Zemlja i Volja – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/28/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-2/ Fri, 28 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77101 di Emilio Quadrelli

L’illegalità operaia

Nel 1974, per i tipi della Bompiani, usciva “Kamo. L’uomo di Lenin” (Milano 1974), un testo che aveva visto la luce due anni prima a opera di Jacques Baynac e che la prestigiosa casa editrice parigina Fayard aveva pubblicato con entusiasmo. In Italia il libro ha conosciuto una certa notorietà a fronte di una diffusione che ha finito con l’assumere tratti al limite della clandestinità e non ha mai avuto, neppure in maniera indiretta, una qualche legittimazione dal ceto politico di sinistra allora egemone. Sia l’intellettualità di sinistra che l’insieme dei ceti politici, e questo vale [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’illegalità operaia

Nel 1974, per i tipi della Bompiani, usciva “Kamo. L’uomo di Lenin” (Milano 1974), un testo che aveva visto la luce due anni prima a opera di Jacques Baynac e che la prestigiosa casa editrice parigina Fayard aveva pubblicato con entusiasmo. In Italia il libro ha conosciuto una certa notorietà a fronte di una diffusione che ha finito con l’assumere tratti al limite della clandestinità e non ha mai avuto, neppure in maniera indiretta, una qualche legittimazione dal ceto politico di sinistra allora egemone. Sia l’intellettualità di sinistra che l’insieme dei ceti politici, e questo vale sia per coloro i quali appartenevano agli istituti tradizionali del movimento operaio, sia per quel nuovo ceto politico formatosi dentro la galassia della nuova sinistra post ’68, operaisti compresi, cercarono di archiviare in fretta e furia quel testo che, raccontando semplicemente la biografia di un bolscevico di prim’ordine, faceva crollare tutta una narrazione tossica su Lenin e i bolscevichi fattasi nel tempo tanto egemone quanto assoluta.

Con ogni probabilità se Kamo non fosse stato l’”uomo di Lenin”, il libro avrebbe conosciuto destini diversi. Se, per ipotesi, Kamo fosse stato un bandito tout court, oppure un anarchico o un socialista rivoluzionario avrebbe potuto essere incorniciato e magari vezzeggiato come una delle tante figure romantiche che attraversano i periodi rivoluzionari, ma che hanno avuto ben poca incidenza sulla rivoluzione. Poco più di una nuance irregolare nell’ordinato corso degli eventi che, nelle narrazioni che si sono imposte, appare come il frutto di un centro organizzativo degno della Spectre tanto che, in tale ottica, persino un testo in presa diretta come I dieci giorni che sconvolsero il mondo1 finisce con l’apparire leggermente apocrifo.

In quell’incredibile reportage, infatti, Reed mostra come al di là dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, la pianificazione dell’insurrezione non andava molto oltre e come piegare a favore dell’insurrezione gran parte degli eventi furono iniziative non pianificate di gruppi di operai e soldati i quali, se sapevano cosa fare, lo sapevano politicamente e non perché vi fosse un preciso piano di guerra accuratamente studiato a tavolino. In tutto ciò, però, non vi era improvvisazione poiché, almeno una parte di questi, aveva maturato una non secondaria familiarità con le questioni militari grazie al mai venuto meno apparato militare dei bolscevichi oltre che dei socialisti rivoluzionari e degli anarchici con i quali, al di là delle non secondarie differenze politiche e teoriche, i bolscevichi, su diversi piani operativi, cooperarono senza impacci di sorta.

In anni e anni di lotta e combattimento il partito dell’insurrezione aveva costruito quadri militari in grado di gestire lo scontro armato con una certa professionalità e lo aveva fatto, specialmente dal 1905 in poi, senza settarismi di sorta verso l’ala rivoluzionaria e militare dei socialisti rivoluzionari e gran parte del movimento anarchico. Una storia che tutte le chiese comuniste sorte sul corpo di Lenin, hanno velocemente prima posto tra parentesi e poi cancellato dalla storia. Ma torniamo a Kamo.

A lui e alle sue gesta incoscienti si sarebbe potuto guardare con indulgenza e persino simpatia perché queste non avrebbero scalfito di una virgola l’immagine perbenista e bigotta che il movimento comunista ha voluto dare di Lenin e dei bolscevichi. Se Kamo fosse stato l’altro avrebbe potuto essere incorniciato come frutto esotico e come tale essere facilmente archiviato, ma Kamo era un bolscevico a tutti gli effetti, nasce bolscevico e non ha mai avuto momenti di tentennamento e, per di più, il suo agire è sempre in piena sintonia con Lenin.

La vita di Kamo è costellata di rapine, estorsioni, furti, evasioni (compiute o procurate), contrabbando per arrivare, in alcuni frangenti, all’attività di gigolò. Queste attività, completamente sponsorizzate da Lenin, fecero parte della sua biografia rivoluzionaria ma, aspetto forse ancora più censurabile e riprovevole per coloro che avevano fatto del perbenismo borghese la propria linea di condotta, Kamo è responsabile di una innumerevole serie di omicidi politici. Di quanti poliziotti, uomini del regime e spie passarono a miglior vita per opera di Kamo si è persino perso il conto. Una serie di crimini anche questi, però, consumati con il pieno consenso di Lenin.

Tutto ciò poneva più di un problema agli intellettuali e ai ceti politici che, di Lenin, si disputavano le spoglie. Come possono militanti e intellettuali che si presentano con un moralismo a mezzo tra i Mormoni e i Testimoni di Geova ipotizzare, anche solo alla lontana, di avere qualche cosa a che spartire con Kamo? Come possono militanti e intellettuali, il cui bigottismo ha poco o nulla da invidiare all’aria di sacrestia, trovarsi minimamente a proprio agio con un personaggio simile e la sua storia? Impossibile il solo coltivarne l’idea. Ma, ancor più, come possono militanti e intellettuali del tutto asserviti al legalitarismo e il cui orizzonte, andando al sodo, è il raggiungimento di una qualche ben retribuita postazione politica, amministrativa o accademica, coltivare una qualche similitudine con chi cammina costantemente all’ombra del patibolo? La risposta è pura retorica.

Non per caso Kamo sfondò tra gli uomini infami2 ovvero dentro quelle generazioni operaie, studentesche e proletarie che, a partire dalla fine degli anni sessanta e per tutti i settanta, osarono portare l’assalto al cielo. Solo tra le schiere dell’altro movimento operaio, che poi forse tanto altro non era, Kamo andò a ruba. Questa generazione in Kamo trovava due cose: da un lato un modello da ritradurre nel presente; dall’altro quella condizione anonima propria di quelle generazioni così come lo era stata per Kamo.

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg3 quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale.

Certo, la storia è storia di lotte di classe e la storia fatta dalle masse non è mai una storia nobile. L’Angelo della storia si staglia costantemente nell’agire delle masse ed è un angelo che coniuga speranza, vendetta e ben poca pietà, su ciò sembrano concordare tutti ma poi, quando i tumulti si placano le masse devono tornare nell’ombra e gli unici a avere diritto di cittadinanza sulla scena storica, sono sempre e comunque i grandi individui. Poco importa se, come realisticamente aveva detto Napoleone, le rivoluzioni sono sempre il frutto di una ideologia che trova delle baionette, queste baionette devono sempre essere riposte nell’ombra e del protagonismo delle masse non deve rimanere traccia o meglio, queste tracce, possono essere solo la narrazione di qualcuno legittimato a rivestire i panni dell’individualità.

Sono i tanti Juan di Giù la testa a fare la storia e le rivoluzioni, sono i poco dotti appartenenti al Mucchio selvaggio, due film che non per caso hanno fatto da sfondo alla storia degli uomini infami, i quali, di sovente, sono determinanti nel corso degli eventi rivoluzionari, ma i cui destini rimangono, quasi sempre, confinati nel mondo delle cose e difficilmente ottengono lo sdoganamento per quello delle parole. A ben vedere la battaglia per il linguaggio rappresenta pur sempre la battaglia finale della lotta di classe. Al raggiungimento di questa meta il bolscevismo aveva contribuito non poco, la poca recezione che di ciò si ebbe in occidente contribuì a rendere in gran parte vano questo sforzo. Di tutto questo le vicende di Kamo ne sono tanto un’ottima esemplificazione quanto una sintesi eccellente.

Kamo, infatti, non sortì grandi successi neppure tra l’intellettualità rivoluzionaria poiché, in lui, vedevano l’erompere di quelle masse che, a un certo punto, avrebbero iniziato a fare da sé, senza lezione. Insomma Kamo doveva rimanere nell’ombra e la sua storia relegata nel folclore che, in qualche modo, ogni movimento rivoluzionario si porta appresso. Come si è detto, invece, Kamo suscitò entusiasmi entro quella massa operaia e proletaria propria dell’autonomia con la a minuscola che, per quanto poco colta o forse proprio per questo, era giunta alle stesse conclusioni di von Clausewitz ovvero che la guerra è la continuazione della politica sotto altra forma e che, per altro verso e sulla base della semplice esperienza, sapeva che le pratiche illegali erano tutte interne alla condizione operaia e proletaria ancora prima che essere patrimonio del movimento comunista.

Migliaia di giovani militanti, proprio nel momento in cui Kamo ritrovava una qualche notorietà stavano per seguirne le orme. In lui trovarono sia un modello che una conferma: l’illegalità era il qui e ora della lotta politica e non qualcosa di continuamente posticipato a un non meglio precisato momento pre-insurrezionale o, per altro verso, al mitologema di un’epoca, la Resistenza, tanto eroico quanto definitivamente archiviato. Kamo era il presente, Kamo era il loro noi.

Per un breve lasso di tempo il brigante del Caucaso e la sua storia tornarono prepotentemente in auge e la polvere accatastatasi sul suo faldone storico venne rimossa. Un nuovo raggio di sole penetrò nell’asfittico mondo comunista. Contro il plumbeo grigiore dei vari funzionari di partito, anche se solo per breve tempo, irrompono nuovamente i colori forti della rivoluzione. Alla tristezza della vita di partito si contrappone la gioia della battaglia di strada. Kamo è l’uomo delle barricate, Kamo è l’uomo degli espropri, Kamo è l’uomo della clandestinità ma che, paradossalmente, vive una vita densa di relazioni sociali. Kamo è l’avventura della rivoluzione. Una generazione, che della rivoluzione e dell’avventura ha fatto la sua ragione di vita, non poteva fare altro che riconoscersi in lui ma, ben presto, una cortina di ferro calò su di lui. Come tutto ciò che è scomodo venne semplicemente rimosso.

Certo la rimozione di Kamo viene da lontano. Si deve a Stalin, suo padre spirituale e formatore politico, il silenzio che è calato su di lui. Probabilmente, nel momento in cui l’Unione Sovietica si accingeva a essere riconosciuta come una delle potenze internazionali, sembrava il caso di concedere qualcosa al bon ton della politica internazionale ponendo in archivio l’imbarazzante passato del suo capo politico e del suo ministro degli esteri Livtinov il quale, infatti, non ha una biografia molto dissimile da quella di Kamo. Per questioni di immagine, quindi, Kamo finì con l’essere riposto nell’ombra. Ma questa rimozione che potremmo definire tattica finì ben presto con il farsi strategica nel senso che, insieme a Kamo, a essere rimossa è tanto la storia del bolscevismo, quanto la teoria politica di Lenin. Questo pare essere il nocciolo della questione.

Il bandito del Caucaso non è la nuance naif del bolscevismo e il suo rapporto con Lenin non è il pedaggio pagato da questi alla memoria del fratello, bensì l’essenza stessa del bolscevismo. Parlare di Kamo, pertanto, significa parlare della teoria politica leniniana e del partito dell’insurrezione, vuol dire liberare la storia del bolscevismo dal perbenismo in cui è stata costretta ma è anche, e soprattutto, fare i conti con il pop ulismo e la sua messa al bando dalla narrazione comunista. E con ciò torniamo al senso di questa apparente digressione perché non poche sono le cose, o le affinità elettive, che legano Kamo con i soggetti operai artefici de “La classe”. Anche in questo caso siamo obbligati a una sostanziosa digressione storica la quale, almeno per chi scrive, ha non poca attinenza con la materia in oggetto.

Per chiunque conosca minimamente la storia della Russia prerivoluzionaria è difficile, leggendo la biografia di Kamo, non andare con la mente al populismo o, per lo meno, volgere lo sguardo verso la Narodnaja volja4. Per molti versi il populismo è stato oggetto di una rimozione politica e storiografica da parte del movimento comunista non poi così dissimile da quella conosciuta da Kamo. Una rimozione che ha avuto più padri: certamente Stalin, come ha ben ricostruito Vittorio Strada5, ma anche tutte le varie anime che, pur da posizioni differenti, si sono contese il titolo di marxisti ortodossi. Tutti, in qualche modo, si sono sentiti in dovere di tracciare una linea di demarcazione quanto mai rigida e solida tra il populismo e Lenin.

In realtà furono proprio i marxisti ortodossi dell’epoca, i marxisti legali, i menscevichi in Russia e la quasi totalità della socialdemocrazia europea, a coltivare non pochi dubbi sulla contraddittoria presa di distanza di Lenin dal populismo. Di ciò, tutto il dibattito sorto a ridosso del Che fare?, ne è una esemplificazione quanto mai esaustiva6. Dubbi che avevano più che una ragione a essere espressi. Con buona certezza, il giudizio di Lenin nei confronti dell’orizzonte teorico e analitico del populismo non lascia dubbi: il populismo è il tentativo di rendere eterno il mondo di ieri, cioè di non cogliere le trasformazioni economiche e sociali capitalistiche che hanno investito anche l’impero zarista. Aspetti che, per molti versi, la stessa Narodnaja volja aveva iniziato a cogliere nel momento in cui, in rottura con la Zemlja I Volja7, spostò la sua attenzione dalla campagna alla città, dai contadini agli operai e assunse la dimensione della rivoluzione politica come asse centrale del suo agire.
Le vestali delle varie ortodossie comuniste riverseranno una parte di queste accuse, pari, pari, nei confronti dell’autonomia e blanquismo e terrorismo populista, in particolare, saranno quelle maggiormente gettonate. Lo farà il PCI, ma anche tutte le sette marxiste – leniniste insieme ai loro acerrimi nemici bordighiani e trotskyisti formando, di fronte al movimento dell’autonomia operaia, una sorta di Santa Alleanza simile a quella messa in campo, da altri conservatori, per scongiurare lo spettro della Grande rivoluzione.

Colpisce, in questo fronte unico dell’ortodossia, il medesimo ostracismo nei confronti del populismo e il sostanziale convergere di giudizi nei suoi confronti, giudizi che, basta leggerli, sono del tutto estranei al pensiero politico di Lenin il quale, soprattutto nei confronti della Narodnaja Volja, aveva espresso valutazioni tutt’altro che negative e, semmai, è stata la Zemlja I Volja a essere oggetto delle sue maggiori critiche. Per molti versi, infatti, della prima Lenin e la frazione bolscevica si considerarono i naturali eredi, mentre, la seconda, è sicuramente riconducibile a Pleckanov e alla frazione menscevica.

Far cadere nell’oblio il populismo di Lenin è stato un passaggio pressoché obbligato per tutti i marxisti europei dagli indirizzi più disparati poiché, il non farlo, avrebbe comportato il dover fare i conti con tutta la loro ossatura teorica la quale non era mai riuscita a fare proprio il concetto di inimicizia assoluta, concetto che, invece, è stato il cardine di tutta la teoria politica leniniana ed è un cardine che non poco deve alla tradizione populista così come, il rivoluzionario di professione, che tanto scandalo finì con il produrre in occidente, è tutto tranne che una invenzione di Lenin il quale non fece altro che portare all’interno del movimento operaio russo quanto messo a punto dal populismo e in particolare dalla Narodnaja Volja.

Certo in ciò è difficile non scorgere dei tratti propri del giacobinismo, del resto Lenin rivendicò sempre la obiettiva continuità tra l’ala estrema della Grande rivoluzione e il movimento comunista, ma è proprio questo a renderlo incompatibile e incomprensibile all’insieme del marxismo europeo. Lenin non rigetta il populismo, o almeno alcuni suoi aspetti, ma li modella dentro ciò che sarà il bolscevismo e questo per gli europei è qualcosa di incomprensibile, così come del giacobinismo Lenin riprende interamente l’esercizio del terrore e la costruzione della milizia proletaria e popolare e il decisivo tratto del disprezzo per il parlamentarismo il quale, nel contempo, era diventato il punto cardine dell’intero movimento operaio europeo.

Dalla Narodnaja Volja riprende e recupera in pieno il primato della politica e del politico, ovvero della totale compenetrazione di politico e militare, tanto che non è difficile osservare come, per molti versi, la polemica che sta alla base del Che fare? non sia poi così distante da quella che aveva fatto da sfondo alla rottura tra Narodnaja Volja e Zemlja I Volja. Ma non sono solo questi i legami tra Lenin e la Narodnaja Volja, difficile non vedere come da questa egli erediti non solo la centralità della città e degli operai, in contrapposizione alla campagna e ai contadini, cosa che lo accomunava a tutte le tendenze socialiste, ma di questi faccia interamente sua la necessità della centralizzazione, della cospirazione, della specializzazione dei militanti e di quanto risulti impensabile condurre una battaglia contro il mostro statuale senza la formazione di quadri politici complessivi, totalmente dediti alla rivoluzione, un tratto che è proprio del populismo russo terrorista. Questi erano temi che la Narodnaja Volja aveva posto nel suo orizzonte. Lenin li fece interamente propri, li rielaborò e li sviluppò all’interno di ciò che prese il nome di bolscevismo. Lo stesso terrorismo da Lenin non fu mai abiurato, ma ricondotto dentro l’azione di partito.

Per farla breve, quindi, mentre la Narodnaja Volja finì con il subordinare il politico al militare, inteso come pratica terroristica, Lenin giunse alla concettualizzazione del politico come un ambito in cui politico e militare sono del tutto complementari8. Di ciò si avrà la migliore esemplificazione nel 1905 quando, di fronte agli eventi insurrezionali e al coevo dualismo di potere in atto, Lenin sostenne che occorreva usare anche le sale da tè per fare agitazione e propaganda ma allo stesso tempo fabbricare il maggior numero possibile di bombe a mano e asserì inoltre che occorreva dare vita alle più ampie formazioni di massa strutturate in nuclei di combattimento, il cui onere doveva essere quello di difendere gli organismi legali, continuamente sotto attacco, disarticolare gli apparati statuali, assaltare le prigioni, espropriare gli arsenali della polizia e dell’esercito, adoperarsi per l’armamento di massa, addestrarsi e addestrare all’uso delle armi, incalzare il nemico da ogni dove.

In tutto questo il volantino agitatorio, il giornale propagandistico, il pamphlet teorico sono del tutto complementari alle squadre proletarie che allargano, difendono, impongono il potere operaio e i suoi decreti. Qui Lenin riprende per intero il terrorismo populista, in funzione del dualismo di potere in atto. Legalità e illegalità, politica e guerra, lavoro teorico e combattimento sono sempre un et et. Non si dà l’uno senza l’altro. Con la sola attività legale si scivola nel democraticismo opportunista, con la sola pratica illegale si approda inevitabilmente a un militarismo fine a sé stesso. È un passaggio che sicuramente si lascia alle spalle i limiti della Narodnaja Volja ma non ne è certamente un ripudio. Un passaggio filosofico e non semplicemente politico poiché, proprio in ciò, vi è la precisa concettualizzazione del nemico e della inimicizia assoluta, un passaggio che apre sulla guerra civile internazionale e la borghesia ciò lo comprenderà appieno o, almeno, sicuramente meglio dei marxisti occidentali i quali, proprio su ciò, si rifiutarono di seguirlo.

Un rifiuto e una non comprensione di Lenin che finì con l’accomunare riformisti e rivoluzionari. La stessa Rosa Luxemburg, sulla genuinità rivoluzionaria della quale non vi sono certo ombre di sorta, non riuscì infatti a seguire Lenin sino in fondo e finì con pagare con la vita la non comprensione della lezione leniniana. Prigioniera, suo malgrado, del mefitico legalitarismo socialdemocratico non comprese, a differenza di Lenin, il senso della inimicizia assoluta che la guerra di classe comporta e, nel momento in cui la forma – guerra prese il sopravvento sulla forma – politica, si ritrovò, insieme a tutta l’ala rivoluzionaria del movimento tedesco, del tutto spiazzata e impotente di fronte alle armate della controrivoluzione ma non solo. Proprio il richiamo a costei ci consente di focalizzare al meglio il portato della teoria leniniana e come la pratica dell’altro movimento operaio si mostrò in grado di farla rivivere, sicuramente sotto altra forma, dentro le lotte operaie degli anni sessanta.

La Luxemburg pagò con la vita la non comprensione della socialdemocrazia come forza politica nemica cosa che, invece, Lenin non solo comprese teoricamente ma tradusse immediatamente in pratica politica e organizzativa. A caratterizzare il bolscevismo, per prima cosa, è stata soprattutto la capacità di ascrivere, senza mezze misure, il riformismo, l’opportunismo e il democraticismo nell’ambito dell’inimicizia. Ciò che Lenin e i bolscevichi, praticamente da soli, comprendono è la relazione di guerra che fa da sfondo alle divergenze teoriche tra le anime del movimento socialdemocratico. I riformisti non sono socialisti più morbidi e mansueti, non sono tali perché i loro animi sono poco inclini all’uso delle armi, il modo deciso e risoluto con il quale combatteranno al fianco dei bianchi contro la rivoluzione, del resto, lo dimostrerà ampiamente, ma sono forze borghesi infiltrate nel campo operaio. Sono, a tutti gli effetti, hostis non inimicus poiché incarnano interessi e prospettive di classe ben precise e codificate9. Tra riformisti e rivoluzionari non vi è alcun possibile et et, ma solo un immodificabile e mortale aut aut. Questa consapevolezza teorica armò il partito di Lenin consentendogli di vincere mentre fu questa assenza di chiarezza teorica a risultare fatale per intere schiere di rivoluzionari dell’Europa occidentale.

(2continua)


  1. J., Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Rizzoli, Milano 2017.  

  2. Cfr. M., Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009.  

  3. R., Luxemburg, Sciopero generale, partito e sindacato, Samonà e Savelli, Roma 1970.  

  4. Cfr. F., Venturi, Il populismo russo, 2 voll. Einaudi, Torino 1952.  

  5. V., Strada, Introduzione, in V. I. Lenin, Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  6. Al proposito si veda l’edizione integrale di V. I., Lenin, Che fare? Einaudi , Torino 1970  

  7. Al proposito si veda, in particolare, V. A., Tvardovskaja, Il populismo russo, Editori Riuniti, Roma 1970.  

  8. Su questo aspetto si veda, in particolare, C., Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.  

  9. C., Schmitt, Teoria del partigiano, cit.  

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Donne, amori, fiction, rivoluzioni nell’800 europeo https://www.carmillaonline.com/2016/10/12/donne-amori-fiction-rivoluzioni-nell800-europeo/ Wed, 12 Oct 2016 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33680 di Gianfranco Marelli

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La storia e la letteratura hanno quasi sempre un solo genere: il maschile. Pure è delle donne e dei loro tormentati amori che soprattutto si racconta. Tuttavia c’è stato un periodo nella storia e nella letteratura europea in cui le donne e i loro amori non hanno fatto solo da sfondo alle eroiche [...]]]> di Gianfranco Marelli

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Lorenza Foschini, Zoé. La principessa che incantò Bakunin, Mondadori 2016, pp. 190, € 20,00
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La storia e la letteratura hanno quasi sempre un solo genere: il maschile. Pure è delle donne e dei loro tormentati amori che soprattutto si racconta. Tuttavia c’è stato un periodo nella storia e nella letteratura europea in cui le donne e i loro amori non hanno fatto solo da sfondo alle eroiche imprese maschili e ai loro intrepidi piani per la conquista del potere ed il suo solido mantenimento. Certo, ai più verrà in mente il movimento delle suffragette volto a chiedere il suffragio femminile nel Regno Unito nella seconda metà dell’800; ma non è di questo movimento che qui si tratta, bensì di un movimento dai connotati tipicamente maschili: il nichilismo populista russo e la sua letteratura.

Un movimento che, al contrario, nel rivendicare al proprio interno l’uguaglianza di genere (dal momento che le donne ne costituirono sicuramente un aspetto fondamentale), a ragione meriterebbe di essere affrontato – come ha svolto la studiosa Martina Guerrini nel suo libro Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine ‘800 – per chiarire non solo la genealogia storica e semantica del termine “nichilismo” fra mille difficoltà ed incertezze, ma anche «collocare nel tempo e nello spazio l’uso di nigilitska, il sostantivo femminile».

Sì, perché ripercorrendo le vicissitudini storico/letterarie del nichilismo russo è impossibile non rilevare quanto la questione femminile sia stata al centro della pratica e della teoria di quell’ “andata al popolo” che contrassegnò nel profondo i cambiamenti sociali e giuridici della Russia zarista a partire dagli anni ’50-’60 del XIX secolo. Non solo infatti gli attentati allo zar e ai suoi governatori videro le donne protagoniste in prima persona, ma sia il movimento nichilista, quanto il movimento populista devono la loro diffusione fra l’intelligencija grazie ad un’attenta politica in favore della condizione delle donne russe che determinò un’iniziale solida unione d’intenti fra le femministe riformiste, le nichiliste e le militanti delle prime organizzazioni populiste. Del resto la situazione delle donne nella Russia zarista era fra le più umilianti, regolamentata da leggi repressive ed oppressive se solo si pensi al fatto che perfino durante il periodo delle grandi riforme – iniziato nel 1861 con l’abolizione della servitù della gleba compiuta da Alessandro II – la legislazione della Russia patriarcale prevedeva che le ragazze rimanessero nella casa paterna fino al matrimonio e, una volta sposate, avevano l’obbligo di risiedere sotto lo stesso tetto coniugale, in quanto le donne erano iscritte nel passaporto interno dei mariti. In tal modo la donna non aveva nessuna possibilità di viaggiare, di trovare un impiego, di istruirsi presso istituti pubblici o privati, e questo sino al 1914 quando il passaporto interno fu abolito. Una situazione di profonda schiavitù che risaliva fino ai tempi della obščina, la tradizionale comunità contadina russa in cui pur in assenza della proprietà privata dal momento che la terra era del villaggio (derevnja) la famiglia era patriarcale e vigeva «la tirannia contro le donne del dvor [il nucleo familiare allargato], oggettivate sia per la valorizzazione economica (attraverso la distribuzione delle mansioni) che per quella riproduttiva e sessuale. Esisteva un’usanza (snochačestvo) – sottolinea Martina Guerrini nel suo studio – risalente ai tempi antichissimi, secondo la quale il capo e padrone del dvor (bol’šak) poteva avanzare la pretesa di avere rapporti sessuali con le giovani nuore in assenza dei mariti».

Contro questa proprietà esclusiva dei maschi nella vita reale si sviluppa una fiorente produzione letteraria e filosofica già a partire dagli anni ’40-’50 sulle riviste russe che, raggiungendo in molti casi le 500 pagine, daranno spazio ad interi romanzi a puntate in cui la riforma agraria, la questione femminile, la libertà dei sentimenti, l’instaurarsi di nuovi rapporti fra uomini e donne, saranno il volano che consentirà al variegato e complesso mondo femminile presente nei movimenti liberali e radicali di quel periodo storico di iniziare il lento cammino verso l’emancipazione della donna. Scrittori come Ivan Sergeevič Turgenev costituiranno infatti uno dei capisaldi della crescita del nichilismo; infatti proprio attraverso il suo romanzo più famoso Padri e figli, pubblicato per la prima volta nel 1862 sulla rivista «Il messaggero russo», sostiene che «un nichilista è un uomo che non si inchina dinnanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato», dopo che un suo precedente romanzo, Rudin del 1857, aveva preso di mira “l’uomo superfluo” cioè l’idealista buono solo a parole, armato di idee propositive, ma nella pratica debole e inetto. Una vera e propria chiamata alle armi [delle belle lettere] già precedentemente dichiarata da Aleksandr Ivanovič Herzen con il suo Di chi è la colpa?(1845/47) in cui aveva messo sotto accusa la morale dominante rivendicando la sua esperienza amorosa di un menage à trois, tema subito ripreso nel romanzo Che fare? di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, pubblicato nella primavera del 1863 nei numeri 3, 4 e 5 del «Sovremennik», il giornale sul quale l’autore aveva proclamato le proprie idee democratiche e rivoluzionarie prima di essere arrestato, finendo nella Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo.

Sono proprio questi romanzi/racconti – vere e proprie fiction dell’epoca – a favorire la diffusione del romanticismo e dell’idealismo tedesco nella Russia degli anni ’40, coinvolgendo in un serrato dibattito i circoli letterari e contando sul prestigio di critici letterari come Belinskij, di filosofi come Herzen, e del suo grande amico, il poeta rivoluzionario Nikolaj Platonovič Ogarëv, diventati il ricettacolo in patria e in esilio dell’opposizione all’autocrazia zarista, nonché fonte d’ispirazione per una nuova società nella quale il socialismo francese di Charles Fourier ben si amalgamava con l’uguaglianza di genere e la libertà individuale di matrice nichilista. Tali ideali si trasformarono in breve tempo nei valori basilari del processo di emancipazione femminile condotto in prima persona dalle militanti nichiliste e populiste, impegnate nel rivendicare il diritto all’istruzione, la libertà di sentimento, l’autonomia nelle scelte della propria vita, l’uguaglianza fra i sessi. Comportamenti pratici che la nigilitska manifestava apertamente attraverso l’abbigliamento e il suo aspetto provocatoriamente contrario all’immagine della “signorina pane-e-burro” delle eteree giovani dame in abiti di mussolina e crinoline d’importazione. Infatti – ci descrive Martina Guerrini, ammiccando ad una antesignana divisa black-bloc – «abbandonate le mussole, i nastrini, le piume, gli ombrellini della signora russa, la nichilista nel 1860 indossa semplicemente un abito di lana completamente nero, che scivola dritto e ampio dalla vita, con i polsini e il colletto bianchi. I capelli sono tagliati corti e portati lisci, abitualmente indossa occhiali scuri, prevalentemente blu». Un atteggiamento pratico e coerente con lo strumento dei “matrimoni fittizi” – diffusi fra i giovani nichilisti degli anni ’60, «attraverso i quali uomini solidali sposavano giovani donne per strapparle alla tirannia familiare, affrancandole anche dal matrimonio una volta ottenuta la loro “liberazione”» – che minava radicalmente una delle principali istituzioni del regime zarista e della chiesa greco ortodossa, la famiglia, al punto da dover coinvolgere a fini repressivi la Terza sezione della Cancelleria privata di sua Maestà Imperiale (istituita nel 1826 con il compito di spiare gli stranieri residenti in Russia, i partiti stranieri considerati sovversivi e … di interessarsi delle petizioni di separazione), nota come polizia politica particolarmente attenta al controllo delle organizzazioni clandestine populiste come Zemlja i Volja (Terra e Libertà).

Così tratteggiato l’ambiente delle nichiliste e populiste russe, un ambiente in cui i romanzi e i saggi filosofici si trasformeranno in “manuali di vita” atti a comprendere il passato e ad essere fonte di profezia per il futuro, il libro di Martina Guerrini si sofferma su alcune figure femminili che hanno influenzato il movimento, imprimendovi il carattere, le idee, i sentimenti: Vera Ivanovna Zasulič, Sof’ja L’vonovna Perovskaja, Ol’ga Spiridonova Liubatovič, Vera Nikolaevna Figner, Olimpia Kutuzova Cafiero. Sebbene Vera Zasulič sia indubbiamente considerata la donna che maggiormente influenzò l’ambiente populista indirizzandolo a compiere attentati contro gli autocrati zaristi, il libro della Guerrini indaga approfonditamente la figura di Olimpia (Lipa) Kutuzova. Vera Zasulič ferì gravemente, il 24 gennaio 1874, il governatore di Pietroburgo, generale Trepov, responsabile di aver causato la morte in carcere del populista Bogoljubov (frustato in carcere fino a farlo impazzire, in quanto non si era tolto il berretto innanzi a lui); fu però assolta dal tribunale civile suscitando sorpresa ed entusiasmo nell’ambiente liberale europeo – mentre Olimpia Kutuzov fu protagonista in patria e all’estero di una spericolata attività politica che la condusse ad incontrarsi con il gotha del movimento rivoluzionario di fine ‘800, a partire da Mikail Bakunin, Carlo Cafiero (che sposò nel 1874: un legame difficile, vissuto a distanza, e spezzato dalla pazzia del coniuge) e gli internazionalisti italiani con i quali partecipò ad azioni sovversive, quali la tentata insurrezione romagnola del ’74 , in cui Lipa ebbe l’incarico di precedere Bakunin e «portarvi della dinamite cucita in un asciugamano avvolto attorno alla vita». Un incarico che – ricordano i suoi Mémoires, riportati nel libro della Guerrini – rischiò di farla saltare in aria alla stazione di Milano, sorpresa da un violento temporale i cui tuoni avrebbero potuto far detonare la dinamite e decimare la folla dei viaggiatori attorno a lei; al ché «per evitare la strage – sostiene la protagonista – uscii nella piazza e, con l’angoscia al cuore, attesi l’istante in cui la dinamite sarebbe scoppiata, e io assieme a essa». Fortuna volle che non accadde nulla e la dinamite fu gettata nel Reno, dal momento che l’insurrezione non avvenne neppure.

Sicuramente l’incontro con l’anarchico Bakunin, avvenuto a Locarno nella primavera del 1873, segnò profondamente la formazione politica e umana di Olimpia al punto che l’autobiografia inizia proprio dall’incontro con il rivoluzionario russo, tracciandone un profilo delicato, affettuoso, attento soprattutto a difendere la parità fra i generi nei rapporti interpersonali. Scrive infatti Lipa: «Un giorno gli chiesi, per conto di due italiane che abitavano con noi [alla villa “La Baronata”, sopra Lugano acquistata con i soldi di Cafiero nel 1874, ultimo domicilio di Bakunin, della moglie Antonia e rifugio per molti rivoluzionari, ndr.] di intervenire sugli italiani affinché modificassero l’atteggiamento nei confronti delle loro mogli, viste generalmente in Italia come schiave. Bakunin trattò a lungo l’argomento e le sue parole suscitarono una forte impressione. In seguito le due italiane aderirono anch’esse al movimento rivoluzionario e una delle abitanti della Baronata prese parte, nel 1876, all’insurrezione nel Matese». Dettaglio che aiuta a comprendere meglio il carattere antisessista di Bakunin, già pienamente espresso nella sua opera principale Stato e Anarchia in cui denuncerà il valore “contro rivoluzionario” del patriarcato contadino, dove l’esercizio dispotico del padre, del marito e del fratello maggiore ha fatto della famiglia «la scuola della violenza e dell’istupidimento trionfante, della vigliaccheria e della perversione quotidiana al focolare domestico» [Feltrinelli, 1973, p. 246]. Queste idee lo condurranno a scrivere – nel programma dell’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, fondata a Berna nel 1868 durante il congresso della Lega per la Pace e la Libertà – quanto «l’Internazionale, mirando all’emancipazione di tutta l’umanità, con ciò stesso mira ad abolire lo sfruttamento di una metà dell’umanità da parte dell’altra». Richiesta di una completa uguaglianza fra i sessi, che sarcasticamente farà dire a Marx – incline a una visione tradizionalista dei rapporti fra maschio e femmina – quanto Bakunin sognasse «l’uomo ermafrodita!»

marelli-zoe E il ritratto di un uomo ermafrodita traspare inconsapevolmente nel libro di Lorenza Foschini Zoé la principessa che incantò Bakunin, una fiction di “passioni e anarchia all’ombra del Vesuvio” scritta da una delle note mezzobusto dei telegiornali di Stato con vena di gossip, scoop e frivolezze varie. Un peccato, perché la ricerca intrapresa dalla giornalista nell’approfondire la figura di Zoja Sergeevna Obolenskaja inseguendo per mari e per terre i suoi discendenti ancora in vita avrebbe consentito una trattazione storica, seppur romanzata, più vicina alla realtà dei fatti. Ma lontani sono ormai i tempi in cui la letteratura coincideva con il prolungamento della vita, essendo la vita un prolungamento della letteratura; i nostri sono tempi – direbbe Hannah Arendt – dove la società di massa non vuole la cultura, ma gli svaghi. E come un piacevole svago è la lettura del libro della Foschini, amabile nel condurci negli interni aristocratici napoletani, luoghi d’incontro della nobiltà europea affascinata dal grand tour d’Italie percorso da teste coronate e rampolli di antiche casate e della rampante borghesia, tutti affascinati dal pittoresco agreste paesaggio del sud mediterraneo. Del resto l’autrice nel descrivere l’ambiente blasonato della Napoli post-risorgimentale confrontandola con i bassi e con la vita contadina della vicina Ischia, un po’ s’immedesima avendo dalla sua una famiglia imparentata con i Caccioppoli, il cui famoso matematico Renato nacque dal padre Giuseppe e dalla sua seconda moglie, Sofia Bakunina, figlia del rivoluzionario russo che soggiornò per due stagioni (1866-1867) nell’isola Verde ospite della Principessa Obolenskaja, così che Lorenza Foschini e la sua dinastia erano soliti trascorrere le vacanze estive a Ischia nella gran villa di proprietà, nascosta dalla pineta.

Lorenza Foschini scrive, nell’introduzione al suo libro, di aver «scoperto che il periodo napoletano del nobile rivoluzionario sia stato uno dei più felici e produttivi della sua vita movimentata e finanziariamente stentata». Questi, fuggito rocambolescamente qualche anno prima dall’esilio siberiano assieme ad Antonia, la giovane polacca sposata di soppiatto quando era in cattività, e immediatamente ritornato sulle barricate dopo aver fatto scalo a San Francisco per approdare finalmente a Londra dai fraterni Herzen e Ogarëv, che in esilio erano diventati il faro dell’opposizione liberaldemocratica europea pubblicando il giornale «Kolokol» (La campana) – nel breve soggiorno ischitano aveva conosciuto la principessa Obolenskaja che gli consentì di ottenere una «straordinaria felicità», ospitandolo con la consorte ed altri amici nella sua sontuosa villa al mare. Qui ella si trovava per far cambiare aria alla terzogenita, Marusja, cagionevole di salute, ma soprattutto per stare lontana dal marito – Aleksej Vasilevič Obolenskij, governatore di Varsavia – del quale era insofferente e altresì desiderosa di trasferirsi all’estero per allontanarsi dalla società russa: «vocazioni abbastanza diffuse negli ambienti colti e aristocratici». Un quadro idilliaco, romantico e molto pittoresco, tratteggiato con il gusto dei particolari estetici e con lo spolvero di impressioni socio-psicologiche, in cui la miseria dei bassi napoletani scuote l’animo sensibile della Principessa al punto da spendersi per la causa rivoluzionaria, spendendo i propri soldi e allarmando lo Zar Alessandro II e la sua corte, tanto da sollecitare il marito e il padre – Sergej Pavlovič Sumarokov, uno degli uomini più influenti dell’Impero – a riportarla in fretta e furia in Russia.

Così la prima parte del romanzo si snocciola, presentandoci i protagonisti di una passione amorosa e rivoluzionaria, dove la rivoluzione sembra prevalere sull’amore, in cui “l’ermafrodita” Bakunin «si lasciava adorare, senza ricambiare» al punto da doversi difendere dalle attenzioni di due sorelle che – prima l’ una e poi l’altra – avrebbero voluto sposarlo, riuscendo a cavarsela «con grande abilità richiamandosi ad alti ideali che lo costringevano a rifiutare quello che definì “una passione ardente, tempestosa, legata ai sensi, non all’anima”. “No”, scriveva alla più insistente delle due, “la mia vocazione è un’altra … Voglio realizzare questo bell’avvenire. Voglio diventarne degno. Poter sacrificare ogni cosa a questo sacro scopo. Ecco la mia sola ambizione. Ogni altra felicità m’è preclusa!”». Di questa presa di posizione, scritta quando Bakunin aveva vent’anni, Lorenza Foschini arma il suo format letterario [a quando quello televisivo?] al fine di spiegarsi l’assurdo amore di un ultracinquantenne sdentato per una giovane sedicenne polacca conosciuta durante l’esilio siberiano, sposata e portata nei suoi peregrinaggi in giro per il mondo, comprese le ville Attanasio di Casamicciola e Arbusto di Lacco Ameno – prima del buen retiro a La Baronata – dove la povera Antonia annoiata, assisteva agli intimi intenti sentimental/rivoluzionari fra il marito e la nobildonna russa nel bel mezzo di passeggiate fino alle pendici dell’Epomeo, e nottate trascorse chine sullo scrittoio a dettare/copiare proclami rivoluzionari, lettere ai fratelli internazionalisti, articoli al giornale partenopeo «Libertà e Giustizia» per dichiararsi definitivamente un “anarchico”. Fortuna vuole che “ogni altra felicità” gli fosse preclusa, in modo che la giovane moglie seppe consolarsi con il giovane internazionalista Carlo Gambuzzi (che poi sposò, essendo il padre dei suoi figli, e che Bakunin altruisticamente riconobbe come propri al fine di alleviarli da un peso gravoso), e la Principessa ribelle non resistette alle amorevoli cure del fervente bakuninista Walerian Mroczkoski Ostroga, di ben undici anni più giovane e suo inseparabile compagno dal quale ebbe un figlio, Felix, che da grande convisse in unione libera con la figlia del noto geografo anarchico francese Élisée Réclus.

Ma la storia che vogliamo finire di raccontare affiora con più forza nella seconda parte del romanzo, poiché la trama vira su toni cupi e drammatici essendo la Principessa assillata dalle pretese del padre e del marito per riportarla docile e pentita in Russia, al punto da far leva sui cinque figli che secondo la legislatura zarista sono proprietà paterna e pertanto obbligati a raggiungerlo anche contro il loro desiderio di rimanere con la madre. S’inscena così la partenza di Zoé Obolenskaja dall’amata Ischia al fine di raggiungere la Svizzera, luogo più sicuro e apparentemente impermeabile alle pretese dello Zar di strapparle i figli, nonché ritrovo di molti esuli russi e rivoluzionari internazionali ai quali Bakunin affida la Principessa lodandone l’afflato rivoluzionario. Sono questi anni difficili e travagliati e la lotta tra marxisti e bakuninisti in seno alla Prima Internazionale non fa certo prigionieri, soprattutto perché la partita è il controllo dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, e la segreteria – fin dalla fondazione nel 1864, saldamente nelle mani di Marx – teme che le sezioni italiane, svizzere, belghe, spagnole sorreggano la visione federalista ed antiautoritaria degli anarchici bakuniani. Di questo e di altro si fa breve cenno, riportando lo scontro Marx/Bakunin nell’alveo di personalismi civettuoli e umori caratteriali da “prime donne” che offuscheranno l’amorevole passione di Zoé Obolenskaja per il nobile rivoluzionario russo, divenendo lei stessa «la figura di spicco, posizione a cui in effetti ha sempre aspirato, di quel mondo in continua ebollizione dei rivoluzionari che si raccolgono intorno a lei lusingandola ed esaltandola». Sia quel che sia, la storia prende una brutta piega per la pressione insistente dello Zar Alessandro II nei confronti del generale Obolenskij – «questo bigotto inginocchiato davanti a tutti i pope di Mosca e San Pietroburgo e prosternato davanti al suo imperatore» – che gli impone di diseredare la moglie e di recarsi in Svizzera per prelevargli con la forza i figli. Senza più un soldo e scoperto il suo rifugio segreto da un agente della III Sezione, Zoé Obolenskaja, la mattina del 17 luglio 1869, fu bruscamente svegliata nella sua casa dall’invasione minacciosa di «alcuni membri della prefettura e altri del Consiglio cantonale – dietro di loro, seminascosto, s’intravedeva il principe Obolenskij – [che …] si facevano largo a suon di spintoni entrando nella stanza dei ragazzi, intimando alla vecchia balia di non muoversi, e strappandoli dal letto ancora addormentati».

Non saremo certo noi a svelare lo svolgersi intricato della fiction che d’ora in avanti assumerà ritmi sempre più incalzanti e avvincenti; ci permettiamo però di rilevare alla giornalista Foschini e rivelare ai suoi appassionati lettori che sarebbe stato più elegante – oltre ad essere intellettualmente più onesto – non pretendere di render noto alcuno scoop, se per farlo si è costretti ad inventarselo di sana pianta. Il riferimento è all’affermazione che Lev Tolstoj si sia ispirato alla vicenda familiare tormentata di Zoé Obolenskaja per raffigurare nel suo grande romanzo Anna Karenina i personaggi di Anna e di Oblonskij. Perché se è lecito aspettarsi da una storia romanzata licenze stravaganti e fantasiose nel rispetto degli avvenimenti storici [e di ciò bisogna dar atto all’autrice del libro di aver mantenuto fede alla cronaca], spiace constatare l’imbroglio assai grossolano di attribuire patenti di paternità del tutto inesistenti, sebbene la vicenda del Principe Obolenskij che strappa i figli alla fedifraga Zoé, assomigli al dramma vissuto da Anna Karenina. Innanzitutto, com’è noto, fu lo stesso Tolstoj ad ammettere di essersi ispirato ad un fatto di cronaca: il suicidio per amore della convivente di un vicino dello scrittore a Jasnaja Poljana, Anna Stepanovna Pirogova, avvenuto il 6 gennaio 1871; secondariamente, all’onomatopea somiglianza dei cognomi Oblonskij/Obolenskij, non corrisponde affatto la somiglianza dei caratteri, essendo esattamente il primo (spaccone e impenitente sciupa femmine) il contrario del secondo (un timorato di dio, pavido e succube del volere altrui). Certo, si tratta di un piccolo peccato veniale. Sennonché dovendo noi trattare delle donne, degli amori, delle fiction e delle rivoluzioni nell’Europa dell’800 non siamo stati capaci di sorvolare su di un romanzo che – come ha ben documentato nel suo libro, L’istituzione del matrimonio in Tolstoj, Maria Zalambani, docente di letteratura russa all’università di Bologna – ha contrassegnato il pensiero e lo stesso processo di emancipazione femminile delle donne russe, caratterizzandone il dibattito sulle riviste e nei circoli letterari dell’epoca.

marelli-matrimonio Il saggio in questione – dal quale abbiamo tratto molti spunti e che ci ha consentito di focalizzare con più precisione il tema qui affrontato – è uno studio storico, sociologico, giuridico e letterario la cui tesi tende a dimostrare quanto il rapporto fra letteratura e società, nella Russia del XIX secolo, sia stato particolarmente fecondo. «Nell’impero zarista – scrive nell’introduzione al saggio Maria Zalambani – dove la società civile non si era sviluppata come nel resto dell’Europa e le iniziative e i movimenti sociali non erano riusciti ad incidere sull’opinione pubblica come in Occidente, le belle lettere venivano chiamate a rispondere a interrogativi di ordine filosofico, storico, sociale e artistico. Il romanzo russo dell’Ottocento, che oltrepassa i confini della semplice fiction e nelle cui pagine si dibattono tutte le questioni attorno alle quali ruota l’interesse dell’intelligencija, diventa in questo modo il sismografo del suo tempo». Questa visione letterarioocentrica, in una realtà sociale peraltro contrassegnata da un alto tasso di analfabetismo, ci conduce a considerare quanto la capacità di raffigurare realmente le tensioni e le problematiche vissute in una cerchia ristretta della popolazione possano condizionare comportamenti e mentalità dell’intera società, sapendo la cultura letteraria assorbire la realtà e addirittura prefigurarla in una fiction, contraddicendo l’assunto secondo il quale la vita va vissuta e non letta, in quanto la lettura della vita permette di viverla anticipandola negli scritti di autori. Soprattutto se questi hanno la forza espositiva e la potenza esplicativa dei grandi romanzieri russi.

Come abbiamo in precedenza osservato, i romanzi di Herzen, Turgenev , Černyševskij hanno avuto grande importanza nell’affrontare la questione femminile e il ruolo della donna nella società russa, al punto da influenzare il pensiero politico-filosofico del nascente movimento nichilista e populista, segnando il dibattito anche nel campo istituzionale e religioso, sorpresi dalla forza con la quale erano state messe in discussione i sentimenti, la sessualità, l’indipendenza della donna all’interno di un’istituzione sacra come il matrimonio. Una forza che la centralità della letteratura ha saputo esercitare con «forti “effetti di potere” sul pubblico e sulle strutture mentali dei lettori, trasformando l’arte da semplice specchio della realtà in produttrice di essa». Se pertanto l’analisi sociale trasse alimento dalla critica letteraria, è perché – ponendo la figura femminile come protagonista cardine della trama narrativa – obbligò i lettori e i critici ad una riflessione sul ruolo della donna nella società e in particolar modo sulla sua funzione produttiva/riproduttiva in seno all’istituzione familiare, sorgente vitale del sistema autocratico zarista e religioso. Infatti il matrimonio, l’educazione dei figli, l’amore fra i coniugi, il sesso, il tradimento assurgeranno a veri e propri grimaldelli per scardinare la società patriarcale e la sua cultura repressiva nei confronti delle donne, della loro autonomia all’interno della famiglia, della loro libertà di istruzione e sviluppo della propria personalità, da interessare trasversalmente l’intero mondo russo al punto che i romanzi – pubblicati a puntate sulle riviste letterarie – verranno letti e discussi criticamente quasi fossero «un vero e proprio programma politico per la trasformazione della società, un codice comportamentale per l’individuo, un modo di comprendere il passato della nazione e una fonte di profezia per il futuro».

Limpido paradigma sono i romanzi di Lev Nikolaevič Tolstoj ed in particolar modo Felicità familiare [1858-1859], Anna Karenina [1785-1877] e La sonata a Kreutzer [1887-1889] che, grazie alla notorietà e alla fama del conte, influenzeranno il dibattito nella Russia delle seconda metà dell’800 sull’istituzione del matrimonio e il ruolo della donna nella società, contrapponendosi sia all’indirizzo progressista e rivoluzionario della critica populista, sia al conservatorismo reazionario della Chiesa e dell’autocrazia zarista. Dopotutto Tolstoj era consapevole del fatto che lo scrittore esercita un’influenza sul lettore, tanto da ribadire, nel saggio del 1898 Che cos’è l’arte, quanto «l’arte deve essere dominata dall’elemento morale, a scapito dell’elemento artistico, al fine di esercitare un influsso benefico sull’animo del pubblico». Un impegno moralistico che Maria Zalambani rileva come sia stato un prezioso contributo nel processo di revisione critica dell’istituzione del matrimonio nella Russia di Alessandro II, influenzando grazie alla notorietà dello scrittore il dibattito sulla famiglia borghese coronata dal sentimento chiamato a sancire la “felicità familiare” in contrapposizione al tradizionale matrimonio combinato in cui lo sposo veniva scelto dai genitori senza interpellare la predestinata, poiché «quello che avvicinava i due fidanzati era: un’estrazione sociale comune, beni di simil sostanza e un atteggiamento serio e consapevole verso il santo istituto del matrimonio». Ma, al contempo, Tolstoj si mostrò fiero oppositore dell’emancipazione femminile propugnata dai vari Herzen, Turgenev , Černyševskij – a loro volta influenzati dal dibattito allora scoppiato in Francia sul culto dell’amore libero che contrapponeva i suoi fautori George Sand e Jules Michelet al misogino Pierre-Joseph Proudhon – polemizzando aspramente con la pubblicistica e la letteratura populista, tanto da opporsi fermamente al triangolo amoroso proposto nei romanzi Di chi è la colpa? e Che fare?, dal momento che con «“Felicità familiare” l’eroina fugge di fronte ad un terzo componente, mentre in Anna Karenina il tragico finale annulla ogni possibilità di vita alternativa a quella legittimamente coniugale. […] Infine, ne La sonata a Kreutzer, il fantasma del triangolo amoroso e del tradimento viene annientato dalla follia omicida di Pozdnyšev».

I tre romanzi tolstojani ripercorrono le tappe che condussero l’arretrata società russa al trapasso del periodo feudale verso l’immatura società industriale di fine XIX secolo, seguendo di pari passo l’affermarsi dell’istituzione del matrimonio da quello combinato a quello borghese, per poi prefigurarne la sua crisi; un percorso contradditorio compiuto da Tolstoj, poiché – come la critica del suo tempo già aveva sottolineato – se contribuisce da un lato alla crescita sociale ponendo la questione femminile al centro dei suoi romanzi, dall’altro lato il suo cristianesimo radicale conduce ad una morale intransigente che colpevolizza e condanna le donne o a una vita sacrificata al matrimonio [è il caso di Maša che rinuncia alla felicità dell’amore per dedicarsi alla “felicità familiare”], o al sacrificio della propria vita [Anna Karenina si suicida in quanto succube delle condizioni sociali che non le consentono di essere libera per aver avuto il coraggio dell’imprudenza nel render pubblico l’adulterio], o addirittura nel condannarle – e con loro gli uomini – alla più completa castità, negando la possibilità di un amore carnale perfino all’interno del matrimonio borghese [deprezzando il sentimento amoroso come un bisogno animalesco al punto da accettare l’inevitabile gesto uxoricida di Pozdnyšev ne La sonata a Kreutzer]. Una contraddizione che attraversa l’intera società russa e che il saggio di Maria Zalambani documenta nei pur minimi dettagli, rilevando in che modo e con quale intensità Tolstoj abbia avuto la capacità di scuotere la mentalità sia dei più accaniti conservatori, sia dei più radicali riformatori, a dimostrazione di quanto scrisse Le Goff: «La mentalità è ciò che cambia più lentamente. La storia della mentalità è la storia della lentezza nella storia». Una lentezza che ancora oggi le donne faticano nel sopportare di essere considerate la costola di Adamo; di un Adamo capace sempre meno di cambiare mentalità.

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