Zapruder – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 We are not robots – Cambiamento tecnologico e conflittualità https://www.carmillaonline.com/2025/01/07/we-are-not-robots-cambiamento-tecnologico-e-conflittualita/ Tue, 07 Jan 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85965 di Gioacchino Toni

Rage against the machine? Automazione, lavoro, resistenze, “Zapruder” n. 65, sett.-dic. 2024

«Dalla miniera a cielo aperto di Lützerath in Germania alla “Zone à defendre” di Notre Dame des Landes passando per la lotta no tav in Val di Susa, negli anni a noi più vicini la battaglia contro lo strapotere della tecno-industria non ha né la fabbrica come epicentro, né la classe operaia come protagonista. Spesso frutto dell’alleanza tra frazioni illuminate di piccoli proprietari agricoli e settori radicali del movimento ecologista, la “rabbia contro le macchine” non sembra più essere alimentata dal potere dispotico del capitale [...]]]> di Gioacchino Toni

Rage against the machine? Automazione, lavoro, resistenze, “Zapruder” n. 65, sett.-dic. 2024

«Dalla miniera a cielo aperto di Lützerath in Germania alla “Zone à defendre” di Notre Dame des Landes passando per la lotta no tav in Val di Susa, negli anni a noi più vicini la battaglia contro lo strapotere della tecno-industria non ha né la fabbrica come epicentro, né la classe operaia come protagonista. Spesso frutto dell’alleanza tra frazioni illuminate di piccoli proprietari agricoli e settori radicali del movimento ecologista, la “rabbia contro le macchine” non sembra più essere alimentata dal potere dispotico del capitale sul lavoro». Così l’editoriale del numero 65 della rivista “Zapruder” introduce il fascicolo dedicato alle resistenze al cambiamento tecnologico che hanno attraversato la storia a partire dalla Rivoluzione industriale focalizzandosi su alcuni casi di studio al fine di «alimentare una riflessione sull’oggi per provare a riorientare la tecnica verso un fine diametralmente opposto, quello del benessere sociale per tutte e tutti».

Mentre negli ultimi decenni sui territori si danno forme di resistenza e antagonismo come quelle sopra tratteggiate, da qualche tempo un’insistente narrazione a canali e media unificati si è preoccupata di esaltare le magnifiche sorti del progresso permesse dall’intelligenza artificiale generativa bollando come patetici luddisti passatisti antitecnologici per partito preso tutti coloro che osano evidenziare gli aspetti più inquietanti che l’accompagnano: la disumanizzazione decisionale riguardante l’organizzazione del lavoro; il ricorso a pratiche di ludicizzazione digitale al fine di incrementare le performance lavorative e la competizione con i colleghi; la proliferazione degli armamenti autonomi, dunque di modalità, se possibile, ancora più ciniche e spietate di gestione delle guerre; la ricaduta omologante sul mondo dell’informazione, dell’intrattenimento, dell’educazione e della cultura; lo sfruttamento delle risorse naturali e delle popolazioni del Sud del mondo; l’oscurità degli algoritmi che regolano i sistemi decisionali tecnologici; l’esponenziale incremento della sorveglianza che comporta; l’incidenza esercitata sull’immaginario collettivo ecc.

Al di là delle pratiche di azione diretta espresse a livello di comunità contro sistemi tecno-industriali imposti a livello territoriale – emblematico il caso in Arizona in cui i residenti si sono letteralmente scagliati contro i veicoli a guida autonoma pilotati dall’IA danneggiandoli –, qualche forma embrionale di conflittualità nei confronti delle tecnologie che governano il mondo del lavoro e con esso la vita dei lavoratori e delle lavoratrici inizia a fare capolino: dalle campagne “We’re humans, not robots!” e “Strike hard, have fun, make history” che hanno riguardato Amazon, in cui i lavoratori hanno rivendicato condizioni di lavoro più umane e meno automatizzate, alle numerose vertenze riguardanti il settore della logistica, dei rider e del trasporto automobilistico privato in cui vengono messi in discussione i ritmi di lavoro imposti dalla gestione algoritmica gamificata1 da cui vengono fatti dipendere gli stipendi ed il mantenimento stesso del posto di lavoro.

Certo, il diffondersi di quello che Shoshana Zuboff 2 ha efficacemente definito “surveillance capitalism”, basato sulla datificazione dell’esperienza umana a scopo predittivo, generante shadow work non pagato, ha allargato a dismisura le modalità con cui viene estorto e sfruttato il lavoro, tanto da rendere sempre più arduo individuare modalità conflittuali efficaci.

Nell’editoriale di “Zapruder” – steso da Lorenzo Avellino, Frédéric Deshusses e Alfredo Mignini – vengono tratteggiate le tappe principali che hanno animato il dibattito critico circa i conflitti e le resistenze al cambiamento tecnologico a partire dalla lettura classica di Marx secondo la quale l’evoluzione tecnologica capitalista avrebbe accelerato la possibilità di controllo operaio della produzione, da cui derivata una condanna nei confronti del luddismo per certi versi astorica non cogliendo le specificità dei movimenti propriamente luddisti che si manifestano a partire dal primo decennio dell’Ottocento.

Dopo che Eric Hobsbawm3, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, ha messo in luce come la resistenza alle macchine si sia data come resistenza alle macchine nelle mani del capitalista, rompendo con la storiografia classica e marxista, sul finire degli anni Sessanta, Edward P. Thompson 4 ha abbandonato l’idea che deriva dal progresso tecnico la formazione della classe operaia in quanto tale ritenendo che quest’ultima si costituisca piuttosto nella resistenza all’espropriazione del controllo sulla produzione. Nel medesimo periodo si è sviluppata una tradizione marxista critica tanto del socialismo reale quanto della tecnologia (Raniero Panzieri5, André Gorz6, Ernest Mandel7…). Successivamente, attorno alla metà degli anni Settanta, si devono ad Harry Braverman8 la proposta di leggere il cambiamento tecnologico come strumento nelle mani dei capitalisti per assicurarsi un controllo crescente sui processi lavorativi ed a Stephen Marglin9 l’invito a vedere nella necessità del controllo sulla produzione e sui lavoratori, più che nell’efficienza economica, i motivi dell’affermarsi del sistema di fabbrica.

Sfuggendo «alla dicotomia tra una classe operaia incosciente di sé stessa e interamente subordinata alle macchine e un’esaltazione eroicizzante di ogni atto di resistenza contro i cambiamenti tecnologici», attraverso una serie di contributi, questo numero di “Zapruder” intende «riaprire il confronto sui conflitti e le resistenze al cambiamento tecnologico», evitando «di inquadrare le trasformazioni del capitalismo contemporaneo a partire dalla crisi degli anni settanta o, nel migliore dei casi, dall’inizio del XX secolo», decentrando «lo sguardo verso settori ed esperienze in cui lo scontro tra “lavoro vivo” e tecnologia può sembrare a prima vista assente, rivelandosi invece centrale».

La tradizione marxista critica precedentemente tratteggiata ha saputo «sbarazzarsi di una visione teleologica che farebbe della tecnologia un terreno neutro all’interno del quale possono esprimersi appieno le potenzialità liberatorie della classe operaia. […] In fin dei conti, all’interno di una società capitalistica, le macchine non possono essere altro che concepite e sfruttate secondo un solo obiettivo: quello del profitto». Guardando a quanto accaduto, la conflittualità nei confronti del cambiamento tecnologico non sembrerebbe poter essere ricondotta esclusivamente ad un atto di resistenza nei confronti di un futuro ineluttabile; in essa si ravviserebbe anche un orientamento del cambiamento in una direzione altra rispetto a quella voluta dai possessori e beneficiari delle tecnologie.

In epoca più recente, Gavin Mueller10 ha nuovamente posto l’accento su come le pratiche luddiste abbiano rappresentato una embrionale e importante presa di coscienza circa la non neutralità delle tecnologie, esplicitando come l’automazione e l’utilizzo di macchine nel processo produttivo stabiliscano nuove forme di controllo e sfruttamento del lavoro sempre più pervasive e alienanti. Il luddista, insomma, lungi dall’essersi posto l’obiettivo di fare a meno delle macchine per partito preso; il suo intento è stato piuttosto quello di indirizzare lo sviluppo tecnologico verso una società ove i lavoratori conservano la propria autonomia ed il controllo delle proprie vite. È lungo tale prospettiva che, secondo Mueller, si dovrebbe guardare ai momenti più creativi di resistenza, dalle fabbriche ai porti, fino al movimento per il software libero ed alle forme di resistenza agli algoritmi ed ai sistemi di sorveglianza della società contemporanea.

Tornando a “Zapruder”, nel suo contributo, Nikolaos Alexis esamina le rivolte contro la motorizzazione dei trasporti in Grecia all’inizio del Novecento mettendo in risalto come «l’egemonia di un discorso determinista sulla tecnologia» abbia storicamente portato a sottovalutare tali episodi «rafforzando l’idea che si trattasse necessariamente di esperienze eccezionali, limitate e irrazionali», non cogliendo così come attorno ad essi si sia formato un blocco politico e sociale capace di negoziare il progressivo abbandono del trasporto a trazione animale in ambito urbano.

Francesca Sanna indaga il contenzioso esploso nella Francia della prima metà del Novecento tra impresa e lavoratori circa la razionalizzazione e la  meccanizzazione dell’estrazione mineraria evidenziando «come le tecniche di organizzazione assurgano a terreno di scontro e di negoziazione in cui si fronteggiano prospettive contrapposte. Da un lato la tecnica è percepita come elemento portante delle strategie d’impresa […] e, dall’altro, come strumento potenziale della rivendicazione operaia, che […] può agire sul salario come sulle condizioni di lavoro, nonché sulle più generali condizioni di vita».

L’analisi delle lotte per arginare l’impatto delle macchine da parte del nascente movimento operaio francese nel primo Ottocento, che ha dovuto confrontarsi anche con una serrata campagna di persuasione volta ad elogiare i benefici del macchinismo, è invece al centro dello scritto di Maria Grazia Meriggi che mostra come alla propaganda per la formazione professionale, intesa come strumento in grado di contrastare la disoccupazione da parte degli apologeti delle innovazioni, si sia contrapposta un’azione operaia tendente a rivendicare la distribuzione del lavoro esistente.

A partire dagli appunti di un apprendista formaggiaio francese, Fabien Knittel tratteggia le reazioni delle nuove generazioni contadine di fine Ottocento nei confronti della razionalizzazione del lavoro caseario mentre, colloquiando con Frédéric Deshusses, lo studioso dei sistemi di sorveglianza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nell’agricoltura, Francisco Klauser, mostra tanto l’impatto di big data e nuove tecnologie della sorveglianza sul lavoro contadino quanto le forme di riappropriazione e mutualizzazione della tecnologia da parte di chi la utilizza. Con lo sguardo rivolto all’universo schiavista cubano di metà Ottocento, Daniel B. Rood indaga invece la piantagione come «sistema “tecno-razziale” in cui le macchine per la raffinazione dello zucchero intervengono ridistribuendo compiti e competenze lungo la linea del colore tra manodopera cinese, sorveglianti creoli e schiavi neri».

Ginevra Sanvitale studia il ruolo della tecnologia nel lavoro riproduttivo riprendendo le riflessioni prodotte dal Movimento per il salario al lavoro domestico degli anni Settanta del secolo scorso11 che approfondiscono «due aspetti del rapporto tra ritmi dell’automazione e resistenze al cambiamento tecnologico»: l’industrializzazione della casa, «cioè l’assimilazione della sfera domestica all’ambiente produttivo del capitalismo industriale» ed «il rapporto tra produzione per il mercato e riproduzione della forza-lavoro nella storia del capitalismo, in altre parole il rapporto tra la funzione economico-sociale dell’uomo-macchina e quella della donna-macchina».

Lorenzo Avellino indaga come nell’ambito della produzione serica piemontese settecentesca il ricorso all’automazione sia stato mosso anche dalla volontà dei datori di lavoro di appropriarsi attraverso le macchine di specifici saperi sino ad allora di pertinenza femminile, mentre Bruno Settis mette in luce come l’utopia padronale di poter fare a meno dell’essere umano anticipi di molto l’avvento del capitalismo industriale.

Lo scritto di Maddalena Fragnito racconta della pratica delle operaie della Lebole di Arezzo di modificare le canzoni del momento per dare voce al malcontento diffuso tra di esse, mentre Simona Casonato e Francesca Olivini raccontano di come, in veste di curatrici del Museo nazionale scienza e tecnologia di Milano, abbiano voluto creare un tipo di esposizione che non si limitasse a celebrare acriticamente l’innovazione ma che sapesse anche riflettere la dimensione conflittuale del cambiamento tecnologico.

Frédéric Deshusses propone una riflessione che mette in relazione la storia della tecnica della scuola delle “Annales”, a partire da quanto scritto da Lucien Febvre nel numero monografico dedicato alla storia della tecnica del 1935 , con gli obiettivi iniziali delineati nel primo fascicolo della rivista “Technology and Culture” nel 1959 diretta da Melvin Kranzberg. La dialettica fra presenza e assenza del marxismo che emerge in tale confronto, secondo l’autore, potrebbe rappresentare «una chiave di lettura del modo in cui il campo della storia della tecnica si è strutturato nella seconda metà del Novecento». Restando nell’ambito delle riviste dedicate all’incidenza tecnologica sulla società, Lara Marziali si occupa nel suo scritto di “Low-tech magazine”, rivista online nata nel 2007 con il fine di «diffondere modi e metodi con cui coniugare vecchie e nuove conoscenze e tecnologie, in vista di una società più sostenibile».

“Zapruder” concede spazio anche ad alcuni esempi di rappresentazione creativa del conflitto intorno alla tecnica a partire dalla copertina prodotta dal collettivo Major-Minuit a cui si aggiungono le tavole realizzate da Alessandro Beccari, dedicate alle condizioni di lavoro negli hub contemporanei, e le immagini di Jonas Hauert che intende riprende le riflessioni di Benjamin circa l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica per affrontare lo produzione artistica e la creatività individuale in un contesto segnato dalla generazione automatica di opere da parte dell’intelligenza artificiale. La portata liberatoria ed al contempo reazionaria della produzione generata automaticamente, in questo caso di tipo musicale, è invece al centro delle riflessioni dello scritto di Diego Parravano.

Niccolò Cuppini si sofferma su alcuni volumi usciti negli ultimi anni: Lorenza Pignatti, Cartografie radicali. Attivismo, esplorazioni artistiche, geofiction (Meltemi, 2023); Federico Curugullo, Frankenstein Urbanism. Eco, Smart and Autonomous Cities, Artificial Intelligence and the End of the City (Routledge, 2021); Matteo Pasquinelli, The eye of the master: a social history of artificial intelligence (Verso Books, 2023). Pignatti, nell’occuparsi della nozione di cartografia alla luce del contesto digitale contemporaneo, mostra quanto le mappe, oltre a riprodurre l’esistente, possano anche ambire a trasformarlo. Curugullo spiega come l’automazione urbana, lungi dal toccare soltanto l’immaginario, sia un vero e proprio progetto con una sua storicità e Pasquinelli mostra come gli sviluppi recenti dell’intelligenza artificiale siano da collocare all’interno di una storia più lunga che prende il via con l’automatizzazione delle attività lavorative introdotte dall’era industriale. Nella sezione dedicata ai libri è presente anche uno scritto di Giovanni Pietrangeli a proposito del volume di Simone Pieranni, Tecnocina. Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi (add, 2023).


We are not robots – serie completa


  1. Sarah Mason, Punteggio massimo, compenso minimo. Ludicizzazione: un gioco che i lavoratori non possono vincere, in Matteo Bittanti, a cura di, Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  2. Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. 

  3. Eric Hobsbawm, The Machine Breakers, “Past and Present”, n. 1, 1952. 

  4. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Mondadori, Milano, 1963. 

  5. Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, “Quaderni rossi”, n. 1, 1961, pp. 53-72; Raniero Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, “Quaderni rossi”, n. 4, pp. 257-288. 

  6. André Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Paris, 1964. 

  7. Ernest Mandel, Traité d’économie marxiste 4, Union générale d’éditions, Paris, 1969. 

  8. Harry Braverman, Labor and monopoly capital: The degradation of work in the twentieth century, Monthly Review Press, New York City, 1974. 

  9. Stephen Marglin, What Do Bosses Do? The origins and functions of hierarchy in capitalist production, Part I, “The Review of Radical Political Economics”, n. 6, 1974, pp. 60- 112. 

  10. Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, Nero, Roma, 2021. 

  11. Cfr.: Selma James, Mariarosa Dalla Costa, The Power of Women and the Subversion of Community, Falling Wall Press Limited, Bristol, 1975. 

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ZONA ROSSA: la memoria è un ingranaggio collettivo https://www.carmillaonline.com/2021/05/15/zona-rossa-la-memoria-e-un-ingranaggio-collettivo/ Sat, 15 May 2021 07:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66304 di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato. Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi. E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale. Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del [...]]]> di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato.
Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi.
E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale.
Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del resto, “la memoria è un ingranaggio collettivo”.
Un ingranaggio che Zona rossa, ultimo numero di  Zapruder, prova a rimettere in moto.
Frutto del confronto fra la redazione di Zapruder e SupportoLegale, la stesura di Zona Rossa  ha nella dimensione collettiva la sua stessa origine. Si rivolge a Genova attraverso uno sguardo plurale, riunendo le visuali di generazioni diverse e diversi metodi di linguaggio.
Comprende le voci di chi a Genova non c’era, per motivi generazionali, e che ne ha elaborato la storia dai racconti.
Comprende la voce di chi, pur avendo la massima autorevolezza per parlarne, in tutti questi anni ha usato la parola con parsimonia, responsabilità e coscienza, in mezzo ad ondate di retoriche e di ricostruzioni fasulle o infamanti.
La voce di chi si è rimboccat* le maniche per sostenere compagn* incriminat* per devastazione e saccheggio, mentre altri si esercitavano nei distinguo fra buoni e cattivi, offrendo la sponda alla criminalizzazione mediatica e giudiziaria di una parte del movimento.
Comprende, finalmente, la voce di quell* che hanno pagato per tutti, con più di 10 anni di galera a testa1, e che con serenità ripetono: “in ogni caso, nessun rimorso“.

Uno di loro, Luca, dopo che per anni sono stati spesi da chiunque sul G8 di Genova fiumi di parole, pensa di “non poter aggiungere qualcosa che non sia già stato detto, visto e rivisto“.
E suggerisce una traccia: “più interessante può essere sapere cosa è successo dopo“.
Proprio su questo si concentra  Zona Rossa: sul prima, sul dopo e sull’altrove, e soprattutto sugli elementi da cui trarre utilità per il presente.

Il ricordo di Genova può essere un futuro anteriore, una memoria che ci aiuta a guardare avanti invece che indietro, utile a capire meglio la transizione verso quel qualcosa di indefinito che stiamo vivendo“.

E così impariamo come, nel dopo Genova, un gruppo di compagn* proveniente da Indymedia ha forgiato strumenti metodologici e di contenuto (oltre che competenze tecniche assolutamente non comuni) utili ad affrontare anche il tempo presente.

SupportoLegale nasce dal presupposto di non chiedere mai agli altri cosa avessero fatto nel 2001, né a che area appartenessero. Si è creato un gruppo di persone che aveva come unica finalità riuscire a supportare e dare man forte a chi stava seguendo i processi…
Noi ci siamo battuti su delle parole d’ordine abbastanza brevi, ma su cui siamo stati irremovibili: sul No alla divisione fra buoni e cattivi, sulla legittimità di tutte le forme di dissenso che erano state espresse a Genova, sulla legittimità di tutti i pensieri che sono stati espressi a Genova…
A noi piacerebbe che uscisse questa parte della storia. Proprio perché tanti, ancor oggi, non hanno imparato la lezione, non la vogliono imparare. Vogliono togliere legittimità a dei pezzi di storia, a dei pezzi di senso, a dei pezzi di conflitto
.
Noi la pensiamo tutti in modo completamente diverso … tutte le modalità di rappresentazione del conflitto, almeno rispetto a questo pezzo di storia che abbiamo fatto tutti quanti  insieme sono legittimi. Vanno rispettati e vanno difesi. E sentiamo di essere tutti dalla stessa parte della barricata“.

Una coesione nata dalla capacità di attribuire priorità politica all’obiettivo comune, e che non verrà fatta propria dal movimento No Global, uscito dall’esperienza di Genova più diviso che mai, ma diverrà invece punto di forza in Val di Susa, probabilmente proprio a partire dalla riflessione su Genova.
È questo un ulteriore elemento di pregio di Zona Rossa: la ricostruzione di come abbia influito l’esperienza di Genova sulla formazione delle soggettività dei movimenti di oggi, che ci mostra che questa storia non si è conclusa solo nel sangue, nella galera, nella sconfitta, nelle posizioni dissociatorie, e nella lenta agonia dei social forum.

Per esempio la presenza a Genova 2001 di un nutrito spezzone del giovane movimento No TAV ha favorito “l’identificazione fra quello che la Valle stava iniziando a vivere e le ragioni della protesta contro il G8“.
Emergono dalle interviste ai No TAV da un lato il rafforzamento della coscienza  della portata globale dei contenuti della propria lotta, dall’altro le conseguenze sul territorio, con nuovi comitati locali che nascono in Valle a partire dalla determinazione maturata proprio nei giorni del G8.
Il 23 luglio 2011 il corteo per il decennale di Genova è aperto dallo spezzone della Val di Susa, che ha guadagnato sul campo il diritto alla “testa del corteo” nei giorni dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e dell’assedio al cantiere di Chiomonte2.
Lo slogan dei valsusini “siamo tutti Black Bloc” sancisce il rifiuto della divisione fra buoni e cattivi, nel luogo esatto in cui tale divisione aveva creato al movimento di 10 anni prima effetti  disgreganti.
E non si tratta solo di uno slogan, perché proprio nell’assedio di Chiomonte il movimento ha  accolto e riconosciuto  metodi di lotta e soggettività differenti, e su questa base si è creata coesione e rispetto.
Genova diviene  dunque generatrice di coscienza anche in negativo, una lezione sugli aspetti da non emulare se non si vuol ripercorrere lo stesso declino del “movimento dei movimenti”.
Uno di questi aspetti è la desolidarizzazione successiva alle incriminazioni per devastazione e saccheggio.
Dice SupportoLegale: “Molte delle persone finite sotto processo sono state completamente abbandonate dai loro gruppi, dalle loro organizzazioni, dai loro collettivi. Sono state lasciate completamente sole e sono sole oggi. Ci siamo stati solamente noi“.
L’esatto opposto di un principio cardine della lotta in Val di Susa, dove “si parte e si torna insieme“.

Zona Rossa identifica in Genova un crinale di crisi che va al di là del declino del movimento No Global, investendo le stesse sorti e pratiche della sinistra radicale maturate nel corso del ‘900.
E’ una cesura nelle modalità delle mobilitazioni, perché “improvvisamente la piazza esonda qualsiasi volontà di controllo, spinta tanto da pratiche di conflitto che rifiutano la mediazione dei portavoce del movimento, quanto dalla repressione degli apparati dello Stato… Segno di una liberazione dalle volontà di controllo (e di mediazione) delle strutture organizzate ? Oppure traccia di una crisi di una idea di organizzazione a cui fa fatica a sostituirsene un’altra ?”

Genova segna anche la crisi delle pratiche di simulazione del conflitto:

“Chi pensava che aver evocato troppo il conflitto avesse portato alla catastrofe organizzativa e chi, invece, condannava la rinuncia a organizzarsi in conseguenza di quella “dichiarazione di guerra” giocata su un piano simbolico, a cui però lo Stato prevedibilemnte credette davvero. Comunque ci si ponga, a Genova si è capito  che la rappresentazione simbolica del conflitto è gestibile fino a un secondo prima dell’esplosione del conflitto vero e proprio, poi è solo pericolosa”.

Va in pezzi, infine, la bizzarra idea di una democratizzazione delle forze dell’ordine, conseguente ai processi di smilitarizzazione e sindacalizzazione iniziati una ventina di anni prima. Idea fallace, visti i risultati, e che non teneva conto di come i poteri di polizia fossero stati particolarmente sviluppati secondo logiche di guerra proprio nei due decenni precedenti. (Continua)


  1. Su 25 compagn* imputat* per i fatti di piazza, 10 vennero condannat* per devastazione e saccheggio a pene variabili da 6 anni e 6 mesi a 15 anni di reclusione. 

  2. Vedi su Carmilla: “Si parte e si torna insieme“. 

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Zapruder: 13 anni di storie in movimento. Il 26 e 27 novembre l’assemblea annuale a Bologna https://www.carmillaonline.com/2016/10/22/zapruder-13-anni-storie-movimento-26-27-novembre-lassemblea-annuale-bologna/ Fri, 21 Oct 2016 22:01:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34139 di Simone Scaffidi

zapruder-with-his-camera«Dallas, 22 novembre 1963: il presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, muore assassinato a bordo della Lincoln limousine. Poco distante Abraham Zapruder filma con la sua cinepresa la sequenza dell’attentato. Zapruder rende la vita un po’ più difficile alle nuove “Commissioni Warren” istituite per stabilire le verità ufficiali».

Nel 2004, a un anno e quattro numeri dal lancio della rivista Zapruder e del progetto Storie in Movimento, Fabrizio Billi – uno dei fondatori del progetto, allora membro del Comitato di coordinamento dell’associazione – spiegava sulle pagine [...]]]> di Simone Scaffidi

zapruder-with-his-camera«Dallas, 22 novembre 1963: il presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, muore assassinato a bordo della Lincoln limousine. Poco distante Abraham Zapruder filma con la sua cinepresa la sequenza dell’attentato. Zapruder rende la vita un po’ più difficile alle nuove “Commissioni Warren” istituite per stabilire le verità ufficiali».

Nel 2004, a un anno e quattro numeri dal lancio della rivista Zapruder e del progetto Storie in Movimento, Fabrizio Billi – uno dei fondatori del progetto, allora membro del Comitato di coordinamento dell’associazione – spiegava sulle pagine di Carmilla la scelta del nome della rivista. Sono passati tredici anni dall’uscita del primo numero cartaceo (maggio 2013) e oggi Zapruder è un punto di riferimento per chiunque – dentro e fuori dall’accademia – senta l’esigenza di sguardi critici e trasversali sulla Storia e le storie, la contemporaneità e il passato, i movimenti e il conflitto.

Il 26 e 27 novembre a Bologna, presso il Vag61, si svolgerà l’assemblea annuale dell’associazione Storie in Movimento (Sim), un momento di riflessione e creazioni di contenuti attorno alla rivista cartacea Zapruder, alla rivista digitale in lingua inglese Zapruder World e all’organizzazione del SIMposio.

Abbiamo fatto alcune domande ad Alfredo Mignini, coordinatore della redazione multimediale di Storie in Movimento, per capire cos’è oggi Zapruder, come ha cambiato forma in questi anni e come si può partecipare attivamente alla scrittura e all’immaginazione dei percorsi presenti e futuri del progetto.

Raccontaci che cos’è l’associazione Storie in Movimento e da chi è composta.

Storie in Movimento è un progetto culturale nato all’indomani delle proteste contro il G8 di Genova del luglio 2001 a seguito di un appello sottoscritto da oltre 260 persone. L’idea era quella di mettere in piedi una rivista di “storia antagonista”, come si chiama ancora la nostra mailing list, che poi si è concretizzata nel quadrimestrale «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale». Il fine di SIM è fin dall’inizio offrire una riflessione approfondita sul passato a un pubblico più ampio di quello solitamente raggiunto dalle riviste di storia che nascono dentro le università. Volevamo una rivista capace di comunicare in tante forme diverse, da articoli medio-lunghi con il tradizionale apparato di note fino alle immagini, alle interviste, alle prese di parola. Soprattutto, volevamo una rivista in cui insieme al contributo di studiosi e studiose acclarati potesse trovare spazio anche – non in subordine – la riflessione di attiviste e militanti, studenti e studentesse, appassionati di storia che riflettono sul passato a partire dalle loro esperienze quotidiane e dialogano sulla base dei contenuti con chi per professione si occupa di ricerca storica. Per noi, infatti, studiare il passato non significa ritirarsi dal presente, ma l’esatto opposto. È per questo che abbiamo voluto una rivista che raccogliesse la sfida di confrontarsi col presente, a partire dai conflitti che lo attraversano e rifiutando nettamente le logiche che governano il mondo accademico contemporaneo.

copertina_zapCos’è rimasto e cos’è cambiato rispetto al 2002, anno di lancio del progetto?

Forse non sono la persona più indicata per rispondere a questa domanda, perché solo da qualche anno sono diventato socio di Sim e ho iniziato a collaborare attivamente alla realizzazione del sito web. Mi sono però fatto un’idea leggendo i vecchi numeri della rivista e il materiale delle prime assemblea, ma soprattutto stando a contatto con chi è arrivato prima di me… Sim è stata per me anche un importante momento di confronto con una generazione che non ho potuto incrociare nelle aule universitarie e nell’attivismo politico. Nelle prime discussioni di Sim era molto forte l’accento sull’uso pubblico della storia, le strumentalizzazioni interessate del passato, le amnesie collettive. E questo anche in collegamento con i nuovi media e la dimensione sempre più allargata dei sistemi di trasmissione del passato. Un discorso che continua ad informare la nostra riflessione interna e che, per quanto presente in ogni uscita di Zapruder, ha dato recentemente i suoi frutti con un numero ad hoc (Di chi è la storia?), che registra anche le profonde trasformazioni intervenute nel frattempo. Senz’altro sono rimasti intatti i principi ispiratori del progetto, tanto sotto il profilo dei contenuti, quanto sotto quello organizzativo: sono fondamentali per noi l’autofinanziamento e il basso costo di abbonamenti e attività, l’apertura alle proposte esterne, l’autorganizzazione e il rinnovo continuo delle redazioni e del nostro comitato di coordinamento attraverso processi decisionali trasparenti e assembleari. È invece cambiata, e purtroppo in peggio, la situazione editoriale italiana e Zapruder vive solo grazie al continuo sforzo dei nostri gruppi locali nella promozione della rivista e in un’opera capillare di cura del rapporto con gli abbonati e una politica di differenziazione dei prezzi verso chi ha un lavoro precario o è giovane senza un reddito fisso.

Cosa sono e come nascono Zapruder, Zapruder World e il Simposio?

Alla rivista Zapruder, che rimane comunque il cuore pulsante del progetto, si è affiancato quasi da subito un incontro annuale estivo, che con un po’ di autoironia abbiamo voluto chiamare SIMposio. Questo è il tentativo di trasportare quello che facciamo con Zapruder nel contesto di un incontro residenziale in cui si discute di storia in tante forme diverse (discussioni, documentari, musica, teatro). Abbiamo scommesso sull’idea di promuovere degli incontri in cui il dibattito potesse essere intervallato da momenti di convivialità e siamo convinti che stare insieme produca non soltanto energie, affiatamento e coinvolgimento di persone nuove, ma anche idee originali e un’occasione di scambio e di condivisione dei saperi. Anche qui, la nostra politica di differenziare i prezzi – che riusciamo a fare solo chiedendo un contributo anche a chi viene invitato per esporre le proprie ricerche – ci aiuta a permettere la partecipazione attiva di chi non ha un lavoro o di chi è studente. Dal 2014, inoltre, abbiamo fondato una rivista digitale in inglese che ha preso il nome di «Zapruder World» e che ha da poco sfornato il suo terzo numero sul Welfare State. Infine, stiamo cercando di far decollare il sito, come spazio per raccogliere quello che non riusciamo ad inserire nella rivista, per lunghezza o per… formato (video, audio ecc.), ma su questo confesso che siamo ancora molto indietro!

Chi può partecipare attivamente al progetto e quali sono le forme e i canali per farlo?

Tutti e tutte! Chiunque voglia dare il proprio contributo al progetto Storie in movimento è sempre il e la benvenuto/a e ci sono tantissimi modi per farlo. Il modo più diretto è forse contattare e conoscere di persona chi anima i gruppi locali e collaborare a realizzare le presentazioni dei numeri, i banchetti, le discussioni, ma anche proporre la presentazioni di libri, fumetti, documentari e così via. Si possono poi proporre i propri articoli alle riviste oppure al sito, sia rispettando le richieste tematiche che di tanto in tanto vengono pubblicate, sia proponendo qualcosa di diverso e originale che rifletta sul passato in maniera critica. Si può fare un passo in più e proporre all’assemblea annuale il progetto di un numero intero delle riviste, iniziando così un percorso scrupoloso di cura dell’uscita e, infine, ci si può proporre come relatori/rici o coordinatori/rici di un dialogo del SIMposio. Infine, ci si può candidare a far parte delle redazioni (carta, digitale, sito), del comitato di coordinamento, del comitato organizzatore del SIMposio e contribuire così al progetto in ogni suo aspetto.

zw_logoL’assemblea annuale del 26 e 27 novembre è aperta a tutti/e?

Certamente! L’assemblea è chiaramente anche un momento di bilancio e discussione interna, che serve a rinnovare le strutture e a decidere i contenuti delle riviste e dell’incontro estivo. Questo per noi è fondamentale: le decisioni più importanti per il futuro del progetto si prendono all’interno di un’assemblea aperta al pubblico, in cui tutti/e prendono visione delle proposte arrivate e partecipano alla discussione da cui emergeranno i numeri da realizzare nell’anno a venire, i dialoghi del SIMposio, i progetti da intraprendere. Proprio per questo, l’assemblea è un momento che si nutre della partecipazione e delle proposte di chi è esterno all’associazione e vuole conoscerla meglio, capirne il funzionamento e portare un commento, una critica, un contributo. Quest’anno, grazie all’ospitalità dei compagni e delle compagne di Vag61, l’assemblea si terrà a Bologna dal 26 al 27 novembre e sarà possibile prenotare (entro il 27 ottobre) un posto letto e i pranzi delle due giornate a prezzo calmierato… perché anche per l’assemblea il motto è: “pagare tutti, per pagare meno”.

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L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – 1 https://www.carmillaonline.com/2016/01/16/lestate-del-64-o-giu-di-li-e-oltre/ Fri, 15 Jan 2016 23:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27865 di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima [...]]]> di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente.
La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima della nostra presa di coscienza l’unico comunista italiano moderno, prima di cadere nel delirio della senescenza.
Lezioni dal disastro avremmo potuto scrivere noi, se ne fossimo stati capaci.
O ne avessimo avuto voglia. Ma fummo sempre e irrimediabilmente pigri.
O forse soltanto un po’snob. Poco attratti dall’intellighentsia e dai suoi rituali.
Preferivamo l’azione.

Ignoranti? Forse, oppure soltanto portatori di altre culture. All’epoca sovversive, oggi maleodoranti.
La riforma della scuola media unica, quella della legge n. 1859, entrata in vigore il 31 dicembre 1962, ci aveva aperto le porte della cultura superiore.
Uno dei miei più cari amici dice sempre che come figli di un operaio e di un benzinaio abbiamo fatto fin troppo. E forse ha ragione.

In casa non avevamo una ricca biblioteca. Anzi non ne avevamo proprio.
La mia fu la prima, ma mio padre portò a casa, con la prima fonovaligia, un 45 giri di Ray Charles e mia madre ci avrebbe ascoltato di tutto. Dal beat ad Orietta Berti.
Cosa avevamo da condividere con le classi alte? La licenza elementare di mio padre?
La terza elementare di mia madre? L’emigrazione in America dei miei nonni materni?

Cosa cazzo c’entravano quelli come noi con il liceo?
Erano gli anni del boom e delle belle speranze e i nostri genitori ci tenevano a farci fare il salto. Ma ci mancava l’allenamento e qualcuno, soltanto più tardi, riuscì solo a svendersi senza nemmeno troppa discrezione.
Quello sarebbe stato il nostro destino, già scritto nell’anagrafe sociale: rimanere invisibili oppure esagerare.

Comunque, com’è solito ripetere lo stesso amico, non ne azzeccammo mai una.
Almeno da un punto di vista borghese. Anche soltanto piccolo.
Non era nel nostro Dna. Le nostre catene elicoidali si avvolgevano intorno a secoli di timori reverenziali, di sopravvivenza e di rabbia contenuta.
Specie quando si discendeva da una famiglia di ebrei convertiti, come la mia.
Tutto ciò non avrebbe potuto far altro che condurre ad una vita di macerazione interiore.

kriminal 5 Oppure esplodere. E così fu.
Gli antenati polacchi in fuga dai pogrom, la fatica dei campi, il fratello del nonno e primo marito di mia nonna disperso sull’altipiano di Asiago, la delusione resistenziale dei padri sarebbero esplosi con noi. Con me. Dentro di me. Chissenefrega…fuoco!

Ognuno di noi ha sicuramente in mente un anno particolare della propria vita, legato a episodi, drammi o gioie che l’hanno in qualche modo cambiata.
Alcuni anni hanno poi assunto un valore simbolico particolarmente forte: il ’68, il ’77, il 1967 e l’estate dell’amore, il’63 e l’uccisione di Kennedy oppure il 1978 e il rapimento Moro e così via. Per me quell’anno è il ’64, ma non a causa del generale De Lorenzo e del suo “Piano Solo”.1

Nella primavera morì il mio nonno paterno e non avrei mai potuto immaginare quale libertà ciò mi avrebbe regalato. Non per la sua presenza o meno, non ci eravamo frequentati moltissimo, ma per la fine della sorveglianza stretta cui mia madre mi aveva sottoposto fin dalla mia prima infanzia.
Così, a undici anni compiuti, ZAC! recisi definitivamente il cordone ombelicale con cui lei avrebbe voluto tenermi legato, forse, per sempre.

Mio padre ereditò la casa di campagna in cui il nonno viveva e, nonostante qualche rogna con la madre e la sorellastra, figlia di un precedente matrimonio della nonna con il fratello disperso del nonno, da quel momento la vecchia casa colonica divenne la meta fissa delle vacanze estive e dei nostri week-end. Così oggi posso celebrare il cinquantenario della Liberazione. La mia.

Ora a ben pensarci, dopo che anche quella casa è stata venduta durante la lunga malattia che poi portò mio padre a ricongiungersi con il genitore, quel paese dell’astigiano e quelle verdi colline non potrebbero più costituire il luogo più eccitante del mondo per un adolescente di oggi.
E nemmeno per un adulto.

Ma…cazzo! Lì mi fu possibile sfuggire alla sorveglianza di mia madre fin dalla prima estate. Grazie anche al fatto che lei doveva sorvegliare i lavori dei muratori, chiamati per ristrutturare la grande cascina. Per esempio fare un bagno in casa, visto che fino alla morte del nonno l’unico gabinetto era stato un bugigattolo sospeso sopra il letamaio.
Tutto molto ecologico, tutto molto vintage.

Già, il ’64. Anno delle mie prime scorrerie e della scoperta del potenziale sovversivismo che tanti anni di cure materne avevano così inconsciamente coltivato. O meglio, esasperato.
Più tardi, dopo il’68, un amico di quelle prime scorrerie che non avrebbe poi potuto continuare gli studi per andare a lavorare in una boita, una piccola officina del quartiere più tradizionalmente operaio di Torino, avrebbe acquistato “La proprietà è un furto” di Proudhon.

Non so se lo avesse poi letto per intero, ma certo quel titolo era affascinante.
Per noi ladruncoli di campagna. Abili a rubare la frutta nel momento esatto della maturazione sugli alberi oppure nell’infilarci in antiche dimore o cascine semi-abbandonate in cui avremmo trovato di tutto. Dalle antiche sale ricoperte di polvere vampiresca alla polvere da sparo e i pallini con cui ci divertivamo a costruire rudimentali bombe da far esplodere su fuochi vicino a cui ci coricavamo per sentire fischiare sulle nostre teste, e in prossimità delle nostre orecchie, pezzi di latta e palle di piombo.

Primi atti di una ritualità maschile di passaggio verso un’età adulta di cui i servizi d’ordine dei gruppi extra-parlamentari sarebbero stati il necessario e, all’epoca, inevitabile corollario.
Testosterone a mille, sesso ancora vietato e solo immaginato e, allora, via in cerca di emozioni a buon mercato. Con due nemici: la proprietà e i carabinieri.
Sì, proprio loro che già ci cercavano.

Non che non avessimo fatto nulla per farci notare.
Ad esempio dirottare di sera il traffico dei camion sulla provinciale verso le stradine strette del paese, utilizzando la segnaletica rubata in un cantiere stradale.
Oppure improvvisare blocchi stradali notturni, ma allora non li chiamavamo così, spargendo la solita provinciale di centinaia di pagine di giornale accartocciate che, da lontano e alla luce dei fari, sembravano centinai di sassi accumulati o dispersi sull’asfalto.

Poi uno dice: Dove le avranno apprese le tecniche della guerriglia?
Nei diari del Che o nel manuale di Carlos Marighella?
Macchè, tutta roba cucinata in casa. Tra le verdi colline del Monferrato.
Insieme alle risse con le bande di ragazzini dei paesi vicini e, poco dopo, alle corse notturne a fari spenti su motorini smarmittati per sfuggire alla stradale e ai soliti, onnipresenti carabinieri.

Che ci tendevano agguati, persino nel centro del paese dove si appostavano a fari spenti sotto la chiesa, che si trovava in alto e da cui potevano vederci di sera senza essere visti.
Per poi piombare a tutta velocità giù per la ripida discesa appena qualcuno di noi accennava a u movimento sospetto. Finirono con l’aspettarmi direttamente sul portone di casa per potermi multare. Per la solita rumorosissima marmitta a tromboncino. Ma lì eravamo già a cavallo tra ’67 e ’68.

Kriminal 4bis Torniamo al ’64. Proprio nell’estate di quell’anno sarebbe uscito il primo numero di Kriminal.
Ideato da Luciano Secchi (in arte Max Bunker) e da Magnus (Roberto Raviola), il re del crimine fece fuori quella noia mortale rappresentata da Diabolik, le sue facce di gomma e la sua casta ed algida compagna Eva Kant. Gli altri fumetti erano già quasi del tutto scomparsi dalle nostre letture, ma Kriminal e Magnus ci avrebbero aperto altri orizzonti.

lolaOggi di sesso e sangue nella narrativa ne abbiamo fin troppo, ma allora la violenza dell’uomo dal teschio e la sensualità delle donne che lo circondavano, ora in funzione di vittime ora nel ruolo di amanti e collaboratrici, risultarono esplosive.

L’Italia era un paese bigotto dove, appeso all’interno delle porte delle chiese dei paesi di campagna, si poteva ancora trovare l’indice delle letture proibite. Praticamente tutte, tranne quei giornaletti che portavano stampigliata la sigla GM (Garanzia Morale) e i periodici ecclesiastici e vaticani.
Alla faccia del Concilio Vaticano secondo e del presunto ammodernamento promosso dal “papa buono”, Giovanni XXIII o vigesimo terzo come si diceva allora.

kriminal 2 Un anno prima anche Tex Willer aveva dovuto indossare, per adattarsi ai tempi e al mutamento dei gusti, i paramenti mortuari da scheletro che lo accompagnarono per alcune avventure. Ossa bianche su sfondo nero, classiche come le storie di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini.
Kriminal invece no: scheletro nero su una aderentissima tuta gialla. Gialla come i vietcong che da lì a poco sarebbero stati rappresentati in una delle sue storie mentre sparavano sui marines all’urlo di “Morte agli yankee e all’imperialismo americano!”.

Negli stessi anni alcuni giovani proletari della Barriera di Milano, quella in cui vivevo a Torino, sarebbero balzati nei titoli di testa di tutti i quotidiani. Più che con i western dovevano aver nutrito i loro sogni giovanili con i film di Cagney e Bogart. Poi la disillusione politica e la memoria recente della lotta armata partigiana fecero il resto. Sui muri di corso Giulio Cesare, la grande arteria della Barriera in direzione di Milano, c’erano ancora i segni dei colpi sparati dalle colonne tedesche in ritirata.

Anche Piero e Sante dovevano aver visto quei fori.
Avevo dieci anni quando iniziò l’avventura della loro congrega di fuorilegge proletari.
Era il 1963 e quello stesso anno, a Dallas, fu ucciso John Fitzgerald Kennedy.
Piansi per l’uno e mi appassionai agli audaci assalti di quella banda che non aveva ancora un nome ufficiale.Il circo mediatico televisivo iniziava allora a porre le sue basi e a trasmettere la morte in diretta.

Kriminal 3Più che le audaci rapine, iniziate con un assalto ad una sede del San Paolo a Torino e finite con quello ad una filiale del banco di Napoli a Milano, fu la cronaca in diretta della fuga e della sparatoria finale a destare l’attenzione del neo-pubblico radio-televisivo.
Ero seduto nel tinello di mia zia quando, otto giorni dopo gli spari e il sangue, fu dato l’annuncio della cattura di Piero e Sante presso il casello ferroviari abbandonato di Villabella.

Ma a colpire ancora di più l’immaginario collettivo di chi già non si rassegnava all’esistente furono le dichiarazioni fatte al processo che li condannò a pesantissime pene.
Il pugno alzato nel momento della condanna all’ergastolo e il canto anarchico all’uscita dall’aula giudiziaria, tra lo scandalo di magistrati e pubblico benpensante. Era il 1968, ma di luglio.

Diciassette rapine e un bottino che procurò ai componenti della banda uno stipendio medio di duecentomila lire al mese.
Poco, maledettamente poco per le conseguenze poi pagate.
Ma all’epoca lo stipendio di un operaio si aggirava sulle cinquantamila lire mensili.
Poche lire sudate nella paura dei capi, della disoccupazione, di non farcela ad arrivare a fine mese.

Loro no, rifiutarono quel tipo di paura.
Nei quattro anni e mezzo vissuti da fuorilegge la paura la lesse negli occhi degli altri. Anche dopo il loro arresto, tra quei piccoli borghesi imbestialiti che avrebbero voluto linciarli davanti alla questura di Milano.
Li chiamarono belve e massacratori, come sempre si fa con gli sconfitti.

kriminal_1 Ma ben poca cosa erano state le vittime dell’ultima, sospetta sparatoria rispetto a ciò che stava già avvenendo in Vietnam.
Il napalm non scuoteva le coscienze comuni, ma le rapine e il rifiuto dell’ordine basato sullo sfruttamento sì. Ieri ed ancora oggi. Così all’inizio degli anni settanta, a Torino, i comontisti diffusero un volantino intitolato Lotta criminale. Un altro cerchio era chiuso.

* Come precisa la Redazione della stessa rivista: “In questo numero di «Zapruder» proponiamo una riflessione storica sui processi di formazione della classe lavoratrice. Un tema indubbiamente “classico”, che proviamo tuttavia ad affrontare attraverso chiavi di lettura nuove. Per cominciare, suggeriamo una triplice espansione del campo della nostra ricerca: pensiamo ai lavoratori e alle lavoratrici non necessariamente come a dei salariati; sottolineiamo che il lavoro è anche altro rispetto all’attività manuale della produzione di merci; ribadiamo che i luoghi della produzione capitalista, come la fabbrica, non sono gli unici luoghi in cui cercare e indagare la classe. Parleremo di lavoratori e lavoratrici, e dunque di conflittualità sociale, migrazioni, territori, genere, etnia.
Allo stesso tempo, cercheremo di indagare il modo in cui le definizioni e le auto)percezioni della classe diventano parte integrante del processo di formazione – o non formazione – della classe
“.
– Indice:
http://storieinmovimento.org/2015/08/02/trentasettesimo-numero/ ))

(Fine della prima parte – continua)


  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo  

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Ilva connection https://www.carmillaonline.com/2013/07/10/ilva-connection/ Tue, 09 Jul 2013 22:01:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7345 di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua [...]]]> di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua ombra sinistra in una campagna dove il pascolo è stato vietato. Sono a rischio incenerimento anche le prelibate cozze del Mar Piccolo, di cui il miticoltore Egidio D’Ippolito canta le meraviglie. Delle cozze pelose, quelle rarità del mare che nobilitano la tavola e intorbidano la moralità di taluni politici pugliesi, neanche a parlarne perché crescono in colonie, nei fondali del Mar Piccolo, dove per decenni si sono depositati i metalli pesanti, residui malsani di tutte le stagioni dell’industrializzazione tarantina, dall’Arsenale all’acciaio.

Camminando insieme a Vincenzo e attraversando in barca il Mar Piccolo con Egidio mi sono tornate alla mente alcune frasi di Karl Marx: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che è esso stesso soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro umana». A snaturare l’ambiente è il capitalismo che tutto piega e subordina al profitto. Il lavoro, trasformato in variabile dipendente dell’intero ciclo di accumulazione capitalistica, è la logica conseguenza del passaggio dal valore d’uso al valore di scambio che è la merce, sia essa materiale o immateriale. Immateriale può essere la merce, mai il lavoro.
Inizio questo libro con un riferimento alla Critica al programma di Gotha perché penso che non vi sia molto da inventare per districarsi tra le contraddizioni dell’oggi che si incarnano nel conflitto costruito tra due diritti inalienabili: al lavoro e alla salute, quest’ultima a sua volta condizionata dall’ambiente.
Gli stessi concetti, espressi dal grande vecchio di Treviri, ricorrono in alcuni passaggi dell’ordinanza del gip di Taranto con cui si conferma il carcere per il patriarca della siderurgia italiana, Emilio Riva, per i suoi rampolli e i suoi cavalier serventi. Il lavoro senza la sicurezza e la salubrità non è un diritto ma una maledizione. Questa incontestabile considerazione non è prodotta dall’ideologia, bensì dalla lettura di svariati articoli della Costituzione (1, 4, e dal 35 al 40); le responsabilità della distruzione ambientale di Taranto, e il conseguente disastro sanitario che colpisce operai e cittadini, non possono essere equamente spartite tra chi impone un ricatto e chi talvolta è costretto a subirlo perché è debole, e viene afferrato alla gola da chi usa tutto il suo potere per cancellare il riscatto insito nell’antica cultura del lavoro.

Se è vero che chi fa impresa ha il diritto di garantirsi degli utili, è altrettanto vero che i profitti non possono essere accumulati a danno di chi lavora e della collettività – e che danno: si sta parlando di ogni tipo di tumori, malattie respiratorie e cardiache. A suggerire queste riflessioni contenute nell’ordinanza è, ancora una volta, la nostra Carta costituzionale che si basa su un principio: padrone e operaio non partono dallo stesso livello e non hanno le stesse opportunità, è dunque giusto tutelare maggiormente chi è più svantaggiato. E per rendere ancor più esplicito il concetto, vent’anni dopo la Carta fondamentale ha visto la luce lo Statuto dei lavoratori.
Eppure, quel che appare è ciò che si vuole far apparire, riproponendo per l’ennesima volta la teoria dei due interessi contrapposti: da un lato quello dei lavoratori dell’Ilva che difendono il loro lavoro a ogni costo, anche se il prezzo da pagare è un tumore al polmone e l’inquinamento del territorio, e dall’altra quello dei cittadini che mettono al primo posto la salute, in nome della quale pretendono la chiusura del più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Strana idea della cittadinanza questa, che esclude gli operai, trattati da untori. Persino una parte dell’ambientalismo più sensibile alla condizione operaia pretende da loro l’obiezione di coscienza, cioè il rifiuto di lavorare se il prodotto della propria attività provoca un danno sanitario a sé e alla collettività. Così, nella latitanza o peggio con la complicità di tanta politica e tante istituzioni pubbliche e private, laiche e religiose, di tanta stampa asservita e di tanto sindacato cooptato, si perde di vista il nemico principale, il padrone, che grazie a tanta subalternità è riuscito a scatenare la guerra tra poveri, tra le vittime della sua avidità, trasformando il conflitto verticale classico (capitale-lavoro) in un conflitto orizzontale.
Questa contraddizione, che possiamo definire antica, tra diritti inalienabili agita dai soggetti a cui viene negato ora il lavoro ora la salute, ora entrambe, è ben analizzata attraverso una lettura di classe dalla rivista di storia della conflittualità sociale “Zapruder. Storie in movimento”. «Negli anni Settanta, durante la recessione, nelle città statunitensi dell’acciaio circolava uno slogan molto incisivo: ‘Niente lavoro niente cibo – mangia un ambientalista’. […] Non molto diverso era il messaggio di un adesivo, uno di quelli che tanti statunitensi applicano alle loro automobili, tanto popolare in una cittadina dello Stato di Washington completamente dipendente dall’industria del legname e quindi coinvolta nella battaglia ecologista per la difesa del gufo maculato (spotted owl) e del suo habitat: ‘Sei ambientalista o lavori per vivere?’. Ma ‘la separazione tra le due sfere, quella sociale e quella ambientale, è fittizia e politicamente oppressiva, perché l’ingiustizia sociale riflette e (ri)produce l’ingiustizia ambientale in un metabolismo poroso tra corpi, lavoro e potere’. Insomma, quando una fabbrica inquina, i suoi veleni ammazzano anzitutto chi lavora dentro quella fabbrica; poi devastano il territorio dove è collocata, difficilmente un quartiere delle éliteurbane, e fanno ammalare chi ci vive; ed infine i suoi scarti troveranno la via che li condurrà in qualche discarica del sud del mondo o magari di quei tanti sud interstiziali dove vivono i poveri del nord. È l’ingiustizia ambientale che distribuisce i costi della crescita tra i poveri e i marginali, permettendo, invece, ai ricchi di massimizzare i loro profitti» (Un’altra primavera. Le lotte popolari per la giustizia ambientale, di Marco Armiero, Stefania Barca e Andrea Tappi, “Zapruder”, gennaio-aprile 2013).

Alla manifestazione a sostegno dei magistrati, che domenica 7 aprile 2013 ha solcato il centro di Taranto, c’erano medici, infermieri, farmacisti, cittadini, ambientalisti e, in fondo al corteo, il penultimo striscione era tenuto dalla moglie e dalle figlie di Ciro Moccia, l’ultima vittima dell’Ilva. L’operaio si era schiantato al suolo dopo un volo di dieci metri precipitando da una passerella mal posizionata mentre lavorava sull’impianto tarantino. Quello striscione non avrebbe dovuto aprire il corteo, davanti ai camici bianchi? Invece in testa non c’era, e dietro, a sfilare, non c’erano gli operai, i compagni di Ciro. Fino a quando quello striscione resterà in fondo al corteo e finché sarà seguito soltanto dai parenti di un operaio ammazzato, il padrone avrà vinto la sua battaglia.
Il conflitto tra i diritti fondamentali al lavoro e alla salute ha una storia lunga che inizia ben prima dell’Ilva di Taranto. Viene da lontano, dagli impianti chimici di Porto Marghera, dall’Acna di Cengio, da altri impianti inquinanti in Liguria, in Puglia, in Toscana, in Campania. Viene da Casale Monferrato, dove decenni dopo la chiusura dell’Eternit si continua a morire di mesotelioma. Ma all’Ilva questo conflitto ha una specificità che si chiama Emilio Riva, il “rottamaio” di cui questo libro racconta l’epopea: con pochi danari si è portato a casa la siderurgia italiana svenduta dallo Stato che, invece di tutelare un bene della collettività, ha scelto di liberarsene incassando per questa tipica privatizzazione all’italiana la metà dei soldi spesi per ammodernare lo stabilimento tarantino.
L’impero e le ricchezze di Riva si sono realizzate attraverso un sistema basato su ricatti e corruzione, cooptazioni e repressioni, sfruttamento e scambio politico. È impressionante come la storia del conflitto iniziato nello stabilimento di Genova si sia reincarnato tale e quale, quindici anni più tardi, nella fabbrica di Taranto. Due insediamenti produttivi costruiti a ridosso di popolosi quartieri, potremmo dire dentro questi quartieri, Cornigliano a nord e Tamburi a sud. La fabbrica sputa veleni, la popolazione protesta, la politica e le istituzioni “osservano”, si girano dall’altra parte, ma se si permettono di avanzare qualche proposta di risanamento e di ridimensionamento produttivo, pressate dalla rabbia delle vittime dell’inquinamento, Riva le corrompe e arma i suoi operai per lanciarli in una guerra insensata. A Taranto si ripete, più in grande, la storia di Genova che si concluderà con la chiusura della produzione a caldo, trasferita otto anni fa a Taranto per aumentarne la produzione d’acciaio fino a 10,5 milioni di tonnellate annue. Quando nella città dei due mari si materializza la percezione del disastro ambientale e sanitario provocato da diossina, Pcb, polveri sottili e metalli pesanti, comincia a svilupparsi una sensibilità ambientalista. Riva, grazie a un utilizzo senza precedenti della legge sull’amianto, svuota la fabbrica mandando a casa 12.000 lavoratori cinquantenni “usurati”, per sostituirli con altrettanti giovani meno costosi, rimasti a lungo precari, e corre ai ripari con i suoi metodi: disarma e coopta i sindacati, strumentalizza le preoccupazioni operaie, carezza la politica “glocalmente” – a Roma, a Bari, a Taranto – e la Curia arcivescovile, si compra i periti.

ilva_notteA Taranto, però, c’è una magistratura che vigila e fa il suo dovere, perseguendo i reati. Il 26 luglio del 2012 scattano gli arresti che decapitano i vertici del gruppo siderurgico, Emilio Riva, il figlio Nicola (successivamente lo stesso provvedimento toccherà anche all’altro figlio, Fabio, volato nel frattempo sulle rive del Tamigi) e tutti i massimi dirigenti. L’acciaieria viene sequestrata. Ed è soprattutto contro i giudici che si scatena l’azione di Riva, coadiuvato dal sostegno proveniente da troppe sponde: i governi alzano la soglia di inquinanti accettabili; i politici latitano quando non si fanno ammaliare dalle sirene del padrone delle ferriere, non più un nemico, bensì un modello da estendere a tutta la regione, come si evince dalle conversazioni registrate che coinvolgono – politicamente e non giudiziariamente – anche il governatore pugliese Nichi Vendola; un parlamentare del Pd, Ludovico Vico, promette di far uscire il sangue a un altro senatore del Partito democratico, Roberto Della Seta, troppo attento alla salute dei tarantini. E in tanti, a partire dal presidente della Provincia, tentano di dare il benservito al direttore generale dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato che, con le sue perizie, sta mettendo a rischio il sistema di potere e i relativi privilegi, destinati a una casta allargata di cui fanno parte anche diversi settori dell’informazione. La compromissione, invece, non è solo politica ma anche giudiziaria nel caso del presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, dirigente del Partito democratico ed ex segretario della Cisl, al centro di quattro nuove ordinanze di custodia cautelare eseguite – poco prima che questo libro venisse dato alle stampe – dalla Finanza a Taranto, sempre in relazione all’inchiesta “Ambiente svenduto”. Il reato contestato dal gip Patrizia Todisco è di concussione e si riferisce alla discarica Mater Gratiae all’interno dell’Ilva, destinata ai rifiuti speciali. Florido si sarebbe fatto in quattro per convincere chi avrebbe dovuto controllare il rispetto delle norme a chiudere un occhio, meglio tutti e due, per non intralciare il cammino dei Riva.
Ha amici negli ambienti più impensabili Emilio Riva, è “generoso” con la politica e nel 2006 arriva a finanziare con 98.000 euro la campagna elettorale di Pierluigi Bersani. Si tratta di un finanziamento lecito ma imbarazzante per il dirigente democratico, così come quello di 110.000 euro proveniente dalla Federacciai, di cui fanno parte le imprese del settore, Riva e Marcegaglia compresi. Quattro anni più tardi, la lettera di Riva a Bersani perché venisse domato il solito irriducibile senatore Della Seta non avrebbe sortito effetti: lo sostiene lo stesso senatore del Partito democratico che nega qualsivoglia pressione di Pierluigi Bersani. È “generoso” anche con gli operai che pretende di usare come massa di manovra, pagando pullman, panini e giornate non lavorate. Quegli stessi operai spinti a manifestare contro i giudici, con la copertura dei sindacati, ma con l’eccezione della Fiom che, dopo aver fatto pulizia al suo interno, senza risparmio di espulsioni, si rifiuta di manifestare a comando, su ordine del padrone. Il sindacato guidato da Maurizio Landini non ci sta a fermare le linee se a promuovere la protesta è proprio chi invece va combattuto, nemico della popolazione e nemico delle sue maestranze, responsabile del disastro ambientale e culturale di un’intera comunità.
Dall’altra parte c’è chi protesta a difesa dell’azione della magistratura e vuole portare lo scontro fino allo stadio finale, chiedendo la chiusura dell’Ilva anche con un referendum consultivo che il sindaco Stefàno ha tentato di evitare finché il Tar non gli ha imposto di indirlo. È durata sei anni l’attesa di un referendum che per molti protagonisti della vita tarantina rappresentava la strada sbagliata per affrontare un problema troppo serio. Come diceva alla vigilia delle urne un vecchio operaio dell’Ilva, andato in pensione grazie all’applicazione della legge sull’amianto, «se per un miracolo improbabile si raggiunge il quorum e vince chi vuole chiudere la fabbrica, perdono gli operai; se vince il no alla chiusura o, ipotesi più probabile, non si raggiunge il quorum, vince Riva. Bel risultato, davvero». È inutile provare a spiegare a chi si batte per la chiusura totale e definitiva dell’Ilva che l’impianto produce il 75-80% del Pil di Taranto ed è il garante dell’autonomia italiana rispetto all’acciaio; che 11.600 posti di lavoro diretti, più altrettanti nell’indotto, non si inventano dall’oggi al domani in una realtà che la cecità della politica ha voluto monoculturale; che l’acciaio si può produrre in un altro modo e dunque bisogna investire sulla trasformazione della fabbrica e del suo ciclo produttivo mentre si avvia il risanamento del territorio, del terreno, del mare, dell’aria, delle falde acquifere. Il referendum si è tenuto domenica 14 aprile 2013; come era facilmente prevedibile, anche per l’intervento massiccio dei poteri forti e istituzionali, il silenzio di una parte dell’ambientalismo e l’ostilità della maggioranza dei sindacati, il quorum non è stato raggiunto e solo il 19,5% degli elettori tarantini si è recato alle urne. Meno di un quinto degli aventi diritto, meno di un decimo nel martoriato quartiere Tamburi, e figuriamoci se a Tamburi il problema Ilva non è sentito. Il fatto è che “chiedere ai cittadini di chiudere o tenere aperta una fabbrica non si può fare con un referendum, per di più consultivo. Non è come decidere il nome di una strada”, diceva ancora il nostro amico operaio.

Sembra impossibile trovare una soluzione radicale, ma condivisa e praticabile. Infatti, chi non vede alternative alla chiusura dell’Ilva e delega questo compito alla magistratura, controbatte a ogni proposta di ristrutturazione dicendo che 20.000 posti di lavoro si possono realizzare con una grande opera di bonifica ambientale, mentre i soldi si possono trovare rinunciando alle grandi opere inutili come la Tav e tagliando le spese militari. Ma queste due voci sempre invocate, possono bastare a coprire le spese di un nuovo modello di sviluppo? Comunque, soldi a parte, l’anima più estrema dell’ambientalismo pensa e sostiene che, alla fin fine, gli operai dell’Ilva devono decidersi a “smettere”, si cerchino un altro lavoro. Come se a Taranto questo, oggi, fosse possibile. A chi sostiene che la chiusura dello stabilimento tarantino non aprirebbe necessariamente la strada alla bonifica – anzi potrebbe capitare come a Bagnoli, dove la bonifica non è mai stata fatta e chi ne era incaricato si è intascato i soldi disperdendo e mettendo sotto il tappeto amianto e altre schifezze – rispondono che è compito della politica mantenere gli impegni, vigilare e via dicendo. A chi spiega come, proprio a Bagnoli, la chiusura dell’Italsider abbia aperto le porte alla camorra, che finalmente è riuscita a conquistare una delle poche trincee napoletane contro la criminalità organizzata, si risponde che se arriva la criminalità la colpa è della politica. Questi ragionamenti aiutano a capire i motivi del boom di Beppe Grillo a Taranto, tanto tra chi manifesta contro i magistrati quanto tra chi sfila in corteo a favore della gip Patrizia Todisco.
Contro o a favore dei magistrati, sembrerebbe trattarsi di due posizioni opposte. Sono invece figlie dello stesso problema che si chiama assenza della politica. Per decenni la città di Taranto ha rimosso la questione Ilva, eppure c’era chi sapeva e sarebbe dovuto intervenire subito: prima che la situazione sanitaria esplodesse; prima che il conflitto tra città e fabbrica diventasse insanabile; prima che nell’immaginario collettivo l’acciaio – non Riva, come sarebbe logico, non quel modo di produrre, ma l’acciaio tout-court – diventasse incompatibile con una città di quasi 200.000 abitanti. Oggi il clima è talmente deteriorato che chiunque cerchi una soluzione condivisa e praticabile è costretto a tacere e ad abbassare gli occhi quando la madre di un bambino di Tamburi, morto di tumore, urla che quel mostro di ferro dev’essere spazzato via, per sempre.

inva_bimboQuesto libro, raccontando Taranto, cerca di mettere a fuoco un sistema di potere e di gestione dell’economia non meno aggressivo, violento e antisociale di quello, più noto, incarnato da Sergio Marchionne. In comune Riva e Marchionne hanno l’arroganza e il disprezzo nei confronti dei sindacati di cui vorrebbero fare a meno, e se non ci riescono se li comprano, o comunque li pretendono succubi e obbedienti. Sia Riva che Marchionne hanno dalla loro il crollo dell’attenzione democratica in tempi di crisi economica: o il lavoro o i diritti, dice l’amministratore delegato della Fiat; o il lavoro o la salute, gli fa eco il padrone dell’Ilva. Ma il lavoro, senza diritti e senza salute, regredisce a schiavitù. Marchionne ha usato una metafora bellica per spiegare la fine di un’era, del Novecento e del conflitto sociale: un’azienda è come una nave da guerra che combatte per conquistare mari, isole e coste. È fondamentale che tutti, all’interno dell’imbarcazione, marcino compatti, dall’armatore al comandante ai rematori. Siamo o non siamo tutti sulla stessa barca? Il nemico è rappresentato dalla nave nemica che vuole conquistare gli stessi mari, isole e coste. I nemici dei nostri rematori, dunque, non sono più armatore, comandante e ufficiali che dettano il tempo tra due colpi di remo con la frusta in mano, i nemici sono i rematori della barca concorrente. Ecco declinata la guerra tra i poveri, se si sostituiscono gli operai ai rematori la metafora diventa chiarissima. Non è forse la stessa strategia con cui, da sempre, Riva conduce le sue battaglie, trattando gli operai come carne da cannone?
La crisi di Taranto vive dentro la crisi italiana che, a sua volta, è parte di una crisi globale. È una crisi di modello economico che, con le risposte oggi prevalenti imposte dagli stessi che la crisi hanno scatenato, si trasforma in crisi sociale e crisi democratica. Taranto non è più in grado di digerire le conseguenze di scelte sconsiderate, non può più sopportare questo modo di produrre acciaio, imposto da quella che per la procura tarantina altro non è che un’associazione per delinquere. Ma Taranto non può vivere, oggi, subito, senza acciaio, quando ogni alternativa economica è stata cancellata (la cantieristica, lo sviluppo del porto, l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, il turismo) o mai costruita. Se il lavoro senza salute non è un diritto, è altrettanto vero che senza lavoro e senza mezzi di sussistenza non c’è dignità né c’è salute. E oggi, lo stato di salute dell’Italia è pessimo, al punto che ogni riferimento al primo dopoguerra sarebbe ingannevole, perché nel primo dopoguerra c’era la speranza e con la speranza la fantasia, la voglia di sperimentare e ricostruire. In fin dei conti, nel primo dopoguerra c’era la politica. Oggi che il lavoro è svalorizzato e ignorato, è impensabile ricostruire il futuro, praticare nuove relazioni sociali, in fabbrica e nel territorio, e sperimentare un nuovo modo di produzione restando dentro lo stesso modello di sviluppo, incompatibile con la natura e dunque con la vita. Vuol dire allora che è finita l’età dell’acciaio – metallo prezioso che dava il nome a Stalin e muoveva automobili, carriarmati e frigoriferi, intelligenze e lavoro di milioni di persone a est e a ovest, a nord e a sud del mondo? Non è così. I metalli, più o meno preziosi, non servono soltanto a costruire la merce del passato, energivora e inquinante; anche gli oggetti-simbolo di un nuovo modello di sviluppo, come i pannelli solari, hanno molto a che fare con la trasformazione industriale dei metalli. Inoltre, evocare modelli di vita, consumo e sviluppo ecologicamente e socialmente compatibili, non fa fare molta strada se non si individuano le forme necessarie a costruirli, le tappe, le risorse, le alleanze. A chi chiede di cambiare sviluppo e consumi dobbiamo ricordare che insieme alla finalità del lavoro e alla ricerca di un nuovo valore d’uso marxiano, bisogna rimettere mano, contemporaneamente e non domani, anche al modo di produzione.

Guardando alla filiera dell’acciaio siamo tornati nei luoghi in cui l’acciaio italiano è nato centodieci anni fa, a Bagnoli, e poi a Genova, due luoghi simbolici la cui esperienza, purtroppo, ha insegnato ben poco. Per progettare un futuro più pulito e democratico, per chi lavora e per tutti quelli che respirano, sarebbe il caso di fare, paradossalmente ma non troppo, un tuffo nel passato, quando gli operai pretendevano di controllare l’intero ciclo produttivo per uscire dalla schiavitù della parcellizzazione, dell’alienazione e dell’ignoranza delle loro azioni. Quegli operai scoprirono la suggestione del rischio zero e gridarono che la salute non si vende e non si scambia, volevano essere attori delle scelte, decidere cosa, come, dove e perché produrre. Erano i primi anni Settanta, il sindacato era quello dei consigli di fabbrica, dei delegati di gruppo omogeneo eletti democraticamente dai lavoratori e non, come oggi, dal padrone come avviene alla Fiat, o altrove nominati dalle organizzazioni sindacali. Erano loro i tutori della salute, in linea e fuori dalla linea di montaggio, erano loro a dare agli scienziati le informazioni sui rischi, mentre oggi se va bene le ricevono. Se la salute è peggiorata per tutti, non solo a Taranto, è anche perché, insieme alla rappresentanza politica, è saltata anche la rappresentanza sociale, e con essa l’autonomia sindacale e di classe.
Liberarsi dal modello Riva e, materialmente, dalla proprietà di Riva a Taranto e in Italia, è il solo modo per avviare una discussione seria sulla siderurgia e sul destino di stabilimenti mastodontici, come quello pugliese, appunto. Per liberarsi da questo modello bisogna che il sindacato riconquisti la sua autonomia come ha iniziato a fare la Fiom. Per liberare l’Ilva è necessaria un’assunzione di responsabilità politica. Sequestrare gli impianti e i capitali di Riva per sanare quel che Riva ha inquinato (ambiente e coscienze) è davvero una provocazione? Si direbbe di sì, visto che l’unico sequestro effettuato da parte della magistratura, che aveva sigillato prodotti finiti e semilavorati per più di un miliardo, è stato annullato da una legge dello Stato chiamata “salva Ilva”, con la successiva benedizione della Corte costituzionale. Una mossa, quella coraggiosamente effettuata dai magistrati tarantini, che forse avrebbe dovuto essere accompagnata dalla confisca dei beni del vero untore, per impedire che i capitali accumulati prendessero il volo verso altri lidi, tra il Lussemburgo e lontani paradisi fiscali nelle Antille olandesi. Il solito gioco della scatole cinesi ha portato a un ridisegno della struttura finanziaria del gruppo Riva, al fine di isolare l’Ilva, che pesa per i due terzi sugli affari di famiglia. La proprietà si dichiara disponibile a investire 400 milioni di euro per intervenire sull’impianto per la riduzione delle emissioni, un decimo del danaro necessario che ammonta a 4 miliardi. Ma lo scorporo dell’Ilva dalle casseforti lussemburghesi – con le dépendance caraibiche di Curaçao – potrebbe salvare i beni di famiglia.
Ma finalmente anche i trucchi finanziari della famiglia Riva per trasferire il plus valore dell’Ilva in scatole finanziarie protette – operazione iniziata, a dire il vero, già da molti anni, addirittura dal momento stesso del passaggio dell’azienda dallo Stato a Emilio Riva – sono stati scoperti dalla magistratura, in questo caso dai pubblici ministeri di Milano. Nella terza settimana di maggio del 2013 è stato effettuato un sequestro di un miliardo e 200 milioni di euro, il corrispettivo del danaro che la famiglia di imprendi- tori bresciani ha sfilato dall’Ilva collocandolo in otto trust nell’isola di Jersey nel Canale della Manica “per occultare la titolarità dei beni”. Si tratta di capitali sottratti al fisco, scudati con operazioni irregolari, anche e soprattutto per impedire che quei soldi potessero essere confiscati per sostenere le spese di risanamento industriale e ambientale dell’Ilva. Per fortuna, però, non sono bastati trucchi, prestanome e scatole cinesi per mettere in salvo la famiglia Riva dalle sue gigantesche responsabilità. Dunque, non sono solo i magistrati tarantini a “tramare” contro i Riva, è una “persecuzione” dell’intera magistratura. Ad ascoltare gli avvocati di famiglia, sembra di assistere alla proiezione di un film già visto e in cui cambia solo il nome dell’attore-imprenditore.

Fatta eccezione per Riva e i suoi accoliti, tutte le persone coinvolte in questo reportage sono convinte di una cosa: Riva è ormai incompatibile con Taranto, e forse persino con l’intera siderurgia italiana. Si tratta di capire se una diversa Ilva sia ancora compatibile, e a quali condizioni, con questa città. L’unica strada per tentare di salvare lavoro, economia e salute è quella di liberarsi dal giogo di chi si è reso responsabile del disastro di Taranto, facendogli pagare i costi della bonifica.

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