordine: se consideriamo le tre fotografie dell’album Höcker qui riportate nella loro probabile successione esecutiva, vediamo un gruppo di una dozzina di persone, di cui tre uomini, che evidentemente distesi e spensierati si divertono, scherzano e si fanno fotografare, mentre ridono, suonano e presumibilmente cantano. Insomma una normale, ordinaria, in questo senso “banale”, scena di svago di gruppo.
Le risate sembrano fragorose e prolungate; il divertimento è accompagnato dalle note di una fisarmonica suonata dall’uomo sulla destra; la donna che gli sta vicino assume ludiche pose svenevoli in tutti e tre gli scatti, mentre, nell’ultimo dei tre, due amiche sulla sinistra si slanciano di corsa e allegre verso il fotografo, che forse – proviamo ad immaginare – le provoca e le motteggia. Ma se osservate ripetutamente, queste immagini, nonostante la loro apparente ordinarietà, provocano in noi un crescente disturbo; c’è qualcosa di stonato, di sghembo che produce un effetto di spaesamento. E l’effetto straniante è determinato non solo e non tanto dai lucidi e neri stivali militari sotto le impeccabili uniformi da SS indossate dai tre uomini e da quelle di ausiliarie SS delle donne, quanto piuttosto dalla consapevolezza che il prato attorno e la macchia scura di betulle sullo sfondo che incorniciano questa altrimenti insignificante scena di svago si trovano ad Auschwitz, dove i tre ufficiali e le ausiliarie SS, una volta terminato quel momento di riposante distrazione, torneranno ad infierire brutalmente sui detenuti, seminando terrore e morte.

Una delle tesi più importanti espresse da d’Almeida è quella secondo cui «i guardiani non sono lo scarto delle formazioni militari, come hanno voluto far credere i dirigenti perseguiti all’indomani della seconda guerra mondiale per crimini contro l’umanità», ma sono parte di «un’istituzione che si considera l’élite della società tedesca» (p. 12), soprattutto quando, dopo la “notte dei lunghi coltelli” e il depotenziamento delle SA, organizzazione, gestione, controllo e sfruttamento dei lager vengono assegnati alle SS, a quell’”ordine nero” che del nazionalsocialismo pretende di incarnare l’essenza politica e razziale ed in particolare alle SS – Totenkopfverbände, le “unità testa di morto”. «Per il nazismo, i prigionieri sono secondari. Essi sono il nulla. Ciò che interessa sono i guardiani, coloro che sorvegliano l’interno e l’esterno dei campi. Il loro lavoro appare semplice: consiste nel sorvegliare ed eliminare i nemici della società e della razza tedesche» (p. 11).

Una élite di custodi e sentinelle dell’ordine nazionalsocialista che è parte costitutiva e consustanziale – è questa un’altra delle idee portanti del ragionamento di d’Almeida – del progetto di ingegneria sociale del Terzo Reich, che intende riorganizzare la società sulla base di un darwinismo sociale, politico e razziale che richiede un’eugenetica azione di isolamento ed eliminazione del nemico, dell’inadatto. Ne consegue che il ruolo dei sorveglianti dei campi è una tessera fondamentale dell’intero mosaico sociale nazista ed è in relazione integrante con altri apparati ed istituzioni del regime, in primo luogo «la polizia, che finirà per essere inclusa nello stesso ministero […]. Il partito nazista, naturalmente, che invia loro i mezzi e li colloca al centro della sua dottrina. Le SS, di cui costituiscono una delle forze d’élite. Anche altri “corpi” hanno con loro contatti a intervalli regolari, come quello degli impiegati postali, dei ferrovieri, dei pompieri e soprattutto dei militari, che proteggono da lontano le istallazioni. Si aggiungono a queste amministrazioni dei partner economici, dal momento che le imprese approfittano dello sfruttamento della mano d’opera raggruppata nei campi» (p.11)

Alla realizzazione del progetto nazista di ingegneria sociale, di cui la deportazione, la detenzione e l’eliminazione dei nemici nei lager è la chiave di volta, l’intera società tedesca, articolata in apparati ed istituzioni, partecipa attivamente. Si tratta di un coinvolgimento sistemico che – come già aveva sostenuto Raul Hilberg a partire dagli anni ’60 – non diminuisce, parcellizzandola e distribuendola, la responsabilità delle singole istituzioni, ma, al contrario, ne aumenta la somma totale.
E se il darwinismo razziale fa da orizzonte di comprensione del progetto sociale del nazismo, la metodologia e la logica della sua messa in atto sono quelle burocratiche moderne – come dalla fine degli anni ’80 va dicendo Zygmunt Bauman – e nella fattispecie dei lager quelle industriali fordiste. Osserva infatti d’Almeida che negli «anni precedenti e seguenti la prima guerra mondiale, il taylorismo e il fordismo avevano portato a considerare in maniera scientifica i rapporti fra il lavoro e le conseguenze che esso produce sugli individui. Lo sviluppo delle teorie sul tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo con l’introduzione dei giorni festivi avevano incentivato la riflessione sulle attività al di fuori degli uffici e delle fabbriche. L’esercito stesso se n’era fatto portavoce, grazie al sistema delle licenze intensamente presente anche durante la Grande Guerra». (p. 16)

d'almeida COPERTINA-1Di questa ristrutturazione fordista della società novecentesca, che nella massificata e massificante Grande Guerra conosce un passaggio fondamentale, l’industrializzazione operata dal nazismo della detenzione e, come suo sviluppo ed esito, dello sterminio costituisce un ingranaggio essenziale. «Le SS contribuiscono alla modernizzazione della gestione delle organizzazioni propria della produzione industriale e della disciplina dei comportamenti». (p. 17) Pertanto, l’amara conseguenza tratta dall’autore da questa premessa è che dal «punto di vista della storia dell’ingegneria sociale e della gestione delle risorse umane, la svolta rappresentata dal genocidio degli ebrei e degli zingari è comunque eccezionale e pone una quantità di domande, che spesso sono state affrontate in prospettiva psicologica». (p. 18) Approccio quest’ultimo che d’Almeida non intende praticare, preferendo un’osservazione e culturale e materiale del fenomeno dei sorveglianti dei campi di concentramento. Analisi che nell’ottavo ed ultimo capitolo del libro (Il secolo dei guardiani) si allarga ad altri esempi novecenteschi del fenomeno concentrazionario, in particolare a quello dei Gulag sovietici, muovendo dalla convinzione che quella del guardiano del lager sia una figura essenzialmente novecentesca, che trova poi nel totalitarismo il contesto ideale della propria definizione.

Nell’organizzazione industriale e fordista della repressione sociale per via concentrazionaria rientra pertanto il “tempo libero”, quello che contribuisce alla rigenerazione e alla maggior efficienza della forza lavoro. «La vita delle guardiane e dei guardiani doveva essere sufficientemente piacevole nel quotidiano, affinché potessero attivare tutta la loro violenza in seno all’istituzione concentrazionaria. Non dovevano soffrire a causa dell’inattività o dell’ozio, quando lasciavano il loro luogo di lavoro per il riposo, per quanto fosse breve. In questo senso il nazismo è il primo esempio di gestione di risorse umane». (p.19)
Ovviamente anche il salario gioca un ruolo importante in un “rapporto di lavoro”, come dimostra – osserva d’Almeida – il caso delle ausiliarie SS, delle guardiane, che vengono arruolate a partire dal 1938 per garantire la sorveglianza soprattutto, ma non solo, delle prigioniere. Il personale femminile viene formato, inquadrato ideologicamente, in particolare nella scuola creata apposta nel campo femminile di Ravensbrück dal 1940, ma – sostiene l’autore – a differenza di quanto accade per i «loro omologhi maschi, la scelta di mettersi a servizio della politica concentrazionaria non dipende, nel loro caso, da forti motivazioni ideologiche» (p. 40), quanto piuttosto dal salario. «La remunerazione di base di una giovane guardiana è di 185 Reichsmark, superiore di un terzo a quella di un’operaia non qualificata impiegata nell’industria tessile, e con le indennità di servizio può arrivare quasi a raddoppiarsi». (p. 40) Questo da un lato aiuta a capire perché – come scrive lo storico – solo il 4% delle guardiane si sia iscritto al partito e dall’altro ci sembra dimostri una volta di più quanto sia complessa e problematica, sfaccettata e spesso indecifrabile la questione del consenso ideologico all’interno di un regime totalitario.
In questo caso, comunque, sono le logiche del mercato della mano d’opera che contribuiscono a fare la differenza, ad attrarre personale verso l’impiego nei campi di concentramento e a integrare ed includere socialmente, come parte della struttura economico-produttiva, l’inumanità della segregazione concentrazionaria.

Nei capitoli dal terzo al sesto d’Almeida prende poi in esame nel dettaglio le attività dell’ultimo dei sei dipartimenti (Abteilung VI) in cui venne articolata l’organizzazione di tutti i campi, secondo il modello introdotto a Dachau da Theodor Eicke, stretto collaboratore di Himmler; a loro volta tutti i lager tedeschi rispondevano alla IKL – Inspektion der Konzentrationslager, con sede a Berlino dal 1934. È «l’Abteilung VI a mettere a disposizione del personale gli strumenti per il suo intrattenimento, al fine di mantenere la condizione di spirito necessaria per l’adempimento dei servizi richiesti […]. Ottiene le sue risorse dai ministeri della Propaganda e dell’Educazione popolare, diretti da Joseph Goebbels, e, dal 1940 al 1945, diventerà lo strumento indispensabile nell’attuazione dei principi di gestione delle risorse umane, nel periodo in cui l’esplosione della violenza nei campi va verso il suo apogeo». (p. 32)

E così apprendiamo, per fare alcuni esempi, che per quanto riguarda la vita sessuale, secondo d’Almeida è doveroso abbandonare lo stereotipo, perché non supportato da dati ed elementi probanti sufficienti, di una sfrenata attività sessuale attribuita al personale SS di sorveglianza nei campi, così come quello di una sessualità disturbata, spesso attribuita agli ufficiali di più alto grado. Secondo lo studioso francese si tratta di un cliché sorto dopo la guerra «allo scopo di stigmatizzare la mostruosità dei carnefici – come se fosse stato necessario aggiungere ai loro crimini comportamenti che oltrepassavano il senso comune». (p. 67)
Piuttosto la sessualità del personale tedesco dei campi era regolamentata dai divieti conseguenti alle leggi razziali e di difesa del sangue tedesco: «nessuna relazione omosessuale, nessun rapporto interrazziale, nessun contatto intimo tra detenuti e sorveglianti. Nei fatti, i comportamenti sono più variegati». (p. 66)

Di certo fu incoraggiato il ricorso al bordello e ne furono aperti alcuni appositamente per il personale dei campi. «Contrariamente alle case chiuse destinate ai lavoratori forzati, situate nell’area dei rispettivi campi e poste sotto la sorveglianza dei guardiani, come nel caso di Buchenwald, pare che quelle destinate al personale fossero poste al di fuori dei reticolati. Ad Auschwitz, per esempio, le SS potevano recarsi in centro città due giorni a settimana, tra le 17 e le 23, quando era loro riservato un bordello che, altrimenti, era frequentato da cittadini tedeschi e, in particolare, dai militari della Wehrmacht». (p. 71)

ALBUM HOCKER ALTRE 1Proseguendo, ci viene detto che uno dei modi di trascorrere il tempo libero preferiti consisteva nel mangiare e bere insieme, attività ricreativa che veniva incentivata dalle autorità, dal momento che poteva cementare lo spirito di gruppo ed il cameratismo. Ma anche l’ascolto di musica attraverso l’invio ai diversi campi di un ricco materiale discografico fu utilizzato come mezzo di divertimento e distrazione. Molto apprezzate e richieste erano le radio, in linea con i costumi e le abitudini dei tedeschi, essendo dagli anni ’30 la distribuzione di apparecchi radio particolarmente capillare in Germania. Ma non mancavano naturalmente le carte da gioco, i giochi di società, i giornali e le riviste e le librerie, i cui cataloghi, in larga parte uguali in tutti i lager, da d’Almeida vengono attentamente spulciati, dal momento che in questo caso alla funzione di svago si aggiungeva quella di formazione ed inquadramento politico ideologico. A tutto ciò, si aggiungevano, infine, spettacoli, attività e gare sportive, insomma un interno inventario di pratiche ludiche e ricreative del tutto ordinarie e comuni, se non fosse che per nulla ordinario e comune era il contesto in cui tutto ciò accadeva. Pertanto, scrive d’Almeida proprio nelle ultime righe del suo lavoro, «la conclusione che si impone è racchiusa in una frase. Nei campi di concentramento e di sterminio, gli esecutori non hanno solo massacrato donne e bambini: essi hanno anche ammazzato il tempo». (p. 162)

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