Zack Snyder – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 79 https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/divine-divane-visioni-cinema-porno-79/ Thu, 18 Jan 2018 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42820 di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985 Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma [...]]]> di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985
Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma bello, beh… no. Ma neanche discreto, passabile, accettabile… proprio no: è una vera merdaccia di film come raramente mi è capitato di vedere, il grado ultimo della fecalità su pellicola, vi assicuro. Ma prendiamola larga: il regista è Shin Sang-ok, un coreano sbagliato, del Sud, che al paese suo godeva di gran fama (era detto l’“Orson Welles sudcoreano”…) ma doveva anche sfangarla continuamente con censura e problemi produttivi. Mai saprò dell’effettivo valore del cineasta perché se pensa, come ha detto, che Pulgasari sia il suo miglior esito posso immaginare quali badilate di letame siano gli altri suoi film. Kim Jong-il – morto l’anno passato – voleva adeguare la cinematografia del suo paese a quella prodotta su scala mondiale che tanto ammirava. Dall’alto della sua pratica cineteca con 15mila titoli, il figlio di Kim Il Sung scrisse poderosi saggi di cinema e, di fronte alla cronica latitanza di talenti e capacità produttive a nord del 54° parallelo, decise per le maniere forti: fece rapire Shin Sang-ok (come del resto l’ex moglie e attrice Choi Eun-hee) e, dopo opportuna rieducazione, gli diede carta bianca. Shin girò diversi film fino a questo Pulgasari dopo il quale, complice una trasferta a Vienna, riuscì a imbucarsi nell’ambasciata USA con dei nastri registrati da donna Choi che provavano come i due fossero sotto ricatto e non volontariamente in esilio come sempre sbandierato dal regime nordcoreano.
Pulgasari dura un’ora e mezza ma vi assicuro che il tempo percepito è di circa una settimana. È un kaiju eiga, cioè un film di mostri o qualunque cosa significhi. Siamo nella Corea dell’epoca feudale (1400, quasi 1500, boh) e la vita, alle pendici delle montagne, è grama, sotto il giogo di una monarchia insensibile. Inde è il capo dei ribelli: esibisce una rambesca bandana e, pur sembrando Drupi, gode dell’amore della virginale Ami. Tanto per cambiare è in atto una carestia e il governatore pretende armi e metallo e confisca tutti i beni del villaggio dove vive Inde. Ci scappano calci e pugni e pure il morto: tragedia! Inde e il padre di Ami, fabbro, vengono imprigionati e rifiutano orgogliosamente il cibo, al punto che il vecchio, prima di schiattare, usa una polpetta di riso per sagomare una figurina antropomorfa cui chiede di salvare il mondo. Dolore e stridore di denti, anche per le scelte registiche ributtanti: è quasi tutto girato in studio, con luci alla cazzo di cane, montaggio prescolastico e una musica infestata di synth atroci. Ami, ad ogni modo, recupera il pupazzetto che finisce tra i suoi attrezzi da cucito. La ragazza si punge e una goccia di sangue finisce sulla figurina che, voilà, prende vita e comincia a nutrirsi di metallo. La cosa non smuove minimamente nessuno: “È carino!”. Risate e si va a dormire, ma il mostricciattolo fugge e cresce a vista d’occhio, mangiandosi tutto quanto sia metallico: maniglie, lucchetti e serrature. E pure la spada del boia che avrebbe dovuto decapitare Inde, così come le sue manette, tutto sgranocchiato come appetitosi snack. Il mostro, sempre più grosso, viene battezzato Pulgasari, l’immortale, e diventa l’arma che consente ai ribelli di opporsi finalmente al brutale tiranno.
Da qui parte una sequela eterna di combattimenti tra ribelli e potere centrale. Il canovaccio è sempre lo stesso: i rivoltosi rischiano grosso, poi arriva Pulgasari e si vince. Il tutto tra scene di massa drammatiche (come impeto e come effetto sullo spettatore), con armi risibili come letali pietre di polistirolo o fischioni e altri fuochi d’artificio spacciati per prodigi bellici pirotecnici. Un cacamento di cazzo eterno e dolente, non potete immaginare, con questo Pulgasari che è un panzone mangiametalli con la faccia da coglione, mezzo toro e mezzo maiale, e che si ha il coraggio di definire pure “molto intelligente”. Tra l’altro si vede chiaramente il povero attore che si agita sotto il costumone in gommapiuma con la cucitura sulla schiena, un sarcofago che deve averlo fatto sudare come in un bagno turco.
Il re capisce che la chiave per incastrare il mostro è Ami: la cattura e attira Pulgasari in trappola, in una gabbia a cui si da fuoco. E secondo voi che fa il nostro eroe? Si libera e si riparte. Dal punto di vista drammaturgico siamo a livelli infantili. Le scene di battaglia sono girate in modo dilettantesco, con sganassoni e capriole alla Bud Spencer e Terence Hill, ed è tutto avvincente come una partita di shangai. All’ennesimo confronto una freccia propulsa da polvere pirica piglia Pulgasari in un occhio: comprensibilmente il mostro s’incazza vieppiù e sgomina l’esercito per l’ennesima volta. Allora si fa ricorso a una fattucchiera in deliquio che lo strega e lo fa cascare in un orrido (orrido, sì, ma non quanto il film) dove lo sotterrano con delle pietre. L’esercito attacca i ribelli e, con mio sommo godimento borghese, Inde viene impiccato coi capelli sciolti al vento come Geronimo: devono avere qualche problema di parrucchieria da quelle parti, comunque. Vabbeh. I governativi festeggiano e Ami, che s’è finta prostituta, va a versare il suo sangue nell’orrido e Pulgasari riemerge dalla terra. I contadini attaccano la capitale, ma il re ha l’arma totale: una specie di involtino primavera pieno di esplosivo che finisce in gola a Pulgasari che repente lo risputa, sfasciando tutto. Roba da non credersi, con un’effettistica (a cura della Toho, quella dei vari Godzilla) che sarebbe parsa infelice in un telefilm come Megaloman, per dire, e un sonoro di una povertà clamorosa, con il clangore delle spade che neanche in un videogioco del Commodore 64. A questo punto i ribelli entrano in trionfo nel palazzo reale ma Pulgasari ha fame e – Franza o Spagna, purché se magna – diventa intrattabile, pretendendo altro metallo. La pazientissima Ami realizza che qui si rischia la fine dell’umanità e allora si nasconde in una campana e si fa mangiare, implorando il mostro, col suo sacrificio, di annientarsi per il bene della Terra. E Pulgasari sgrana gli occhi e si sgretola: dai detriti riemerge un Pulgasari cucciolo che si smaterializza ricongiungendosi col corpo esanime di Ami. E io: BOH.
Pulgasari sembra aver conosciuto incassi record alla sua uscita in Corea del Nord (beh, immagino che fosse imposto in sala tipo I soliti idioti quest’inverno qui da noi). In Giappone arrivò nel 1998, non ho capito con quale accoglienza, e poi venne distribuito anche in Corea del sud e pure negli USA, immagino per riderne di gusto o per compiacere qualche coprofago.
È una metafora del Capitalismo, con la sua fame inarrestabile? Oppure l’irriconoscente regista Shin ha voluto rappresentare con Pulgasari Kim Il Sung, padre della rivoluzione e Grande Leader ormai ingestibile come presenza? O ancora – e qui saremmo al top – ci sta dicendo che la Rivoluzione mangia se stessa? E CHI CAZZO LO SA?! È tutto confuso ideologicamente e non vedo come il regista possa aver voluto dare una qualche lettura sovversiva a ‘sta cacata. Potete attribuire tutto quello che volete, a questa clamorosa puttanata, anche che sia una satira delle diete carnivore, ricche di ferro e povere di verdura. Io non azzardo interpretazioni, valuto solo i risultati: non ho mai visto un film così orrendo. (29/2/12)

919 – The Artist di Michel Hazanavicious, Francia 2011
Fresco vincitore di una carrettata di Oscar, eccovi il film amato dai critici e dal pubblico più snob. Rientro perfettamente nella seconda categoria e ammetto il divertimento: l’opera di Hazanavicious è un intelligente e riuscito omaggio al bel cinema di un tempo, quello di circa 80 anni fa, che tracopia mimeticamente e in maniera scintillante. Muto, in bianco e nero, in formato 4/3, con tutti i temi cari alla cinematografia di quel periodo: la commedia passionale e patetica, con rovinose cadute di carriera come incredibili ascese rags to riches. Mettiamoci poi il gioco metacinematografico, l’uso dissimulato e intelligente del sonoro, diversi attori splendenti che non fan rimpiangere alcun dialogo (compreso un superbo cagnolino), musiche enfatiche anche riprese da altri film, un buon ritmo e l’immancabile happy ending, dopo il classico suicidio sventato. Un’opera così non può che far godere i critici che sui testi sacri del muto hanno studiato e che qui ritrovano in ammiccante filigrana. Il pubblico snob – che magari queste cose le ha già viste, ma è molto più probabile che no – ha un comprensibile compiacimento da scoperta. Saremmo nel midcult se The Artist fosse più facilino o facilone, ma Hazanavicious mi pare più intelligente che furbo e alla fine, Oscar o meno, il film l’han visto mica in così tanti. Un giocattolo carino, molto, che fa tenerezza. E una recensione borghesissima, lo ammetto. (Dvd; 4/3/12)

920 – Rome di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005
Sarà che ho appena finito di lavorare con Pippo Baudo (…) e tornando a casa – chissà perché – mi viene una voglia di antichità, di Storia, che tosto soddisfo col cofanetto di Rome comprato anni fa. La prima serie l’abbiamo già vista nell’edizione televisiva italica, mutilata di violenza e sesso per non turbare gli spettatori Rai, ci mancherebbe. Questa è quella uncut e decidiamo di ripartire dall’inizio, tanto la memoria della prima visione è pressoché scomparsa, annebbiata tra pannolini, pappe e sveglie notturne per l’allora piccolissima Sofia. Rome racconta la vicenda di Giulio Cesare (interpretato da un indiano che pare Paolo Calabresi, il Biascica di Boris) attraverso le storie di due poveri diavoli che son sempre a mezzo e, con abili sottigliezze narrative, si evince che i fatti scatenanti siano sempre dovuti a loro, micce loro malgrado della dinamite romana. Lucio Voreno (Boris Becker, uguale) e Tito Pullo (uno yankee che più non si può) sono ovunque, ad Alesia come a Farsalo (scampando in mezzo a 5000 vittime alla tempesta che ha annientato la flotta di Marco Antonio) come nel letto di quella drogata di Cleopatra. Lucio Voreno è diviso tra ambizione e dovere, mentre Tito Pullo è tutta minchia e il suo ideale è combattere, razziare, scopare, bere e fumare (dice proprio così… ma ai tempi dei romani si fumava? Scopro di sì: salvia, alloro, erbette… pazzesco!). Di contorno il futuro Augusto, Ottaviano, una piccola merda di eccezionale intelligenza politica, e Ottavia, una poverina indecisa sessualmente, sempre pedina di altri. Tra i vari colpi di scena della puntata finale, Cesare ci rimane comunque secco, anche se non pronuncia lo storico tu quoque. L’esperimento narrativo e produttivo è interessante, la messa in scena sontuosa, le inesattezze storiche a go-go (documentate con perfidia da Wikipedia) ma chi se ne frega. La cosa che più lascia perplessi, però, è la teoria di facce WASP o le inaspettate somiglianze, come Marco Antonio che sembra Teo Mammucari, furbetto, zozzetto e amatissimo dai suoi soldati. Il plot storico è adattato e non ci vedo niente di male e l’unica attendibilità che sembra rispettata in pieno è quella della realtà spicciola e quotidiana: pensa un po’, anche gli antichi romani trombavano, tradivano e facevano le scritte sui muri. Ringraziamo che ci vengano risparmiate le dita nel naso, le palline fatte con le caccole e le scoregge liberatorie. Molta attenzione è dedicata poi alla religiosità e alla superstizione, con il fato come arbitro dei destini: guai ad andare contro la Fortuna! (Cosa che salva Voreno e Pullo infinite volte da Cesare). C’è anche dell’ironia con il ciccione che al Foro romano fa il telegiornale e alla fine annuncia che le notizie sono state offerte dallo sponsor. Che dire, in conclusione? Serie magnifica che però va un po’ perdendo colpi e diventa progressivamente oscura e lenta, seguendo la caduta verso la tragedia del Divo Giulio, quello originale. (Dvd; marzo 2012)

921 – Il mondo esploso di Crumb di Terry Zwigoff, USA 1994
Se i fumetti di Robert Crumb vi sono sempre sembrati strani, dovreste conoscerne l’autore. E se lui vi parrà un tipo completamente fuori di coccio, allora non avete idea di come stiano messi i suoi fratelli. Questo il succo di un documentario notevole, costato nove anni di fatica e realizzato da un altro matto, un regista spiantato, amico di Crumb, capace di comprendere ciò che stava riprendendo, cioè il frutto doloroso della società americana: una famiglia che definire disfunzionale è fargli un grosso complimento. Repressione, consumismo, plastic people, cultura underground, depressione, perversione, sublimazione: in Crumb c’è tutto, sia nel documentario che nella vita e nelle opere dell’artista che, grazie al successo della sua “visione”, ha condotto un’esistenza più o meno normale. Due matrimoni, diverse storie, due figli. La sua vita artistica e sentimentale è raccontata attraverso le testimonianze, spesso scostanti e uncomfortable di chi gli è stato vicino. Diversamente Max e Charlie, i due fratelli, sono andati in malora. Il primo è ritirato a San Francisco dove dipinge quadri folli e bellissimi e medita su un tappeto di chiodi. Giuro. L’altro, Charlie, non esce di casa da anni, rinchiuso in camera sua. Anche lui un talento grafico eccezionale, lui più degli altri disperato di fronte alla vita, tanto che a un anno da fine riprese si suiciderà. Robert Crumb è famoso da noi per Fritz il gatto, ma è anche l’autore della copertina di Cheap Thrills, l’album che fece di Janis Joplin una star. Divenne popolare alla fine dei Sessanta, con le sue storie schizzate, perfette per l’epoca drogata e ribelle, e poi, man mano, cominciò a raccontare le sue ossessioni, passando attraverso il barbuto Mr. Natural o rievocando la sua adolescenza nel dopoguerra USA sessuofobico. Crumb disegna in modo incredibile, con pennino a china, pennello o rapidograph. È un commentatore satirico che non osserva soltanto, ma vive il disagio che rappresenta. Da artista vero, tormentato, bugiardo, misantropo (e “masturbatore compulsivo” secondo una ex, che ne ricorda anche il cazzo grossissimo), contento solo quando può ascoltare la sua collezione di dischi di jazz e blues delle origini, Crumb coglie le espressioni, la disperazione, i tic dell’americano medio assediato e represso dalla società. Assieme a lui – allampanato e con lenti spesse come fondi di bottiglia – ripercorriamo la sua storia girando per l’America e quel che viene fuori, appunto, è un documentario tradizionale nella forma ma dirompente nei contenuti. Non è un’agiografia, questa, e su Crumb è interessante ascoltare anche il punto di vista acuto di una femminista intransigente che lo bolla come pornografico, razzista e sessista (zero convincente invece il critico d’arte che lo esalta: un cialtrone che fa name dropping a caso per nascondere la sua ignoranza in materia). Documentario strepitoso, comunque. (Dvd; 31/3/12)

922 – Rome 2 la vendetta, di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2007
Porca Juno! Ma non si può a metà di una serie cambiare faccia a un protagonista, dai! Ottaviano, uno che hai visto per 14 puntate ragazzo, di punto in bianco diventa una specie di cyborg, con l’espressività di un capitello. Anche Lucio Voreno ha un evoluzione che dal punto di vista recitativo è tremenda, siccome è nervosetto diventa tutto oscuro, ringhia, ha sempre lo sguardo torvo, sembra Boris Becker dopo aver saputo che la donna che gli ha dato un figlio usando il seme ottenuto con un rapporto orale avrà piene tutele economiche (è successo, lo so: è incredibile). In contrapposizione si accentua il lato da compagnone del buon Tito Pullo, che però – data la sua natura primitiva – incorre anch’egli in diverse vaccate. Come sempre grande violenza, tradimenti schifosi, nessuno “buono”. Al limite si apprezza la schietta onestà di Marco Antonio. Per il resto son tutti calcolatori efferati o pusillanimi (come Bruto che si riscatta con la morte pressoché suicida, dopo aver visto morire anche Cassio – legame omoerotico solo sottilmente adombrato). Divertente, ad ogni modo, ma inferiore alla prima serie. (Dvd; marzo e aprile 2012)

925 – Colpa mia, non di Lady Vendetta, di Park Chan-wook, Corea del Sud 2005
Barbara e io sbagliamo clamorosamente film, perché per un’opera del genere bisognerebbe essere freschi e cazzuti e invece quando ci accasciamo sul divano ci piomba sulla schiena tutta la fatica della settimana. Poi non vorrei sembrare razzista ma io ho confuso tutte le facce degli attori e per un bel po’ non ho capito chi fosse chi e cosa cazzo volesse dalla bella protagonista. Comunque trattasi di ennesima variazione sul tema della vendetta: lei (figuratevi se ricordo il nome) è stata 13 anni in carcere, accusata di aver ammazzato un bimbo di sei anni. Lì ha abbracciato la religione (cristiana) e s’è comportata da santa, difendendo o vendicando le compagne angariate. Poi uscita di prigione si dedica alla vendetta, perché lei non era assassina ma semplicemente complice inconsapevole e succube. Si fa aiutare dalle vecchie compagne di carcere (e di nuovo io non capivo una mazza) e fa un bel lavoretto pulito, in maniera non proprio prevedibile. Lady Vendetta è elegantissimo da un punto di vista formale, spezzettato in tantissime scene e trascinato per le lunghe al momento della vendetta vera e propria: l’ho sopportato e m’è parso inutilmente complicato tra diversi piani narrativi e temporali (prima del carcere, durante e dopo). Meno brillante e riuscito dei precedenti capitoli di Park, quindi? Mah! Ero troppo stanco per vederlo con la dovuta attenzione, però il cliente ha sempre ragione: non è che l’Auditel del venerdì sera sia ponderata mettendo in conto la settimana lavorativa, eh. Per cui, anche se so di sbagliarmi, giudizio non esaltato e – prima o poi – vendetta tremenda vendetta. (Dvd; 13/4/12)

926 – Una benedizione: Baraka di Ron Fricke, USA 1992
È come una legge non scritta: è il week end, arrivi più morto che vivo e nel mio caso è anche un week end lavorativo. Bene: le bimbe, ka-zam!, hanno tutte e due la febbre. Tanto per cominciare non si capisce perché in settimana, per portarle a scuola, la sveglia prima delle 8 sia un’operazione titanica, mentre il sabato siano belle arzille e rumorose già alle 7… E vabbeh. Fatto sta che verso le 11 cominciano le lamentazioni e le misurazioni, che con questi maledetti termometri elettronici sono un autentico terno al lotto. Ma siccome ho studiato Fisica all’università faccio diverse misurazioni, tolgo i risultati estremi e calcolo la media. Non c’è nulla da fare: hanno il febbrone. E Sofia, catatonica, subisce la mia imposizione: un film non narrativo, di pure immagini. Siccome Koyaanisqatsi le ha fatto un baffo, non si scompone quando faccio partire questo Baraka girato da Ron Fricke, direttore della fotografia dell’epocale film di Godfrey Reggio. Rispetto al capostipite qui c’è più ricerca formale e cromatica ma si sente la mancanza della musica di Philip Glass. E se alla fine, stringi stringi, il concetto è farci vedere la ricchezza e la diversità della Terra e dell’impatto dell’uomo su di essa, qui c’è più compassione (il titolo significa – in diverse lingue – “benedizione”), mentre Koyaanisqatsi era manifestamente critico, a partire dal titolo. Sono tante le immagine di devozione e preghiera (soprattutto all’inizio e nel finale) e a fianco della maestosità della natura si trovano anche tanti esempi grandiosi dell’inventività umana, artistica e tecnica. Se ne vedono anche gli effetti (in termini ambientali) e il costo (le fabbriche alveare o l’allucinante sequenza della selezione dei pulcini). E ancora una volta vediamo il traffico velocizzato che diventa un torrente di automobili o le masse di pendolari che scorrono come sangue nelle vene della metropolitana. Ma il film di Reggio aveva una natura più sperimentale e astratta, forse frutto anche dei diversi materiali confluiti durante gli anni. Baraka invece risponde a un disegno più preciso e ambizioso: la bellezza e l’orrore, cioè l’umanità, dal rapporto placido col creato (gli indios, gli aborigeni, le risaie terrazzate a Bali) a quello impazzito (i pozzi in fiamme in Iraq). Non stupefacente perché visto in casa e non in una sala, come previsto utilizzando la pellicola a 70 mm. Però bello, molto, e apprezzato anche dai 7 anni di Sofia. (Dvd; 14/4/12)

927 – La maledizione della prima luna di Gore Verbinski, Usa 2003
Altro film, ma stavolta sceglie Sofia, che si toglie una soddisfazione: in classe sua La maledizione della prima luna l’han visto tutti e soffre di complessi, la piccina che si vanta con nonchalance di Koyaanisqatsi. Tale e quale a suo padre. Purtroppo. Il film è divertente ed è evidentemente per bambini, ma siccome gli USA sono un grande paese l’han visto diverse milionate di adulti. Botte, botti, duelli e schermaglie anche verbali. La regia è molto ritmata, ricca di invenzioni cinematiche e in effetti non ci si annoia di fronte a questo aggiornamento che rubacchia qui e là, da Peter Pan al Corsaro Nero a Sandokan. Sforzo produttivo e cura realizzativa, appoggiandosi poi a un cast astuto: ci sono un lercio e autoironico Johnny Depp, una splendida Keira Knightley (non secca secca com’è adesso) e il belloccio Orlando Bloom. Di contorno quel Geoffrey Rush che mi sta sulle palle dai tempi del turpe Shine, ma che risulta effettivamente bravo. E poi è sempre un piacere rivedere Jonathan Pryce che non è invecchiato di un giorno dai tempi di Brazil. Film divertente, da pop corn e Coca Cola. Per pensare, rivolgersi ad altro (ma chi l’ha detto che io pensi, quando guardo un film?). (Dvd; 14/4/12)

928 – Esanime, Watchmen di Zack Snyder, USA 2009
Il week end di fuoco volge al termine e Barbara rifiuta in maniera odiosa qualunque cosa le proponga: la mia collezione di Dvd sovietici e di documentari in bianco e nero viene ufficialmente maledetta con un tremendo anatema. Allora facciamo ricorso a un film scaricato per mera curiosità e per stupido imitativo desiderio di possesso: se ce l’ho è quasi come se lo avessi già visto. Adesso però tocca vederlo sul serio. Barbara, orfana di Marco Antonio e di Rome, pensa che dei supereroi siano meglio che niente e allora ci imbarchiamo nell’avventura. Ed è una rottura di palle micidiale. Scritto (e disegnato) ancora durante la guerra fredda, Watchmen è la saga di un gruppo di ex supereroi messi da parte, alle prese con problemi esistenziali e la voglia di mettere fine all’equilibrio del terrore tra le due superpotenze. Ci riusciranno in maniera per nulla convincente (in termini narrativi), in un film lungo, noioso, calligrafico senza motivo, con protagonisti dei complessati cretini in costume. Mah! Me l’hanno consigliato Fabrizio e Max, ma forse la soddisfazione di Fabri partiva dalla riuscita trasposizione del fumetto (che mi ha consigliato per anni), mentre per Max si tratta di depressione, cosa di cui solitamente accusa me. Io apprezzo la messa in scena, al limite limite, ma poi, in fondo, delle vicende di questi odiosi tizi mascherati al servizio di una nazione infantile non me ne frega niente. Non riesco a fare il salto, ad avere compassione per i supereroi ridotti a vivere come normali cittadini e – lontani 25 anni dall’epoca dei fatti – anche le motivazioni pacifiste sembrano artificiose e pare tutto una parodia della parodia che era The Incredibles della Pixar. Film senza scintilla vitale: Snyder è quello di 300 e sotto la confezione c’è il vuoto. (Dvd; 15/4/12)

930 – A me fanno schifo I Goonies di Richard Donner, USA 1985
Gruppo di bambini con facce da cazzo assortite si interrogano a ritmo letargico per oltre due ore su un mistero fasullo. Tesori nascosti, scheletri, schermaglie tra bande… bah. Sofia apprezza ma a me non m’è piaciuto per niente – sarò stato stanco, indisposto, irritabile, che ne so – e non avendolo visto da ragazzo non ne conservavo neanche un ricordo positivo alterato dalla nostalgia. Da un soggetto di Spielberg, regia di quello che ha anche firmato Ladyhawke, altro film che andrebbe un po’ ridimensionato, e il primo Superman (idem c.s.). All’attivo Richard Donner ha, per i miei gusti plebei, giusto il casinaro Arma letale. Per il resto son perplesso e vi chiedo: per voi I Goonies è “mitico”? E mi dispiace, allora: avete avuto un’infanzia più disagiata della mia, eh. (Dvd; 29/4/12)

931 – Semplicissimo Cattivissimo me di Chris Renaud e Pierre Coffin, USA 2010
Un cattivissimo misantropo cui basta affiancare dei bimbi perché diventi buonissimo e amorevole. Non c’è molto d’altro a livello di narrazione in questo Cattivissimo me, che però possiede alcune trovate, è disegnato benino da un team francese e si fa vedere soprattutto per la frenesia cogliona e liberatoria dei Minions, dei tombolotti gialli al servizio del protagonista che blaterano in una sorta di esperanto babelico. E tanto mi basta, dai. Poi, en passant, ho visto anche le deliranti scene stracult di Paganini Kinski, sconclusionata biografia eretica ed erotica del violinista genovese. Va detto che vedere Klaus Kinski emaciato che puccia la lingua nella peluria di una figurante sconosciuta non sia cosa da eccitare neanche un monaco in clausura da decenni. Nel delirio annoto anche le apparizioni psichedeliche di Donatella Rettore: era molto bella; purtroppo oggi – come previsto da Splendido Splendente – può dire: “Io sorrido eternamente grazie a un bisturi tagliente”. E comunque l’album Kamikaze Rock’n’roll Suicide era un’operina stramba ma piacevole, giuro. Vabbeh, ho divagato. (Dvd; 11/5/12)

932 – La realtà è un uccello: 9 Songs di Michael Winterbottom, Gran Bretagna 2004
Esasperato da troppo cinema per bambini mi schioppo un peccaminoso Winterbottom, eclatante esempio di cinema d’autore con scene di sesso non simulato. E uno si chiede: perché? Quella raccontata è una storia d’amore: serve l’esplicitazione per renderla più vera, più credibile? O si cercava un successo di scandalo? O cosa? Cacace non sa, non risponde. Perché questo 9 Songs non respinge, non indigna, non scandalizza (figuriamoci), ma lascia proprio con un interrogativo: perché? Mah. Matt e Lisa – lui inglese, climatologo, lei americana in Gran Bretagna per studiare – si conoscono a uno dei tanti concerti che punteggiano (attraverso nove canzoni) il film. Si vedono, si piacciono, scopano e poi dormono abbracciati, in intimità immediata, simple as that. Io a vent’anni tornavo dai concerti gonfio di pipì, con un principio di sciatica e sudato da far schifo. Devo aver sbagliato concerti, non so. Qui sono fatali i Black Rebel Motorcycle Club e poi via via ascoltiamo brani di Primal Scream, Franz Ferdinand e qualche altro british che ha caratterizzato gli anni Zero del rock (gli ultimi, purtroppo). Canzoni che sono inni alla giovinezza, alla frustrazione, alla voglia di esplodere. In effetti si sente il desiderio, quella pura energia dei corpi, delle menti, l’ansia positiva e la fame di futuro, di pelle, di baci, come a mangiarsi il corpo, dopo tanti morsi e leccate.
Tra una song e l’altra (e anche Michael Nyman al piano, nel concerto per i suoi 60 anni) strisce di cocaina, pianti, breakfast e cene, irritazioni e qualche parola che si vorrebbe emblematica, fine alla fine del rapporto: questi sono carucci, con la bellezza della gioventù, sodi, guizzanti, arrapati e con una confidenza corporea che ma io ho avuto né, ormai, avrò. La cinepresa digitale, impudica e addosso ai corpi, è come se partecipasse ma non c’è un vero crescendo psicologico e narrativo (se non forse in termini di provocazione visiva, arrivando – dopo cunnilinctus, footjob, dildo e altro – a un rapporto orale mostrato esplicitamente fino alle liquide conseguenze). Ma io vorrei un’emozione sincera non solo realistica, perché qui è tutto enunciato, dato, senza crescita vera. E alla fine, di fronte a questa cruda esposizione minimale, mi manca l’emozione, non trovo compassione autentica né partecipazione. E mi dispiace perché alla fine il film – coraggioso, curioso – mi pare riuscito solo nelle intenzioni. (13/5/12)

933 – Indigesto Ratatouille di Brad Bird, USA 2007
Storia noiosa all’inizio, protagonisti poco attraenti, finale evocativo con richiamo proustiano all’infanzia per riabilitare il tutto. Diverse accelerazioni (inseguimenti virtuosistici e concitati percorsi mirabolanti) rendono passabile la storia, ma non posso appassionarmi alle vicende di una pantegana pelosa e gastronoma: solo degli americani potevano concepire una cosa così. E tutta la poesia del cibo scompare ogni volta che vengono confuse spezie, erbe aromatiche e sapori (nonostante la coltissima citazione dello zafferano dell’Aquila). Oggetto bellissimo che non funziona, Ratatouille globalmente delude: i critici che lo hanno osannato per fare i gggiovani che hanno scoperto la Pixar, tanto per cambiare non han capito nulla. (Dvd, 15/5/12)

934 – La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera di Stefan Herek, USA/Gran Bretagna 1996
Barbara è partita e io ho le mie armi segrete per mandare le bimbe a letto presto: qualche pappa peccaminosa e soprattutto uno scintillante film nuovo, questo. Definito da Elena la Carica dei 101 umano, si fa vedere e ha ritmo e trovate sceniche: non segue pedissequamente l’originale (qui gli animali non parlano) ma lo aggiorna senza risultare fastidioso, accentuando il sentimento di vendetta: i cattivi sono mazzulati a più riprese, con gusto, con l’apice di Crudelia Demon cacciata nella melassa e poi anche nel letame. Glenn Close è bravissima e Jeff Daniels ha ormai la faccia da gran bollito, ma se la cava assieme a un’attrice che sembra una triglia. Uno dei due cattivi è il Dr. House, comunque. (Dvd; 20/5/12)

(Continua – 79)

È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 78 https://www.carmillaonline.com/2017/12/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-78/ Thu, 14 Dec 2017 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42128 di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007 Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un [...]]]> di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007
Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un momento ho pensato a una conclusione con evidente money shot. Del resto questo è un film pornografico. Viceversa i persiani sono guidati dall’equivoco omaccione Serse, inanellato come una cotta di maglia e zeppo di piercing. Nelle file del suo esercito anche dei ninja che sembrano mutanti post nucleari (gli immortali) e l’omunculo traditore Efialte, uno che pare uscito dallo sgabuzzino di Pulp Fiction. Traditi da questo gobbo di Notre Dame (sgorbio = cattivo), i trecento burini spartani andranno incontro alla bella morte. E sapete che vi dico? CAZZI LORO: tenevo troppo per i persiani, io. 300 è un classico film da polemica davanti a una birra. Per cui stappatevene una e vi dico la mia: io l’ho trovato semplicemente non divertente come mi sarei aspettato e abbastanza fascista come invece previsto. Non così divertente perché noiosetto, senza gran ritmo e perché mi aspettavo più botte e azione, qualcosa che almeno appagasse il mio lato pagano. E fascista invece perché è una lagna continua su onore, rispetto, libertà, “non mi arrendo”, “puntate qui al cuore”, “bello morire così” e via via littoriamente declamando, mancando giusto un rauco “Roma ladrona”. Durante la visione ero così distaccato che in testa resuscitavano nomi che non sentivo dalle scuole medie, tipo Milziade. Ma chi cazzo era Milziade? Era lui che aveva corso fino a Maratona? Ma no, dai, con la milza che scoppia non può essere lui… e Filottete, chi era costui? E poi, scusate: ma i persiani dovevano passare esattamente da lì, da quel cunicolo stretto stretto delle Termopili? Con le migliaia di chilometri di costa della Grecia è quello l’unico punto da cui imbucarsi? Maddai! 300 è un fumettone (Frank Miller, infatti) secondo la peggiore accezione del termine, graficamente elegante (e questo lo apprezzo, ma finisce lì, dopo 10 minuti), completamente irreale, fotografato in toni rossobruni virati appena al seppia e sessualmente ambiguo, cosa che di per sé potrebbe anche essere una qualità. Se non fosse che l’omosessualità latente degli spartani sfugge gaiamente di mano alla regia e palesa il tentativo di nasconderla sotto una virilità tutta proclamata, tipica del fascismo. E invece quella degli avversari è esplicitata, sommandola agli altri buoni motivi per difendersi – in questo scontro di civiltà – da chi viene da Est. In 300 non c’è solo il terrore e l’odio per l’invasore diverso (e storicamente potrebbe anche starci) ma anche il fastidio mal celato per ogni devianza: l’omosessualità non meno dell’invasione culturale, l’imbastardimento dei costumi, il drammatico perdere la limpieza de sangre. E tutto mentre nel mondo reale la stessa cultura che ha prodotto questo film riusciva a distruggere manufatti storici che avevano resistito 3000 anni. Un film come questo, per innovazione tecnica, storia raccontata e battage pubblicitario pervasivo entra nell’immaginario, nel repertorio culturale, specialmente di chi è debole neuronalmente. Eroismo, fratellanza, sacrificio e purezza contro lascivia, malvagità, ricchionaggine, mollezza e infingardia (o come si dirà). È tutto narrato per exempla icastici, esasperati, leggibili immediatamente, com’è nella miglior tradizione epica, ma di 30 secoli fa. E per questo 300 è un film pericoloso. Perché diverte (cioè distoglie, o almeno ci prova e dagli incassi direi che ci riesce) ed è (apparentemente) bello da vedersi. Ora: la vicenda la conosciamo tutti e non avremmo certo potuto sperare in una versione politically correct. Non mi scandalizzano certe deformazioni storiche (che leggo esserci state e in gran copia) anche perché è da quando ho sette anni che so delle Termopili e non me l’hanno mai raccontata in maniera molto diversa. Però qui i persiani diventano addirittura creature bestiali. Nel loro esercito (di schiavi, che in realtà i persiani non avevano mentre a Sparta esistevano eccome) militano anche mostri degni de L’armata delle tenebre. La corte di Serse (conciato come una Priscilla in scala 1 e ½ a 1 e con la voce di Amanda Lear) è popolata di debosciati e suicide girls dalla sensualità putrida in un delirio di intolleranza ripugnante, questa sì. È tutto talmente pacchiano che quando Leonida perde la pazienza – cioè quando ha la forza e la velocità di sferrare il colpo di giavellotto che potrebbe chiudere la vicenda – riesce soltanto a sfregiare l’orrido Serse e a strappargli un piercing sulla guancia, una fallibilità umana che agli occhi della regia ingigantisce ancora di più l’eroismo del personaggio di fronte alla natura bestiale dell’avversario.
Ecco: è grave un film così? Bisogna guardarselo senza menate e sentendosi echeggiare nella testa il memento dell’amico un po’ ciula che ti dice “e fattela ‘na risata”? No: vedo che qualunque mentecatto fascistello, su Facebook e nella vita, trova in questo Better dead than red dei tempi classici una fonte ispirazionale. E vi posso dire? Questa non è Sparta, questa è una pericolosa cazzata. (Dvd; 21/1/12)

909 – Requiem for a Dream di Darren Aronofski, USA 2000
Madre, figlio, ragazza e amico, finiscono tutti malino causa droghe assortite da cui si crede di poter uscire: drogati di tivù, di soldi, di zucchero, di carne rossa, di successo, di visibilità, di sesso, di soldi, di bellezza, di pillole, di coca, di eroina. Perché la droga è una sostanza che altera stato fisico e mentale con conseguenze sulla salute ed è riconosciuta come tale solo in base al contesto sociale, politico e legislativo in cui viene consumata, al di là della gravità degli effetti fisici che comporta. Può sembrare banale ma ce lo dimentichiamo spesso e il film, invece, va dritto al punto. È bellissimo da vedere ma un po’ angosciante da seguire: con pellicole così grafiche, così stilizzate, io ho un problema: non mi scatta la partecipazione. Requiem for A Dream non è compiaciuto ma è anche troppo tirato a lucido per sembrarmi compassionevole, troppo freddo e distaccato, a mio parere. Per cui non lo partecipo, lo subisco. Detto questo, qualche scintilla di vitalità l’ho provata di fronte a Jennifer Connelly, che – anche truccata da drogata marcia, imbruttita dall’abbrutimento – rimane la ragazza più bella di tutti i tempi. Lo era anche in Phenomena, in The Hot Spot, in C’era una volta in America e pure – paffuta nei suoi quindi anni – in quella fetecchia di Labyrinth. E sapete perché? Ma perché è la più bella ragazza di tutti i tempi, stupidi! Quante volte devo ripeterlo? E continuerà a esserlo anche quando avrà 70 anni. E non vi dico il perché, ci potete arrivare da soli. Ciao. (Dvd; 22/1/12)

910 – Una palla al cazzo che non t’immagini: Zathura di Jon Favreau, Usa 2005
Più che Zathura, spazZathura. Buio, noioso, ripetitivo, senza che i protagonisti abbiano un ruolo attivo, subendo invece le bizze di un gioco magico trovato da dei bambini in cantina. E ti chiedi tutto il tempo: “chissà quale sortilegio, chissà quale escamotage”. E invece, niente: il gioco ti proietta nello spazio e son cazzi tuoi. È una sorta di seguito di Jumanji, se non ho capito male, anche se ogni legame col film (e romanzo) è reciso. Anche qui, per salvarsi dal mondo in cui si è proiettati, bisogna giocare e vincere, ma se – per quel che mi riguarda – faceva schifo Jumanji, figuratevi questo. I bimbi protagonisti poi sono simpatici come un herpes e alla fine trovo motivo di soddisfazione solo nel volto scontroso di Kristen Stewart. Film brutterrimo che alle bimbe passa (ma un po’ Sofia si rende conto). Mediamente considerato dai critici (…) e rifiutato dal pubblico, non senza motivo, risultò un flop clamoroso al botteghino, incassando meno della metà del budget speso. Godo. (Dvd; 25/01/12)

911 – L’onesto Brubaker di Stuart Rosenberg, USA 1980
Ah, quel solido cinema anni Settanta, con belle storie, ritmo interno e grandi caratterizzazioni! Brubaker non lo vedevo da oltre vent’anni ed è un film carcerario democratico, non individualista come Fuga da Alcatraz, ed è qui che si misura tutta la distanza tra un Clint Eastwood e un Robert Redford, eh! (Vabbeh, la faccio facile. Ma ci siamo capiti). Il film è riformista come il direttore del carcere di Wakefield in Arkansas, uno che porta l’orologio sulla destra, che prova a cambiare le cose dall’interno, iniettando forzosamente un po’ di democrazia tra i detenuti. Gli concede le elezioni e un consiglio del carcere, li chiama a partecipare. Solo che non funziona, troppi nemici. E anche chi potrebbe essere liberato preferisce rimanere schiavo del sistema e chiamarsi fuori dall’assunzione di responsabilità. E alla fine, questo Brubaker, da che parte sta? È un film velleitario, come viene accusato di essere il suo protagonista, o è un film tragicamente realista, che dimostra l’impossibilità della riforma? Io – da menscevico parolaio, quale alla fin fine sono – mi fido della buona fede del regista e penso a un film sincero, che fa vedere quali siano i problemi. E la scena finale coi carcerieri che salutano l’ormai ex direttore è una commovente concessione alla retorica strazzacore, inverificabile nella realtà, che leggo come un augurio onirico: forse un dì ci arriveremo. Per fortuna da noi non è (ancora) in agenda rendere le carceri delle aziende con un profitto economico in attivo, a qualunque costo, con tutto quello che ne consegue quando è il guadagno la legge suprema (va anche detto che peggio di come son messe, certe nostre carceri, non so se si potrebbe… ma vabbeh). Ma in USA ci pensò quel cercopiteco di Reagan e gli effetti sono stati devastanti, con una popolazione carceraria altissima, a livelli dell’Unione Sovietica di Stalin, e non scherzo, tenuta in parte in detenzione proprio perché fonte di profitto (arresti facili per quisquilie, regime carcerario gestito autonomamente che prevede allungamenti di pena in base a regolamenti interni, condizioni di vita atroci per consentire il guadagno, lavoro sfruttato a pochi centesimi all’ora… Orwell fatto e finito). E il film è profetico nel parlarci anche delle dirigenze del PD con 30 anni di anticipo: riformatori e finti liberali che fanno qualche passetto a favore di telecamera, che incassano interviste e stampa e rendita elettorale e tutto rimane come prima. Robert Redford era all’apice della gloria prima della mummificazione e so solo che quando Brubaker affronta i suoi avversari, questi rispondono come i lettori del Giornale e di Libero. Ma di oggi, non nell’Arkansas degli anni Settanta. (Diretta Iris; 29/1/12)

912 – Più scomoda del previsto, Una poltrona per due di John Landis, USA 1983
Premetto che vedere questo film a febbraio è come festeggiare il Natale a marzo. E rivedendolo – ahi! – lo ritrovo meno scintillante di quanto ricordassi. Però dobbiamo mettere nel conto il mio precoce invecchiamento e le tantissime visioni passate, per cui, facendo la tara, credo che sia ancora il vecchio amato capolavoro, un’adorabile fiaba natalizia aggiornata agli anni Ottanta. C’è la sapienza chirurgica della costruzione e il crescendo inarrestabile, sono tante le situazioni comiche e in generale il ritmo è sostenuto. Stupisce, oggi che tutto è addomesticato, la mancanza di ogni correttezza politica (su neri, handicap, omosessuali) in un film che poi – fatto salvo l’affetto innegabile – ha invece una morale solo apparentemente eversiva, in anni di reaganomics rampante. Quella dei protagonisti (un cialtrone che si arrangia, un ragazzo “bene” ridotto in povertà e una prostituta dal cuore d’oro) è una rivincita contro gli straricchi e avidi Duke & Duke (con Reagan e Nixon in foto sulla scrivania) per arrivare allo stesso risultato: ricchi sfondati con barca ai tropici, sfruttando gli stessi meccanismi economici e senza metterli in discussione. Mah, consueta confusione ideologica yankee! Ma chi sono io per fare la morale? Sono i sensi di colpa televisivi che mi fanno vedere male i film, ecco cosa, mannaggia. Cast eccezionale (Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Denholm Elliott, Don Ameche, Ralph Bellamy e – gulp! – Jamie Lee Curtis) e musica di Elmer Bernstein che saccheggia alcuni classici (riconosco Mozart ed Elgar). Nel mio personalissimo taccuino rilevo anche una marea di parolacce che rendono felici Elena e Sofia e poi una nota amara che rimanda al talento che fu di John Landis. Ma è comunque Natale, dài, SMETTILA. (Dvd; 5/2/12)

913 – I nuovi mostri di Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, Italia 1977
Questo l’ho visto la prima volta in un alberghetto in Francia nell’autunno del 1994, in una serata in cui avevo beccato anche un film a episodi giapponese che non mi son segnato e che non saprò mai più quale titolo avesse: c’era un tizio in coda in macchina, ingorgato in non so quale tangenziale nipponica, che metteva fine alle sue sofferenze pisciando in una lattina. Se magari qualcuno l’ha visto e mi dice cos’è, mi fa cosa grata, perché vorrei completare il file con tutti i film della mia vita e questo mi manca. Esiste il file, giuro. Vabbeh. Dunque, de I nuovi mostri questa è l’edizione televisiva, più corta di quella per le sale. Ed è un film che non mi era piaciuto granché allora e non mi fa impazzire neanche stasera: lo trovo – come tanto cinema italiano di quegli anni – di un cinismo un po’ ipocrita, che si appoggia a moduli satirici e grotteschi prevedibili e che tenta degli agganci alla realtà quotidiana per sentirsi gggiovani. Ma se avete la pazienza di leggere fino in fondo troverete anche un parziale pentimento tardivo. Scola ha la parte del leone e firma quattro episodi. L’uccellino della Val Padana vede Ugo Tognazzi sfruttare le qualità canore della moglie Orietta Berti, storia ambientata al Picchio Rosso di Formigine dove, di lì a pochi anni, avrebbe cambiato il corso della storia Vasco Rossi. Ma non c’entra niente (però ho il bootleg). Hostaria è una epocale ed esilarante litigata in cucina tra un cuoco (Tognazzi) e un cameriere (Vittorio Gassman), gay e amanti, tutto mentre la clientela radical chic apprezza un cibo di dubbia fattura. In Come una regina Alberto Sordi abbandona la madre in una tremenda casa di riposo privata. L’elogio funebre è probabilmente l’episodio più famoso del lotto, con Albertone senza freni nel ricordare un collega attore, elogio che culmina nel famoso “stocazzo!” che Blob dedicava spesso al giornalista Onofrio Pirrotta, appena morto mentre scrivo e che, invano, aveva tentato di bloccare l’ingiuria più volte riproposta (che ovviamente tutti hanno carognescamente ricordato anche nei coccodrilli dedicatigli). Dino Risi ha la regia di tre episodi. Tantum Ergo è feroce, ma gli yankee lo definirebbero half baked, perché parte bene e poi rimane sospeso, un po’ lì, con un alto prelato che seda con belle e fatue parole la plebe di una parrocchia di periferia aizzata da un giovane e combattivo prete. Con i saluti degli amici è poco più di un’orrenda barzelletta sui siciliani omertosi anche in punto di morte. Senza parole narra un amore fulminante e falso, con sorpresina finale. E mentre lo vedevo continuavo a chiedermi chi fosse il partner mediterraneo della bella hostess Ornella Muti. Ma dove l’ho visto, questo? E quel nome, Yorgo Voyagis… Lo butto su Google e, patapam!, è Giuseppe nel Gesù di Zeffirelli, ecco chi! Però l’episodio… mah. Infine c’è Monicelli che firma solo due storie. La prima è Autostop con di nuovo la Muti, bella e intelligente (e abbastanza cagna, in termini recitativi), uccisa dal maschilista Eros Pagni (orco qualunquista e reazionario che, pur ritenendosi “femminista”, sfrutta il lavoro nero e non esita a sparare non appena si senta in pericolo). Boh: mi sembra poco sincero nella sua schematicità, come a voler accalappiare facilmente un po’ di pubblico giovane. L’altro episodio è Pronto soccorso, che parte da un’idea bellissima: il ritratto di un nobilastro dissoluto, volgarissimo e legato alle gerarchie ecclesiastiche romane, che dovendo soccorrere un morto di fame mostra il suo vero volto: indifferente più che ipocrita, in definitiva letale. Però è tutto talmente grottesco e spinto in avanti che la macchietta dopo un po’ mi risulta insopportabile e l’episodio dura 14 minuti interminabili. Questo Sordi sembra che ci parli dell’Italia del 2012, dove tutto, e il suo contrario, è confluito nel berlusconismo che lecca il culo al Vaticano e fa contemporaneamente partouzes con le ragazzine raccattate da amici equivoci: Giovan Maria Catalan Belmonte è un ricettacolo di confusione lessicale (linguaggio magniloquente e improvvise impennate volgarissime), culturale (il monumento a Mazzini che diventa dedicato a Mussolini) e religiosa (osservante lefevriano senza pietà alcuna). Però l’amara chiusa finale è un anti climax che mi pare non valga lo sviluppo (eterno). Penso tutto questo e poi la collega Alez che vede lontano, certamente più lontano del mio sguardo appannato, mi fa notare come la chiusura a cerchio abbia un preciso e spietato significato. E in effetti ci sta eccome e quello che forse scambio per pigrizia registica e cinismo è una trovata notevole. Ma che faccio ora, riscrivo tutto? No. Continua a non piacermi la forma, ma sul significato (e quindi sul valore ultimo dell’episodio) credo abbia ragione lei. (Dvd; 10/2/12)

914 – Fate la storia senza di me di Mirko Capozzoli, Italia 2011
Fate la storia senza di me è un documentario intenso e a tratti dolente, molto, che racconta la vita e la morte di Alberto Bonvicini, ragazzo torinese che con la sua vicenda attraversa paradigmaticamente gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Però è come se la regia rimanesse a distanza. Perché la materia è densa ed entrare in un’altra vita è difficile e la vita di Bonvicini era difficile assai, da esplorare e soprattutto da vivere. Il rischio era di fare un bignamino sulle tensioni degli anni della contestazione, okay, perché il protagonista ha vissuto sia il dramma dei manicomi – arrivandoci per burocrazia da un orfanotrofio – che quello delle carceri, ha frequentato attivamente il movimentismo giovanile, sfiorato il terrorismo (rifiutato recisamente) e infine è stato vittima della droga e poi dell’Aids. Il Bignami viene evitato, e ha un senso perché si racconta la Vita e non la Storia. Però, qui, sembra che si faccia sempre un passo indietro anche di fronte all’esistenza del protagonista suo malgrado, dedicando un approfondimento solo al famigerato dottor Coda, l’“elettricista”, che seviziava i suoi pazienti a colpi di elettrochoc. È come se la telecamera si ritraesse di fronte al dolore, allo sgomento e anche alla commozione della famiglia adottiva e intellettuale della Torino borghese, che rimane sconvolta da questo ciclone, un ragazzino che a 14 anni ruba una macchina e finisce in carcere minorile, che rimane coinvolto (e poi assolto) nella vicenda agghiacciante dell’Angelo azzurro, che si dissocia da chi stava abbracciando la lotta armata con la fatidica frase “Fate la storia senza di me”, che finisce in carcere con una marea di addebiti poi rivelatisi fasulli e che, lì dentro, diventa eroinomane. Sono belle e interessanti le testimonianze di compagni di strada, in prigionia e nella politica, sfrondate di ogni retorica e molto umane: Albertino cercava solo un po’ di tranquillità. E la troverà finalmente lavorando prima al quotidiano Reporter con Enrico Deaglio e poi in tivù, con Giuliano Ferrara, morendo infine di Aids. Ma la storia di questo ragazzo – che ha lasciato un segno indelebile in tutti quelli che gli son stati amici – è solo sfiorata, delicatamente, narrando in modo ellittico e lasciando la voglia allo spettatore, secondo me troppa. Ma credo sia colpa mia, ché vorrei sempre un film definitivo che non si potrà mai realizzare. (Dvd; 18/2/12)

915 – Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, USA 1988
Ullalà! Nei miei primi anni di vita assieme a Barbara, Roger Rabbit era un film visto e stravisto. Lei possedeva il videoregistratore e questo film era uno dei pochi posseduti in Vhs, un regalo natalizio, immagino. Siccome a casa di Barbara le registrazioni erano sempre qualcosa di stocastico (cassette da 90 minuti per film da due ore, programmazioni sballate, nastri smagnetizzati, titoli messi alla cazzo, film scomparsi nel magma della videocassetta da 4 ore) alla fine ricordo di averlo visto più volte, nonostante le proteste di Barbara che se un film lo vede una volta sola, le basta per sempre (mentre io continuerei a rivedere sempre lo stesso film, possibilmente Novecento). Comunque, per farla breve, lo conosco bene, questo Zemeckis, e lo incontro di nuovo a oltre vent’anni dall’ultima volta. Lo regalo a Sofia che si sente adulta pur non capendo una mazza di questo intrigo molti anni Quaranta, con la cantante sciantosa, l’investigatore privato alcolizzato e questioni di testamenti ed eredità. Ma la commistione tra animazione e attori in carne ed ossa, tra Disney e Spielberg e tra atmosfere noir e commedia, funziona anche per lei, che si diverte, perché non c’è niente da fare: pupe, pistole e cascatoni fan divertire chiunque, e gli americani lo sanno bene. Rivisto, il film è simpatico e denso, più per grandi con le loro memorie da bambini che per bambini stessi. Bravissimi gli attori (su tutti lo straordinario Bob Hoskins), oleografica e convincente la ricostruzione degli USA di metà secolo scorso, straordinarie (per l’epoca, ma ancora validissime) le invenzioni e gli effetti speciali. Il gioco metacinematografico è intelligente (tutto il mondo dei cartoni è utilizzato e affettuosamente parodizzato), i rimandi ironici alla modernità azzeccati (la critica alla civiltà delle autostrade) e il ritmo è indiavolato, come certi cartoni insegnano. In effetti, nel suo campo, trattasi di un piccolo capolavoro. (Dvd; 19/2/12)

916 – Los Cronocrímenes di Nacho Vigalondo, Spagna 2007
Sono solo a casa, temporaneamente abbandonato da tutte le mie donne che provano l’ebbrezza delle nevi. Ho un carico di lavoro pesantissimo e modero il malumore con un film consigliato dall’amico Mauro, sempre raffinato suggeritore, dalla musica brasiliana al cinema con un quid. La tagline di questo film distribuito nel mondo come Timecrimes potrebbe essere pochi soldi, tante idee. E aggiungo: quattro attori, quattro ambientazioni e mille idee di scrittura. Il classico piccolissimo film tutto fosforo dove la mancanza di milioni di euro, di attori di fama e di chissà quali invenzioni tecnologiche non si sente minimamente. La vicenda narra di viaggi nel tempo e detta così sembra che ci sia pure il dottor Enigm. Invece il contesto è il più borghese e innocuo che si possa pensare. Hector (un Toni Servillo iberico e dinamico) è nella sua nuova casa di campagna assieme alla moglie. Guarda al di là del recinto con un binocolo e nota una ragazza che si spoglia. Va a vedere da vicino e un uomo tutto bendato lo ferisce a un braccio. Hector scappa e arriva in un misterioso centro studi, dove l’antitesi visiva dello scienziato pazzo (ma non meno pericoloso) sta facendo degli esperimenti sui viaggi nel tempo. E da lì si rimane prigionieri di un loop temporale ben gestito. Vi dico solo che Hector sarà uno e trino e la vicenda non perde colpi, anzi: alza sempre più la posta in gioco e regge fino alla fine. Bellissimo, nella sua astrusa semplicità: non vi ricordo cosa succede non perché voglia evitarvi spoiler ma proprio perché io, a riassumere trame fantascientifiche con diversi piani della realtà, vado in fusione cerebrale. Comunque: film da vedere, sul serio. (Dvd; 20/2/12)

917 – Chitarromani! It Might Get Loud di Davis Guggenheim, USA 2009
Mi godo l’ultimo giorno di libertà familiare, dedicando un po’ di tempo alla mia passione preferita, la pornografia, e scelgo un film dedicato alla chitarra, quel It Might Get Loud che sembrerebbe il Graal per gli amanti della 6 corde. Ma la chitarra è un paravento neanche troppo occulto, perché qui si parla di creatività, di musica, di rock e di come uno strumento sia esattamente tale, per esprimere ed eventualmente portare al pubblico delle idee. A confronto tre generazioni e tre modi di diversi di essere musicisti. Ci sono: Jimmy Page, la divinità suprema del rock degli anni Settanta; The Edge (chitarrista degli U2), che cresce nella contestazione punk a quel mondo; Jack White, l’ultimo ribelle e inventore, che negli anni Zero ha riportato quelle sonorità nel mainstream, soprattutto grazie all’usurato ma geniale riffone di Seven Nation Army (il po-poppopo-poopoo cantato negli stadi). Si parla di rapporto con la tecnologia, di chitarra come oggetto del desiderio, di tecnica come mezzo e non come fine (non c’è un assolo in tutto il film, uno che sia uno, e non se ne sente minimamente il bisogno): diverse chitarre, diversi modi e diverse capigliature, perché si può essere rockettari anche con un sacco di effetti, un computer e un berrettino sulla pelata, come The Edge. Non c’è un vero sviluppo narrativo, purtroppo, e il film ha un aplomb in palese contraddizione con l’idea di rock che la chitarra suggerisce, ma detto ciò il film si fa vedere: qualche idea è carina (il Jack White adulto che insegna a sé stesso giovane cos’ha imparato crescendo) o lo stesso White che costruisce uno strumento a corda in qualcosa come 5 minuti secchi. Alla fine, però, rimane la sensazione di un elegantissimo lavoro un po’ inerte. (Dvd; 25/2/12)

(Continua – 78)

E’ in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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Nemico (e) immaginario. I living dead come prodotto di scarto del capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/nemico-immaginario-living-dead-prodotto-scarto-del-capitalismo/ Tue, 13 Sep 2016 21:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33093 di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. [...]]]> di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. 49-51).

La figura dello zombi è particolarmente efficace nel dare immagine ad uno scenario apocalittico e nonostante i morti viventi della prima generazione siano lenti nei movimenti (poi si faranno ben più dinamici), la velocità di dissoluzione del mondo da essi portata è rapidissima tanto che si può affermare che la comparsa del primo morto vivente segna la fine di tutto.

Il saggio di Ronchi offre diversi spunti di analisi interessanti a proposito dei morti viventi di cui abbiamo già esaminato altri aspetti nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“. In apertura di Down of the Dead (2004) di Zack Snyder, remake del celebre film di George Romero del 1978, viene mostrato il repentino passaggio dalla tranquillità borghese ad uno scenario catastrofico che, durante i titoli di testa, si palesa attraverso un serrato montaggio di immagini di reali rivolte urbane (comprese le immagini del G8 di Genova del 2001) intervallate da alcuni fotogrammi di fiction. Gli inserti tratti dalla realtà contribuiscono a creare nello spettatore la percezione di trovarsi davvero in un mondo sull’orlo del collasso ed è per tale motivo che diversi film zombi «si aprono ricordando allo spettatore che quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’apocalisse è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito» (p. 18).

Secondo l’autore se in molti film appartenenti al genere apocalittico epidemiologico persiste una speranza di risoluzione, nel cinema zombi appare tutto deciso sin dalla prima sequenza in cui compaiono i morto viventi: la loro comparsa palesa che la fine è già in corso. Ma attenzione, avverte lo studioso, gli zombi non sono una malattia ma il rovescio del mondo, sono la sua contraddizione in atto.

Nel film Day of the Dead (1985) di Romero viene chiaramente esplicitato come per eliminare il morto vivente sia necessario distruggergli la testa; qualsiasi altra amputazione non è sufficiente a toglierlo di mezzo. «Lo zombi non è un organismo, perché non è uno. È un simulacro di unità […] qualcosa che solo da lontano è, appunto, qualcosa, è una sostanza» (p. 24).

Nella sua versione americana, il living dead è l’altro, il nostro prossimo, che, da Romero in avanti, raggiunto da un morso di uno zombi diviene esso stesso uno zombi. «Lo zombi è l’altro che non partecipa più dell’unità, che ha perso, a causa di quel morso, ogni ‘comunità’ con me, un altro che non ha più nulla di comune pur essendo apparentemente simile a quello di prima» (p. 25).

In realtà, sostiene Ronchi, non esiste “lo zombi”, così come, invece, esiste “il vampiro”. Esistono “gli zombi”, al plurale «ma a un plurale che non ha più l’uno come unità di misura. Gli zombi sono ‘molteplicità senza uno’, massa oncologica» (pp. 25-26). Il vampiro, invece, compare al singolare, è un eroe romantico nato dal crollo del mondo feudale, si tratta dell’avanzo di uno splendore tolto di mezzo dall’età della macchina a vapore e dal trionfo della borghesia. Il vampiro non sopporta la luce perché è alla luce che ha luogo l’attività produttiva del mondo borghese. È un romantico, dicevamo, dunque un loser, un perdente. Al contrario lo zombi non è mai solo, è parte di una molteplicità informe in decomposizione. I morti viventi, inoltre, sostiene lo studioso, seppure spesso lenti nei movimenti, almeno originariamente, sono sempre in movimento, e questo dinamismo esprime il loro “non poter stare”. Non abitano il mondo né hanno luogo in esso.

Dunque, la differenza principale tra vampiro e zombi pare proprio essere di classe; il vampiro sarebbe un signore decaduto, mentre gli zombi sono degli schiavi. Una figura catapultata nella modernità borghese la prima, una figura costretta alla servitù la seconda. Gli zombi, sottolinea l’autore, nascono lavoratori, «sono schiavi neri probabilmente drogati per sopportare il lavoro disumano a cui vengono sottoposti per assicurare il godimento al loro padrone» (p. 33).

zombie_outbreak_coverRonchi recupera la distinzione hegeliana (Fenomenologia dello spirito) tra Signore e Servo, tra godimento e lavoro. «Lavorare è sostanzialmente trasformare per un certo tempo la propria vita in una funzione, lavorare è mettere il proprio corpo (e la propria intelligenza) all’opera. L’opera è la produzione di valore. Quando si lavora il fondamento del proprio essere è fuori di sé, è per-altro. Dove? Nel godimento del padrone, appunto. Cosa significa, allora, godere? Vuol dire emancipare il presente dalla spada di Damocle che il futuro, il futuro dell’opera, fa gravare su di esso. Si gode ‘qui e ora’. Si gode nel consumo. Si gode quando la vita assume se stessa come scopo. Si gode quando la vita vive, quando non è subordinata ad altro, ma solo a se stessa in quanto vita vivente: quando, per dirla ancora con Hegel, è per-sé» (pp. 33-34).

Abbiamo già visto in altri interventi [su Carmilla] il ruolo del libro The Magic Island (1929) di William Seabrook nella diffusione occidentale della figura dello zombie, è interessante notare come in questo libro la leggenda degli zombi si leghi allo sfruttamento dalla Haitian American Sugar Company nei confronti dei lavoratori della canna da zucchero. «È veramente curioso che la fabbrica, il lavoro salariato, lo sfruttamento, la proletarizzazione dei contadini, i problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica, siano la cornice nella quale nasce ufficialmente la ‘leggenda’ zombi» (p. 36).

Dunque, sostiene lo studioso, gli zombi «sono l’incarnazione della nozione marxiana di forza lavoro. Ne sono l’incarnazione in senso letterale. Sono forza lavoro allo stato puro. Non sono definiti da nessuna altra caratteristica se non dalla capacità astratta di lavorare per produrre valore. Non pensano, non parlano, non socializzano, non hanno una vita privata, neppure quella residuale che era concessa al proletariato inglese della prima rivoluzione industriale, il quale, una volta rientrato a casa, cessava di essere forza lavoro per diventare un vivente (sebbene un vivente al di sotto della soglia dell’umano modo d’essere e […] dall’aspetto molto linving dead per il borghese beneducato» (p. 37). Gli zombi di Haiti sono “macchine viventi” che simulano la vita al fine di lavorare.

Un essere vivente, sostiene Ronchi, possiede la forza lavoro, non è forza lavoro. «Egli può non disporne liberamente e allora è uno schiavo, oppure disporne in modo formalmente libero e scambiarla con altre merci che gli garantiscono la sopravvivenza, e allora è un proletario. In ogni caso, schiavo o proletario che sia, finché è vivente mantiene comunque una distanza da quella forza lavoro che possiede e che è costretto a cedere in modo coatto o in modo formalmente libero». (p. 38). Lo schiavo obbligato a lavorare può godere della sua vita sfigurata soltanto nei pochi momenti in cui non è al lavoro oppure, si ricorda nel saggio, quando canta sul lavoro. Se da un lato il canto fornisce il ritmo all’attività produttiva, dall’altro però mette in luce come lo schiavo non sia soltanto lavoro, ma anche “vita che vive”. La forza lavoro è «indissolubilmente connessa a un corpo vivente (essa, scrive Marx nel primo libro del Capitale, “esiste soltanto nella sua corporeità vivente”) ma un corpo, se è vivente, non è solo lavoro, non è lavoro astratto, dunque bisogna produrre un corpo attivo come un corpo vivente ma che non sia un corpo vivente» (p. 39). Occorre decontestualizzare un corpo dalla vita senza però renderlo “cosa inerte”, occorre “astrarlo” dalla vita senza ucciderlo. Ecco allora che il morto vivente rappresenta la soluzione perfetta: morto al godimento e vivente per il lavoro.

Se, come abbiamo visto, gli zombi vengono dal mondo del lavoro, nei film di Romero essi non sono più schiavi ma cannibali aggressivi ed insaziabili. Nella leggenda caraibica agli zombi era preclusa la carne (ed il sale), pena la fine dell’incantesimo zombificante, nei film di Romero, invece, i living dead sono pura compulsione a quel godimento interdetto agli antenati haitiani. Tale trasformazione, suggerisce Ronchi, ha una spiegazione materialistica: è dovuta alla trasformazione del capitalismo che è slittato verso il consumo coatto.

I living dead fanno la loro comparsa quando il principio di individuazione entra in crisi. “Individuo”, ricorda lo studioso, significa “ente determinato”, ente diverso dagli altri individui della medesima specie. Secondo la teoria politica liberale gli uomini sono individui ed è in quanto tali che hanno diritti inalienabili.

La filosofia classica spiega il fenomeno di individuazione ricorrendo alla composizione di forma e materia e la tecnica, il creare cose non già presenti in natura, è stata intesa nell’orizzonte del lavoro provocando però il paradosso che per spiegare il processo di individuazione caratterizzante la natura, si è finiti col far riferimento alla categoria della “produzione” così da finire col “retrodatare” alla natura il lavoro umano.

Tutto il pensiero politico moderno è ossessionato dall’idea di costruire attraverso mezzi umani un corpo politico dotato della medesima saldezza e sostanzialità del corpo mistico della Chiesa. Si è parlato a tal proposito di “teologia politica” che trova il suo limite nell’apparizione dei “resti” inincorporabili. Ciò che resta fuori dal corpo sociale, della nazione, della comunità ecc., vi resta come qualcosa di orrendo, di disgustoso: così viene descritto, ad esempio, il proletariato urbano inglese all’epoca della prima rivoluzione industriale. Se nella sua presenza in fabbrica il proletariato riceve un ordine ed una forma dai meccanismi produttivi, fuori dalla fabbrica diviene un’entità mostruosa, non umana. Anche i proletari, ricorda Ronchi, sono solo al plurale, una moltitudine illimitata che minaccia il buon ordine urbano. Fabbrica, prigione e caserma da questo punto di vista sono meccanismi disciplinari.

«Lavorare soggetivizza. Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletariato è l’onkos che minaccia i corpo sociale borghese» (p. 49). La generazione haitiana di zombi incarnava la pura forza lavoro. Non più schiavo ma nemmeno proletario. Si tratta del prodotto del colonialismo occidentale ridotto a pura macchina che produce valore. «I ‘negri’, dopotutto, per il razzista bianco, non sono veri ‘uomini’. Il proletario (bianco) è invece complementare al modo di produzione borghese, è generato dall’incorporazione capitalistica. La fabbrica è il luogo della sua individuazione e soggettivizzazione. Il suo aspetto zombi non sarà quindi più legato alla servitù del lavoro […] ma alla sua pretesa di godimento. A rimanere in eccesso rispetto al corpo sociale (come resto mostruoso e minaccioso) non è la sua umanità di operaio, umanità che si è guadagnato lavorando virtuosamente al servizio del capitale, differenziando cioè la soddisfazione del desiderio, ma questo stesso desiderio sganciato dal lavoro: è la sua fame» (p. 49).

wd-zombies55Ronchi ricorda come lo stesso socialismo nello scegliere nel proletariato organizzato e disciplinato dal partito il soggetto antagonista al capitale, finisce con l’indicare nel sottoproletariato quella massa tumorale di manovra a cui può ricorrere la reazione. Se l’individuazione è pensata sulla produzione, inevitabilmente essa genera dei residui (minacciosi) non assimilabili. «Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (p. 51). Dunque, secondo Ronchi, si ricorre ai “tecnici” perché tali compiti i “politici” non possono né sanno fare e da qui la loro delegittimazione internazionale.

A nostro avviso si potrebbe sostenere che, con l’egemonia totale dell’economico, il politico è stato totalmente esautorato da qualsiasi funzione che si possa dire politica, appunto. Se il politico è uno dei territori dell’immaginario (come sostiene da tempo Sandro Moiso) allora, in assenza di un immaginario realmente alternativo, il politico è inevitabilmente succube dell’economico. Il politico contemporaneo si è fatto tecnico. Un approccio politico alternativo non può che derivare da un immaginario alternativo, in assenza di quest’ultimo il politico è, inevitabilmente, tecnico.
Tornando ai morti viventi sugli schermi, Ronchi sottolinea come a livello cinematografico il ruolo dei tecnici spetti di diritto ai militari e quando anche questi falliscono nello smaltimento dei living dead, vuole dire che tutto è perduto e non resta che un’ultima illusione: la fuga.

Sappiamo che nella tradizione haitiana il cibarsi di carne o sale pone fine all’incantesimo che ha prodotto lo zombi. Ronchi, nel chiedersi cosa mostri allo zombi quella sorta di “autocoscienza” che acquisisce grazie all’assunzione di questi cibi, giunge a concludere che il morto vivente percepisce soltanto che è uno zombi qualsiasi, un essere-moltitudine. Nessuna emancipazione dalla massa, dunque. Nessuna interiorità. «Dal mondo dei morti lo zombi si è infatti portato dietro l’anonimato che caratterizza per sempre tutti i morti, i quali, in quanto morti, non sono più nessuno. È un uno qualsiasi, ma è uno qualsiasi che è già morto. […] L’autocoscienza pone lo zombi di fronte al suo essere una contraddizione in atto, una contraddizione assoluta che cammina. Lo pone di fronte alla sua atopia, alla sua eccedenza, al suo essere di troppo» (pp. 82-83). È per questo che secondo la legenda haitiana una volta “risvegliati” dal sale (o dalla carne), gli zombi intendono tornare alle proprie tombe, desiderano abbandonare il mondo dei vivi e far ritorno alla terra, a quella terra che però li ha espulsi obbligandoli all’erranza illimitata.

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