zona rossa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 ZONA ROSSA: la memoria è un ingranaggio collettivo https://www.carmillaonline.com/2021/05/15/zona-rossa-la-memoria-e-un-ingranaggio-collettivo/ Sat, 15 May 2021 07:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66304 di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato. Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi. E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale. Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del [...]]]> di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato.
Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi.
E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale.
Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del resto, “la memoria è un ingranaggio collettivo”.
Un ingranaggio che Zona rossa, ultimo numero di  Zapruder, prova a rimettere in moto.
Frutto del confronto fra la redazione di Zapruder e SupportoLegale, la stesura di Zona Rossa  ha nella dimensione collettiva la sua stessa origine. Si rivolge a Genova attraverso uno sguardo plurale, riunendo le visuali di generazioni diverse e diversi metodi di linguaggio.
Comprende le voci di chi a Genova non c’era, per motivi generazionali, e che ne ha elaborato la storia dai racconti.
Comprende la voce di chi, pur avendo la massima autorevolezza per parlarne, in tutti questi anni ha usato la parola con parsimonia, responsabilità e coscienza, in mezzo ad ondate di retoriche e di ricostruzioni fasulle o infamanti.
La voce di chi si è rimboccat* le maniche per sostenere compagn* incriminat* per devastazione e saccheggio, mentre altri si esercitavano nei distinguo fra buoni e cattivi, offrendo la sponda alla criminalizzazione mediatica e giudiziaria di una parte del movimento.
Comprende, finalmente, la voce di quell* che hanno pagato per tutti, con più di 10 anni di galera a testa1, e che con serenità ripetono: “in ogni caso, nessun rimorso“.

Uno di loro, Luca, dopo che per anni sono stati spesi da chiunque sul G8 di Genova fiumi di parole, pensa di “non poter aggiungere qualcosa che non sia già stato detto, visto e rivisto“.
E suggerisce una traccia: “più interessante può essere sapere cosa è successo dopo“.
Proprio su questo si concentra  Zona Rossa: sul prima, sul dopo e sull’altrove, e soprattutto sugli elementi da cui trarre utilità per il presente.

Il ricordo di Genova può essere un futuro anteriore, una memoria che ci aiuta a guardare avanti invece che indietro, utile a capire meglio la transizione verso quel qualcosa di indefinito che stiamo vivendo“.

E così impariamo come, nel dopo Genova, un gruppo di compagn* proveniente da Indymedia ha forgiato strumenti metodologici e di contenuto (oltre che competenze tecniche assolutamente non comuni) utili ad affrontare anche il tempo presente.

SupportoLegale nasce dal presupposto di non chiedere mai agli altri cosa avessero fatto nel 2001, né a che area appartenessero. Si è creato un gruppo di persone che aveva come unica finalità riuscire a supportare e dare man forte a chi stava seguendo i processi…
Noi ci siamo battuti su delle parole d’ordine abbastanza brevi, ma su cui siamo stati irremovibili: sul No alla divisione fra buoni e cattivi, sulla legittimità di tutte le forme di dissenso che erano state espresse a Genova, sulla legittimità di tutti i pensieri che sono stati espressi a Genova…
A noi piacerebbe che uscisse questa parte della storia. Proprio perché tanti, ancor oggi, non hanno imparato la lezione, non la vogliono imparare. Vogliono togliere legittimità a dei pezzi di storia, a dei pezzi di senso, a dei pezzi di conflitto
.
Noi la pensiamo tutti in modo completamente diverso … tutte le modalità di rappresentazione del conflitto, almeno rispetto a questo pezzo di storia che abbiamo fatto tutti quanti  insieme sono legittimi. Vanno rispettati e vanno difesi. E sentiamo di essere tutti dalla stessa parte della barricata“.

Una coesione nata dalla capacità di attribuire priorità politica all’obiettivo comune, e che non verrà fatta propria dal movimento No Global, uscito dall’esperienza di Genova più diviso che mai, ma diverrà invece punto di forza in Val di Susa, probabilmente proprio a partire dalla riflessione su Genova.
È questo un ulteriore elemento di pregio di Zona Rossa: la ricostruzione di come abbia influito l’esperienza di Genova sulla formazione delle soggettività dei movimenti di oggi, che ci mostra che questa storia non si è conclusa solo nel sangue, nella galera, nella sconfitta, nelle posizioni dissociatorie, e nella lenta agonia dei social forum.

Per esempio la presenza a Genova 2001 di un nutrito spezzone del giovane movimento No TAV ha favorito “l’identificazione fra quello che la Valle stava iniziando a vivere e le ragioni della protesta contro il G8“.
Emergono dalle interviste ai No TAV da un lato il rafforzamento della coscienza  della portata globale dei contenuti della propria lotta, dall’altro le conseguenze sul territorio, con nuovi comitati locali che nascono in Valle a partire dalla determinazione maturata proprio nei giorni del G8.
Il 23 luglio 2011 il corteo per il decennale di Genova è aperto dallo spezzone della Val di Susa, che ha guadagnato sul campo il diritto alla “testa del corteo” nei giorni dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e dell’assedio al cantiere di Chiomonte2.
Lo slogan dei valsusini “siamo tutti Black Bloc” sancisce il rifiuto della divisione fra buoni e cattivi, nel luogo esatto in cui tale divisione aveva creato al movimento di 10 anni prima effetti  disgreganti.
E non si tratta solo di uno slogan, perché proprio nell’assedio di Chiomonte il movimento ha  accolto e riconosciuto  metodi di lotta e soggettività differenti, e su questa base si è creata coesione e rispetto.
Genova diviene  dunque generatrice di coscienza anche in negativo, una lezione sugli aspetti da non emulare se non si vuol ripercorrere lo stesso declino del “movimento dei movimenti”.
Uno di questi aspetti è la desolidarizzazione successiva alle incriminazioni per devastazione e saccheggio.
Dice SupportoLegale: “Molte delle persone finite sotto processo sono state completamente abbandonate dai loro gruppi, dalle loro organizzazioni, dai loro collettivi. Sono state lasciate completamente sole e sono sole oggi. Ci siamo stati solamente noi“.
L’esatto opposto di un principio cardine della lotta in Val di Susa, dove “si parte e si torna insieme“.

Zona Rossa identifica in Genova un crinale di crisi che va al di là del declino del movimento No Global, investendo le stesse sorti e pratiche della sinistra radicale maturate nel corso del ‘900.
E’ una cesura nelle modalità delle mobilitazioni, perché “improvvisamente la piazza esonda qualsiasi volontà di controllo, spinta tanto da pratiche di conflitto che rifiutano la mediazione dei portavoce del movimento, quanto dalla repressione degli apparati dello Stato… Segno di una liberazione dalle volontà di controllo (e di mediazione) delle strutture organizzate ? Oppure traccia di una crisi di una idea di organizzazione a cui fa fatica a sostituirsene un’altra ?”

Genova segna anche la crisi delle pratiche di simulazione del conflitto:

“Chi pensava che aver evocato troppo il conflitto avesse portato alla catastrofe organizzativa e chi, invece, condannava la rinuncia a organizzarsi in conseguenza di quella “dichiarazione di guerra” giocata su un piano simbolico, a cui però lo Stato prevedibilemnte credette davvero. Comunque ci si ponga, a Genova si è capito  che la rappresentazione simbolica del conflitto è gestibile fino a un secondo prima dell’esplosione del conflitto vero e proprio, poi è solo pericolosa”.

Va in pezzi, infine, la bizzarra idea di una democratizzazione delle forze dell’ordine, conseguente ai processi di smilitarizzazione e sindacalizzazione iniziati una ventina di anni prima. Idea fallace, visti i risultati, e che non teneva conto di come i poteri di polizia fossero stati particolarmente sviluppati secondo logiche di guerra proprio nei due decenni precedenti. (Continua)


  1. Su 25 compagn* imputat* per i fatti di piazza, 10 vennero condannat* per devastazione e saccheggio a pene variabili da 6 anni e 6 mesi a 15 anni di reclusione. 

  2. Vedi su Carmilla: “Si parte e si torna insieme“. 

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“In Lombardia non si poteva fermare la produzione”. In Lombardia si poteva solo crepare https://www.carmillaonline.com/2020/10/14/in-lombardia-non-si-poteva-fermare-la-produzione-in-lombardia-si-poteva-solo-crepare/ Wed, 14 Oct 2020 20:52:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63082 di Sandro Moiso

Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Editori Laterza, Bari – Roma 2020, pp. 242, 15 euro

“…eh, ma io in questo momento rifornisco la Jaguar” (Marco Bonometti, Presidente di Confindustria Lombardia)

“Abbiamo anche minacciato di fermare la produzione, certo. E’ l’unica arma che abbiamo. Loro si sono sentiti ricattati, noi abbiamo detto «ricattati è poco, possiamo fare anche di peggio»” (Operaio della Dalmine – Gruppo Tenaris)

Il titolo scelto per questa recensione è tratto dalla frase che chiude, come un macigno, il penultimo capitolo del bel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Editori Laterza, Bari – Roma 2020, pp. 242, 15 euro

“…eh, ma io in questo momento rifornisco la Jaguar” (Marco Bonometti, Presidente di Confindustria Lombardia)

“Abbiamo anche minacciato di fermare la produzione, certo. E’ l’unica arma che abbiamo. Loro si sono sentiti ricattati, noi abbiamo detto «ricattati è poco, possiamo fare anche di peggio»” (Operaio della Dalmine – Gruppo Tenaris)

Il titolo scelto per questa recensione è tratto dalla frase che chiude, come un macigno, il penultimo capitolo del bel saggio-reportage della giornalista di origini bergamasche Francesca Nava, appena pubblicato dagli Editori Laterza. Un saggio imprescindibile per tutti coloro che vogliano parlare o discutere, a ragion veduta, dell’inferno pandemico scatenatosi a partire dalla Val Seriana alla fine di febbraio di quest’anno.

Un inferno sanitario e sociale che più ancora che nel virus, classificato per semplicità come Covid-19, affonda le sue radici in un autentica infamia economica, politica e istituzionale generalizzata, nei confronti della quale, nel corso degli ultimi mesi, si sono mossi i parenti delle vittime raccolti nel Comitato Noi denunceremo. Verità e giustizia per le vittime da Covid-19. Infamia che sta alle spalle anche di una gestione opaca sia dei provvedimenti che dell’informazione riguardanti la pandemia.

Un’opacità che, in questi giorni di ripresa, altamente prevedibile, dei contagi, ancora caratterizza tutti gli atti e le notizie che riguardano una situazione sociale e sanitaria destinata a peggiorare nel corso dell’autunno-inverno (così come l’epidemia di influenza “spagnola” avrebbe dovuto insegnare ai soloni della scienza, dell’informazione e della politica istituzionale). Una linea d’ombra determinata dalla necessità strumentale, soprattutto economica e politica, di non diffondere il panico che già tanto ha contato fin da gennaio qui in Italia e che ancora sembra essere l’unica autentica strategia, insieme all’uso della forza pubblica e dell’esercito, di mantenimento dell’ordine produttivo. A qualsiasi costo.

Ordine produttivo che fin dagli ultimi giorni di febbraio, in Val Seriana e nella bergamasca, è diventato il vero ed unico fattore di determinazione delle scelte sanitarie e sociali che avrebbero dovuto essere prese. Sia dal governo regionale che da quello nazionale. Ed è proprio in questa dipendenza delle decisioni politiche dalla volontà imprenditoriale, che ha finito coll’accomunare le scelte dei rappresentanti della Lega e del Centrodestra a quelle dei partiti e del governo di area giallo-rossa, che l’autrice affonda il rasoio del suo ragionamento e della sua implacabile ricostruzione dei fatti.

Nel sottolineare, a più riprese, come la sanità pubblica lombarda sia stata fatta letteralmente a pezzi da due riforme «improvvide, illegittime e di dubbia costituzionalità, quella del 1997 di Roberto Formigoni e l’altra di Roberto Maroni del 2015»1, Francesca Nava non dimentica mai di rammentare al lettore come lo spettacolo del rimpallo di responsabilità tra governo nazionale e governo regionale sulla gestione della pandemia, così come si è sviluppato anche davanti alla Procura di Bergamo che indaga sulle stesse, sia del tutto funzionale alle politiche effettivamente adottate e dettate quasi esclusivamente dalla voce del padrone.

Padrone che assume le fattezze precise della Confindustria lombarda e del suo rappresentante più importante, il presidente Marco Bonometti, che fin dai primi giorni (quelli che si sarebbero rivelati poi fatali per la diffusione dell’epidemia) si rivelò sintonizzato soltanto «sul fatto che, se l’Italia si fosse fermata e altri paesi gli avessero fottuto le commesse, lui avrebbe avuto un danno irreparabile»2.

A capo di Confindustria Lombardia dal novembre del 2017, Bonometti è presidente e amministratore delegato delle Officine Meccaniche Rezzatesi (Omr): colosso delle componenti per auto, con 3.600 dipendenti, sedici stabilimenti nel mondo e quasi 800 milioni di fatturato l’annoLa sua società, con oltre cent’anni di storia alle spalle e a capitale privato posseduto al 100% dalla famiglia Bonometti, vanta nella lista dei clienti le principali case automobilistiche, con la Ferrari come fiore all’occhiello. Nella città-contea cinese dello Huixian, a oltre 600 chilometri di distanza dal focolaio epidemico del coronavirus, si trova Omr China Automotive Components, lo stabilimento verticalizzato (dagli impianti di fusione del rottame al pezzo finito) […] specializzato nella produzione di assali e componenti per mezzi speciali che occupa oltre 600 dipendenti. Alla fine gennaio l’Omr fa rientrare dalla Cina dieci suoi lavoratori: tra questi ci sono cittadini italiani, tedeschi e cinesi. Vengono messi tutti in quarantena3.

Il 28 febbraio, nel corso di un’intervista radiofonica, Bonometti dichiara: «Bisogna rimediare cercando di abbassare i toni e far capire all’opinione pubblica che la situazione si sta normalizzando. Giustamente si son prese delle misure drastiche prima, ma oggi bisogna gestire la situazione in modo diverso. Bisogna far capire che la gente può ritornare a vivere come prima, salvaguardando sempre il problema della salute». Il giorno seguente, 29 febbraio parla anche di “danno di immagine” con una eventuale zona rossa che «crea danni economici anche alle altre aziende»4.
In piena ottemperanza al suggerimento-ordine, il 29 febbraio, un sabato, a Bergamo:

Il sindaco Giorgio Gori invita i bergamaschi ad andare in città e a fare shopping. Chiunque può viaggiare sui mezzi pubblici dell’Atb al prezzo scontato di uneuro e cinquanta; il biglietto è valido per tutto il week-end. Bar, ristoranti, negozi sono aperti e il Sentierone – la via pedonale del centro, la via dello struscio – pullula di gente. Sono i giorni indimenticabili dello slogan «Bergamo non si ferma», degli aperitivi milanesi tra l sindaco Sala e il governatore del Lazio Zingaretti, i giorni degli spot di Confindustria, che rassicura fornitori e clienti che «il rischio di infezione in Italia è basso» e che le aziende continueranno a produrre e lavorare come sempre. L’influenza da Covid sembra relegata nella zona rossa del Lodigiano e del comune veneto di Vo’ Euganeo. Eppure, già da una settimana, si è sviluppato un pericoloso focolaio in Val Seriana, che ha anche investito la città di Bergamo. All’ospedale Papa Giovanni XXIII continuano ad arrivare ambulanze cariche di pazienti in crisi respiratoria provenienti proprio dall’ospedale di Alzano Lombardo, dove tutto è iniziato il 23 febbraio5.

Se Netflix, o qualsiasi altro canale televisivo o casa di produzione, vorrà mai realizzare una serie thriller oppure horror-politica, la sceneggiatura è già pronta, servita sulle pagine di un testo informato, appassionato e di facile lettura, in cui nulla e nessuno viene dimenticato. Tanto meno le vittime. Che sono tante, troppe: pensionati, medici, infermieri, operai, autotrasportatori, quasi tutte di età compresa tra i quaranta e gli ottanta anni. Seimila nella sola provincia di Bergamo. Una strage annunciata che soltanto l’apriori economico, la sete di profitto ed una politica diretta soltanto dalla ‘necessità’ dall’accaparramento privato della ricchezza socialmente prodotta ha infine causato.

Economia di mercato e salute sia pubblica che ambientale, non possono coesistere: questo ci insegnano indirettamente le parole spesso pacate, talvolta accese ma comunque mai prive di forza della brava e coraggiosa giornalista bergamasca. E oggi, mentre è ancora in pieno ritorno una pandemia che non se n’è mai andata da una struttura economico-produttiva e sociale che non ha mai realmente chiuso nessuna attività pericolosa, mentre i mezzi pubblici viaggiano stracarichi di lavoratori e studenti e si finge che il virus si diffonda dall’interno delle famiglie e non dal suo esterno e dal contesto lavorativo6, mentre le scuole non riescono a garantire un minimo di sicurezza mantenendo attive le macchinette distributrici di bevande e panini (autentici supermarket virali) e mentre il presidemte di Confindustria Bonomi (imprenditore attivo proprio nel settore biomedicale) rivendica un salto di paradigma ad ulteriore beneficio delle aziende e del capitale privato, anche noi dobbiamo perseguire un altro tipo di salto di paradigma. Quello che gli operai che si sono rivoltati alla Dalmine, nelle fabbriche lombarde e piemontesi per fermarle prima del Dpcm truffa del 22/23 marzo oppure i difensori dei territori e della salute dei movimenti NoTav hanno già iniziato a indicare da tempo. La fine di un’ingiustizia che è la fonte di tutte le ingiustizie: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e del dominio del capitale sulle risorse, l’ambiente e la salute. Un dominio che, come indica ancora il testo qui recensito, ha ormai compromesso gravemente anche l’indipendenza della scienza e della ricerca.

Grazie dunque a Francesca Nava che, pur con la necessaria obiettività professionale, ha saputo fornirci ulteriori armi e istruzioni per la comune battaglia che ci attende.


  1. Intervista a Vittorio Carreri in F. Nava, Il focolaio, p. 161. Carreri nella stessa intervista riporta poi ancora questo esempio pratico: «Nell’Ats di Bergamo ora c’è questa situazione: il direttore del dipartimento si è infettato ed è a casa, a gestirlo con la funzione di direttore di tutte le attività legate alla pandemia virale è arrivato un veterinario. Ma le pare possibile? Un veterinario! Allora vuol dire che, oltre che dimezzata, la prevenzione a Bergamo e non solo a Bergamo è quasi annientata» in F. Nava, op. cit. p. 163  

  2. F. Nava, op. cit. p.58  

  3. op. cit. p. 66  

  4. per le due citazioni si veda F. Nava, p. 67  

  5. op. cit. pp. 22-23  

  6. Lombardia. La diffusione è trainata dai luoghi di lavoro, la Repubblica, 4 ottobre 2020, p. 3  

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Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/ Thu, 09 Apr 2020 18:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59320 di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue. In tutti i sensi. In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e [...]]]> di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.


  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020  

  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo  

  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)  

  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020  

  6. M. Franchi, cit.  

  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020  

  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020  

  9. K.Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica  

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