Zombi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fantasie che mordono. Carmillafest 2019 https://www.carmillaonline.com/2019/07/30/fantasie-che-mordono-carmillafest-2019/ Mon, 29 Jul 2019 22:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53767 di Redazione

L’immaginario d’opposizione, che quotidianamente si manifesta su questa webzine, il 19 e il 20 ottobre prossimo attraverserà la porta interdimesionale e prenderà corpo a Bologna in una due giorni di dibattiti, musica, proiezioni e gastronomia popolare, ospitata dal Vag61 – Spazio libero autogestito (via Paolo Fabbri 110). Possiamo riassumere il focus di questa iniziativa con una citazione tratta dal libro Immaginari alterati al quale hanno partecipato alcuni redattori di “Carmilla”: «L’immaginario è un dispositivo di gestione del potere e parimenti di esercizio dell’opposizione. Vampiri, fantasmi e zombie non [...]]]> di Redazione

L’immaginario d’opposizione, che quotidianamente si manifesta su questa webzine, il 19 e il 20 ottobre prossimo attraverserà la porta interdimesionale e prenderà corpo a Bologna in una due giorni di dibattiti, musica, proiezioni e gastronomia popolare, ospitata dal Vag61 – Spazio libero autogestito (via Paolo Fabbri 110).
Possiamo riassumere il focus di questa iniziativa con una citazione tratta dal libro Immaginari alterati al quale hanno partecipato alcuni redattori di “Carmilla”: «L’immaginario è un dispositivo di gestione del potere e parimenti di esercizio dell’opposizione. Vampiri, fantasmi e zombie non costituiscono mere maschere di un escapismo pilotato, ma sono metafore potenti incorporate in teorie critiche e in pratiche antagoniste.»

Pubblicheremo il programma completo a settembre, ma possiamo già anticipare la presenza di Valerio Evangelisti che presenterà, insieme ad Alberto Sebastiani, la raccolta critica in tre volumi del ciclo di Eymerich. Saranno inoltre dibattuti con i rispettivi autori le seguenti opere di recente pubblicazione:

Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario di Luca Cangianti, Alessandra Daniele, Sandro Moiso, Franco Pezzini, Gioacchino Toni (Mimesis, 2018);
La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico
di Sandro Moiso (Mimesis, 2019);
L’Alfasuin di Giovanni Iozzoli (Sensibili alle Foglie, 2018);
Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij di Paolo Lago (Clinamen, 2019);
Il Conte Incubo. Tutto Dracula di Franco Pezzini (Odoya, 2019);
I morti siete voi di Luca Cangianti (Diarkos, 2019);
El Diablo di Mauro Baldrati (Fanucci, 2018);
Guida ai narratori italiani del fantastico. Scrittori di fantascienza, fantasy e horror made in Italy di Walter Catalano, Gian Filippo Pizzo, Andrea Vaccaro (Odoya, 2018);
Guida alla letteratura noir di Walter Catalano (Odoya, 2018).

Il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo curerà un approfondimento narrativo-filosofico sul viaggio rivoluzionario dell’eroe, mentre saranno presenti due postazioni di diffusione libraria a cura della casa editrice Odoya e della libreria Modo Infoshop. Insomma, cari lettori e care lettrici, segnatevi la data!

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I morti siete voi https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/i-morti-siete-voi/ Mon, 01 Jul 2019 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53498 di Luca Cangianti

[Da oggi è in libreria il nuovo romanzo di Luca Cangianti, I morti siete voi (Diarkos, 2019, pp. 238, € 16,00). In questa opera storico-fantastica troverete: le avventure di Bandiera Rossa, la formazione partigiana più numerosa della Capitale, un’armata Brancaleone di ladruncoli, borgatari, ragazzine ribelli e osti autodidatti che praticavano un comunismo libertario ed estremista suscitando l’opposizione del Partito comunista italiano; il fantomatico Raggio della morte inventato da Guglielmo Marconi; i quartieri popolari della Garbatella, di Tor Pignattara e le loro cavità sotterranee; assalti, espropri, azioni [...]]]> di Luca Cangianti

[Da oggi è in libreria il nuovo romanzo di Luca Cangianti, I morti siete voi (Diarkos, 2019, pp. 238, € 16,00). In questa opera storico-fantastica troverete: le avventure di Bandiera Rossa, la formazione partigiana più numerosa della Capitale, un’armata Brancaleone di ladruncoli, borgatari, ragazzine ribelli e osti autodidatti che praticavano un comunismo libertario ed estremista suscitando l’opposizione del Partito comunista italiano; il fantomatico Raggio della morte inventato da Guglielmo Marconi; i quartieri popolari della Garbatella, di Tor Pignattara e le loro cavità sotterranee; assalti, espropri, azioni di guerriglia queer e poi loro… “i morti”; infine il giardino incantato di Villa Mirafiori, il sogno di un altro mondo possibile e il G8 di Genova 2001. Per iniziare eccovi il primo capitolo.]

***

Acqua Santa

L’esplosione provocò una ventata d’aria infuocata. Il tenente fu sbalzato in avanti e cadde a terra sbattendo il volto su una pietra. Sotto lo zigomo sinistro una ferita cominciò a sanguinare. Mentre strisciava verso un magazzino a pochi metri di distanza, avvertì una pioggia di detriti. Si rifugiò sotto una sezione di un grande tubo di acciaio. Gli sembrava massiccio e capace di proteggerlo nel caso l’intera costruzione fosse venuta giù. Un bagliore colorò di giallo il ponte levatoio, il muro alla Carnot, gli alloggi, gli automezzi, i pini e le colline intorno alla Caserma dell’Acqua Santa. Il tenente ansimava, tossiva, aveva la sensazione che tutti gli organi dentro il torace e il ventre stessero bruciando. La bocca era impastata di terra, sputò più volte ed ebbe anche un conato di vomito. Avvertì un rumore provenire dal sottosuolo: sembrava generato da una turbina impazzita che aumentava progressivamente i giri. Una seconda esplosione fece tremare la terra. Seguì il silenzio.

Nella semioscurità del suo rifugio cominciò a tastarsi il corpo per capire se avesse altre ferite oltre a quella del volto che aveva tamponato con un fazzoletto. Le gambe stavano bene, il torace e l’addome anche, la scapola destra invece era intorpidita e se provava a muovere il braccio provava dolore. Portò la mano sinistra dietro la spalla: la divisa era lacerata. Si guardò la mano sporca di sangue ed ebbe nuovamente un senso di vertigine. Dall’esterno del magazzino giungevano i lamenti e le urla dei feriti, ma anche suoni striduli che non riusciva a identificare. Aspettò ancora alcuni minuti e uscì dal rifugio di metallo. Arrivò agli stipiti del magazzino e fu accecato dal sole di luglio.

A una decina di metri giaceva immobile un aviere nella sua divisa grigio-azzurra. Accucciati sul suo corpo tre commilitoni emettevano versi indecifrabili, come degli schiocchi palatali ripetuti a breve distanza. L’uomo si spostò alla destra del deposito per vedere cosa stessero facendo. Uno dei tre si voltò di scatto emettendo un ringhio ferino. Stringeva nella mano un pezzo di carne, aveva la bocca imbrattata di sangue e la pelle ricoperta di squame. I suoi occhi erano due buchi neri che sprofondavano in un abisso insondabile. Il tenente si diede alla fuga, barcollando e inciampando. Altre creature simili inseguivano i militari della caserma, li atterravano e ne dilaniavano le carni a morsi. Da dietro un muretto un soldato con un fucile 91 sparava su uno di quei mostri che avanzava con la divisa della milizia fascista. I proiettili entravano nel torace senza arrestarlo. A tre metri di distanza la creatura spiccò un salto e fu addosso al militare che emise un grido soffocato. Il tenente notò molte altre camicie nere che fuggivano disordinatamente. Raggiunse il viale alberato che portava all’uscita della caserma. Uno degli edifici principali era distrutto, il portale d’entrata non era presidiato. Il sole era alto e il clima afoso. Imboccò via Appia Pignatelli in direzione di Roma. Una colonna di fumo nero saliva dalla città, un’altra meno densa dall’aeroporto di Ciampino.

Aveva perso molto sangue, ma il suo volto legnoso era composto e non lasciava trasparire il dolore che pur doveva provare. Quando udì il rumore di un veicolo si mise in mezzo alla strada e si accasciò a terra. All’uomo che gli apparve sfocato davanti agli occhi, prima di svenire disse: «Tenente Ferrari Vittorio, 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, 3° battaglione, 9a compagnia».

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Gli zombi del capitale. La “galera infame” della xenofobia in Go Home – A casa loro https://www.carmillaonline.com/2019/05/27/gli-zombi-del-capitale-la-galera-infame-della-xenofobia-in-go-home-a-casa-loro/ Mon, 27 May 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52455 di Paolo Lago

Immaginiamo un centro di accoglienza per immigrati prima assediato da una folla di manifestanti di estrema destra e poi, all’improvviso, da un gruppo di zombi. Sì, zombi, perché Go Home – A casa loro (2108) è un riuscito zombie movie, diretto da Luna Gualano, che affronta il tema del razzismo e della xenofobia nell’Italia di oggi in modo inedito e interessante. Se la figura dello zombi – come dimostra il saggio di Martino Doni e Stefano Tomelleri, Zombi, i mostri del neocapitalismo – bene rappresenta la natura parassitaria del capitalismo [...]]]> di Paolo Lago

Immaginiamo un centro di accoglienza per immigrati prima assediato da una folla di manifestanti di estrema destra e poi, all’improvviso, da un gruppo di zombi. Sì, zombi, perché Go Home – A casa loro (2108) è un riuscito zombie movie, diretto da Luna Gualano, che affronta il tema del razzismo e della xenofobia nell’Italia di oggi in modo inedito e interessante. Se la figura dello zombi – come dimostra il saggio di Martino Doni e Stefano Tomelleri, Zombi, i mostri del neocapitalismo – bene rappresenta la natura parassitaria del capitalismo mostrando i lati peggiori dei legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo, sottoposti a produzione, sfruttamento e oppressione, essa può essere anche veicolo di cieco odio razziale e xenofobo. L’idea che sta alla base del film, infatti, è fondamentalmente questa: il diffuso odio per i migranti, per i ‘diversi’, per gli stranieri si muove in modo cieco e meccanico come una massa di zombi. La xenofobia e il razzismo rappresentano perciò dinamiche sociali scaturite dalla struttura capitalista, la quale, proprio come uno zombi – un essere bulimico che non mangia per nutrirsi ma per ripetere in modo pressoché infinito il suo atto – produce un consumo di merce finalizzato alla ripetizione del consumo stesso. L’odio razziale, quindi, è un meccanismo cieco, generato dagli scarti della società capitalistica, una sorta di malattia che si diffonde per contagio. La zombificazione, infatti, già dai film di Romero, si espande tramite il contagio, rappresentato dal morso di un altro zombi. Pensiamo solo a due capolavori del regista americano, come La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead, 1968) o Zombi (Dawn of the Dead, 1979): in quest’ultimo film, gli zombi vengono messi in scena come i consumatori di un supermercato i quali, anche da morti, come coazione a ripetere, continuano a fare quello che facevano da vivi. Dietro questa immagine c’è una feroce critica a una società dei consumi che trasforma il consumatore stesso in uno zombi, un automa assolutamente privo di volontà.

Nel film di Luna Gualano, l’irruzione degli zombi avviene in modo improvviso e inaspettato. Le immagini iniziali mostrano una protesta di alcuni personaggi di estrema destra, vestiti di nero e con croci celtiche, di fronte a un centro di accoglienza per immigrati, intervistati e ripresi da una troupe televisiva. Niente di nuovo, quindi, da ciò che sempre più spesso vediamo in televisione, sia che oggetto dell’odio razziale siano gli immigrati sia che, invece, lo siano i rom. Dal lato opposto, però, ci sono anche dei giovani che manifestano a favore del centro per immigrati. Improvvisamente, il contagio zombi investe tutti, arriva come una malattia che non fa distinzione, come una sorta di assuefazione acritica alle più svariate problematiche, anche gravi, che percorrono la società contemporanea. La zombificazione giunge come una abulia da social network, come un annientamento cerebrale generato dal consumo indiscriminato e acritico di sempre nuove notizie che si affastellano le une sulle altre e che non riusciamo a percepire con il dovuto distacco critico.

Uno fra i contestatori di destra, per sfuggire all’assalto degli zombi, si rifugia all’interno del centro di accoglienza (che la regista e il co-sceneggiatore Emiliano Rubbi ricostruiscono nel Centro Sociale Intifada di Roma) e, senza svelare la propria appartenenza politica e il motivo per cui si trovava lì, viene assistito dai migranti e dagli operatori del centro. Però, alcuni mostri che premono alle porte e alle finestre riescono ad entrare e la zombificazione si diffonde anche all’interno del centro, anche fra gli immigrati ospiti della struttura. Ecco che l’immagine dello zombi, oltre a raffigurare l’abulia innestata nei corpi e nelle menti dalla società capitalistica, adesso rappresenta anche la massa indistinta dei migranti come vengono rappresentati dai media e dalle televisioni. Come nota Gioacchino Toni in un interessante studio inserito in Immaginari alterati, una raccolta di saggi uscita recentemente per Mimesis, i migranti bloccati ai confini della fortezza Europa sono rappresentati dai media (e percepiti dagli spettatori) come una massa indistinta: disumanizzati, vengono fatti apparire come un gruppo di zombi e di automi che si spostano meccanicamente, senza un vero motivo e senza una vera logica, perdendo la loro connotazione di esseri umani in fuga da guerre, carestie e stragi.

I migranti provenienti dall’Africa e da altri paesi del sud e dell’est del mondo, colpiti dal contagio, si trasformano in massa indistinta, esseri senza nome e senza umanità, forse proprio in virtù di quell’odio strisciante che li vorrebbe escludere, allontanare, disumanizzare. Se sono zombi, non sono esseri umani, ce lo ha insegnato Romero: si possono allontanare, umiliare, ferire, uccidere ed eliminare senza problemi. E troppo spesso i media ci comunicano l’immagine dei migranti, appunto, come degli zombi: nell’indifferenza generale assistiamo a navi umanitarie bloccate da leggi disumane, navi piene di esseri umani in preda ad atroci sofferenze; assistiamo a naufragi di barconi pieni di uomini, donne e tanti bambini, barconi sui quali, spesso, donne incinte sono costrette a partorire fra dolori terribili, fisici e psicologici. Forse, stiamo già vivendo la distopia del film, senza essercene accorti: se accettiamo tutto questo, anche noi occidentali siamo ormai tutti zombi che vivono in una dimensione distopica in cui l’orrore fa parte del quotidiano. Siamo ben lontani, oggi, da una società veramente e profondamente umana.

Però, come mostra anche il film, ci possono essere piccole falde di resistenza. Innanzitutto, bisogna conoscere veramente chi è oggetto di odio e di indifferenza, bisogna attuare il principio dell’indiscrezione, come scrive Maurizio Bettini nel suo ultimo saggio, Homo sum: bisogna essere indiscreti per avvicinarsi, conoscere e capire. Il giovane manifestante di destra, perso nel vortice di un cieco odio nei confronti di chi non conosceva o conosceva soltanto in modo qualunquistico (l’immigrato, solo perché immigrato e diverso, deve essere odiato), una volta avvicinatosi, conosce veramente le persone che odiava, fa domande, si informa sui nomi, sulla provenienza e sulle storie di ognuno, legandosi soprattutto al piccolo Alì, un bambino africano ospite del centro assieme alla madre studentessa di medicina.

Un altro momento di resistenza è offerto quando si levano le toccanti note de Il galeone, il canto anarchico che deriva da una poesia di Belgrado Pedrini musicata da Paola Nicolazzi, riproposto in Go Home in una melodica versione cantata da Cinzia La Fauci. Il canto quasi accarezza – unito a un movimento di macchina sugli ospiti del centro ormai stremati – tutti gli immigrati che stanno lottando per non soccombere alla zombificazione dell’odio e dell’indifferenza, una “ciurma anemica di una galera infame” che è ancora pronta a lottare per la giustizia e l’uguaglianza. In quel momento, la dolcezza del canto porta un tocco di umanità, soffia una carezza di ‘riumanizzazione’ sui corpi dei giovani migranti ormai abbandonati a se stessi.

Certo non sveleremo il finale, ma sembra che non ci siano nuove aperture di speranza, nessuna risoluzione del malefico intreccio fra odio, indifferenza, conflitto di classe. La soluzione, forse, sta nella lotta: quel canto che alto si dispiega, pure se sommessamente, comunica resistenza ed è proprio una forma di resistenza che, nel centro, verrà messa in moto soprattutto grazie al taciturno e tormentato gigante africano, ritratto anche da Zerocalcare nella locandina del film. Ma se questa lotta non si estende, altri centri di accoglienza, altre comunità di immigrati e rifugiati, di rom, di emarginati, altri singoli esseri umani verranno sopraffatti dagli zombi dell’odio, del qualunquismo e dell’indifferenza.

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Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

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Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

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Nemico (e) immaginario. Mutazioni nell’immaginario dello zombi https://www.carmillaonline.com/2017/02/15/nemico-e-immaginario-mutazioni-nellimmaginario-dello-zombi/ Wed, 15 Feb 2017 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35731 di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. I living dead come prodotto di scarto del capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/nemico-immaginario-living-dead-prodotto-scarto-del-capitalismo/ Tue, 13 Sep 2016 21:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33093 di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. [...]]]> di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. 49-51).

La figura dello zombi è particolarmente efficace nel dare immagine ad uno scenario apocalittico e nonostante i morti viventi della prima generazione siano lenti nei movimenti (poi si faranno ben più dinamici), la velocità di dissoluzione del mondo da essi portata è rapidissima tanto che si può affermare che la comparsa del primo morto vivente segna la fine di tutto.

Il saggio di Ronchi offre diversi spunti di analisi interessanti a proposito dei morti viventi di cui abbiamo già esaminato altri aspetti nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“. In apertura di Down of the Dead (2004) di Zack Snyder, remake del celebre film di George Romero del 1978, viene mostrato il repentino passaggio dalla tranquillità borghese ad uno scenario catastrofico che, durante i titoli di testa, si palesa attraverso un serrato montaggio di immagini di reali rivolte urbane (comprese le immagini del G8 di Genova del 2001) intervallate da alcuni fotogrammi di fiction. Gli inserti tratti dalla realtà contribuiscono a creare nello spettatore la percezione di trovarsi davvero in un mondo sull’orlo del collasso ed è per tale motivo che diversi film zombi «si aprono ricordando allo spettatore che quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’apocalisse è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito» (p. 18).

Secondo l’autore se in molti film appartenenti al genere apocalittico epidemiologico persiste una speranza di risoluzione, nel cinema zombi appare tutto deciso sin dalla prima sequenza in cui compaiono i morto viventi: la loro comparsa palesa che la fine è già in corso. Ma attenzione, avverte lo studioso, gli zombi non sono una malattia ma il rovescio del mondo, sono la sua contraddizione in atto.

Nel film Day of the Dead (1985) di Romero viene chiaramente esplicitato come per eliminare il morto vivente sia necessario distruggergli la testa; qualsiasi altra amputazione non è sufficiente a toglierlo di mezzo. «Lo zombi non è un organismo, perché non è uno. È un simulacro di unità […] qualcosa che solo da lontano è, appunto, qualcosa, è una sostanza» (p. 24).

Nella sua versione americana, il living dead è l’altro, il nostro prossimo, che, da Romero in avanti, raggiunto da un morso di uno zombi diviene esso stesso uno zombi. «Lo zombi è l’altro che non partecipa più dell’unità, che ha perso, a causa di quel morso, ogni ‘comunità’ con me, un altro che non ha più nulla di comune pur essendo apparentemente simile a quello di prima» (p. 25).

In realtà, sostiene Ronchi, non esiste “lo zombi”, così come, invece, esiste “il vampiro”. Esistono “gli zombi”, al plurale «ma a un plurale che non ha più l’uno come unità di misura. Gli zombi sono ‘molteplicità senza uno’, massa oncologica» (pp. 25-26). Il vampiro, invece, compare al singolare, è un eroe romantico nato dal crollo del mondo feudale, si tratta dell’avanzo di uno splendore tolto di mezzo dall’età della macchina a vapore e dal trionfo della borghesia. Il vampiro non sopporta la luce perché è alla luce che ha luogo l’attività produttiva del mondo borghese. È un romantico, dicevamo, dunque un loser, un perdente. Al contrario lo zombi non è mai solo, è parte di una molteplicità informe in decomposizione. I morti viventi, inoltre, sostiene lo studioso, seppure spesso lenti nei movimenti, almeno originariamente, sono sempre in movimento, e questo dinamismo esprime il loro “non poter stare”. Non abitano il mondo né hanno luogo in esso.

Dunque, la differenza principale tra vampiro e zombi pare proprio essere di classe; il vampiro sarebbe un signore decaduto, mentre gli zombi sono degli schiavi. Una figura catapultata nella modernità borghese la prima, una figura costretta alla servitù la seconda. Gli zombi, sottolinea l’autore, nascono lavoratori, «sono schiavi neri probabilmente drogati per sopportare il lavoro disumano a cui vengono sottoposti per assicurare il godimento al loro padrone» (p. 33).

zombie_outbreak_coverRonchi recupera la distinzione hegeliana (Fenomenologia dello spirito) tra Signore e Servo, tra godimento e lavoro. «Lavorare è sostanzialmente trasformare per un certo tempo la propria vita in una funzione, lavorare è mettere il proprio corpo (e la propria intelligenza) all’opera. L’opera è la produzione di valore. Quando si lavora il fondamento del proprio essere è fuori di sé, è per-altro. Dove? Nel godimento del padrone, appunto. Cosa significa, allora, godere? Vuol dire emancipare il presente dalla spada di Damocle che il futuro, il futuro dell’opera, fa gravare su di esso. Si gode ‘qui e ora’. Si gode nel consumo. Si gode quando la vita assume se stessa come scopo. Si gode quando la vita vive, quando non è subordinata ad altro, ma solo a se stessa in quanto vita vivente: quando, per dirla ancora con Hegel, è per-sé» (pp. 33-34).

Abbiamo già visto in altri interventi [su Carmilla] il ruolo del libro The Magic Island (1929) di William Seabrook nella diffusione occidentale della figura dello zombie, è interessante notare come in questo libro la leggenda degli zombi si leghi allo sfruttamento dalla Haitian American Sugar Company nei confronti dei lavoratori della canna da zucchero. «È veramente curioso che la fabbrica, il lavoro salariato, lo sfruttamento, la proletarizzazione dei contadini, i problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica, siano la cornice nella quale nasce ufficialmente la ‘leggenda’ zombi» (p. 36).

Dunque, sostiene lo studioso, gli zombi «sono l’incarnazione della nozione marxiana di forza lavoro. Ne sono l’incarnazione in senso letterale. Sono forza lavoro allo stato puro. Non sono definiti da nessuna altra caratteristica se non dalla capacità astratta di lavorare per produrre valore. Non pensano, non parlano, non socializzano, non hanno una vita privata, neppure quella residuale che era concessa al proletariato inglese della prima rivoluzione industriale, il quale, una volta rientrato a casa, cessava di essere forza lavoro per diventare un vivente (sebbene un vivente al di sotto della soglia dell’umano modo d’essere e […] dall’aspetto molto linving dead per il borghese beneducato» (p. 37). Gli zombi di Haiti sono “macchine viventi” che simulano la vita al fine di lavorare.

Un essere vivente, sostiene Ronchi, possiede la forza lavoro, non è forza lavoro. «Egli può non disporne liberamente e allora è uno schiavo, oppure disporne in modo formalmente libero e scambiarla con altre merci che gli garantiscono la sopravvivenza, e allora è un proletario. In ogni caso, schiavo o proletario che sia, finché è vivente mantiene comunque una distanza da quella forza lavoro che possiede e che è costretto a cedere in modo coatto o in modo formalmente libero». (p. 38). Lo schiavo obbligato a lavorare può godere della sua vita sfigurata soltanto nei pochi momenti in cui non è al lavoro oppure, si ricorda nel saggio, quando canta sul lavoro. Se da un lato il canto fornisce il ritmo all’attività produttiva, dall’altro però mette in luce come lo schiavo non sia soltanto lavoro, ma anche “vita che vive”. La forza lavoro è «indissolubilmente connessa a un corpo vivente (essa, scrive Marx nel primo libro del Capitale, “esiste soltanto nella sua corporeità vivente”) ma un corpo, se è vivente, non è solo lavoro, non è lavoro astratto, dunque bisogna produrre un corpo attivo come un corpo vivente ma che non sia un corpo vivente» (p. 39). Occorre decontestualizzare un corpo dalla vita senza però renderlo “cosa inerte”, occorre “astrarlo” dalla vita senza ucciderlo. Ecco allora che il morto vivente rappresenta la soluzione perfetta: morto al godimento e vivente per il lavoro.

Se, come abbiamo visto, gli zombi vengono dal mondo del lavoro, nei film di Romero essi non sono più schiavi ma cannibali aggressivi ed insaziabili. Nella leggenda caraibica agli zombi era preclusa la carne (ed il sale), pena la fine dell’incantesimo zombificante, nei film di Romero, invece, i living dead sono pura compulsione a quel godimento interdetto agli antenati haitiani. Tale trasformazione, suggerisce Ronchi, ha una spiegazione materialistica: è dovuta alla trasformazione del capitalismo che è slittato verso il consumo coatto.

I living dead fanno la loro comparsa quando il principio di individuazione entra in crisi. “Individuo”, ricorda lo studioso, significa “ente determinato”, ente diverso dagli altri individui della medesima specie. Secondo la teoria politica liberale gli uomini sono individui ed è in quanto tali che hanno diritti inalienabili.

La filosofia classica spiega il fenomeno di individuazione ricorrendo alla composizione di forma e materia e la tecnica, il creare cose non già presenti in natura, è stata intesa nell’orizzonte del lavoro provocando però il paradosso che per spiegare il processo di individuazione caratterizzante la natura, si è finiti col far riferimento alla categoria della “produzione” così da finire col “retrodatare” alla natura il lavoro umano.

Tutto il pensiero politico moderno è ossessionato dall’idea di costruire attraverso mezzi umani un corpo politico dotato della medesima saldezza e sostanzialità del corpo mistico della Chiesa. Si è parlato a tal proposito di “teologia politica” che trova il suo limite nell’apparizione dei “resti” inincorporabili. Ciò che resta fuori dal corpo sociale, della nazione, della comunità ecc., vi resta come qualcosa di orrendo, di disgustoso: così viene descritto, ad esempio, il proletariato urbano inglese all’epoca della prima rivoluzione industriale. Se nella sua presenza in fabbrica il proletariato riceve un ordine ed una forma dai meccanismi produttivi, fuori dalla fabbrica diviene un’entità mostruosa, non umana. Anche i proletari, ricorda Ronchi, sono solo al plurale, una moltitudine illimitata che minaccia il buon ordine urbano. Fabbrica, prigione e caserma da questo punto di vista sono meccanismi disciplinari.

«Lavorare soggetivizza. Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletariato è l’onkos che minaccia i corpo sociale borghese» (p. 49). La generazione haitiana di zombi incarnava la pura forza lavoro. Non più schiavo ma nemmeno proletario. Si tratta del prodotto del colonialismo occidentale ridotto a pura macchina che produce valore. «I ‘negri’, dopotutto, per il razzista bianco, non sono veri ‘uomini’. Il proletario (bianco) è invece complementare al modo di produzione borghese, è generato dall’incorporazione capitalistica. La fabbrica è il luogo della sua individuazione e soggettivizzazione. Il suo aspetto zombi non sarà quindi più legato alla servitù del lavoro […] ma alla sua pretesa di godimento. A rimanere in eccesso rispetto al corpo sociale (come resto mostruoso e minaccioso) non è la sua umanità di operaio, umanità che si è guadagnato lavorando virtuosamente al servizio del capitale, differenziando cioè la soddisfazione del desiderio, ma questo stesso desiderio sganciato dal lavoro: è la sua fame» (p. 49).

wd-zombies55Ronchi ricorda come lo stesso socialismo nello scegliere nel proletariato organizzato e disciplinato dal partito il soggetto antagonista al capitale, finisce con l’indicare nel sottoproletariato quella massa tumorale di manovra a cui può ricorrere la reazione. Se l’individuazione è pensata sulla produzione, inevitabilmente essa genera dei residui (minacciosi) non assimilabili. «Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (p. 51). Dunque, secondo Ronchi, si ricorre ai “tecnici” perché tali compiti i “politici” non possono né sanno fare e da qui la loro delegittimazione internazionale.

A nostro avviso si potrebbe sostenere che, con l’egemonia totale dell’economico, il politico è stato totalmente esautorato da qualsiasi funzione che si possa dire politica, appunto. Se il politico è uno dei territori dell’immaginario (come sostiene da tempo Sandro Moiso) allora, in assenza di un immaginario realmente alternativo, il politico è inevitabilmente succube dell’economico. Il politico contemporaneo si è fatto tecnico. Un approccio politico alternativo non può che derivare da un immaginario alternativo, in assenza di quest’ultimo il politico è, inevitabilmente, tecnico.
Tornando ai morti viventi sugli schermi, Ronchi sottolinea come a livello cinematografico il ruolo dei tecnici spetti di diritto ai militari e quando anche questi falliscono nello smaltimento dei living dead, vuole dire che tutto è perduto e non resta che un’ultima illusione: la fuga.

Sappiamo che nella tradizione haitiana il cibarsi di carne o sale pone fine all’incantesimo che ha prodotto lo zombi. Ronchi, nel chiedersi cosa mostri allo zombi quella sorta di “autocoscienza” che acquisisce grazie all’assunzione di questi cibi, giunge a concludere che il morto vivente percepisce soltanto che è uno zombi qualsiasi, un essere-moltitudine. Nessuna emancipazione dalla massa, dunque. Nessuna interiorità. «Dal mondo dei morti lo zombi si è infatti portato dietro l’anonimato che caratterizza per sempre tutti i morti, i quali, in quanto morti, non sono più nessuno. È un uno qualsiasi, ma è uno qualsiasi che è già morto. […] L’autocoscienza pone lo zombi di fronte al suo essere una contraddizione in atto, una contraddizione assoluta che cammina. Lo pone di fronte alla sua atopia, alla sua eccedenza, al suo essere di troppo» (pp. 82-83). È per questo che secondo la legenda haitiana una volta “risvegliati” dal sale (o dalla carne), gli zombi intendono tornare alle proprie tombe, desiderano abbandonare il mondo dei vivi e far ritorno alla terra, a quella terra che però li ha espulsi obbligandoli all’erranza illimitata.

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Nemico (e) immaginario. I mostri del neocapitalismo. I morti viventi tra consumismo e capro espiatorio https://www.carmillaonline.com/2016/09/06/nemico-immaginario-mostri-del-neocapitalismo-morti-viventi-consumismo-capro-espiatorio/ Tue, 06 Sep 2016 21:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33033 di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per [...]]]> di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per nutrirsi ma per continuare a farlo così come, fuori dallo schermo, nella società contemporanea il consumo di merce è finalizzato alla reiterazione del consumo stesso. Altre caratteristiche che si ritrovano nei morti viventi sono la mancanza di sentimenti, l’apatia ed il riprodursi per contagio ma, soprattutto, lo zombi non è identificato come individuo: è massa indifferenziata proprio come sono percepiti i migranti che  sbarcano sulle coste europee o che vengono bloccati presso i nuovi e vecchi confini delle fortezze occidentali. Secondo René Girard (La violenza e il sacro) l’indifferenziazione è la «caratteristica principale del sacrificio, a cui è consegnato il capro espiatorio di una folla i cui componenti si sentono eguali e uniti contro il nemico comune» (p. 12).

Edward Said (Orientalismo), ad esempio, ha ben ricostruito come in occidente il mondo arabo sia da tempo percepito e raccontato come massa indifferenziata e di ciò troviamo conferma quotidianamente sui diversi media. In televisione alle vittime occidentali di una guerra, o di un cataclisma, viene concesso l’onore di essere ricordate come individui; quando i numeri lo consentono, i media elencano i nomi dei caduti e non mancano di ricostruirne le vite spezzate. Quando a morire sono barbari extraoccidentali i media si accontentano di generici riferimenti alla massa indistinta, si limitano a riportare, quando lo fanno, i freddi numeri dei defunti. Il fatto che i pervasivi media nostrani concedano lo status di “individuo” soltanto agli occidentali non manca di determinare importanti ricadute sulle modalità con cui si guardano gli altri.

Tornando al saggio di Doni e Tomelleri, con cui continuiamo la serie “Nemico (e) immaginario“, in esso si sottolinea come ci sia «un elemento sottaciuto da tutti, nel mito degli zombi, che va fatto emergere, a cui va data la giusta dimensione e attenzione; l’unico modo infatti per interrompere l’iperproduzione metastasica dell’oppressione è dar voce all’oppresso. Per questo lo zombi è sempre muto, anonimo, stupido, inascoltabile» (p. 12).

Anche la folla in trepidante attesa dell’apertura di un Apple Store per accaparrarsi l’ultima novità tecnologica lanciata su mercato (ammesso che sia la tecnologia ad interessare e non il mero status simbol offerto dal logo), che si presenta anonima, atomizzata ed “affamata di nuova merce”, può essere ricondotta, secondo i due studiosi, alla metafora degli zombi. «Il sospetto è che quella folla, sia alla caccia di qualcosa o di qualcuno che il mito nasconde e rende muto» (p. 12).

Il living dead è certamente un prodotto dell’industria culturale commerciale ma è anche metafora delle relazioni e dei processi sociali e l’analisi proposta dal saggio intende essere «uno studio di decifrazione dello zombi in quanto unità discorsiva carica di emozioni e di senso, consapevole o inconsapevole, voluta o non voluta, che si costruisce attivamente all’interno delle relazioni sociali, trasformandosi col tempo e nelle culture, per incarnare desideri e paure di un’epoca» (pp. 13-14).

Non è difficile, grazie anche ai suggerimenti espliciti contenuti in alcuni film, individuare analogie tra le orde di morti viventi che abitano gli schermi e le folle di consumatori che vagano nei megastore od anche, suggeriscono gli autori, con le moltitudini di minatori ricoperti dal fango fotografati da Sebastião Salgado. Doni e Tomelleri intendono indagare proprio questa somiglianza riscontrabile «tra i morti viventi dei film, fumetti e canzoni, e i soggetti peculiari del nostro attuale modo di produzione (che per comodità chiamiamo neocapitalismo, qualunque cosa significhi questa formula accomodante e di per sé abbastanza vacua), cioè noi, perché questa storia riguarda tutti noi, siamo tutti coinvolti nella trasformazione dell’essere umano in un morto che cammina» (p. 15).

L’attrazione contemporanea per gli zombie coincide con un’epoca in cui l’intera esistenza dell’essere umano è sempre più imbrigliata all’interno di meccanismi standardizzati ed alienanti, dunque il saggio indaga le forme simboliche prodotte da tale mutazione e tali forme simboliche sono in grado di riflettere quella massa senza vita all’interno della quale l’essere umano si sente fagocitato.

La storia dello zombi è lunga e variegata e fin dalla sua comparsa, comunque, questa figura ha a che fare con l’oppressione sociale; l’idea che qualche forma di potere possa sottrarre l’anima/il pensiero al popolo rendendolo schiavo ha attecchito facilmente tra la popolazione haitiana. Lo zombi può essere pensato come black hole capace di risucchiare «indistintamente le mistificazioni del progresso, per divenire infine lo specchio ustorio della libertà occidentale» (p. 19).

La figura dello zombi nasce in seno a quella cultura vudù che «forniva al proletariato haitiano l’opportunità di rileggere la propria vicenda in chiave postcoloniale, inoltre procurava i mezzi di elaborazione culturale della condizione oppressiva che stava vivendo: l’operaio subissato, abulico, alienato, dissanguato… è sotto l’effetto di una potente magia. È lo zombi» (p. 24). Nonostante l’origine haitiana, la figura dello zombi che si è imposta a livello universale negli ultimi decenni è decisamente riplasmata dall’uomo bianco; se la zombificazione nella tradizione haitiana deriva dalla magia nera, nella “versione internazionale” essa diviene una sorta di malattia contagiosa.

Dal libro The Magic Island (1929) di William Seabrok deriva una figura dello zombi interpretabile come espressione della nuova condizione di schiavitù in cui versa la popolazione haitiana: «gli zombi sono cadaveri ai lavori forzati, privi d’identità, di memoria, completamente alienati e asserviti, gli occhi sbarrati e lo sguardo assente» (p. 27). Nel libro di Seabrok si racconta anche di uno stregone che si fa assumere dalla “Haitian American Sugar Company” insieme ad un gruppo di braccianti-zombi sfruttati fino allo sfinimento. La leggenda vuole che questi lavoratori schiavizzati, una volta venuti a contatto con cibo salato, rompano l’incantesimo che li aveva zombificati e riattivando le coscienze decidano di sottrarsi allo sfruttamento e di far ritorno alle rispettive tombe. La credenza popolare vuole infatti che la ripresa di coscienza avvenga grazie all’assunzione di alimenti come la carne ed il sale, cioè cibi solitamente inaccessibili ai poveri. A proposito di questo racconto, Doni e Tomelleri evidenziano come la questione nodale sia contenuta proprio nelle premesse della vicenda: «lo zombi serve a far soldi. Lo zombi è il plusvalore che consente allo spregiudicato investitore di speculare sulla produzione. L’accumulazione primitiva del capitale non poteva avere un’immagine più calzante» (p. 27).

cover_zombi_medusaNel saggio ci si sofferma su una canzone del 1975 del musicista nigeriano Fela Kuti intitolata Zombie (come l’album che la contiene): i morti viventi sono i poliziotti ed i militari descritti come cadaveri privi di volontà che hanno subito un lavaggio del cervello finalizzato a fargli compiere crimini efferati. Si tratta di «terribili macchine di morte e di auto-immolazione: l’apoteosi del robot docile middle class intravisto da Mills nelle sue immaginazioni sociologiche. L’impiegato, il represso, l’emarginato, divenuto strumento cieco e sordo, che uccide, distrugge, reprime e muore senza pause, senza lavoro, senza senso (no break, no job, no sense). Apoteosi della banalità del male, della indisposizione al pensiero» (p. 38). E sappiamo come il sonno della ragione generi mostri.

Nella canzone Coffin for Head of State, Fela Kuti se la prende invece con le religioni (cristiana ed islamica), definite “organizzazioni mangiasoldi” che portano stordimento nelle coscienze africane. Nel pezzo il coro ripete insistentemente quel waka waka, che compare anche in un canto camerunese di fine anni ’40, portato nel 2010 alla ribalta internazionale in una versione pop dalla cantante colombiana Shakira come inno dei Mondiali di cacio sudafricani. La versione-tormentone che ha spopolato a livello globale, rivolgendosi ad un pubblico abituato a consumare senza farsi troppe domande, ha perso per strada la complessità originaria. «Gli zombi, che siamo tutti noi quando restiamo incantati dalle sirene dello show, non hanno dubbi, sono fruitori e merce al tempo stesso del nonsense» (p. 43).

Dunque, sostengono gli autori, una musica di denuncia e rivendicazione in grado di incidere a livello sociale, nel giro di pochi decenni, perde le sue caratteristiche: «il linguaggio rimane diretto, ma i livelli si sono parificati, gli attivisti e i militanti sono diventati puri consumatori, non vi è più consapevolezza di quello che un tempo si chiamava il “messaggio”. Nel mondo globalizzato, in preda a scosse da assestamento finanziario post Lehman Brothers, il “messaggio” fa parte del pacchetto, e quindi è del tutto ininfluente. La cultura, per farla breve, è stata zombificata» (p. 44).

Il potere ha fatto proprie le forme della contestazione rendendole obsolete, banali e ridicole. Lo stesso accade per il conflitto che, soprattutto grazie alla televisione, è stato trasformato in una messa in scena “evasiva”, d’intrattenimento tra uno spot e l’altro, non di rado con la complicità, spesso involontaria, di chi, forse cresciuto a dosi massicce di rappresentazioni televisive, si è prestato, credendosi protagonista, a fare da comparsa in uno spettacolo che lo ha fagocitato all’interno del processo di zombificazione. «L’opposizione è divenuta soltanto ridicola; la critica sociale è divenuta incomprensibile; il conflitto sociale è in continuazione procrastinato, sottaciuto, minimizzato. La politica si trasforma in farsa, il dibattito in idiozia mediatica, la dialettica in pernacchie e corna, i programmi e i decreti diventano barzellette ecc.» (p. 44). In scritti precedenti ci siamo soffermati sulla messa in finzione della realtà [su Carmilla] e sul depotenziamento del dissenso operato soprattutto dalla televisione [su Carmilla].

Questo processo di banalizzazione della vita, sostengono gli autori, è in corso da diverso tempo e non accenna ad esaurirsi, anzi pare trionfare incontrastato. «Le masse di morti viventi che assediano il centro commerciale nel film di Romero, sono le stesse che riempiono gli ipermercati di oggi […] È una sorta di processione ossessiva, una muta istituzione sociale che assume i tratti del rito religioso […] dove una massa indistinta di pellegrini si muove tra carrelli della spesa, navi da crociera, pacchetti vacanze, ristoranti a “tema”, dove ambienti, arredamento, personale e oggetti richiamano alla mente paesaggi naturali o futuristici, modi di vita di altre parti del mondo […] Una moltitudine si muove indifferenziata sotto i cori delle radio commerciali, che con i loro slogan scandiscono il ritmo della celebrazione, che si consuma nel gesto della mera presenza, indipendentemente dall’acquisto della merce o dalla loro convenienza utilitaristica. Perché merci diventano gli stessi partecipanti, contenitori di promozioni, occasioni, grandi affari, saldi, tessere magnetiche per l’accumulazione di punti, sanzione di una fedeltà che vincola all’eterna ripetizione di un desiderio di desiderio, di un consumo di consumo, in un eterno ritorno senza tregua» (pp. 45-46).

Come i fan delle popstar appaiono del tutto disinteressati al messaggio veicolato dalle canzoni (ammesso vi sia), allo stesso modo gli individui consumano quotidianamente merci del tutto privi di scrupoli critici: «l’assenza di riflessione è condizione indispensabile del neocapitalismo, la trasformazione in zombi è il prerequisito necessario per accedere alla macchina mitologica del consumo» (p. 46).

Dunque, si sostiene nel saggio, ciò che accomuna i consumatori e gli zombi pare essere la fame insaziabile, la bulimia cronica fine a se stessa; lo zombi morde senza mangiare e digerire, il consumatore acquista e spesso non “consuma” nemmeno la merce, la butta (e la ricompra). Il nutrimento coincide con lo scarto, come testimoniano le discariche sempre più debordandi. «Ma se il nutrimento coincide con lo scarto, esso non nutre più: ecco la fame infinita. Il consumatore zombi non smette di consumare, perché in realtà non consuma affatto. Quel che fa è trasformare in continuazione se stesso in oggetto di consumo, stordendo la propria facoltà critica e immaginativa e adempiendo a quei rituali di sottomissione che nei film sugli zombi caratterizzano tutte le creature morte: muoversi in massa, seguire un ritmo comune, indirizzarsi nella medesima direzione, sbranare senza tregua» (pp. 46-47).

Abbiamo visto come sia diffusa l’identificazione della figura dello zombi con quella del consumatore compulsivo ed a proposito di ciò, sostengono gli autori, il «coinvolgimento nella realtà sociale si è liquefatto: è rimasto soltanto il consumo come gesto meccanico che milioni di zombi compiono quotidianamente» (p. 53). L’identificazione del morto vivente con l’uomo medio massificato e consumista, però, sostengono Doni e Tomelleri, non può esaurire la questione dello zombi contemporaneo; esso non è soltanto un’immagine. «Se gli zombi rappresentano così bene le nostre paure e le nostre angosce collettive è perché sono una viva e potente riproposizione contemporanea di ciò che l’antropologo René Girard […] ha definito il meccanismo del capro espiatorio» (p. 57). Secondo Girad il capro espiatorio (o processo vittimario) indica una persecuzione collettiva (o con risonanze collettive).

I morti viventi ispirano il terrore per la disfatta della civiltà e del progresso, per il caos primordiale che si esprime con l’insorgere della persecuzione. La massa zombi dà immagine alla folla assetata di persecuzione e così come le folle accorrevano, tra Medioevo ed inizio della modernità, ad assistere allo spettacolo garantito dall’esecuzione delle streghe, della vittoria del bene sul male, altrettanto, suggerisce il saggio, il morto vivente sugli schermi richiama una moltitudine di spettatori desiderosi di assistere allo scontro finale tra vivi e non morti. «A richiamare una così numerosa massa di persone è sempre lo stesso Leitmotiv: il sacrificio. Il legame tra il mostro e il suo sacrificio è antico, e rimanda alla struttura stessa del meccanismo del capro espiatorio» (p. 59).

Indipendentemente dalle cause che portano alla comparsa degli zombi, il loro arrivo annuncia una modificazione della scena sociale e porta la distruzione della civiltà, il ritorno alla barbarie primordiale. «Gli zombi minacciano ciò che costituisce la conquista più alta e preziosa della civiltà occidentale: le buone maniere. Essi rappresentano il venir meno di ogni ritualizzazione e progressiva standardizzazione delle emozioni e dei comportamenti corporali […] Gli zombi mettono fine a ogni regola o codice di comportamento. Si assiste alla perdita di ogni differenza e di ogni ordine gerarchico […] Il senso della civilizzazione era quello di tenere a bada gli appetiti, certo, ma non per bon ton, bensì per tenere a bada ciò che gli appetiti a loro volta trattenevano a fatica: l’angoscia della morte. Il grande spettro della civiltà occidentale era addomesticato dalla cura per i particolari, dai rituali minuziosi, dalle sottili distinzioni tra caso e caso, dai distinguo e dai diversi riguardi dell’argomentazione, dal ben vestire e ben conservare. In questo contesto, spazzato via dalla società dei consumi del neocapitalismo, la morte era una specie di malattia da rimuovere, e la violenza era soltanto spettacolarizzazione mediatica. Ora gli zombi incarnano la morte in un modo singolare: sono vittime di altri zombi, che si trasformano in una folla di persecutori con un forte tratto vendicativo. Sono vittime di una morte violenta, e a loro volta, mimeticamente, fautori dello sterminio catastrofico della civiltà umana» (pp. 60-61).

Nei film di zombi viene esplicitata la crisi dell’ordine sociale determinato innanzitutto dalla crisi della gerarchia. Una moltitudine indifferenziata che si muove in maniera inconsapevole, priva di regole, rituali e codici compartimentali. La crisi sociale messa in scena tende ad essere spiegata attraverso cause morali e di tali cause sono accusati proprio gli zombi. Le loro colpe consistono nel trasgredire all’origine culturale ed al modello gerarchico. Si tratta di una moltitudine aperta, priva di responsabilità e di individualità, questi living dead non si curano del loro aspetto e delle conseguenze delle loro azioni, si muovono in maniera omologata, non aspirano all’autorealizzazione e, quel che è peggio, sono contagiosi. Gli zombi sono da eliminare, dicevamo, solo liberandosi di questi esseri mostruosi si può sperare in una rinascita della civiltà.

Lo sterminio appare pertanto come l’unica soluzione, tanto che nell’immaginario proposto dai videogiochi gli zombi sono da intendersi come surrogati di vite umane, in tal modo si giustifica la violenza dispiegata nei loro confronti. Gli spettatori provano piacere nell’assistere all’eliminazione degli zombi sullo schermo e ciò fa dei morti viventi il capro espiatorio: un colpevole consustanziale alla sua colpa. La colpa diviene un attributo ontologico, «è un anatema, nel senso neotestamentario, cioè una maledizione del capro espiatorio: si riscontra di riflesso nell’indifferenza o nella curiosità distratta che suscita il diverso […] lo stigmatizzato, che è abbandonato, ghettizzato, marginalizzato e infine escluso dalla vita sociale delle persone dette normali» (p. 65). Con il temine “stigmatizzato” Erving Goffman (Stigma. L’identità negata) indica colui che è talmente destinato alla propria vittimizzazione da finire col scimmiottare i “normali” finendo, tragicamente, per rafforzare in essi il desiderio di escluderlo dalla comunità se non di eliminarlo definitivamente. Proprio come avviene agli zombi che pur sembrando viventi non sono che la parodia di ciò che erano prima di morire.

La deformità fisica del corpo decomposto del living dead segnala la sua mostruosità morale, i morti viventi, continuano gli autori, «diventano il simbolo di una cultura che si racconta senza fondamento, posta in fragile equilibrio sull’orlo del proprio collasso, come se tute le interpretazioni fossero equivalenti e possibili. In questo modo la rappresentazione persecutoria è completa e il processo vittimario si può realizzare nella sua finzione artistica: nonostante tutto, gli uomini devono sopravvivere, mentre gli zombi, proprio per le loro colpe incancellabili, meritano di essere sterminati» (pp. 67-68).

- The Walking Dead _ Season 6, Episode 7 - Photo Credit: Gene Page/AMCSecondo Doni e Tomelleri l’elemento centrale della figura dello zombi è dato dal fatto che esso è un mito ma, sottolineano i due, non si deve dimenticare che gli zombi esistono. «Il mito serve non tanto per nascondere, ma per mitigare e giustificare la loro realtà, serve per trasformare le vittime reali in personaggi di finzione, di cui magari si dice anche “è tutto vero”, ma senza crederci troppo; serve per non rovinarci l’appetito o la digestione durante i telegiornali, serve per non turbare il sonno, per farci alzare sufficientemente bendisposti la mattina: il mito trasforma la vittima in mostro che è lecito e divertente abbattere, il mito maschera l’ipocrisia e la vigliaccheria nella pruderie del politicamente corretto e nel buonismo della domenica mattina. Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in deformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica l’egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e inneggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali. Gli zombi sono tutti coloro che non sono “noi”, soggetto collettivo medio aggrappato a quel po’ di benessere che il neocapitalismo concede a chi ha la ventura di nascere in un paese con un prodotto interno lordo decente. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me, così come il morto è il non-me del sopravvissuto, generatore del senso del potere. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» (pp. 70-71).

Il mito dello zombi è dunque affrontato in questo libro al fine di decostruire il racconto di una società occidentale globalizzata che sente di vivere sull’orlo del precipizio, «giustificando così le proprie debolezze e la propria volontà di potenza e di domino sul mondo» (p. 81). La percezione della crisi e dell’incertezza nel mondo occidentale induce alla ricerca del “nemico”, del capro espiatorio, della vittima.

Però, si sostiene nel saggio, la forza di cui dispone il capitalismo può divenire la sua debolezza. «La capacità di trasformare ogni critica, anche la più radicale, in un nuovo prodotto commerciale, un libro di successo, un film, uno slogan, un marchio è la sua invulnerabilità ma anche la sua stessa fine. La volontà di dominio è tale che non rimane più nulla da dominare. Il neocapitalismo non può che divorare se stesso, in un’estrema, disperata autofagocitazione» (p. 83).

Ecco allora che alla ricerca di un colpevole su cui sfogarsi, l’immaginario occidentale lo trova nel mito degli zombi. «Il fatto stesso che identifichiamo lo zombi con il consumatore del centro commerciale, cioè con qualunque clone di noi stessi, è un’ulteriore conferma del meccanismo vittimario. La persecuzione collettiva si compie nella sua totale assenza di sensi di colpa, quando il persecutore si traveste da vittima. Ecco che il capitalismo diventa vittima di se stesso, e di fronte al proprio dominio totalizzante, si racconta sull’orlo del collasso, in una condizione catastrofica, quasi dovesse chiedere aiuto per risorgere. Intanto, le vittime del capitalismo proliferano, i persecutori, ignari, continuano indisturbati la propria opera di sterminio» (p. 84).

Ed a proposito di vittime del capitalismo, il saggio si conclude ricordando che tra il 2000 ed il 2013 sono circa 8000 gli esseri umani morti tentando di raggiungere il Canale di Sicilia. Nel solo 2014 hanno perso la vita circa 3500 individui nel Mar Mediterraneo e nei primi mesi del 2015 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo ammontano ad almeno 2800. Il massacro continua. I dati sarebbero tragicamente aggiornabili fino ai nostri giorni. Si tratta di morti che si perdono in mare come nel processo di banalizzazione televisiva in cui, come scrive Carmine Castoro, la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (Clinica della TV, p. 49) [su Carmilla].

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Nemico (e) immaginario. Incapacità di sognare alternative e volontà di autodistruzione https://www.carmillaonline.com/2016/08/03/zombie-scenari-apocalittici-incapacita-sognare-un-altro-mondo-volonta-assistere-allautodistruzione/ Wed, 03 Aug 2016 21:30:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31153 di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti [...]]]> di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti tanto dalla delega elettorale, quanto dal giovanilistico pulviscolo dei messaggini gravitanti attorno ai “nuovi politici”) e dai mass media (che dispensano illusioni di partecipazione attraverso la presenza del pubblico in studio, telefonate in diretta, messaggini autoreferenziali via social media ecc).

Per comprendere qualcosa in più sulla realtà contemporanea può essere d’aiuto indagare la finzione. Nel saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Mimesis, 2014), la figura dello zombie e gli scenari apocalittici, frequentemente ad essa associati nelle produzioni audiovisive contemporanee, vengono indagati come manifestazioni delle angosce e delle paure occidentali.

«Se il reale non è dato bensì è da interpretare, la finzione può rivelarsi di grande aiuto per due ragioni complementari e contraddittorie. Innanzitutto […] perché, come ogni cosa, la finzione è segnata e porta su di sé l’impronta della mano che l’ha creata, essa ci dà informazioni – per seguire la metafora – su questa mano. Proprio come possiamo interpretare la psiche di un artista osservando le sue tele, così possiamo interpretare una cultura, e in seguito a poco a poco anche una società, osservando l’immaginario che essa ha prodotto. Allo stesso tempo l’oggetto della finzione – l’immaginario, a maggior ragione –, attraverso la sua natura metaforica può aiutarci a pensare alla nostra epoca poiché distante da essa. Lo zombie lo illustra perfettamente: se è figlio della nostra cultura esso è anche una figura estrema e fuori dal contesto, e sotto questo aspetto divertente, buffa, spassosa. L’estremo, essendo così distante dal nostro quotidiano, scioccando il nostro immaginario e perfino la nostra società, si offre dunque come una svolta per guardarla» (p. 109).

Nel ricostruire per sommi capi lo sviluppo della figura dello zombie l’autore parte, inevitabilmente, dalle culture africana ed haitiana, ove, attingendo dall’immaginario della schiavitù, lo zombie rimanda tanto ad un soggetto depersonalizzato, incapace di ribellarsi, quanto all’idea di resurrezione cristiana. Nel corso dell’Ottocento la figura dello zombie entra a far parte del folklore statunitense ed europeo fino a far capolino nella letteratura e nel cinema grazie ad opere come il romanzo The Magic Island (1929) di William Seabrook ed il film White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, con Bela Lugosi.

Successivamente Coulombe si sofferma sul mutamento della figura dello zombie operata dalla trilogia di Geoge A. Romero composta da Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), Dawn of the Dead (Zombi, 1978) e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985). In questi film, che delineano una nuova figura di zombie, poi ripresa da vari registi, non siamo di fronte ad un vivente scambiato per morto ma ad un morto che pare un vivente, un “quasi-vivente”. Prende così piede l’immagine dello zombie in avanzato stato di decomposizione e «non è più l’effetto di un maleficio eseguito da uno stregone, egli è ora senza padrone e se serve come strumento di un piano, questo è segreto e oscuro» (p. 25).

Particolarmente importante nell’evoluzione romeriana dello zombie è il romanzo I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson, pubblicato nel 1954, in cui si narra di Robert Neville, ultimo uomo sopravvissuto ad una misteriosa epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in vampiri. «Qui ritroviamo l’idea, ripresa da Romero, di una seconda specie che si nutre degli uomini, che nasce dall’umanità stessa e che tuttavia dimostra una natura così differente da quella umana da desiderare una propria autonomia» (p. 26). Romero struttura così film che riflettono sulle condizioni di esistenza in un mondo ormai alla deriva, ove i rapporti sociali appaiono fortemente compromessi.

Le produzioni audiovisive più recenti, pur mantenendo l’idea di castigo divino come giudizio morale sulla civiltà occidentale «metteranno in scena una modalità di trasmissione più in linea con i timori che animavano gli anni ’70 e soprattutto ’80: ormai si diventerà zombie solo dopo essere stati morsi da un individuo infetto o semplicemente attraverso il sangue. Così lo zombie, questo morto tornato alla vita, costituirà un’inquietante metafora dell’affetto da AIDS, considerato un vivo che tuttavia è condannato alla morte e al contagio del suo prossimo» (p. 29). La figura dello zombie perde così la sua connotazione fantastica per incarnare «la metafora di un’inquietudine rispetto a una nuova immagine di morte – l’AIDS – e il timore legato alle ricerche sulla biotecnologia» (p. 30) dando immagine, inoltre, al turbamento contemporaneo rispetto al senso della morte.

Il cinema zombie «incarna la sconfitta dell’Occidente fino alla sua autodistruzione. Un male prodotto dall’Occidente che dà vita a creature subumane si rivela in grado di decimare la popolazione del pianeta» (p. 30) e gli esseri umani che si trovano a fronteggiare il pericolo zombie dimostrano il peggio di sé mostrandosi del tutto incapaci di andare al di là del loro cinico individualismo.

La prossimità tra uomo e zombie impone interrogativi circa i limiti della condizione umana e la possibilità dello statuto umano di decadere. Siamo al tempo stesso attratti ed inquietati dallo zombie perché non sappiamo cosa sta dietro al silenzio della sua coscienza. Quando lo zombie non è attivo nell’aggredire l’uomo, si mostra a quest’ultimo in uno stato di apatia che richiama facilmente l’immagine di un individuo gravemente traumatizzato, la figura del sopravvissuto ad un disastro che “si fa zombie”, “assente da se stesso”, come se l’enormità del trauma avesse «fatto vacillare ciò che ci rende umani: la nostra capacità di pensare» (p. 48). Dunque, lo zombie ci inquieta nel suo stato apatico in quanto evoca una condizione dell’uomo possibile, seppur rara.

A partire da tali ragionamenti Coulombe si chiede: «Siamo sicuri che lo zombie rappresenti la figura dell’eccezione? Questa perdita della nostra capacità di pensare è necessariamente il frutto di un incidente? Si tratta sempre di qualcosa di raro e irrimediabile? Osservando la nostra società un po’ più attentamente si nota che il “traumatizzato” sembra incarnare non soltanto un incidentato ma molti soggetti che sono vittime della modernità e della sua crudele logica della performance. Bisogna dunque pensare al dramma non come a un evento singolare e contingente, bensì come alla corrosione progressiva del carattere prodotta dal ritmo dell’Occidente stesso. Lo zombie non è la figura dell’eccezione ma incarna più ampiamente un frammento della nostra condizione contemporanea nella quale la maggior parte di noi potrebbe, in un momento o nell’altro, identificarsi» (pp. 49-50).

Walter Benjamin (Sur quelques thèmes baudelairiens), riprendendo le analisi freudiane relative al trauma, analizza lo shock causato non tanto dalla brutalità dell’attentato terroristico o della guerra, ma dalla successione di molteplici shock quotidiani che finiscono col turbare la soggettività dell’individuo rendendolo sempre più insensibile al mondo e refrattario a nuove esperienze. «Lo shock della modernità non produce gli zombie da un giorno all’altro. Nel cuore della modernità risiede tuttavia qualcosa di simile al divenire-zombie, per riprendere il linguaggio deleuziano. L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51).

L’aggressività e la violenza dello zombie tradiscono invece un’altra inquietudine contemporanea, cioè che «sotto la facciata della nostra civiltà batte il cuore di una bestia sanguinaria. Noi saremmo fondamentalmente dei mostri» (p. 53). Nei film sugli zombie si narra infatti la storia di un’epidemia che porta a galla la brutalità celata sotto alla facciata della nostra civiltà. «Questi film mostrano una concezione cinica e oscura della psiche, una concezione che comunque non hanno inventato: lo zombie evoca un certo tipo di ritorno allo stato di natura» (p. 54). Chiaramente lo “stato di natura” è un espediente filosofico utilizzato al fine di immaginare il comportamento umano in caso di abolizione delle regole e delle convenzioni sociali ma, fa notare lo studioso, «se in Hobbes, come negli altri teorici dello stato di natura, una tale condizione non corrispondeva a uno stato storico ma a un’ipotesi teorica, i media contemporanei non hanno colto questa sfumatura. Questi ultimi pensano allo stato di natura come alla chiave di lettura e al punto di fuga della violenza contemporanea» (p. 55).

piccola-filosofia-dello-zombieCoulombe, riprendendo alcune riflessioni di Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita), sottolinea come lo zombie, perdendo la coscienza, si trovi a perdere ogni forma di bios, dunque di statuto umano, avvicinandosi alla figura dell’homo sacer greco, dunque per molti protagonisti umani dei film può non essere un problema uccidere lo zombie in quanto la sua esistenza è ritenuta indegna. «Se lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile» (p. 58). Dunque, secondo lo studioso, «La gioia e l’inquietudine dei film di zombie sono basate proprio sul fatto che essi replicano l’equivoco di questo statuto tanto quanto le sue conseguenze. Recandoci nei cinema assistiamo alla storia di persone che uccidono coloro la cui vita è ormai indegna di essere vissuta; giocando ai videogiochi ci carichiamo perfino del “lavoro sporco”. In qualche modo il nostro è uno sfogo ultimo poiché le nostre pulsioni aggressive e omicide hanno trovato la loro liberazione su una creatura passiva ma pericolosa, la cui morte e tortura non costituiscono più un crimine» (pp. 58-59).

«Se lo zombie è una figura grottesca, buffa e divertente, esso è anche sintomatico dei dubbi nei confronti dei limiti di ciò che è proprio dell’uomo: il pensiero. Un tale dubbio sulla coscienza […] comporta più profondamente un dubbio sociale rispetto al ruolo di questa coscienza, anche un dubbio che porta a chiedersi che cosa voglia dire essere cittadino. Non abbiamo il mostro che meritiamo ma quello che temiamo. La coscienza ha così espulso il suo incubo: lo zombie. Avendo ormai ribaltato il cogito cartesiano, il fatto di riflettere non sembra più stabilire nulla di determinante né utile. L’ordine del mondo – quello del liberalismo economico, quello dell’urgenza – è ormai senza guida, le sue necessità sono cieche. Questo nuovo ordine non accorda più alcun ruolo alla coscienza intesa come momento di introspezione che permette un’etica singolare e personale, un distacco dal mondo per pensarne la coerenza. Il mondo sembra ora più che mai una macchina ben oliata in cui le modifiche e le riflessioni sul suo senso – direzione e significato combinati – non sembrano più necessarie. Lo zombie è la figura di un’assenza e il fatto che noi possiamo riconoscerci in lui dice molto sulla contingenza del pensiero e in senso lato sul suo ruolo nella nostra società» (pp. 60-61).

Nelle società occidentali contemporanee la morte è celata, nascosta, e lo zombie incarna la morte di cui non si è più in grado di parlare. «La finzione si sostituisce a ciò che la nostra cultura non sa più mostrarci» (p. 72). Nella cultura occidentale ormai da tempo votata al “controllo del corpo”, si sostiene nel saggio, «il morto-vivente costituisce, nella sua stessa carne, un ritorno del represso: rappresenta un corpo abietto, squarciato, impuro. Lo zombie mostra la lenta degradazione dei corpi e delle cose mettendola in scena, una degradazione che la nostra cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile. Lo zombie è la vendetta dell’informe. Se la morte è l’ultimo tabù della società occidentale, esso insiste per mostrarlo e per sottolineare metaforicamente la rivincita della morte sul vivente» (p. 19). È come se la parte nascosta dell’uomo, attraverso gli zombie, fosse resa improvvisamente visibile a spettatori desiderosi di assistere a rappresentazioni ripugnanti.

Nel mondo contemporaneo tendente al controllo del corpo, lo zombie rappresenta allora «un ritorno a un’animalità primitiva, ma anche al godimento che questo ritorno del rimosso procura. L’abiezione rimanda dunque a una dialettica in cui affetti, disgusto e godimento si uniscono: il godimento dello zombie e il disgusto negli spettatori; il disgusto del godimento dello zombie per lo spettatore e il godimento attraverso il disgusto nel morto-vivente» (pp. 75-76). Ed il ritorno del rimosso sotto forma di finzione grottesca, secondo lo studioso, induce lo spettatore alla risata di alleggerimento.

Lo zombie, con il suo corpo squarciato, “aperto”, privo di individualità ed in perenne trasformazione, è una figura che ribalta i valori della cultura occidentale contemporanea. «La risata, l’ordine capovolto del mondo, la morte temporanea: l’universo dello zombie sembra portare a compimento il progetto carnevalesco. È quindi facile interpretare questo genere cinematografico come rivoluzionario e sovversivo, come del resto molti hanno già fatto. Tuttavia a questo cinema manca ancora una parte essenziale dell’organizzazione carnevalesca: la sua capacità di offrire un “futuro migliore” e un mondo basato sulla negazione dell’ordine stabilito. Il rovesciamento dei valori dello zombie non propone luoghi di emancipazione per la classe popolare […] ma la vittoria di una nuova specie debole e alienata; il carnevale non è sognato per l’uomo ma per una creatura che ha avuto la meglio su di lui. Non si tratta di qualcosa di innocente. Il grottesco dello zombie diventa ancora il sintomo non solo del rifiuto della morte e della carne nella nostra cultura, ma anche della nostra incapacità di sognare un futuro alternativo per l’uomo» (p. 80).

Dunque, secondo Coulombe, quel che si manifesta nella figura dello zombie è una volontà di rovesciamento delle costrizioni sociali del tutto priva di progettualità. «Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia» (p. 81). Da tale incapacità di sognare un altro mondo, si ripiega, dando sfogo ad una certa pulsione di morte, sulla volontà di assistere, almeno, alla distruzione del mondo occidentale.

In diversi film apocalittici o di zombie, la macchina da presa indugia su strade ed edifici da cui è improvvisamente scomparso l’essere umano. A partire da tali immagini di città abbandonata, Coulombe struttura un interessante confronto con il senso di sublime delle rovine romantiche. Se, in questo ultimo caso, il sublime risulta malinconico in quanto fondato «sull’incolmabile distanza che separa il viaggiatore dalle civiltà che costruirono questi monumenti, di cui restano ormai solo le rovine» (p. 91), dunque si tratta di un sentimento del sublime determinato dalla forza del tempo, nel caso delle città post apocalittiche abbandonate il sublime pare piuttosto fondarsi sulla contraddizione tra una realtà urbana generalmente caotica e frenetica e la città improvvisamente priva di esseri umani, silenziosa e statica. «Assistiamo allora a un fallimento dell’immaginazione, incapace di figurarsi che cosa abbia potuto fermare una tale dinamica. L’effetto di questa distruzione è sublime perché è invisibile, e per questo impossibile da collocare, da limitare, da inquadrare» (pp. 92-93).

Se le rovine romantiche lasciano intravedere la scomparsa di una civiltà, di cui, appunto, restano solo le rovine, le “rovine” post-apocalittiche cinematografiche, in questo caso, “mostrano” la sparizione dell’essere umano. «L’assenza è un concetto di grande portata poetica poiché non richiama il nulla o un vuoto, ma una mancanza. Una persona in lutto ce lo saprebbe dire, il defunto è ancora presente ovunque […] In questo caso è necessario pensare all’assenza come a una presenza negativa […] Queste città abbandonate sono malinconiche perché piene di tutti gli individui assenti che indicano, in negativo, il movimento abituale della città» (p. 91).

Buona parte dei film di zombie, pur mantenendo un alone di mistero circa le cause di questa improvvisa assenza umana nelle città e del dilagare dell’epidemia, tendono ad insinuare l’idea che le responsabilità della scomparsa degli uomini siano del tutto umane e non per forza di cosa generate da qualche maldestro esperimento scientifico. La scomparsa dell’essere umano è genericamente una “punizione meritata” dall’uomo e non per questo o quello sconfinamento particolare; è un’intera civiltà chiamata in causa.

Lo studioso sottolinea come, da qualche tempo, la cultura occidentale risulti attraversata, anche grazie ai mass media, da pensieri apocalittici. Tali pensieri attingono «tanto dai grandi drammi del ventesimo secolo quanto dalla sensazione, provata dal soggetto, di essere ormai impotente di fronte alle logiche capitalistiche che lo dominano e che distruggono progressivamente l’ambiente» (p. 94).

Coulombe sottolinea come sebbene la sensazione di vivere in un’epoca di declino non sia certo una novità, la contemporaneità sembra però aggiunge nuovi aspetti a questo sentimento di degradazione morale. Tra questi l’autore sottolinea «la nostra recente capacità di distruggere il pianeta e la crescita interrotta dalle disuguaglianze sociali nell’occidente come nell’economia mondiale» (p. 95).

Pur consapevole della distruzione del pianeta in atto, l’individuo contemporaneo non sembra disposto ad intervenire. «Perché, se il mondo è al limite della distruzione, tentare di costruire qualcosa, di investirci? Il relativismo che ha conquistato l’occidente rende difficile qualunque azione fondata sui valori che superano il puro interesse personale o la frustrazione […] il pessimismo contemporaneo sembra ancora più sinistro poiché può contare su un sentimento generale di malessere nel nostro rapporto con gli altri […] Questa inquietudine e questo pessimismo finiscono per annebbiare le temporalità e ci lasciano l’impressione che non solo sarebbe troppo tardi per rimediare ma che siamo già in uno scenario post apocalittico: […] Da qui il sentimento, che progressivamente conquista le coscienze e i media, di un ritorno allo stato di natura che renda necessario l’egoismo, un incentrarsi su di sé e sulla semplice sopravvivenza» (p. 97).

Dunque, come sanno bene soprattutto i migranti che tentano di mettere piede nelle città occidentali sempre più fortificate, «ogni sconosciuto è un potenziale nemico, ogni amico è in potenza morto vivente, non restano che i membri della propria famiglia ai quali aggrapparsi» (p. 98).

Gli audiovisivi che ci raccontano di zombie ci mostrano come nel momento in cui si è costretti a lottare per la sopravvivenza, ciascuno finisce col decidere quel che è giusto per se stesso sentendosi in diritto di farsi giudice unico. «La civiltà distrutta sullo schermo, anche se distrutta da un’orda di morti viventi, ci ricorda questo pianeta morente evocato da numerosi discorsi ambientalisti, o questo pianeta sovrappopolato che non riesce a nutrire tutti gli abitanti. I film di zombie mettono in scena la fine del mondo di cui ci minacciano i media, mostrano il precipizio al bordo del quale ci troviamo. E anche la caduta. È stupefacente quanto questa caduta figurata ci tranquillizzi. Da una parte essa evoca una punizione percepita come meritata – i media ci rimproverano. Eppure, allo stesso tempo, desiderando la punizione di cui è minacciato, l’uomo rientra in possesso di un certo controllo sul proprio destino, anche solo per assistere alla perdita di quest’ultimo. Questa logica ha un nome: pessimismo» (p. 100).

TWD_987Coulombe indica come di fronte all’opprimente senso di impotenza, l’uomo tenti di sfuggire ad essa prendendo una posizione simbolica capace di restituire un qualsiasi ascendente, anche solo in maniera sacrificale; la pulsione di morte sarebbe allora causata dalla volontà di ritrovare un briciolo di controllo sulle cose che ci stanno attorno; «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte non semplicemente, comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica ecc… – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato» (p. 103).

I film di zombie «ci divertono perché dipingono una civiltà distrutta da nemici grotteschi. Di fronte all’ambiguità del mondo, di fronte all’incertezza del nostro futuro, di fronte a un’ondata di sentimento di colpevolezza mentre pensiamo alle sorti del pianeta, il cinema zombie ci intrattiene e ci rassicura. Non c’è più quel senso di colpa, non c’è più quella paura: per due ore lo spettatore osserva queste rappresentazioni con un sorriso appena accennato, vedere l’annientamento del mondo causa una piccola vertigine e un senso di conforto» (p. 106).

Secondo Coulombe «Abbiamo bisogno dell’aiuto della finzione per sopportare la nostra condizione di uomini» (pp. 107-108) e, verrebbe da aggiungere alla luce dell’attualità, quando la finzione non basta a lenire la disperazione, in assenza di capacità di sognare un mondo diverso, possono generarsi mostri reali. Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, l’incapacità di sognare alternative non è da meno.

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E.N.D. – Dalla parte degli zombi https://www.carmillaonline.com/2015/06/26/e-n-d-dalla-parte-degli-zombi/ Fri, 26 Jun 2015 20:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23640 di Luca Cangianti

END_THE_MOVIE_VIDEO_OVERLAY_IMAGEIl ribaltamento tra zombi e umani è già presente in germe nella Notte dei morte viventi di George Romero. Nel finale di questo film gli zombi diventano vittime della violenza militarista, insieme all’unico umano scampato alla notte di assedio; poi nel quarto lungometraggio della saga, La terra dei morti viventi, gli zombi si evolvono riapprendendo a svolgere alcune attività che eseguivano in vita. Uno di questi, Big Daddy, diventa perfino il leader che guida un attacco pianificato a una città popolata da umani crudeli. Un membro di una [...]]]> di Luca Cangianti

END_THE_MOVIE_VIDEO_OVERLAY_IMAGEIl ribaltamento tra zombi e umani è già presente in germe nella Notte dei morte viventi di George Romero. Nel finale di questo film gli zombi diventano vittime della violenza militarista, insieme all’unico umano scampato alla notte di assedio; poi nel quarto lungometraggio della saga, La terra dei morti viventi, gli zombi si evolvono riapprendendo a svolgere alcune attività che eseguivano in vita. Uno di questi, Big Daddy, diventa perfino il leader che guida un attacco pianificato a una città popolata da umani crudeli. Un membro di una squadra di esploratori in disaccordo con i governanti della città, mira alla testa di Big Daddy, ma il comandante Riley Denbo gli ordina di non sparare: “Stanno solo cercando un posto dove andare… Proprio come noi!” Insomma, i mostri hanno acquisito coscienza e soggettività rivoluzionaria, al punto da esser riconosciuti dagli umani più illuminati.

In E.N.D. The Movie ci si spinge ancora più avanti: i morti viventi si evolvono fino a costituire una nuova specie dotata di linguaggio, di legami sociali, di sentimenti e debolezze. Siamo oltre il modo di produzione umano.
Il film, presentato in anteprima il 24 giugno scorso al Fantafestival di Roma, è una produzione indipendente realizzata anche grazie a un crowdfunding. Al di là di qualche effetto speciale digitale, del quale non c’era bisogno, e di un rallentamento nella parte centrale, E.N.D. ha un impianto narrativo solido e originale, in cui il genere horror è scelto come contesto più adatto a valorizzare il conflitto tra i personaggi. Il lungometraggio è stato realizzato da un gruppo di registi: Federico Greco, Domiziano Cristopharo, Luca Alessandro e Allegra Bernardoni. Il primo di questi, Greco, ha curato la supervisione creativa oltre a firmare per intero l’ultima parte del film.

E.N.D. tuttavia non è un film a episodi perché, pur essendo composto di tre sezioni, si articola lungo il filo di un’unica storia. L’epidemia scoppia a causa di una partita tagliata male di cocaina (Erythroxylum coca – NaOH – Desipramina, E.N.D. per l’appunto) e continua a diffondersi coinvolgendo un’agenzia di pompe funebri. La seconda sezione del film, diretta da Domiziano Cristopharo, si svolge 4 anni dopo in un’Italia occupata dall’esercito statunitense impegnato a combattere i mostri affamati di carne umana. Qui una donna incinta e un soldato, assediati in una casa di campagna, assistono a un processo d’ibridazione che apre alla terza parte, quella più riuscita. Sono passati altri due anni, gli zombi non possono esser uccisi in nessun modo, nemmeno sparandogli in testa. Anzi si sono sviluppati al punto da costituire una società eticamente migliore rispetto a quella umana, che usa anziani e portatori di handicap come cavie.

Il genere fantastico può avere una funzione sovversiva, capace di svelare realtà invisibili, indicibili e rimosse. Nel caso di E.N.D. all’apparire dei morti viventi, connotati da bruttezza, sporcizia, violenza, irrazionalità e mancanza d’individualità (proprio come le masse proletarie e migranti agli occhi del benpensante) fa seguito un processo evolutivo che mette in discussione la rigidità tra il “noi” e il “loro”, fino al ribaltamento più radicale. Differentemente da molti altri film di zombi, l’irruzione del mostruoso non si sana sparando in testa a tutti i morti viventi che ci si presentano davanti, per ricostruire poi una convivenza umana basata sugli assetti precedenti all’apocalisse. Da un punto di vista concettuale siamo anche oltre le avvincenti ibridazioni presenti in In the flesh e Z Nation. E.N.D. non ci permette più di dire chi siano i veri mostri. Gli zombi nel loro linguaggio non hanno dubbi: “Dalla nostra parte si sta meglio!”, dicono prima di mordere gli umani includendoli così nella loro comunità. Ma non c’è nessun manicheismo: la paura, il tradimento e la vigliaccheria appartengono anche al fronte della morte vivente. Ed è forse per questo che con gli zombi ci sentiamo a casa.

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