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Emil Cioran, Taccuino per stenografia (1937-1938), Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 66, euro 8,00

È il 1937. Un uomo di ventisei anni ritorna a Parigi. È romeno. Nella capitale francese è già stato nel 1935. A quell’epoca, a un amico scrive da profonde regioni dell’anima. E da una insolitamente funerea estasi vissuta in tutta solitudine. Confessa infatti che nella città francese «non ti mancano le cose che muoiono» e che comunque la capitale «non produrrà più vita». Afflitto da siffatto ferale sentimento, da una così amara inquietudine religiosa, quest’uomo [...]]]> di Neil Novello

Emil Cioran, Taccuino per stenografia (1937-1938), Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 66, euro 8,00

È il 1937. Un uomo di ventisei anni ritorna a Parigi. È romeno. Nella capitale francese è già stato nel 1935. A quell’epoca, a un amico scrive da profonde regioni dell’anima. E da una insolitamente funerea estasi vissuta in tutta solitudine. Confessa infatti che nella città francese «non ti mancano le cose che muoiono» e che comunque la capitale «non produrrà più vita». Afflitto da siffatto ferale sentimento, da una così amara inquietudine religiosa, quest’uomo sa però una cosa, vuole restare in città. E, tempo un paio di anni, tra il 1935 e il 1937 – non si saprà mai bene come – ottiene una borsa di studio. L’ente finanziatore è l’Istituto francese di Bucarest, mentre l’impegno del beneficiario è scrivere una tesi di dottorato.

Non scriverà nulla. Anzi, fin da subito sa che nulla avrebbe mai scritto. Voleva Parigi, voleva solo la Francia. Con una parte di soldi della borsa, sul boulevard Saint-Germain, da un connazionale compra una bicicletta da corsa. Nella mente, un disegno folle dietro cui scorge addirittura una personale e sovrumana possibilità: guarire. E così pedalare lontano, andare in bicicletta, non è proprio voler visitare la Francia. Correre nella vastità del territorio in realtà richiama solo un desiderio: continuare a pedalare. Decine, centinaia di chilometri battuti al mero fine di sudare, di faticare, di stancarsi fino allo sfinimento. In stato di veglia, quest’uomo pensa. Non è un sollievo né un privilegio: pensare l’ammala. Dalla sua “patologia” prova a difendersi. È possibile, ma solo attraverso una sorda, incessante attività. E c’è di più. Nottetempo, quando il sonno porterebbe requie, non dorme. Soffre acutamente d’insonnia. E in stato coatto di veglia continua a pensare. La coscienza è vigile e lui ne è tormentato.

Prima di approdare in Francia ha scritto un libro astralmente tragico, Al culmine della disperazione. In quest’opera così tenebrosamente luminosa leggiamo che «sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano giusto il poco che basta per vivere». Ecco perché pedalare per un centinaio di chilometri al giorno cancella l’atto di pensiero e stimola il sonno notturno. Perché pedalando si stanca e stancandosi dorme. Condannato dunque a uno sfinente, attivo nomadismo, e non solo per guarire ma per sperare una qualche quiete, il finalmente non pensante ciclista doma il compulsivo, bulimico pensatore. E il languente melanconico, il cervello alacremente all’opera, si perde nella vertiginosa corsa di un viaggiatore frenetico. Per pedalare, è ovvio, sacrifica tutto. Diserta le aule della Sorbona, non legge né scrive, non si dedica al lavoro per l’Istituto francese di Bucarest. La sua premura in fin dei conti è di natura auto-soteriologica. Sulle vie di Francia, lungo i litorali, ovunque è in bicicletta. Il suo è un mero mulinare di gambe. Talvolta, è vero, sosta, ma il meno possibile. Quando non è in sella, in azione, lo è altrimenti per mangiare e bere, visitare cimiteri o dormire tra i campi.

Quest’uomo è Emil Cioran. E non è del tutto vero, soprattutto nel suo autotelico tour giovanile, scriva proprio nulla. Qualcosa in verità appunta. Sono per lo più frammenti, aforismi, note filosofiche, brevi scritture liriche. E così, parola dopo parola, va componendo un esilissimo Taccuino per stenografia (1937-1938) in romeno. Per scrivere si affida alla lingua madre. L’opera, o meglio le tracce scritte di questi lampi brucianti non sono destinate alla pubblicazione né concepite come brogliaccio per uno studio futuro. Cioran scrive solo per tentare disperatamente, accanto allo sforzo fisico, un esercizio intellettuale di auto-terapia. Azione, scrittura e guarigione puntellano l’orizzonte di una condizione umana patita al presente e buia al futuro. Essa è anzitutto l’intima e incomunicabile realtà umana di chi scrive. Ma nel Taccuino è anche il tema fondamentale, l’ubi consistam di un pensiero certamente negato ma altrettanto inconfessabile. Chi appunta non oblia, traccia idee e tracciandole brandisce un rasoio contro tutto ciò da cui fugge: «Gli uomini sono degli idioti con sprazzi di stupidità. L’umanità è dovuta partire dal basso per non giungere neppure allo stato di idiozia!».

La nuance sociopatica di Cioran è solo apparente. Forse è del tutto falsa. Qui parla un nichilista. Non è, per quanto paradossale paia la relazione tra nichilismo e filantropia, un odiatore di umanità. E a dire il vero non vi è nulla di radicalmente patologico. La società, la vita sociale richiama al pensiero di Cioran un’immagine topica. È l’occasione di abdicare alla ricerca, di tradire o anche di sfuggire lucidamente all’illusione, ritenuta debole, dell’alterità umana. Il male dell’altro e la domanda di solitudine in Cioran richiamano una mera traiettoria autotelica. Quando confessa che «L’uomo fugge dagli uomini per poter incontrare se stesso», lo scrivente ripercorre idealmente – giusto per fissare due ante culturali – il cammino tra il «conosci te stesso» del tempio di Apollo e il concetto di «persuasione» in Carlo Michelstaedter. Guardare all’essere vuol dire decontaminare l’io, mondare anzitutto il se stesso sociale.

Nello Zibaldone di Leopardi, cui Cioran dedica grandi pagine in Fascinazione della cenere, leggiamo che l’«esser uomo buono» significa «guastarsi necessariamente nella società». Quando il romeno appunta che «L’universo non mi si addice», in realtà compie l’atto doloso di chi genera un incendio filosofico da un innocuo fuoco creaturale. Perché ciò che esiste, tutto ciò che ha esistenza, al di là della società è quella cosa che chiamiamo vita anche se essa appare un’«assurdità danzante». Per Cioran, la vita è nient’altro che uno «scheletro», l’ipostasi di un fantasma. Chi ha colto il non senso esistenziale (pagine della Fascinazione sono dedicate anche a Beckett), quella indipanabile massa che è l’assurdità di vivere, è anche uno che la lingua della vita l’ha intuita con tutto il suo feroce genio speculativo. È uno che ne ha compreso, per restare a Michelstaedter, l’immedicabile, coercitiva, tanatopolitica natura rettorica. La voce e la parola di vivere, per Cioran sono armate contro la beatitudine del silenzio. E il dolore del mondo, il patimento dell’uomo nasce e si perpetua dalla sua stessa natura vocale, dall’essere l’uomo linguaggio vivente e producente, dal non essere il mondo un muto deserto. Solo il «Silenzio» è «(sublime)» scrive Cioran. E il silenzio, prima di ogni cosa, è l’assenza dell’uomo all’uomo. Qui si sfiora qualcosa che fa pensare a un’idea contro-creaturale: «Se fossi stato Dio, avrei fatto tutto di me, tranne che un uomo».

Nulla si può realizzare per risolvere la condizione di essere un uomo. La «grazia» di cui Cioran parla in Al culmine della disperazione non è terrestre. Vi si fa accenno come a qualcosa che richiama l’«emancipazione dalla gravità», il gran sogno di darsi la possibilità, tutta ideale e immaginaria, di levitare, per non essere più un “peso”. E ciò per accertare, questo sì con sgomentante dolore, l’inutilità, la velleità di un tale desiderio: «Perché non volo, perché non mi spuntano le ali?». Avere coscienza di «non essere fatto per la vita» è esattamente sapere di non poter volare mai, esattamente metà della coscienza tragica cioraniana. L’altra metà, quella lucidamente intravista nella faglia di un pensiero ancora più assurdo, appare come una legge.

Dietro il piano soggetto-mondo, Cioran intravede un’altra forma negativa, il suo correlato spettrale: la linea mondo-soggetto. Si è e irriducibilmente si sta sulla terra. Per questo Cioran scrive che «in realtà è la vita a non essere fatta per me», è il mondo così com’è a essere straniero. Offuscando il presente, tale non condizione è una fiamma, un annientamento anche del tempo a venire. Come Mark Fisher lettore di Derrida, da uomo caduto nel tempo Cioran patisce un presagio, la nullità del presente terrestre come nostalgica testimonianza anche di un perduto futuro. Al culmine della disperazione come il Taccuino è scritto circa a vent’anni, gli stessi di Michelstaedter quando scrive La persuasione e la rettorica.

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