Zabriskie Point – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Uno spazio inquietante: “L’invenzione di Morel” di Emidio Greco https://www.carmillaonline.com/2022/08/15/uno-spazio-inquietante-linvenzione-di-morel-di-emidio-greco/ Mon, 15 Aug 2022 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73535 di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento [...]]]> di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento delle onde fra correnti e risacche. Successivamente, il personaggio (che si scoprirà in seguito essere un galeotto fuggito da un carcere) viene inglobato dalle concrezioni petrose dell’isola. Dopo aver abbandonato la barca, si insinua fra le gole di pietra, fra caverne e anfratti che lambiscono la costa rocciosa del luogo in cui si trova, ancora una volta prigioniero. L’inquietante suono del vento che incessantemente spira sull’isola è la manifestazione corporea di un tormento mentale che proviene da altre spazialità sconosciute, perdute negli anfratti di un’angoscia che sembra essersi trasformata in pietra, quella stessa pietra di cui è composta l’isola.

Vediamo infatti il primo piano del personaggio sferzato dal vento, abbandonato a una posa di lento e rassegnato dolore mentre, quasi stancamente, si incammina attraverso le lande desertiche dell’isola. Appare allora inglobato nello spazio desertico che racchiude e serra la sua figura, vestita di un povero abito dai colori chiari che sembrano quasi confondersi con i colori della terra e della sabbia pietrosa che egli solca con un’andatura incerta e innaturale. Sembra quasi un esploratore spaziale giunto su un pianeta sconosciuto, del quale percorre le lande desolate con angoscia e circospezione. E, come un esploratore straniero, improvvisamente si trova di fronte una strana costruzione dalla forma geometrica, una sorta di arcano e abnorme tempio, sul cui sfondo adesso si staglia la sua figura. Si può perciò così riassumere l’alternanza di spazi nei quali, in modo inquietante, è stato inglobato il personaggio: dapprima il magma del mare, poi le concrezioni cavernose e petrose dell’isola, successivamente le lande desertiche che sembrano quasi annullare e annichilire la figura umana e, infine, le costruzioni geometriche che, nuovo, angosciante sfondo, sembrano attirarlo verso di sé e nuovamente annichilirlo.

Di fronte a tali costruzioni, egli, mentre il vento continua incessantemente a soffiare e sibilare intorno al suo corpo, si muove lentamente, a scatti, come un automa, quasi divenuto, appunto, un “automa del pensiero” e una “mummia spirituale”, per utilizzare due espressioni di Gilles Deleuze. Avvolto dalla temporalità annullata dell’isola, il naufrago riesce soltanto a muoversi a scatti, mimando l’incedere di un tempo rarefatto su sé stesso, increspato di concrezioni mentali e angoscianti. Il vento che soffia ogni dove è il segno tangibile del deserto, dello spazio annichilente, lo stesso che incontriamo in molto cinema di quegli anni, dal Fellini-Satyricon (1969) di Federico Fellini fino a Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini e a Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani. In questi film, il vento è un corpo desertico che annichilisce i corpi stessi dei personaggi fino a trasformali in puri oggetti mentali, automi meccanizzati da inenarrabili spazialità abnormi. Anche in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, i due personaggi appaiono totalmente avvolti dallo spazio desertico e barbarico, uno spazio “liscio”, per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari, che si contrappone alla rigidità geometrica e irreggimentata dell’elegante villa satura di oggetti di consumo che nel finale esploderà come se fosse pervasa fino al limite di quel vento nomadico e annichilente.

Ne L’invenzione di Morel, nel momento in cui il personaggio si avvicina agli edifici geometrici, la macchina da presa si esibisce in una carrellata su di essi per poi entrare insieme a lui nello spazio interno, non meno inquietante di quello esterno. Mentre sentiamo l’incessante sibilo del vento, che continua in una dimensione sonora più allontanata, vediamo oggetti incastonati in rigidi contorni: un tavolo, una scrivania, delle lampade e dei libri posati sul tavolo. Tutto appare come cristallizzato in un passato ormai bloccato e segnato dall’angoscia mentre come cupi rintocchi risuonano i passi dell’uomo-mummia che si avventura all’interno di quegli edifici erosi dal tempo. I passi sono lentissimi e cadenzati, abnormi espressioni sonore di un tempo che sta per fermarsi, un tempo volto solo al passato, lontano dalle complicate plaghe di qualsiasi presente. Gli oggetti sono ricoperti di una polvere che proviene forse da altre ere, da altri lontani crepuscoli. Aggirandosi nelle stanze, il personaggio apre dei vecchi armadi e il suono ligneo delle porte stride con sonorità perdute in un passato dalle parvenze spettrali. In queste stanze, la macchina da presa, ad un certo momento, effettua una carrellata sul corpo del naufrago e quest’ultimo appare bloccato in una posa mummificata, abbandonata al proprio destino, figura umana completamente annichilita dalle spazialità degli esterni e degli interni dell’isola.

Successivamente, egli si reca in una stanza dove, al pari degli altri oggetti, si trovano bloccati dal tempo dei vecchi motori ed emerge perciò un altro spazio inquietante, quello ove macchinari imbambolati riposano senza requie in uno stupefatto, macchinico passato. E se appaiono estremamente diversi dalle spazialità ferine e ‘corporee’ dell’isola, dalle pietre e dalla terra, dal ribollire del magma marino, quelle macchine non sono altro che l’inquietante rovescio della medaglia. E, successivamente, dopo che è riuscito ad avviare il macchinario che permette la fuoriuscita dell’acqua corrente, il naufrago si siede sull’orlo di una piscina in un paesaggio segnato da linee geometriche mentre sullo sfondo riluce un angolo di mare che adesso pare inglobato esso stesso nella spazialità geometrica delle costruzioni. Del suo magmatico ribollire, ora rimane solo un lembo lontano e tremante.

Dopo essere penetrato in una stanza dove rintoccano ossessivamente grevi suoni metallici, il personaggio fugge verso la spazialità aperta dell’isola, come richiamato dalla ferinità del vento, della roccia, della pietra e del mare, degli sfondi azzurri del cielo. L’essere umano sembra non aver quindi del tutto rinunciato alla propria natura: rifugge gli ambienti geometrici e metallici, robotici e segnati da cupi rimbombi per tornare correndo verso spazialità ferine e corporee. Ed è dagli estremi lembi di queste ultime che il protagonista si accorge di alcune figure che danzano sinuosamente, al ritmo di un’elegante musica. Mentre il personaggio del galeotto sembra appartenere in tutto e per tutto agli spazi ferini e terrei dell’isola, le nuove figure che cominciano ad apparire sono immerse in cerei limbi, in falde di passato rapprese in colori pastello, come se fossero soltanto delle sovrapposizioni eteree e spettrali inserite nell’ambientazione dell’isola. Nello spazio inquietante di quest’ultima, infatti, c’è posto anche per le figure spettrali che sembrano adesso perseguitare il personaggio: è soprattutto una figura femminile, intrappolata nel suo limbo di un’era annegata in un passato lontano, a esercitare un fascino ambiguo e fantasmatico sul galeotto. Se quest’ultimo, poi, appartiene ormai all’universo afasico e barbarico dell’isola, le figure umane che lo circondano sono gli alfieri di una parola ripetuta in serie come in una catena di montaggio, essendo destinate a ripetere per sempre gli stessi gesti e a pronunciare le stesse frasi e gli stessi dialoghi. Muovendosi, i loro passi sono irrigiditi e meccanici, come nella sequenza che vede Morel camminare assieme al capitano della nave. Sono gli automi di un passato scardinato dallo stesso scorrere del tempo, un passato che non è tempo ma rigida ripetizione di uno spettrale spettacolo.

Il protagonista, infatti, si renderà conto che le figure umane improvvisamente apparse sull’isola sono solo delle proiezioni del passato, emerse dalla macchina di Morel, il quale ha intrappolato la sua immagine e quella di alcuni amici nel circuito senza requie del tempo. Morel e gli altri personaggi sono i fantasmi della ripetizione, sono gli ologrammi di un passato che non cesserà mai di ripetersi e il protagonista interagisce con essi come all’interno di un universo digitale. Se all’inizio crede che le figure siano reali, e si nasconde da esse, nel corso del film si rende conto che, invece, sono solo delle immagini proiettate dal macchinario creato dal genio mefistofelico di Morel. Il protagonista appare quindi circondato da immagini irreali che all’inizio egli scambia per vere: la sua vicenda non appare poi tanto diversa da quella degli individui contemporanei che, interagendo nel mondo digitale della rete, scambiano il falso per il vero e il vero per il falso. La confusione si è ormai generata e non ci sarà mai una interrelazione, mai una mescolanza autentica fra la corporeità ferina del protagonista e l’eleganza astratta e spettrale degli altri personaggi. Nello stesso modo, l’individuo contemporaneo, irretito dall’universo digitale, perde coscienza di sé e dei confini del proprio corpo e della propria coscienza.

Anche i personaggi intrappolati nel meccanismo della ripetizione sono vittima di una ‘decorporeizzazione’ che conduce all’annichilimento e alla morte. Infatti, chi viene sottoposto ai raggi della macchina di Morel, che hanno il potere di registrare le immagini dei corpi e di rendere pressoché immortale la loro immagine, è destinato a morire ricoperto di piaghe purulente. Quello sottoposto al processo di digitalizzazione, inserito nei meccanismi mostruosi di una macchina che condanna all’infinita ripetizione, è ormai un corpo putrefatto, inesorabilmente toccato dall’annientamento, destinato a trasformarsi in ombra inconsistente. Anche i personaggi del passato, intrappolati nel macchinario di Morel, in una illusione infinita come quella dei terribili marchingegni che David Cronenberg ci mostra in Videodrome (1983), sono gli inconsapevoli protagonisti di uno spettacolo che ha divorato il loro corpo e la loro anima, come gli utenti dell’universo digitale contemporaneo.

Lo stesso protagonista si renderà conto di essere fuggito da un carcere per capitare in un carcere ancora peggiore, in uno spazio inquietante e annichilente. Ormai trasformatosi definitivamente in automa e innamoratosi di una donna-immagine, simulacro spettrale di tutte le donne reali (come la bambola meccanica di cui si innamora il Casanova ne Il Casanova di Federico Fellini, che uscirà due anni dopo L’invenzione di Morel), sceglie di sacrificare il proprio corpo e la propria vita per consegnarsi volontariamente alla finzione, alla ripetizione, all’annichilimento del corpo e della coscienza per divenire ombra, spettro, immagine riproducibile all’infinito rischiando di restare imprigionato nella stanza dei macchinari, nella quale il sibilo barbarico del vento è sostituito da un cupo e insistente ronzio meccanico. E se alla fine il protagonista distruggerà, in un estremo impeto di ribellione, quelle crudeli macchine, lo spazio inquietante ha avuto ormai il sopravvento, uno spazio che avanza inesorabile e che renderà inquietante ogni lembo di qualsiasi presunta, sopravvissuta realtà.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 72 https://www.carmillaonline.com/2015/06/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-72/ Thu, 11 Jun 2015 20:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22948 ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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