xenofobia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano on line fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partiti centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolgere il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000. [Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’articolo pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto conviene esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

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Fumo di Londra https://www.carmillaonline.com/2024/08/10/fumo-di-londra-2/ Sat, 10 Aug 2024 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83866 di Giovanni Iozzoli

Mentre scrivo queste brevi note, dall’Inghilterra giunge qualche confortante segnale di reazione al ciclo di violenze di matrice xenofoba, che ha incendiato diverse città del Regno Unito. Grandi manifestazioni “antirazziste” hanno superato nei numeri quelle di segno opposto, coinvolgendo le comunità straniere, pezzi di sindacato e di sinistra politica. Una buona cosa, perché l’incubo delle strade in mano ai teppisti islamofobi, non poteva essere tollerato più a lungo.

Questa ondata di violenza – non prevista da alcuno – ha reso l’idea di una pentola a pressione improvvisamente scoperchiata da un evento tragicamente occasionale. Da questo punto di vista, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre scrivo queste brevi note, dall’Inghilterra giunge qualche confortante segnale di reazione al ciclo di violenze di matrice xenofoba, che ha incendiato diverse città del Regno Unito. Grandi manifestazioni “antirazziste” hanno superato nei numeri quelle di segno opposto, coinvolgendo le comunità straniere, pezzi di sindacato e di sinistra politica. Una buona cosa, perché l’incubo delle strade in mano ai teppisti islamofobi, non poteva essere tollerato più a lungo.

Questa ondata di violenza – non prevista da alcuno – ha reso l’idea di una pentola a pressione improvvisamente scoperchiata da un evento tragicamente occasionale. Da questo punto di vista, sapere che l’assassino di bambini di Southport non è un aspirante jihadista ma un cristiano figlio di ruandesi, ha cambiato poco il quadro: la scintilla non descrive l’incendio né offre previsioni sulla sua diffusione. A bruciare in Inghilterra in questo momento è proprio il mito della convivenza multietnica di cui il comunitarismo britannico è sempre sembrato laboratorio avanzato.

E’ inutile negarlo, siamo scioccati dalle immagini di nostri fratelli di classe – giovani segmenti di working class bianca – totalmente succubi di parole d’ordine e suggestioni di segno fascista. Non è la prima volta che ciò accade: tra la precarietà della coscienza operaia e il tribalismo sottoproletario, si cammina sempre su una lama sottile. Più di trent’anni sono passati dai fatti di Rostok – sempre agosto ma del 1992: l’ouverture di un processo storico in cui una maligna talpa nazistoide ha ben scavato per decenni, fino a portare l’AFD a diventare primo partito nei territori ex DDR.

Cosa abbiamo visto all’opera, in questi giorni, lungo le strade da Liverpool a Belfast? Odio per il diverso? Certo. Soprattutto se è considerato un competitor sul mercato del lavoro, della casa e del welfare.
Rifiuto della democrazia? Certo, soprattutto se letta come semplice ricambio al potere di élite tecnocratiche, espressione dei piani alti della piramide sociale. E se qualcuno martella per decenni i quartieri proletari e l’infosfera, con l’idea che quelle élite hanno “creato” scientemente il modello sociale multietnico per fottere l’Inghilterra, i suoi valori e gli interessi del “popolo”, ebbè: la miscela è pronta ad esplodere; e le menti obnubilate possono pensare che attaccare un centro per richiedenti asilo sia come attaccare una propaggine del potere finanziario globale.

Le manifestazioni antirazziste di massa di queste ore, però, palesano una criticità: corrono seriamente il rischio di finire arruolate ed inglobate dentro il perbenismo mainstream. Infatti i grandi giornali – in Italia in testa “Repubblica” – si spellano le mani ad applaudire gli “antifascisti” che ricacciano indietro la white trash, il sottoproletariato bianco degli stadi e dei pub. In questo modo, la lettura degli schieramenti, soprattutto da parte dei settori giovanili, diventa fatalmente torbida: e i movimenti antifascisti corrono il rischio di sembrare gli scherani del potere politico-mediatico, chiamati a difendere nelle piazze la società liberale, con tutte le sue “aperture e tolleranze”, contro la feccia bianca, ignorante e da respingere nelle zone d’ombra dei perdenti sociali.

A questo aggiungiamo che il multiculturalismo non è un pranzo di gala. Le differenze di fedi e stili di vita hanno un peso preponderante, nella vita sociale dei quartieri proletari (lo sa chi li frequenta, ovviamente…). A sinistra abbiamo cretinamente sottovalutato questo aspetto pensando paternalisticamente che la macchina della storia – progressiva, ça va sans dire! – avrebbe omologato le anime, le radici, le subculture, i sentimenti religiosi. Ed è paradossalmente la medesima hybris del liberismo: che assegna tale funzione livellatrice alla moderna divisione del lavoro, al mercato e al consumo. Né il progressismo di sinistra, né l’ottimismo capitalistico, hanno anestetizzato le radici culturali dei popoli. Anzi, talvolta quelle radici vengono strumentalmente recuperate e sbandierate, proprio per sottrarsi all’alienazione e alla spoliazione che l’individuo moderno subisce. Quindi: la società multietnica è ben lungi dal configurare un modello pacificato. E’ piuttosto un magma in perenne movimento, in cui le contraddizioni di classe si intersecano alle “linee del colore”, mentre larghi settori di popolazione non sono disposte a mandare in soffitta le loro storie, i loro legami arcaici. Un bel casino.

Se parli con le persone comuni che si sentono vittime della “globalizzazione” – e parlare è necessario, sempre, con tutti –, mettersi a predicare la bellezza della società multietnica non è una bella strategia. Daremmo l’idea di aver contribuito noi a crearlo, questo modello, mentre esso è solo l’espressione di una fase storica del capitalismo – e il fatto che a noi soggettivamente “piaccia” o meno, non cambia molto. Dobbiamo spiegare ai nostri interlocutori che questa società – nei suoi aspetti brutti e belli – è essenzialmente il risultato di grandi processi, anonimi e collettivi. Nessuno “modella” o riconfigura le società complesse. Nessuno ha “chiamato” gli immigrati: arrivano da soli, con ogni mezzo possibile, senza chiedere permesso a chicchessia, perché questa è la storia dell’umanità. Una storia in movimento. Non facciamo apologia delle brutture delle nostre periferie e di questo modello sociale: spieghiamo bene che noi non c’entriamo, che non siamo complici, che non la vogliamo così, la storia; che per noi convivenza significa tutta un’altra cosa….

Leggendo gli editoriali dei giornali, gli attori in campo sembrano al momento essenzialmente due: il potere politico-mediatico che invita all’integrazione, alla “convivenza” e al rispetto dell’ordine sociale capitalistico; e un arcipelago livoroso e informe di malessere “bianco”, costituito dai perdenti della globalizzazione. Manca un terzo “discorso pubblico”: il nostro, quello che si dovrebbe distinguere radicalmente dagli altri due; quello che dovrebbe evitare lo schiacciamento delle nostre energie vive e della nostra storia, dentro il fronte della “tolleranza liberale” – l’ideologia per cui si possono e si devono spremere e sfruttare i proletari di ogni colore senza alcun pregiudizio etnico…

Non stupiamoci se i fascisti fanno il loro mestiere e provano ad organizzare le persone (e del resto un riot suprematista chi dovrebbe guidarlo, i gesuiti?). Proviamo a chiederci piuttosto perché non riusciamo più a farlo noi. Abbandonare il campo del “malessere bianco” dandolo per perso è sbagliato. Si rischia di ripetere quanto visto durante l’emergenza covid: mentre l’incubo della governance bio-politica diventava prassi ordinaria – dopo decenni di chiacchiericcio sull’argomento nei seminari accademici –, una tacita ritirata della “sinistra alternativa” fiancheggiava oggettivamente lo stato di eccezione. Mai più, please.

Le manifestazioni di massa antirazziste che stanno rispondendo in queste ore sono dunque sacrosante. E la discesa in campo dei giovani delle seconde (e ormai terze) generazioni, può rappresentare un dinamismo sociale dirompente. Sarebbe però una beffa tragica, se gli antifascisti della strada e del quotidiano, passassero per difensori del potere liberale, lasciando intendere che siano apologeti di questa schifosa società: davanti a cui qualsiasi fascistello acquisirebbe il carisma del “rivoltoso in lotta contro il sistema”.

Le dame progressiste della buona società di “Repubblica”, del Lilligruberismo, del PD, del mondo associativo – tutti coloro che cercano di indorare la pillola di questi grandi processi storici, raccontando quanto siano belli, desiderabili e il migliore dei mondi possibili, rispetto ai terribili mostri orbaniani – non sono nostri amici o alleati. La loro compagnia ci scredita, almeno quanto ci screditerebbero gli orbaniani stessi. “Né Boldrini né Meloni”, è la giusta linea: gli immigrati non sono “risorse utili” né ovviamente nemici; sono persone che probabilmente (soprattutto quelli arrivati nell’ultimo decennio) avrebbero preferito restare a casa loro piuttosto che rischiare la pelle e soffrire viaggi che possono durare anni per approdare qui, a pulire i nostri cessi, tenere aperti i nostri cantieri, vivere in stamberghe o per strada, supplicare permessi provvisori che consentano loro di creare plusvalore nella legalità, perseguire ricongiungimenti familiari che ormai sono odissee burocratiche e donare la loro nuda vita e la loro giovinezza al capitalismo metropolitano. Il fatto che sono qui significa che il mondo fa schifo: non c’è bellezza, non c’è “incontro dei popoli”, non c’è United Colors, non c’è open society – non sono turisti, sono vittime del retaggio coloniale e del sistema imperialista.

E torniamo al punto di partenza: perché gli xenofobi hanno elaborato una loro contorta elaborazione e una loro (orrida) visione su questi fenomeni epocali, mentre noi brancoliamo nel buio e al massimo scendiamo in piazza “a posteriori”, a inseguire i processi cantando Bella Ciao? Qual è il nostro punto di vista, qual è la nostra narrazione: qual è il nostro immaginario, che dovrebbe disegnare i contorni di una società diversa fondata sul conflitto verticale? Quali sono le parole d’ordine che possono ri-accreditarci dentro le platee di massa a cui gli xenofobi attingono? Qual è la strada per sottrarci all’abbraccio mefitico dei difensori del presente, che nella stessa edizione dei loro giornaloni possono lodarci o esecrarci, a seconda di quanto possiamo risultare loro utili?

Dobbiamo costruire forme della politica che tengano dentro i bianchi e i “non bianchi”: poche chiacchiere, da qui non si scappa. Organizzare i profughi e le microminoranze, è cosa buona e giusta, ma serve fino a un certo punto. O li organizziamo dentro forme condivise – realtà politiche o sindacali a larga riconoscibilità autoctona – o diventiamo i rappresentanti di un ultra minoritarismo nobile e inutile. Da questo punto di vista, alcune lezioni de La France Insoumise, con tutti i suoi limiti (come siamo bravi a spiegare i limiti degli altri…), possono essere utili: una forza di massa che parla contemporaneamente ai ragazzi delle periferie, alla piccola borghesia che studia all’università e a pezzi sindacalizzati di mondo del lavoro tradizionale. Poco? Abbastanza per fermare il lepenismo, abbastanza per tenere la dialettica aperta tra “politica e classe”.

Nella crisi generale della società capitalistica globale – che è anche crisi ideologica, morale, di senso –, milioni di uomini e donne, persone semplici, spesso fragili o prive di strumenti, persi nel mare della iperconnessione globale, sono alla disperata ricerca di un ordine che dia loro sicurezza. Fino ad ora è stato loro proposto il carnevale dell’individualismo liberale, la fiera delle occasioni, lo spettacolo della decadenza, l’effimero della vetrinizzazione social. Hanno visto che dietro questo paese dei balocchi c’è la miseria materiale, l’arretramento del proprio segmento sociale, la contesa per dividersi le briciole con masse di indistinti “nuovi arrivati” che non possono far altro che svendersi e competere a prezzi migliori. Se facciamo capire che condividiamo i lineamenti di questo perverso meccanismo, qualsiasi fascistello di passaggio risulterà più attrattivo e credibile.

C’è bisogno di un ordine nuovo (cfr: Gramsci). Ripeto: un ordine nuovo, non chiacchiere sulle libertà, i diritti e la correttezza politica. Un ordine da cominciare a teorizzare, discutere e praticare. E noi dovremo essere identificati non come i difensori dei centri di accoglienza, ma come i propugnatori di questo nuovo ordine: in cui le persone non saranno più messe in competizione, ma valorizzate in funzione dei loro bisogni e del lavoro utile che potranno fornire alla società. Dobbiamo reimparare a sillabare queste verità elementari che un tempo ci distinguevano nettamente dall’avversario di classe e che abbiamo smarrito sotto i colpi dell’egemonia liberista, subita unilateralmente per trent’anni. Costruire, a partire dall’immaginario collettivo, la terza via tra l’apologia democratica del presente e il moto reazionario che gli si oppone: questo è il duro compito dell’oggi. Non abbiamo niente da difendere.

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Scenari videoludici di guerra civile americana https://www.carmillaonline.com/2023/01/24/scenari-videoludici-di-guerra-civile-americana/ Tue, 24 Jan 2023 21:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75404 di Gioacchino Toni

Ricostruire sui ruderi di un esperimento fallito ripetendo gli stessi errori

«Questo videogioco [Days Gone] racconta la storia di un operaio assediato dalle forze della globalizzazione, un soggetto in larga parte ignorato dalle forze politiche tradizionali. Un soggetto diffidente delle istituzioni, arrabbiato e impaziente. Un soggetto che prova nostalgia per un’immagine dell’America come terra di opportunità, una terra promessa costruita sui valori dell’espansionismo e della colonizzazione, sul mito della frontiera». In Days Gone i panorami americani vengono rappresentati «attraverso una visione di mondo antropocentrica ed estrattiva, per cui la natura è concepita unicamente come una serie di risorse [...]]]> di Gioacchino Toni

Ricostruire sui ruderi di un esperimento fallito ripetendo gli stessi errori

«Questo videogioco [Days Gone] racconta la storia di un operaio assediato dalle forze della globalizzazione, un soggetto in larga parte ignorato dalle forze politiche tradizionali. Un soggetto diffidente delle istituzioni, arrabbiato e impaziente. Un soggetto che prova nostalgia per un’immagine dell’America come terra di opportunità, una terra promessa costruita sui valori dell’espansionismo e della colonizzazione, sul mito della frontiera». In Days Gone i panorami americani vengono rappresentati «attraverso una visione di mondo antropocentrica ed estrattiva, per cui la natura è concepita unicamente come una serie di risorse da sfruttare, come un diritto inalienabile e indiscutibile. I giocatori si muovono tra le rovine dell’America, costruendo una nuova nazione sui ruderi di ciò che potremmo definire un esperimento fallito: anche se il gioco non lo esplicita, sono condannati a ripetere gli stessi errori» (pp. 251-252).

Così, in estrema sintesi, viene descritto il videogioco Days Gone (2019) – sviluppato da SIE Bend Studio e pubblicato da Sony Interactive Entertainment – da Soraya Murray, L’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone1, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].

Days Gone è un action-adventure open world in terza persona con caratteristiche tipiche del survival horror ambientato nelle zone rurali dell’Oregon, in un’America post-apocalittica, in cui imperversa un’alterità radicale, il freaker, un essere mostruoso geneticamente modificato simile alla figura dello zombie contemporaneo. Il giocatore è tenuto a identificarsi con Deacon St. John, ex-militare bianco, che vagabonda disilluso a cavallo della sua motocicletta tra le rovine di una società piombata in una guerra civile che contrappone le stesse piccole comunità separatiste che si sono venute a creare dopo l’apocalisse che ha dilaniato il Paese a stelle e strisce.

Il protagonista/giocatore è costretto a fare i conti non soltanto con i temibili freaker e con feroci animali selvatici, ma anche – analogamente a quanto avviene nella serie televisiva The Walking Dead (dal 2010) ideata da Frank Darabont, tratta dai fumetti (dal 2003) di Robert Kirkman [su Carmilla 1  2] –, con le diverse fazioni di sopravvissuti contraddistinte da specifiche caratteristiche valoriali che spaziano dall’ideologia libertaria (nell’accezione americana anarcocapitalista) al fondamentalismo religioso, dal militarismo fortemente gerarchizzato alla logica concentrazionaria, ecc. Insomma, l’universo messo in scena da Days Gone è caratterizzato dal conflitto pervasivo, dall’inimicizia e da una violenza generalizzata e se per sopravvivere qualche forma di collaborazione reciproca si rende necessaria, occorre però far affidamento sulla diffidenza nei confronti di tutto e tutti.

Se in altra sede Soraya Murray si è preoccupata di interpretare in chiave ideologica la logica di rappresentazione del videogioco2, in questo saggio ha preferito indagarlo nella sua dimensione affettiva espressa da una peculiare esperienza estetica, in quanto convinta che è proprio nello spazio emotivo che, per usare le parole di Jennifer Doyle, “gli effetti devastanti dell’ideologia diventano particolarmente evidenti”3. Secondo Murray «Days Gone esprime in forma estetica una svolta ideologica: dall’espansione globale neoliberista alla spinta verso il nazionalismo e l’autosufficienza» (p. 221).

Alla studiosa «interessa comprendere come l’attraversamento spaziale e la temporalità degli ambienti simulati contribuiscono al portato affettivo complessivo del videogioco [e] come l’atmosfera stessa del videogioco possa comunicare particolari stati d’animo attraverso l’organizzazione dello spazio virtuale» (p. 222). Secondo Murray l’analisi di Days Gone aiuta a comprendere meglio l’ansia diffusa che permea il contesto socio-politico statunitense.

Nel videogioco il collasso sociale ed economico degli Stati Uniti è stato causato da un contagio, tema ricorrente in numerose opere cinematografiche recenti4, in questo caso diffuso involontariamente da Sarah, la moglie del protagonista, costretta pertanto a essere perseguitata dal senso di colpa e a cercare una soluzione scientifica al disastro che ha maldestramente causato. Il videogioco, però, sostiene Murray, più che sul misogino stereotipo dell’incoscienza femminile muove accuse anti-governative e anti-scientifiche: politica e scienza, insomma, sono considerati i veri responsabili del disastro apocalittico.

Murray sottolinea come se da un lato Days Gone, al pari di molti videogame, permette una certa customizzazione dei dettagli, dall’altro propone l’immedesimazione in un personaggio decisamente strutturato degli elaboratori del gioco caratterizzato dai cliché del maschio bianco tradizionalista e normativo incarnante i valori dell’intraprendenza, della forza e della durezza emotiva, reduce di guerra senza aver ricevuto per i sui servigi alla nazione un adeguato riconoscimento.

L’appeal ideologico di Days Gone, secondo la studiosa, si rifà allo stato d’animo rancoroso diffusosi negli Stati Uniti a partire dall’elezione del presidente Barack Obama del 2012 – soprattutto tra i bianchi della classe operaia e della middle class impoverita – in risposta al percepito decadimento dell’America tradizionale. Tale senso di frustrazione, di vittimizzazione del maschio bianco, ha determinato il «desiderio di “riprendersi” a tutti i costi la nazione, rendendola nuovamente grande» (p. 231) scemando facilmente in xenofobia nei confronti di tutte quelle forze aliene che assediano il Paese.

«Nel contesto della crescente polarizzazione tra l’Occidente e gli Altri, lo scenario survivalista attesta l’ansia diffusa di parte della popolazione che si sente vittima della globalizzazione» (pp. 231-232). Nel protagonista Deacon, così come in altri personaggi che popolano Days Gone, non è difficile vedere la «rappresentazione del bianco americano che si sente assediato e perseguitato» (p. 232), sebbene, sostiene Murray, non sia assimilabile alla classica figura del razzista o del suprematista bianco; in diverse occasioni egli disprezza i personaggi più marcatamente razzisti e intolleranti e non manca di allearsi con personaggi di colore con i quali, in alcuni casi, manifesta una qualche prossimità affettiva.

Come avviene in diversi film hollywoodiani post-apocalittici, anche in Days Gone spetta a un protagonista maschile bianco dare un ultima speranza all’umanità di ristabilire l’ordine dei tempi andati: se l’apocalisse è vista come evento che scombussola l’esistenza degli uomini bianchi, non può che spettare a questi il compito di risolvere la situazione. «Days Gone promuove l’idea che l’individuo è un agente libero e autonomo, che il capitalismo sopravviverà all’apocalisse e che lo sforzo umano individuale è più efficace dell’azione collettiva. Days Gone mostra come un soggetto forte possa adattarsi al panico e superare la crisi» (p. 236).

In termini di gameplay, l’intensità affettiva del videogioco alterna fasi di offesa (che prevedono l’eliminazione dell’Altro) e di difesa (sopravvivenza). Days Gone ci dice che il mondo è ostile, siamo soli, non possiamo contare su nessun altro al di fuori di noi stessi, dunque dobbiamo sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere. Chi sopravvive? I fanatici delle armi da fuoco, gli ex soldati traumatizzati, i malvagi immorali senza scrupoli. Ci sono inoltre i “lavoratori essenziali”: meccanici, operai edili, carpentieri. In breve, uomini e donne della classe operaia che si sporcano le mani per garantire la sopravvivenza della civiltà, ma che sono sistematicamente sfruttati, sottovalutati e infine sacrificati (p. 236).

Donald Trump ha saputo sfruttare a proprio vantaggio tale immaginario insistendo nell’indicare nella globalizzazione la causa dell’erosione sociale della classe operaia e di quella media proletarizzatasi e prendendo costantemente le distanze dalla classe politica, contribuendo così alla sua delegittimazione.

Trump ha descritto gli Stati Uniti come una nazione inerte di fronte a legioni di criminali, spacciatori e stupratori provenienti dal Messico, disumanizzando gli immigrati con l’epiteto di “bestie”. Tra le soluzioni che ha proposto per arginare “la piaga”, spiccano le deportazioni di massa e la costruzione di un grande muro. Il “flusso” di cui parla può anche essere letto in relazione ai flussi globali di corpi, capitali e informazioni che caratterizzano la globalizzazione, un processo che produce manodopera a basso, anzi bassissimo costo, con la quale i lavoratori americani non possono competere (pp. 238-239).

Una parte importante dell’analisi di Murray riguarda il ruolo politico che viene ad avere il paesaggio in Days Gone. Nel videogioco il paesaggio viene presentato come un ambiente naturale e selvaggio invaso da una forza aliena che deve essere riconquistato, “ripulito dai nemici” al fine di ripristinare le “condizioni iniziali”.

La necessità di tale incombenza non è comunicata in forma verbale bensì spaziale, ovvero attraverso la messinscena di un territorio connotato come una risorsa limitata che appartiene di diritto a un gruppo specifico. In questo contesto, possiamo scorgere ovunque i detriti di una civiltà ormai perduta che tuttavia non si rassegna all’oblio. Laddove la società precedente era fondata sul consumismo, nel “nuovo mondo” il valore delle cose dipende dalla loro utilità pratica. Days Gone è strutturato sulla base di processi “naturali” legati ai comportamenti degli animali, degli infetti e delle persone. Tali comportamenti hanno un effetto diretto sulle azioni dei giocatori, sulle opportunità e sui risultati possibili nello spazio di gioco. […] L’ambiente simulato – che mostra un paesaggio tentacolare e maestoso, ricco di risorse, nella vibrante e grandiosa riproduzione del Pacifico nord-occidentale – promette una reinvenzione degli Stati Uniti come nuovo Eden, una fantasia di abbondanza, l’utopia della vita agreste (p. 248).

In conclusione, sostiene Murray, si può affermare che Days Gone comunica un messaggio autarchico e, pur non scemando nel complottismo, esprime una retorica anti-governativa, promuovendo «un’ideologia libertaria, basata sul primato del singolo rispetto alla collettività, e celebra la libertà personale come valore assoluto» (pp. 249-250). Non a caso sul piano narrativo tale videogioco può essere assimilato a un western in cui il protagonista, una sorta di fuorilegge, non rinuncia alla propria individualità, evita di unirsi in modo permanente con una delle fazioni in lotta e palesa una sorta di atavica diffidenza nei confronti di ogni iniziativa istituzionale: «Forte di una rappresentazione del paesaggio che segue il canone del sublime, combinata all’affetto politico anti-governativo e anti-scientifico, Days Gone mette in scena uno dei miti fondanti dell’America» (p. 250).

L’importanza di Days Gone, afferma la studiosa, «non risiede tanto nel suo messaggio politico, quanto nella capacità di veicolare una specifica affettività politica. […] Immergendosi per un lungo frangente temporale negli spazi di Days Gone, è possibile accedere all’intensità affettiva del sentimento politico che si è sviluppato negli Stati Uniti nel modo in cui si è sviluppato» (pp. 252-253).

 

 


  1. Versione in lingua inglese: America is Dead. Long Live America! Political Affect in Days Gone, in “European Journal of American Studies”, Special Issue – Video Games and/in American Studies: Politics, Popular Culture, and Populism, vol. 16, n. 3, 2021. Disponibile online [link], data di consultazione 24 gennaio 2023. 

  2. Soraya Murray, On Video Games: The Visual Politics of Race, Gender and Space, I.B. Tauris, London 2018 

  3. Jennifer Doyle, Hold It Against Me: Difficulty and Emotion in Contemporary Art, Duke University Press, Durham, North Carolina 2013, p. XI. 

  4. Ad esempio: La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 2010) di Breck Eisner e Dawn of the Dead (2004) di Zack Snyder, derivati dagli omonimi film del 1973 e del 1978 di George A. Romero; Io sono leggenda (I Am Legend, 2007) di Francis Lawrence, tratto dall’omonimo romanzo del 1954 di Richard Matheson; 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle; Contagion (2011) di Steven Soderbergh; World War Z (2013) di Mark Forster, derivato da un romanzo del 2006 di Max Brooks ecc. 

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Gli zombi del capitale. La “galera infame” della xenofobia in Go Home – A casa loro https://www.carmillaonline.com/2019/05/27/gli-zombi-del-capitale-la-galera-infame-della-xenofobia-in-go-home-a-casa-loro/ Mon, 27 May 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52455 di Paolo Lago

Immaginiamo un centro di accoglienza per immigrati prima assediato da una folla di manifestanti di estrema destra e poi, all’improvviso, da un gruppo di zombi. Sì, zombi, perché Go Home – A casa loro (2108) è un riuscito zombie movie, diretto da Luna Gualano, che affronta il tema del razzismo e della xenofobia nell’Italia di oggi in modo inedito e interessante. Se la figura dello zombi – come dimostra il saggio di Martino Doni e Stefano Tomelleri, Zombi, i mostri del neocapitalismo – bene rappresenta la natura parassitaria del capitalismo [...]]]> di Paolo Lago

Immaginiamo un centro di accoglienza per immigrati prima assediato da una folla di manifestanti di estrema destra e poi, all’improvviso, da un gruppo di zombi. Sì, zombi, perché Go Home – A casa loro (2108) è un riuscito zombie movie, diretto da Luna Gualano, che affronta il tema del razzismo e della xenofobia nell’Italia di oggi in modo inedito e interessante. Se la figura dello zombi – come dimostra il saggio di Martino Doni e Stefano Tomelleri, Zombi, i mostri del neocapitalismo – bene rappresenta la natura parassitaria del capitalismo mostrando i lati peggiori dei legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo, sottoposti a produzione, sfruttamento e oppressione, essa può essere anche veicolo di cieco odio razziale e xenofobo. L’idea che sta alla base del film, infatti, è fondamentalmente questa: il diffuso odio per i migranti, per i ‘diversi’, per gli stranieri si muove in modo cieco e meccanico come una massa di zombi. La xenofobia e il razzismo rappresentano perciò dinamiche sociali scaturite dalla struttura capitalista, la quale, proprio come uno zombi – un essere bulimico che non mangia per nutrirsi ma per ripetere in modo pressoché infinito il suo atto – produce un consumo di merce finalizzato alla ripetizione del consumo stesso. L’odio razziale, quindi, è un meccanismo cieco, generato dagli scarti della società capitalistica, una sorta di malattia che si diffonde per contagio. La zombificazione, infatti, già dai film di Romero, si espande tramite il contagio, rappresentato dal morso di un altro zombi. Pensiamo solo a due capolavori del regista americano, come La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead, 1968) o Zombi (Dawn of the Dead, 1979): in quest’ultimo film, gli zombi vengono messi in scena come i consumatori di un supermercato i quali, anche da morti, come coazione a ripetere, continuano a fare quello che facevano da vivi. Dietro questa immagine c’è una feroce critica a una società dei consumi che trasforma il consumatore stesso in uno zombi, un automa assolutamente privo di volontà.

Nel film di Luna Gualano, l’irruzione degli zombi avviene in modo improvviso e inaspettato. Le immagini iniziali mostrano una protesta di alcuni personaggi di estrema destra, vestiti di nero e con croci celtiche, di fronte a un centro di accoglienza per immigrati, intervistati e ripresi da una troupe televisiva. Niente di nuovo, quindi, da ciò che sempre più spesso vediamo in televisione, sia che oggetto dell’odio razziale siano gli immigrati sia che, invece, lo siano i rom. Dal lato opposto, però, ci sono anche dei giovani che manifestano a favore del centro per immigrati. Improvvisamente, il contagio zombi investe tutti, arriva come una malattia che non fa distinzione, come una sorta di assuefazione acritica alle più svariate problematiche, anche gravi, che percorrono la società contemporanea. La zombificazione giunge come una abulia da social network, come un annientamento cerebrale generato dal consumo indiscriminato e acritico di sempre nuove notizie che si affastellano le une sulle altre e che non riusciamo a percepire con il dovuto distacco critico.

Uno fra i contestatori di destra, per sfuggire all’assalto degli zombi, si rifugia all’interno del centro di accoglienza (che la regista e il co-sceneggiatore Emiliano Rubbi ricostruiscono nel Centro Sociale Intifada di Roma) e, senza svelare la propria appartenenza politica e il motivo per cui si trovava lì, viene assistito dai migranti e dagli operatori del centro. Però, alcuni mostri che premono alle porte e alle finestre riescono ad entrare e la zombificazione si diffonde anche all’interno del centro, anche fra gli immigrati ospiti della struttura. Ecco che l’immagine dello zombi, oltre a raffigurare l’abulia innestata nei corpi e nelle menti dalla società capitalistica, adesso rappresenta anche la massa indistinta dei migranti come vengono rappresentati dai media e dalle televisioni. Come nota Gioacchino Toni in un interessante studio inserito in Immaginari alterati, una raccolta di saggi uscita recentemente per Mimesis, i migranti bloccati ai confini della fortezza Europa sono rappresentati dai media (e percepiti dagli spettatori) come una massa indistinta: disumanizzati, vengono fatti apparire come un gruppo di zombi e di automi che si spostano meccanicamente, senza un vero motivo e senza una vera logica, perdendo la loro connotazione di esseri umani in fuga da guerre, carestie e stragi.

I migranti provenienti dall’Africa e da altri paesi del sud e dell’est del mondo, colpiti dal contagio, si trasformano in massa indistinta, esseri senza nome e senza umanità, forse proprio in virtù di quell’odio strisciante che li vorrebbe escludere, allontanare, disumanizzare. Se sono zombi, non sono esseri umani, ce lo ha insegnato Romero: si possono allontanare, umiliare, ferire, uccidere ed eliminare senza problemi. E troppo spesso i media ci comunicano l’immagine dei migranti, appunto, come degli zombi: nell’indifferenza generale assistiamo a navi umanitarie bloccate da leggi disumane, navi piene di esseri umani in preda ad atroci sofferenze; assistiamo a naufragi di barconi pieni di uomini, donne e tanti bambini, barconi sui quali, spesso, donne incinte sono costrette a partorire fra dolori terribili, fisici e psicologici. Forse, stiamo già vivendo la distopia del film, senza essercene accorti: se accettiamo tutto questo, anche noi occidentali siamo ormai tutti zombi che vivono in una dimensione distopica in cui l’orrore fa parte del quotidiano. Siamo ben lontani, oggi, da una società veramente e profondamente umana.

Però, come mostra anche il film, ci possono essere piccole falde di resistenza. Innanzitutto, bisogna conoscere veramente chi è oggetto di odio e di indifferenza, bisogna attuare il principio dell’indiscrezione, come scrive Maurizio Bettini nel suo ultimo saggio, Homo sum: bisogna essere indiscreti per avvicinarsi, conoscere e capire. Il giovane manifestante di destra, perso nel vortice di un cieco odio nei confronti di chi non conosceva o conosceva soltanto in modo qualunquistico (l’immigrato, solo perché immigrato e diverso, deve essere odiato), una volta avvicinatosi, conosce veramente le persone che odiava, fa domande, si informa sui nomi, sulla provenienza e sulle storie di ognuno, legandosi soprattutto al piccolo Alì, un bambino africano ospite del centro assieme alla madre studentessa di medicina.

Un altro momento di resistenza è offerto quando si levano le toccanti note de Il galeone, il canto anarchico che deriva da una poesia di Belgrado Pedrini musicata da Paola Nicolazzi, riproposto in Go Home in una melodica versione cantata da Cinzia La Fauci. Il canto quasi accarezza – unito a un movimento di macchina sugli ospiti del centro ormai stremati – tutti gli immigrati che stanno lottando per non soccombere alla zombificazione dell’odio e dell’indifferenza, una “ciurma anemica di una galera infame” che è ancora pronta a lottare per la giustizia e l’uguaglianza. In quel momento, la dolcezza del canto porta un tocco di umanità, soffia una carezza di ‘riumanizzazione’ sui corpi dei giovani migranti ormai abbandonati a se stessi.

Certo non sveleremo il finale, ma sembra che non ci siano nuove aperture di speranza, nessuna risoluzione del malefico intreccio fra odio, indifferenza, conflitto di classe. La soluzione, forse, sta nella lotta: quel canto che alto si dispiega, pure se sommessamente, comunica resistenza ed è proprio una forma di resistenza che, nel centro, verrà messa in moto soprattutto grazie al taciturno e tormentato gigante africano, ritratto anche da Zerocalcare nella locandina del film. Ma se questa lotta non si estende, altri centri di accoglienza, altre comunità di immigrati e rifugiati, di rom, di emarginati, altri singoli esseri umani verranno sopraffatti dagli zombi dell’odio, del qualunquismo e dell’indifferenza.

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Il femminismo delle Zingare e la costruzione di coalizioni https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/il-femminismo-delle-zingare-e-la-costruzione-di-coalizioni/ Fri, 14 Dec 2018 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49834 di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro [...]]]> di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro tra biografie, lotte, percorsi di liberazione» Federica Giardini

«Corradi denuncia la retorica razzista dell’anti-zingarismo (rom-fobia), mettendo in luce la potenzialità radicale della coalizione e della solidarietà tra attiviste/i di genere rom da diverse collocazioni geopolitiche oltre i confini dello stato-nazione. Un contributo originale agli studi critici della razza e della colonialità in Europa» Chandra Talpade Mohanty

In che modo si sviluppa una coscienza di genere in un contesto in cui il ruolo della donna ha un’importanza fondamentale per la sopravvivenza della comunità stessa? Quali tratti distintivi ha il femminismo delle zingare rispetto a quello di altri gruppi sociali? In quali paesi il fenomeno appare più presente? Queste sono alcune delle questioni di cui tratta il libro di Laura Corradi pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti – Gypsy Feminism. Intersectional Politics, Alliances, Gender and Queer Activism (Routledge, 2018) – e in uscita proprio in questi giorni in edizione italiana nella collana “Relazioni pericolose” di Mimesis edizioni.

La comunità zingara è «la più demonizzata d’Europa, soggetta a costanti e ripetute stereotipizzazioni, oggi nuovamente assurta a capro espiatorio, in particolare a causa delle politiche neoliberali e della crisi economica» (p. 119); non a coso l’anti-zingarismo risulta oggi «l’unica forma di razzismo socialmente accettata in Europa» (p. 120). È a partire da tale contesto che, prendendo in considerazione il punto di vista e le sfide delle attiviste zingare, Corradi affronta un fenomeno sociale scarsamente conosciuto in Europa come il femminismo delle donne rom, gitane e traveller, focalizzandosi sulle soggettività che producono saperi e lotte contro il sessismo, il classismo, la rom-fobia, le espressioni di anti-zingarismo tutt’oggi radicate nel tessuto sociale.

L’apertura del volume è dedicata ad alcune riflessioni terminologiche non di poco conto visto che definizioni e categorie non sono mai neutre e da questo punto di vista la parola “Zingara/o” non fa certo eccezione. Introdotto nel XV secolo il termine viene utilizzato ancora oggi per designare genericamente chi ha vita nomade e nell’immaginario collettivo si è sedimentata l’idea che vuole le Zingare come rapitrici di bambine/i e ladre, propense a prostituirsi e madri del tutto inaffidabili e gli uomini come individui violenti e stupratori. Il termine, pur essendo spesso utilizzato come insulto – «sinonimo di vagabondo, pigro, sporco, incapace di lavorare, inaffidabile, falso e astuto. Essere Zingari nelle società occidentali rappresenta un’alterità radicale» (p. 19) – può dirsi oggi un termine conteso: si può criticarne il ricorso in quanto su di esso si è sedimentato un senso spregiativo, ma si può anche decidere di ricorrervi nonostante il retaggio negativo. «La parola è stata rivendicata da ricercatrici/ori e attiviste/i di diversi gruppi etnici e non etnici allo scopo di rendere possibile la comprensione e la valorizzazione delle differenze interne – nella consapevolezza di essere accomunati dallo stesso tipo di oppressione. Infatti, tutti i popoli Rom, Sinti, Manouche, Kalé, Yanish, Gitani, Camminanti, Gens du Voyage e Traveller sono stati chiamati Zingari e hanno affrontato l’anti-zingarismo e le persecuzioni» (p. 20). Oltre che per tali ragioni Corradi sceglie di ricorrere alla parola “Zingara/o” anche per un motivo di natura politica: «questa parola indica un crocevia di lotte collettive in parte condivise, un luogo comune a partire dal quale costruire alleanze» (p. 20).

La studiosa-attivista segnala come a livello istituzionale in Europa esistano due diverse tendenze: se da una parte il Consiglio d’Europa mantiene una distinzione tra termini diversi, paesi come la Francia e l’Italia tendono invece a raggruppare le diverse definizioni. Entrambe le opzioni mostrano elementi di contraddittorietà: il mantenimento delle distinzioni, apparentemente più corretto, potrebbe però rafforzare le divisioni, mentre il raggruppamento delle differenze in un unico termine potrebbe dar luogo a un rafforzamento del senso di appartenenza a una sfera comune facilitando coesione e alleanze.

Nel volume viene evidenziato come durante il processo di allargamento europeo si sia attuata un’importante e netta cesura: «il discorso politico sulle comunità zingare occidentali è diventato marginale, mentre le nuove narrazioni sulla situazione delle/dei Rom nei paesi dell’Est hanno catalizzato l’attenzione. La designazione “Zingara/o” è stata usata “come ponte” tra le due comunità fino a quando non è stata tracciata una linea politica di divisione, che nel discorso e nella pratica istituzionale ha separato […] le comunità zingare e nomadi occidentali dalle comunità rom orientali» (p. 22.) Si tratta di una scelta volta ad attuare una frammentazione funzionale al dominio. «Zingari e Nomadi venivano lasciati da parte come “gruppi non etnici”, mentre le popolazioni Rom venivano categorizzate come minoranza da rispettare e proteggere» (p. 22). Lo stesso ricorso all’etichetta «di un gruppo sociale come “minoranza”», ricorda Corradi, «non è al di sopra di ogni sospetto. Il termine richiama l’idea di minore, minuscolo, insignificante, trascurabile o inferiore; esso appartiene alla cornice cognitiva dominante che svaluta gli oggetti della pratica definitoria. Il fatto che ci si riferisca a ogni gruppo di persone di colore come a “minoranze” occulta il fatto che nel mondo le persone bianche sono una minoranza rispetto alle persone di colore». (p. 22). «La Dichiarazione di Strasburgo del 2010 ha optato per identificazioni su base etnica come Rom o Sinti e la maggior parte degli Stati membri ha adottato la stessa politica. In Italia, l’Ufficio nazionale contro il razzismo vieta l’uso del termine “Zingare/i”, ignorando le comunità e i gruppi di ricerca che tentano di praticare una riappropriazione semantica della parola […] D’altro canto, assistiamo a una riedizione dell’impiego negativo della parola “Zingara/o” come epiteto offensivo da parte di gruppi politici di destra e razzisti» (pp. 22-23).

Parte della debolezza del termine “Zingara/o”, sostiene la studiosa-attivista, deriva dal fatto che esso è il risultato di un processo di alterizzazione ovvero della definizione di un gruppo da parte del gruppo dominante in cui spesso si ricorre a termini inferiorizzanti, in questo caso la definizione deriva dalla volontà delle popolazioni sedentarie di indicare come estranee quelle nomadi. Consapevole delle ambiguità dei termini e del loro «essere oggetti contesi in termini di significato, e della loro funzione politica in quanto significanti» (p. 24), scrive Corradi, è pur vero che se da un lato «la definizione di chi sia “Altro” è una prerogativa di chi ha potere, la ri-definizione diventa una attività autopotenziante per le categorie oppresse. La decisione di intitolare questo libro Il femminismo delle Zingare può essere letta come espressione di fiducia verso il potenziale sovversivo di ri-significazione delle parole inteso come atto politico in divenire. La produzione di contro-definizioni può avvenire attraverso un’inversione semiotica dei significanti dispotici, come è avvenuto in passato nel caso di parole come Freak, Fag, Dyke e, la più nota di tutte, Queer» (p. 25).
A proposito di linguaggio, il ricorso della comunità zingara a termini come Gagé per indicare le persone che non ne fanno parte può essere letta come una forma di autodifesa contro chi ha «il potere di definire ed esercitare la supremazia», si tratta di una «una pratica importante in termini di costruzione di contropoteri semiotici all’interno della comunità e nei rapporti con le molteplici agentività politiche esterne, aventi diversi gradi di prossimità» (p. 26).

Dopo le precisazioni di carattere terminologico, il libro prosegue con una ricostruzione storica e sociale utile a comprendere tanto la situazione che oggi vede le Zingare in Europa strette tra razzismo, sessismo e povertà, quanto «alcune battaglie di genere e le sfumature di un patriarcato profondamente radicato, che ha resistito al cambiamento sociale, sopravvivendo come forma anche opposizionale alle diverse persecuzioni sofferte dalle comunità nel corso della storia» (p. 29). Inaugurata nel Medioevo, la mostrificazione dell’alterità ha probabilmente raggiunto il culmine durante l’Inquisizione e, sostiene Corradi, buona parte dell’armamentario di stereotipi contemporaneo sembra riprendere quanto si è sedimentato in quell’epoca.

È forse utile riportare qualche dato. «In Europa, la comunità rom costituisce ufficialmente la più grande “minoranza” etnica: si stimano circa 12 milioni di Rom con lingue e tradizioni simili. La comunità rom, specie nell’Est europeo, è una parte sostanziosa della popolazione comunemente definita “zingara”. Le persone zingare, probabilmente sottostimate, sono quasi 20 milioni sparse in 66 paesi del mondo. Più di 10 milioni vivono in Europa, escludendo le comunità zingare della Russia (circa un milione di persone) e quelle della Turchia, che potrebbero ammontare a 5 milioni […]. In Europa, le comunità zingare, gitane, Gents du Voyage e Camminanti vivono nei paesi dell’area mediterranea: Spagna, Grecia, Francia, Italia. Mentre le/i Traveller risiedono nel Regno Unito e in Irlanda. I paesi orientali, Ungheria e Albania, e gli stati balcanici della Romania e della Bulgaria ospitano invece la maggioranza delle/i Rom» (p. 30).

«La prima legge contro la comunità zingara fu emanata in Moravia nel marzo del 1538. Nello stesso secolo, la corona inglese emanava una serie di leggi antiegiziane per espellere o uccidere gli “Egyptian”, da cui Gypsy. Per molti secoli la comunità zingara è stata perseguitata, spesso a causa di sentenze dei tribunali cattolici dell’Inquisizione, specialmente in Italia e in Spagna. Intere comunità zingare rom furono costrette alla schiavitù nei Balcani, e oltreoceano ridotte in catene insieme alle popolazioni africane e ai nativi-americani – messi ai lavori forzati nelle colonie inglesi. L’apice della persecuzione si raggiunse nel XX secolo con il Barò Porrajmos (letteralmente “Grande divoramento”) nazista, risultato della combinazione tra spinte etnocide e propositi genocidi» (p. 34).

Durante la Seconda guerra mondiale circa mezzo milione di Rom, Sinti e altri gruppi zingari sono stati sterminati nei campi di concentramento nazisti e altrettanti morirono a causa delle persecuzioni. Si stima che in Europa circa tre quarti del popolo rom sia stato sterminato in epoca nazi-fascista. Se nella Spagna franchista la lingua romanés finì addirittura per essere vietata, sono parecchie le parti d’Europa in cui le persone zingare sono state discriminate e si deve attendere il 27 gennaio 2005, data dell’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite volta a commemorare tutte le vittime dell’Olocausto, che si ha a livello istituzionale il riconoscimento della persecuzione subita dalle comunità zingare. «In questa data, le persone rom uccise durante il Porrajmos sono ricordate e onorate da tutte le comunità. Nei contesti dell’attivismo si celebra anche l’anniversario della insurrezione zingara di Auschwitz-Birkenau del 16 maggio» (p. 35). Se in Europa il Porrajmos è poco riconosciuto, e ancora meno si è al corrente degli episodi della Resistenza zingara, ciò è in buona parte dovuto alla sistematica cancellazione della memoria funzionale alle «tendenze politiche etnocide e svolgono un ruolo importante nel rendere invisibili la storia e l’agire politico delle comunità zingare» (p. 36).

I rapporti di Amnesty International evidenziano le violazioni dei diritti umani subite dalle donne rom a causa di discriminazioni di etnia e genere e alcune ricerche europee indicano come il numero di persone che manifestano pregiudizi verso altri gruppi etnici sia il doppio rispetto a quanti hanno pregiudizi verso le/gli omosessuali. «Il fenomeno dell’anti-zingarismo ha ricevuto l’attenzione dei media solo in seguito agli incendi dei campi, dopo attacchi neofascisti e xenofobi in alcune circostanze istigati da politici. Talvolta gli assalti coinvolgono coloro che abitano nelle vicinanze dei campi, spesso persone di classe bassa afflitte dalle condizioni degradate del quartiere, dall’abbandono delle istituzioni, dalle condizioni di pericolo per la salute pubblica» (p. 39). Non è infrequente che dopo qualche atto criminale raggruppamenti fascisti e razzisti si adoperino per istigare le frange urbane più vulnerabili a individuare nelle comunità zingare un capro espiatorio.

«A livello sociale, Zingari, Rom e Traveller sono spesso rappresentati in modo idealizzato, le comunità sono viste come luoghi in cui il tempo e lo spazio non sono merci e possono fungere da struttura per il legame collettivo. Le persone gagé possono leggere le relazioni interpersonali zingare come “non capitalistiche” a causa della grande importanza data all’amicizia, alla convivialità, alla reciprocità, al sostegno e ad altri valori non materiali. Eppure, queste culture sono rappresentate dai media mainstream come brutali e materialiste, caratterizzate dall’avidità per l’oro e da un’eccessiva preoccupazione per il denaro. In questo caso, le persone gagé sottovalutano l’insicurezza economica in cui di solito vivono le persone zingare, che solitamente non possiedono beni immobiliari o altre garanzie. L’insicurezza economica spiega il fatto che le famiglie diano ancora oggi particolare importanza a beni e oggetti di valore che siano trasportabili, quando diventa necessario andarsene» (pp. 41-42).

Nel primo capitolo – Tradizioni patriarcali e ricerca intersezionale femminista – la studiosa-attivista si sofferma su alcune ricerche-azioni femministe contro la violenza domestica nei campi e nelle comunità zingare. «Le ricercatrici hanno raggiunto risultati significativi adottando una metodologia partecipativa, intersezionale e non eurocentrica» (p. 48). Tra le istituzioni promotrici vengono citate il Segretariato Gitano in Spagna e la Fondazione Brodolini in Italia.

«Progetti come Empow-air considerano la violenza un elemento strutturale delle società dominate dagli uomini a livello globale: “non esiste paese al mondo in cui le donne siano libere dalla violenza”. Tutte le società tendono a negare, legittimare o minimizzare la violenza contro le donne e questo contribuisce a mantenerle in una posizione subalterna. Ciò avviene anche nelle comunità zingare, sebbene la cultura non rappresenti in sé una spiegazione dell’esistenza del patriarcato, mentre è utile a capire i modi specifici in cui si articola ogni patriarcato. La ricerca-azione Empow-air ha dimostrato la necessità per l’attivismo di genere e per le femministe di concentrarsi su tutti i tipi di violenza che le Zingare devono fronteggiare oggigiorno, a partire da violenza di stato, molestie della polizia, attacchi di rom-fobia, sgomberi forzati dai campi, forme materiali e simboliche di razzismo istituzionale. Una pratica discorsiva sulla violenza in famiglia dovrebbe superare le resistenze e i comportamenti difensivi di donne e uomini di diverse età e status per le/i quali parlare di abusi domestici è ancora un tabù. La denuncia legale intentata dalla vittima è percepita come violazione della solidarietà di gruppo e causa la perdita di prestigio e d’immagine dell’intera comunità. Per queste ragioni, le/ gli attivisti gagé (non zingare/i) devono possedere competenze culturali, abilità, sensibilità e inclinazione per gli scambi interculturali; devono impegnarsi in una decostruzione costante dei propri privilegi in quanto Gagé, dei propri pregiudizi e comportamenti “da bianchi”. La Weltanschauung (visione del mondo) prodotta dalla cultura egemone, viene solitamente vissuta come “naturale” e influisce sul modo di percepire le altre culture. Il movimento femminista delle donne bianche aveva ritenuto politicamente importante la denuncia pubblica della violenza di genere, mentre le donne di colore e le comunità oppresse hanno dimostrato in molti casi che per loro è più utile un approccio diverso. La creazione di progetti di empowerment sensibili alle differenze etniche ha consentito la creazione di spazi sicuri dove poter parlare di questioni intime, sessualità, verginità, matrimoni precoci e molestie. Così sono emersi nuovi modi di affrontare la violenza domestica e sessuale, la formazione di gruppi di pressione tra pari per delegittimare il maschilismo, i comportamenti prevaricatori e gli stereotipi sessuali sulle donne nei discorsi tra soli uomini e negli spazi omosociali, tipici della mascolinità dominante» (pp. 48-49).

Nel secondo capitolo – Vent’anni di femminismo e attivismo di genere – Corradi prende in considerazione alcuni esempi di diffusione di una coscienza di genere, di nascita di gruppi reti di donne zingare e di forme specifiche di femminismo. «La libertà che negli anni Settanta il vento femminista ha portato con sé e che ha rimodellato le società dell’Europa occidentale sembrava non avere scosso le famiglie rom. Tuttavia, durante gli anni Novanta, dopo la riunificazione della Germania, fioriscono nuovi gruppi di donne zingare » (p. 62).
In particolare come esperienza transnazionale di successo viene indicata la rete International Roma Women Network le cui «attiviste, mettendo in discussione simultaneamente razzismo e disuguaglianze di genere, si impegnano a sensibilizzare sulle difficoltà e sui pregiudizi che le Rom affrontano sia nella società dello spettacolo sia nelle comunità rom tradizionali. La Roma Women Network è un modello di pratica femminista intersezionale guidata da Rom in collaborazione con non Rom, particolarmente utile per la costruzione di alleanze» (p. 70). Corradi sottolinea anche come «non tutte le attiviste rom impegnate nelle questioni di genere si definiscono femministe; alcune danno priorità alla lotta antirazzista o all’orgoglio etnico e sostengono i diritti delle donne solo su alcuni argomenti specifici. Oggi, le attiviste di genere rom possono articolare le loro problematiche sia nell’ambito dei diritti umani delle donne sia in quello del femminismo globale» (p. 70).

Se il Terzo capitolo – Femminismo rom – è dedicato all’analisi di alcuni scritti collettivi sul femminismo rom pubblicati su riviste internazionali, il Quarto – Decolonizzare teoria e pratica femminista – si apre con le riflessioni della sociologa maori Linda Tuhiwai Smith che sottolinea come «la produzione di conoscenze accademiche, saperi e prassi di ricerca» risulti ancora decisamente «influenzata dalle priorità e dai valori europei nati durante l’Illuminismo. Alla base della supremazia culturale euro-atlantica risiede la nozione di scienza fondata sulla razionalità, ritenuta forma superiore di conoscenza, a discapito di esperienza e intuizione. La persistenza dell’egemonia occidentale trova radici nel costrutto gerarchico che distingueva i colonizzatori dai colonizzati, le persone bianche dalle non-bianche, i sovrani dai subalterni e, all’interno di tutte queste categorie, le donne dagli uomini» (p. 85).
Negli ultimi decenni numerose ricercatrici e attiviste sono giunte a condividere la necessità di decolonizzare il sapere, la teoria e anche il femminismo. Corradi ricorda come «le donne zingare, le donne nere, indigene, aborigene e maori hanno messo in discussione l’uso della parola “femminismo”. Ciò che si può ritenere una tematica o una lotta femminista varia notevolmente in base al contesto culturale. […] Di fatto, mentre alcune attiviste di genere e donne leader si definiscono femministe, altre non amano l’espressione femminismo, che può apparire antagonista o minacciosa agli uomini e alle donne della propria comunità. Alcune attiviste di genere percepiscono il femminismo come storicamente legato all’eredità e al lessico delle donne bianche; in passato il termine implicava un rischio di sovra-determinazione, l’imposizione di una progettualità non condivisa» (p. 86). Il capitolo indaga pertanto le modalità di ricerca e di attivismo femminista in grado di fare i conti con tale complessità.

Il Quinto capitolo – Gypsy queer – affronta le condizioni e le aspirazioni delle persone queer. Se in generale «le persone che mostrano preferenze sessuali o identità di genere “non conformi” tendono a essere escluse dalla famiglia e dalla comunità» (p. 96), ciò, sostiene Corradi, accade anche nelle comunità zingare. «L’identità di genere e l’orientamento sessuale sono argomenti delicati, nel contesto culturale rom e gitano, difficili da ricostruire storicamente, perché mancano le fonti» (p. 96). A partire dal particolare tipo di identità gypsy e queer, Corradi ricorda come «essendo collettività senza stato, sia le persone zingare che le persone queer non hanno paese, eserciti o confini stabiliti. Le bandiere zingare, come le bandiere queer, rappresentano luoghi dell’anima. Nella lotta del popolo kurdo di Rojava sono emerse teorie politiche sul superamento dello stato, forma storicamente obsoleta, a favore di federazioni di comunità di gruppi etnici e religiosi diversi. Tali idee di democrazia diretta e di autogoverno sono state messe in pratica da donne e uomini kurde/i in una situazione di resistenza drammaticamente difficile, contro lo stato islamico (Daesh) e la politica fascista e genocida della Turchia. L’interesse internazionale per il federalismo democratico della Federazione Rojava nella Siria del nord può essere spiegato grazie all’accento posto sull’interculturalità, l’inter-confessionalità e l’impegno a superare costituzionalmente le disuguaglianze di classe e di genere. In effetti, il Rojava Social Contract (Carta costituente della Federazione), firmato da diversi gruppi etnici, esige cooperazione, diritti delle donne e valorizzazione delle diversità. Potrebbe diventare fonte di ispirazione anche per le comunità zingare apolidi, per lo sviluppo dell’autogoverno e di nuove alleanze» (p. 107).

Il Sesto capitolo – Invisibilità accademica, epistemologia zingara e importanza del meticciato – è dedicato alla necessità di «decolonizzare la conoscenza e disconnettersi dalla cultura dominante» visto che «la maggior parte degli studi rom sono ancora controllati da studiosi/e bianchi/e non rom, che le università sono ancora luoghi coloniali, appannaggio delle classi benestanti, dove le élite culturali e le gerarchie accademiche difendono i loro privilegi» (p. 112).

Nel Settimo capitolo – Body politics, media-attivismo e riappropriazione dei significati – l’autrice-attivista, vista la portata della cultura visuale sulla società attuale, si sofferma sull’importanza che, nell’ambito della politica del corpo, riveste per le femministe il monitoraggio e l’analisi dei contenuti dei media. Il capitolo si sofferma, inoltre, sulla creazione da parte femminista di «nuovi media in grado di produrre conoscenze, idee e immagini» ricordando come la riappropriazione del corpo, «dopo la schiavitù e la persecuzione, l’annichilimento e l’inferiorizzazione delle persone zingare [abbia] un notevole peso anche da un punto di vista semiotico» (p. 120). Pertanto, suggerisce Corradi, il «fiorire di reti di donne zingare e di blogger femministe e attiviste di genere» (p. 120) deve essere assolutamente essere percepito come importante indicatore di un cambiamento in atto. «Nell’ambiente artistico le immagini stereotipate di donne e uomini zingari e gli standard di bellezza ufficiali vengono rifiutati e prende piede, a più livelli di coscienza ed espressione, una ri-significazione autogestita e liberatoria del corpo zingaro, dalla danza al teatro, dall’arte di strada alla fotografia. L’oppressione materiale e semiotica vissuta dalla comunità zingara ha prodotto una ri-significazione di segni, gesti e oggetti di riconoscimento: vestiti, capelli, e gesti. Rivendicarli ha l’effetto di ri-nobilitare un intero processo di adattamento a condizioni avverse» (pp. 123-124).

In conclusione, il volume realizzato da Corradi analizza «il contributo del femminismo delle Zingare mettendo in luce alcune idee, progetti, forme di azione, esperienze e conoscenze elaborate nella specificità dei margini rom, gypsy e traveller, dove nascono nuove prospettive epistemologiche al crocevia fra razza/etnia, genere, classe, età, sessualità, status, religione e diverse abilità. Il femminismo delle Zingare è utile per riflettere in modo inclusivo sulla società, su teorie e metodologie di ricerca-azione, sulle politiche antirazziste e sulle alleanze fra comunità oppresse » (p. 129). «Il protagonismo etnico e non-etnico delle Zingare ha riconfigurato l’agentività politica e l’attivismo di genere, dando vita a varianti geografiche in rapido mutamento. In questa rinascita sociale delle comunità rom, gitane, sinte e traveller, l’emergere del femminismo delle Zingare costituisce un momento di autoriflessione all’interno delle comunità e aiuta a costruire ponti verso il mondo esterno, processi cruciali in un momento in cui le comunità vengono sottoposte a varie forme di controllo» (p. 130).

Corradi individua tre fattori che rendono significativa l’azione femminista zingara. Il primo ha a che fare con l’incremento dei fenomeni di antizingarismo e dii attacchi razzisti/xenofobi. A tal proposito i media insistono spesso nel denunciare il permanere delle comunità in uno stato di arretratezza culturale e tendono a sfruttare i casi di violenza di genere «per spettacolarizzare un evento e rappresentare gli uomini rom come brutali, criminalizzando l’intera comunità» (p. 130). Secondo Corradi il femminismo delle Zingare permette di mantenere «la direzione del cambiamento verso il rispetto per le differenze, l’empowerment e la coesione sociale nelle comunità e insieme facilita la comunicazione con il mondo esterno sulle questioni di genere» (p. 130). Il secondo fattore per cui il femminismo delle Zingare risulta fondamentale «riguarda la consapevolezza culturale della complessità dei processi alla base della formazione dell’identità, accompagnata da una diversa considerazione per le opere d’arte e la musica, le memorie e il linguaggio, nonostante il rischio di mercificazione cui sono esposti gli artefatti culturali. Anche in questo caso, considerata la costruzione di genere delle pratiche di lavoro, dei segni etnici e delle identità sociali, le femministe zingare offrono utili strumenti di autoriflessione e forme decisionali partecipative, una volta chiarito che le identità (e tutto ciò che esse producono sul piano materiale e simbolico) non sono in vendita» (p. 130). Il terzo fattore per cui «il femminismo delle Zingare si rivela essenziale consiste nel fatto che nessuna comunità può superare un’oppressione secolare conservando forme di assoggettamento interne. Il contributo dell’intelligenza e dell’abilità delle donne nella vita sociale e nei processi decisionali collettivi, così come nelle famiglie, è una risorsa vitale per la piena fioritura di una primavera zingara (Roma Spring). Lo stesso si può dire per le pratiche inclusive che riguardano coloro che vengono percepite/i come “diverse/i”. La lotta per il rispetto sociale non può venire vanificata da atteggiamenti marginalizzanti all’interno delle comunità. Le persone zingare queer non meritano l’esclusione né l’umiliazione, devono essere accettate come componenti della famiglia e del gruppo di pari» (p. 131).

Il femminismo delle Zingare, dunque, secondo Corradi, «offre la possibilità di allargare le prospettive in termini di intersezionalità a coloro che hanno a cuore la lotta contro tutte le disuguaglianze sociali. Esso è fonte di ispirazione per la sua capacità di costruire coalizioni, grazie alle particolari qualità di resilienza sviluppate in diversi paesi europei e al transnazionalismo che le donne rom, sinte, e traveller incarnano. Le loro prospettive sono importanti sia per qualsiasi discorso politico sul superamento dello stato sia nel dialogo tra femminismi etnici e non etnici, nei “sud del mondo” come ovunque. Il femminismo delle Zingare trascende i confini, sfida i pregiudizi geografici occidentali e gli atteggiamenti eurocentrici partendo da un punto di vista molteplice e mutevole, quello di un “quarto mondo” recente ma con radici antiche» (p. 131).

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Migranti: storia di un fenomeno rimosso https://www.carmillaonline.com/2018/11/23/migranti-storia-di-un-fenomeno-rimosso/ Thu, 22 Nov 2018 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49728 di Luca Cangianti

Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Carocci 2018, pp. 243, € 18,00.

Accanto ai grafici, alle percentuali, ai titoli di giornale, ai testi di legge e alle circolari ministeriali che affrontano il fenomeno dell’immigrazione straniera in Italia, se guardiamo bene, in trasparenza vediamo il volto di un uomo. Ha trent’anni, il capo appoggiato su una mano e il sorriso malinconico. Il suo nome è Jerry Masslo. Suo padre fu ucciso dal Sudafrica dell’apartheid e così sua figlia di sette anni. Arrivato in [...]]]> di Luca Cangianti

Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Carocci 2018, pp. 243, € 18,00.

Accanto ai grafici, alle percentuali, ai titoli di giornale, ai testi di legge e alle circolari ministeriali che affrontano il fenomeno dell’immigrazione straniera in Italia, se guardiamo bene, in trasparenza vediamo il volto di un uomo. Ha trent’anni, il capo appoggiato su una mano e il sorriso malinconico. Il suo nome è Jerry Masslo. Suo padre fu ucciso dal Sudafrica dell’apartheid e così sua figlia di sette anni. Arrivato in Italia gli fu negato l’asilo politico confinandolo in un limbo giuridico di estrema vulnerabilità: al tempo questo diritto era riservato solo a chi fuggiva dai paesi realsocialisti. Il 24 agosto 1989 quattro rapinatori italiani fecero irruzione nella baracca dove alloggiava insieme ad altri lavoratori agricoli. Volevano i soldi che avevano guadagnato con la raccolta dei pomodori. Spararono e uccisero Jerry Masslo.
La Storia dell’immigrazione straniera in Italia di Michele Colucci è un libro che rispetta nell’estetica e nella sostanza gli ideali scientifici dando conto dettagliatamente di fonti e rimandi bibliografici. Tuttavia, a differenza di molti altri studi analoghi, può esser letto con piacere anche da chi non sia obbligato a navigare nel gorgo accademico del publish or perish. L’oggetto dello studio è indagato con empatia, senza nulla togliere alla rigorosità dell’analisi. Ecco perché la figura di Masslo apre il libro di Colucci e riemerge nel corso del suo svolgimento quale fantasma shakespeariano che allude a un contenuto oscuramente rimosso: a fronte della velocità di diffusione dell’immigrazione e del suo dinamismo risalta «il ritardo, l’incomprensione, la mancanza di consapevolezza all’interno della società italiana». Non a caso è la regolarizzazione tramite sanatoria lo strumento principale della politica migratoria nazionale.

Lo studio parte dalla situazione postbellica dove più che d’immigrazione bisognerebbe parlare di passaggi di popolazione straniera generati dal conflitto. Negli anni sessanta e settanta si assiste poi a un afflusso di persone provenienti dalle ex colonie: spesso trovano impiego nel lavoro domestico oppure frequentano corsi universitari. Essere studenti consente infatti l’accesso legale a molti militanti in fuga dai regimi autoritari. Negli anni novanta con gli arrivi in massa dall’Albania e poi dalla Iugoslavia il fenomeno dell’immigrazione diventa pubblicamente visibile e per la prima volta le presenze straniere in Italia superano il milione. Dopo una prima legge del 1986, la legge Martelli archivia il principio della “riserva geografica” che discriminava tutti coloro che fuggivano da conflitti e regimi diversi da quelli dell’est europeo. La televisione comincia a dedicare programmi ai cittadini immigrati che prendono parola e danno alle stampe le prime opere letterarie in lingua italiana. Negli anni duemila le dimensioni del fenomeno risultano ormai prossime ad altri paesi quali Francia, Germania e Gran Bretagna; si diffonde l’imprenditoria straniera, interi comparti economici dipendono dalla forza lavoro immigrata, quasi l’8% dei contribuenti non sono più italiani e i residenti stranieri nel 2018 superano i cinque milioni, cioè l’8,3% dell’intera popolazione nazionale.
Parallelamente al diffondersi della presenza straniera, tuttavia, emergono pulsioni razziste e xenofobe che vengono raccolte da varie forze politiche e messe a frutto in termini elettorali. Si moltiplicano fenomeni d’intolleranza che in più di un caso si configurano come veri e propri pogrom. Nel frattempo i governi di centrosinistra e di centrodestra che si succedono alla guida del paese associano concordemente il tema dell’immigrazione alla sicurezza e al terrorismo. Il razzismo istituzionale è bipartisan: era riscontrabile nelle dichiarazioni degli esponenti democristiani come in quelli comunisti e la situazione non cambia con i partiti della cosiddetta seconda repubblica. Questo contesto contribuisce a orientare negativamente l’opinione pubblica, mentre le leggi rendono la vita degli immigranti un percorso a ostacoli sempre più «intriso di burocrazia, discrezionalità, dipendenza dai rispettivi datori di lavoro»: con la legge Turco-Napolitano vengono istituiti per la prima volta i centri di permanenza temporanea per gli stranieri raggiunti da provvedimenti di espulsione e di respingimento; con la successiva legge Bossi-Fini si può entrare in Italia solo con un contratto di lavoro firmato e si perde il diritto alla permanenza in caso di disdetta dello stesso; con il decreto Minniti del 2017 infine è abolito un grado di giudizio per i richiedenti asilo.

Così come va contrastata la mostrificazione razzista dell’immigrato, a detta di Colucci, le criticità della storia dell’immigrazione in Italia non devono schiacciare la sua figura su quella della vittima, dell’ente deprivato di agency, del “disperato” tanto caro ai telegiornali nazionali. Lo studio non trascura infatti le esperienze di riscatto e di emancipazione ricordando gli esempi dei militanti del diritto alla casa, dei lavoratori della logistica e di quelli rurali – tre settori a forte presenza immigrata che guarda caso sono pressoché gli unici negli ultimi anni a registrare lotte d’attacco vincenti.
Come Jerry Masslo gli immigrati si lasciano alle spalle problemi spesso creati dal dominio e dalle guerre occidentali. Il sentimento che muove chi attraversa i deserti, chi risale in carovana tutto il Messico, chi sopravvive ai campi di prigionia libici non è la disperazione, ma al contrario la speranza in una vita e in un mondo migliore.

Storia dell’immigrazione straniera in Italia di Michele Colucci sarà presentato:
– a Roma lunedì 26 novembre, ore 10.30 presso il Centro Studi Emigrazione, Via Dandolo 58. Interventi di: Adriano Roccucci (Roma Tre), Nadan Petrovic (La Sapienza), Aldo Skoda (Simi-Cser). Modera: Matteo Sanfilippo;
– a Ferrara il 4 dicembre, ore 17.00 presso la Biblioteca Ariostea. Interventi di: Giancarlo Perego, Michele Nani, Alfredo Alietti. Modera Pietro Pinna;
– a Napoli il 7 dicembre, ore 16.30 presso la Libreria Laterzagorà Teatro Bellini, Via Conte di Ruvo, 14. Interventi di: Enrico Pugliese, Naji Ahmed e Hillary Sedu;
– a Potenza il 10 dicembre, ore 18.00, Sala Riunioni presso la sede della Cgil;
– a Bergamo il 13 dicembre, ore 21.00 presso la Sala Mutuo Soccorso. Intervengono: Paolo Barcella, Samson Famuyde e Bruno Ravasio.

Altre iniziative connesse al libro saranno riportate sul sito www.storiaimmigrazione.it

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Lo Stronzometro https://www.carmillaonline.com/2018/06/27/lo-stronzometro/ Wed, 27 Jun 2018 14:58:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46654 di Alessandra Daniele

Essere umani è passato di moda. Adesso si chiama “buonismo”, ed è considerato una colpa peggiore della pedofilia. Tutti ci tengono a dimostrare che il loro ministro dell’Interno è il più spietato coi profughi. Fra governo e opposizione, come fra diversi stati, non si gareggia più a chi ce l’ha più lungo. Si gareggia a chi ce l’ha più stronzo.

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di Alessandra Daniele

Essere umani è passato di moda. Adesso si chiama “buonismo”, ed è considerato una colpa peggiore della pedofilia.
Tutti ci tengono a dimostrare che il loro ministro dell’Interno è il più spietato coi profughi.
Fra governo e opposizione, come fra diversi stati, non si gareggia più a chi ce l’ha più lungo. Si gareggia a chi ce l’ha più stronzo.

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La Difesa della Razza https://www.carmillaonline.com/2018/02/11/la-difesa-della-razza/ Sun, 11 Feb 2018 18:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43696 di Alessandra Daniele

“La percezione del problema immigrazione è dieci volte superiore ai dati reali”. Alessandra Ghisleri, sondaggista “Chi controlla la percezione della realtà, controlla la realtà”. Philip K. Dick

Si stava parlando un po’ troppo di tasse, argomento sul quale gli italiani sembrano giustamente non credere più a nessuna delle iperboliche promesse dei cazzari. La strage razzista tentata dal suprematista marchigiano ha riportato la campagna elettorale sul terreno più congeniale alle tre destre in corsa: la caccia al capro espiatorio, i migranti. Il PD ha rivendicato i successi della Dottrina Minniti, cioè dell’efficienza dei campi di concentramento libici, mentre lo stesso [...]]]> di Alessandra Daniele

“La percezione del problema immigrazione è dieci volte superiore ai dati reali”.
Alessandra Ghisleri, sondaggista
“Chi controlla la percezione della realtà, controlla la realtà”. Philip K. Dick

Si stava parlando un po’ troppo di tasse, argomento sul quale gli italiani sembrano giustamente non credere più a nessuna delle iperboliche promesse dei cazzari.
La strage razzista tentata dal suprematista marchigiano ha riportato la campagna elettorale sul terreno più congeniale alle tre destre in corsa: la caccia al capro espiatorio, i migranti.
Il PD ha rivendicato i successi della Dottrina Minniti, cioè dell’efficienza dei campi di concentramento libici, mentre lo stesso Minniti minacciava di vietare le manifestazioni antifasciste.
In tema di disprezzo dei diritti umani Erdogan non ha molto da insegnargli.
Berlusconi ha promesso l’espulsione di 600.000 clandestini che in Italia non ci sono, anche a costo di espellere qualcuno sei volte di seguito.
Di Maio ha cercato di scavalcarlo a destra chiamandolo “Traditore della Patria”.
Nessuna delle accuse adoperate l’anno scorso anche dal M5S per cacciare dal Mediterraneo le ONG che salvavano vite umane è stata provata.
Di Maio negava d’aver usato la definizione “Taxi del Mediterraneo”, nonostante ci fossero le prove audio. Adesso probabilmente tornerà a rivendicarla.
Ci tiene a dimostrare che è pronto a rappresentare l’Italia.

Sappiamo benissimo che se Pamela Mastropietro fosse stata vittima d’un italiano, a nessuno sciacallo sarebbe fregato niente di lei.
Si sarebbe parlato di “Cultura dello sballo”, e quegli stessi bollettini di propaganda che adesso la sfruttano come giustificazione per il terrorismo neofascista l’avrebbero incolpata della sua stessa sorte.
In Italia c’è un femminicidio al giorno.
Se questo caso è diventato il tragico pretesto per la prima tentata strage italiana in stile USA è esclusivamente per motivi razziali.
Di tutte le cazzate raccontate in questa ripugnante campagna elettorale fatta solo di cazzate, una delle più false è che l’Italia non sia un paese razzista.
L’Italia è un paese profondamente razzista.
È il paese del colonialismo stragista, delle leggi razziali fasciste, dei cori da stadio che inneggiano ad Auschwitz e all’Etna, della Risiera di San Sabba e dei campi di concentramento in Libia.
Delle centinaia di aggressioni e omicidi razzisti che ogni anno i media mainstream ignorano o minimizzano per l’etnia delle vittime.
L’Italia è il paese che in 157 anni ha avuto una sola carica pubblica nazionale ricoperta da un’italiana di colore, la ministra Kyenge, che durante il suo brevissimo mandato è stata definita “un orango” dal vicepresidente del Senato.
E il Parlamento non l’ha ritenuto un insulto razzista.
L’Italia è macerata da un razzismo endemico che l’ha portata ad essere l’unico paese occidentale nel quale agli immigrati viene consentito di “integrarsi” solo come schiavi, sfruttati dall’imprenditoria legale come dalle mafie. Da quegli stessi padroni e padroncini che poi votano Lega, applaudono il terrorista neofascista, e si offrono di pagargli l’avvocato.

L’Italia è un paese razzista, cazzaro, e profondamente ignorante.
A Di Maio non manca niente per rappresentarlo.
In testa ai sondaggi però rimane il Polipo delle Libertà di Berlusconi, che incasserà sia i voti dei fascisti che acclamano Salvini, che quelli dei “moderati” che lo temono.
Come nell’Inferno di Dante, al vertice della piramide rovesciata c’è chi è stato capace di sprofondare più in basso.

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Il reale delle/nelle immagini. Riflessioni sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea https://www.carmillaonline.com/2017/10/07/reale-dellenelle-immagini-riflessioni-sulla-cultura-visiva-politica-nellitalia-contemporanea/ Fri, 06 Oct 2017 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40941 di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano invertirsi e l’atto del guardare diviene sinonimo di controllo e disciplinamento operato dal potere nei confronti degli individui. Oggi, sostiene l’antropologo Paolo S.H. Favero, riprendendo il concetto di “ipertrofia visiva” così come è espresso da Lucien Taylor (Visualizing Theory, 1994), le immagini hanno un ruolo centrale nel modo di vivere dell’essere umano che ne è sia consumatore che oggetto di monitoraggio visivo. Secondo lo studioso la commistione tra visivo e digitale non ha però condotto alla dissoluzione della realtà materiale ma a rendere le immagini parte della concretezza della materialità quotidiana collegando la vita online con quella offline. In sostanza le immagini non avrebbero allontano l’individuo dal reale ma si sarebbero fuse con il quotidiano.

Se Marshall MacLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1967 – orig. 1964) sosteneva che i mezzi elettronici erano diventati protesi del nostro corpo, oggi occorrere «chiedersi se i nostri corpi non stiano diventando protesi dei mezzi di rappresentazione visiva. La progressiva fusione tra tecnologia e corpo e l’immersività che caratterizza il mondo della produzione d’immagini porta a chiederci se forse non siamo entrati nell’era del Plenopticon (una sorta di post Panopticon), un’era nella quale non abbiamo più bisogno di un re che ci osservi, ma in cui siamo noi stessi a osservarci reciprocamente nella nostra orgiastica produzione di co-presenza visiva» (p. 16).

Nel corso del tempo la fotografia sembra aver via via preso il posto della parola come portatrice di testimonianze grazie probabilmente a quel «potere affettivo delle immagini [capace di] generare quel surplus che in qualche modo ci riesce a commuovere, a collocare la nostra sensibilità all’interno di un evento avvenuto in tempi e luoghi lontani da noi» (p. 18). Sull’onda delle riflessioni di Roland Barthes (La camera chiara, 2003 – orig. 1980) che vogliono le immagini fotografiche capaci di evocazione, oltre che di descrizione, nel loro contenere qualcosa (punctum) capace di colpire l’osservatore tirandolo dentro l’immagine, si può allora, secondo Favero, individuare nel visivo una chiave utile a comprendere il contesto politico in cui si vive e il volume Dentro e oltre l’immagine si propone proprio di riflettere su tale questione applicata al contesto dell’Italia contemporanea.

Nel contesto italiano le immagini «sono intrinsecamente politiche e ci offrono soprattutto una possibilità di attuare una decostruzione di rappresentazioni comuni sulle quali si fonda la vita pubblica» (p. 19). Una parte importante dell’analisi dello studioso deriva da una ricerca sul campo attuata a Roma nel quartiere Esquilino tra il 2005 ed il 2007, coincidente con un momento in cui le storie del luogo vanno a collocarsi in un contesto nazionale in cui i media, sotto le vesti dell’intrattenimento celavano messaggi “ri-producenti” «una distanza (a volte proprio ontologizzata) fra “italiani” e “immigrati”, tra “uomini” e “donne”, tra “eterosessuali” e “non-eterosessuali”. Spesso si coglievano anche messaggi apertamente razzisti, omofobici e sessisti» (p. 19). Le strade dell’Esquilino all’epoca abbondavano di scritte contro rom, immigrati, omosessuali e slogan fascisti in diversi casi in onore del boia nazista Priebke mentre i media nazionali sostenevano le politiche ostili ai migranti presentandoli attraverso immagini di orde anonime di invasori e la televisione, a reti unificate, inondava i programmi «di ricchi décolleté e “lati B” di ignote soubrette (la solita riduzione della donna a collezione di dettagli anatomici). Questa era anche l’era in cui la visibilità si affermava come un fine a se stante. Momento nel quale personaggi del Grande Fratello diventavano opinion makers e nel quale una soubrette televisiva (ex partecipante a Miss Italia e protagonista di copertine di riviste per uomini) riusciva a realizzare una vertiginosa carriera “politica” e a diventare Ministro per le pari opportunità. Questi erano anche gli anni dell’ambiguo “sdoganamento” della politica e nei quali ministri e uomini d’affari si inserivano nelle case dei cittadini tramite i programmi di cucina e di calcio» (p. 20).

Presto sarebbero arrivati gli anni in cui Berlusconi avrebbe sentenziato che “in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo campi di villeggiatura”, in cui le battute sui Kapó si sarebbero inserite in un contesto ove termini come “frocio”, “negro”, “terrone” e “zoccola” venivano ormai tranquillamente utilizzati anche dai media come semplici e innocenti “modi di dire”, dove i cori razzisti negli stadi sarebbero stati  indicati come “cori a sfondo territoriale” e dove la Federazione di calcio avrebbe eletto un presidente capace di sostenere, tra le altre cose, che i calciatori di colore prima di far parte delle squadre italiane erano semplici mangiatori di banane.

«Dentro e oltre l’immagine entra in questa particolare epoca della storia e vuole offrire una serie di riflessioni sul significato nonché sul ruolo politico e sociale della cultura popolare visiva nell’Italia contemporanea. Basato su ricerche etnografiche in campi quali il cinema, la televisione, il documentario, la fotografia e la cultura (materiale e visiva) di strada, il libro affronta l’arena della visualità come un campo nel quale si possono decodificare continuità e rotture politiche ed ideologiche» (p. 21). Tutto ciò viene indagato dall’autore nella sua posizione di insider/outsider, di colui che conosce bene la cultura e la società italiane essendo di famiglia italo-svedese, ma che vive e lavora all’estero, capace dunque di avere un’osservazione sufficientemente esterna per restare colpito da ciò in cui si imbatte ma anche di trovarsi in una posizione abbastanza interna al mondo indagato per indignarsi e voler cambiare le cose.

Il volume raccoglie sei diversi saggi scritti in momenti diversi, in alcuni casi pubblicati originariamente su riviste internazionali. Gli scritti possono essere divisi in due grandi blocchi con i primi tre che affrontano criticamente quella che viene indicata dall’autore come una delle rappresentazioni fondanti della cultura italiana, ossia la nozione di “italiano buono”. In questi primi tre interventi viene mostrato come tale rappresentazione, oltre ad essere parte della storia della cultura popolare italiana, sia uno strumento fondamentale per la costruzione dell’identità nazionale dell’Italia contemporanea. Nei successivi tre saggi viene invece indagata la cultura popolare visiva italiana focalizzando l’analisi sui rapporti tra società italiana e culture altre con cui questa viene a contatto.

Nel primo saggio Italiani, “brava gente”? l’autore mostra come tale rappresentazione venga oggi evocata per affrontare questioni inerenti i crimini a sfondo xenofobo e la partecipazione militare italiana ai conflitti internazionali. «L’espressione “italiani brava gente”, usata anche in situazioni colloquiali, implica, schiettamente parlando, che a differenza di altri, gli italiani siano per natura brava gente. Non nuocciono mai a nessuno e la loro storia (almeno per come loro stessi la conoscono) ne è apparentemente la prova. “Brutti eventi” sono ovviamente capitati (e capitano) anche qui, ma si tratta solo d’incidenti; altri popoli e nazioni hanno compiuto atti peggiori dei nostri. Ma gli italiani, non hanno mai realmente voluto nuocere. Nemmeno in epoca fascista» (p. 30).

Fino a qualche decennio fa gli stessi libri di testo nelle scuole non mancavano di rappresentare gli italiani come un popolo sostanzialmente di brava gente finito in balia delle follie mussoliniane e soprattutto straniere, quasi inconsapevolmente e involontariamente. L’onda lunga di tale lettura delle cose, sostiene lo studioso, la si rintraccia nelle maldestre affermazioni di qualche anno fa dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando ha sostenuto pubblicamente che, in realtà, in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo “campi di villeggiatura”. «E, in ossequio alla medesima logica, viene oggi detto agli italiani che le “guerre al terrore” alle quali partecipano, sono in realtà “missioni di pace” e che i loro soldati, riconosciuti ovunque come “brave persone”, non sono mai realmente esposti a minacce […]. Nello stesso modo, viene anche fatto credere che xenofobia e omofobia certamente risiedono altrove ma non nel “nostro” paese» (p. 31).

Insomma, il mito dell’italiano buono si rivela, dal punto di vista storico, uno strumento utile a celare eventi drammatici. A tale mito ricorrono spesso sia quei ragionamenti intenzionati a difendere le idee xenofobe e omofobe che quelli volti a giustificare la partecipazione militare italiana alla cosiddetta “guerra al terrore”. Viene dunque mostrato lo stretto legame esistente tra memoria, politica e identità evidenziando come «il concetto di “italiani brava gente” [sia] alla base della costituzione di un’identità nazionale moderna» (p. 50). Sull’argomento risultano frequenti i riferimenti di Favero agli studi di Angelo del Boca, questi ultimi ripresi più volte su Carmilla [1] [2] [3] da Armando Lancellotti.

Nel saggio Il “soldato buono” viene indagata criticamente la rappresentazione del soldato italiano nel cinema nazionale delle ultime quattro decadi mostrando come sia facilmente individuabile una continuità storica di tale rappresentazione. Lo studioso parte dalla presa d’atto che negli ultimi decenni in Italia si è diffuso, grazie ad un lento ma costante lavoro di costruzione, un orgoglio nazionale prima sconosciuto. «Tale processo vedeva coinvolti molti attori (dai media al sistema scolastico, ecc.) ed era fondato sull’inserimento nella cultura popolare di una serie di figure portanti, capaci di infondere fede e rispetto nella nazione, nello Stato e in coloro che lo rappresentavano. In un’epoca caratterizzata dalla partecipazione dell’Italia alla “coalizione dei volenterosi” e dal suo conseguente coinvolgimento nelle missioni di guerra in Iraq e Afghanistan, la figura del soldato, in una sorta di ricorso storico, sarebbero stata rivalutata. È diventata un pilastro portante nella creazione di un orgoglio nazionale» (pp. 54-55). A partire dalla convinzione che la figura del soldato sia davvero uno dei punti focali della costruzione dell’identità nazionale, Favero passa in rassegna la produzione cinematografica italiana del dopoguerra e i più recenti reportage dedicati al coinvolgimento italiano alle cosiddette “missioni di pace”.

Nelle modalità con cui la cultura popolare italiana ha mantenuto viva l’immagine del “soldato italiano buono” vi sono certamente alcune costanti. «Guidato da amore e altruismo, il “soldato buono”, a volte appare un briciolo egoista, codardo, opportunista e forse un po’ pigro. Ma risulta, comunque, assolutamente incapace di far del male e viene pertanto sempre sollevato da qualsiasi responsabilità storica. Questa rappresentazione, trova ampio riscontro nell’immagine dell’“italiano buono” nata per giustificare la prima (fallimentare) impresa coloniale» (p. 55). Dunque, tale autorappresentazione, che ha svolto storicamente, e continua a farlo, un ruolo di “lavanderia” delle vergogne nazionali, è indicata dall’autore come centrale nella creazione della moderna identità nazionale.

È il cinema italiano del dopoguerra ad essersi fatto carico della divulgazione di una rappresentazione del soldato edulcorata e familiarizzata: «Spostato dal contesto del belligerante patriottismo fascista, egli venne introdotto, a volte in modo ironico, nello spazio quotidiano della vita di famiglia» (p. 62). L’analisi di Favero si sofferma su tre film che hanno promosso un’immagine iconica del soldato capace, visto anche il successo di pubblico, di lasciare tracce importanti nella cultura popolare nazionale: Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli e Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. «Nei tre film, il soldato è sempre un uomo semplice e un po’ ingenuo, nonché un amante del divertimento. I soldati protagonisti di questi tre film sembrano tutti piuttosto inconsapevoli di quel che succede intorno a loro e di conseguenza, sono staccati e deresponsabilizzati dalla storia. Hanno in comune la vicinanza e l’affetto delle popolazioni locali che incontrano durante le loro missioni e dimostrano anche una particolare devozione nei confronti delle donne e delle madri. Anche se in alcune occasioni vengono presentati come ipocriti, opportunisti ed egoisti, in realtà sono “brave persone” il cui unico desiderio è quello di tornare a casa e vivere serenamente insieme ai loro cari. Incapaci di agire, questi soldati sono pertanto indubbiamente anche incapaci di fare del male» (p. 64).

Venendo ai recenti reportage relativi a quelli che vengono descritti come “buoni soldati italiani”, martiri contemporanei, lo studioso individua in tali rappresentazioni l’intero armamentario retorico volto a presentarli non tanto come soldati impegnati in azioni di guerra, ma come brave persone andate a portare aiuto, amate da donne bambini locali, in trepidante attesa di tornare a casa dalla propria famiglia, martiri vittime di atrocità sempre e solo straniere. Insomma il soldato italiano è un soldato diverso dagli altri, per certi versi non sembra nemmeno un soldato.

La seconda parte di Dentro e oltre l’immagine è dedicata, come detto, all’analisi della cultura popolare visiva nazionale a proposito dei rapporti tra la società italiana e le culture altre. Nel primo saggio di tale sezione, Perché Sanremo è Sanremo, lo studioso si occupa della questione di genere soffermandosi sulla rappresentazione dell’omosessualità nel contesto del Festival sanremese del 2012. L’edizione indagata era stata preceduta da alcuni interventi pubblici di Adriano Celentano volti a criticare duramente la stampa cattolica nazionale, in particolare «Avvenire» e «Famiglia Cristiana», accusata dal cantante di subordinare le tematiche religiose a quelle politiche. Con tali premesse prendeva il via un’edizione della manifestazione canora fortemente segnata dalla presenza di riferimenti a Dio e alla Fede. «È nel testo della canzone vincitrice del festival, cantata da Emma, che la “fede” si mette esplicitamente in dialogo con la “patria” proponendo una sorta di consolidamento “pop” del concordato tra Stato e Chiesa. Per raccontarci una storia di disoccupazione e precarietà, la cantante pugliese sceglie la figura di un soldato e un testo (peraltro criptico, scritto da Kekko dei Modà) che recita: “Ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese, in mano a Dio le sue preghiere” e poi “ho giurato fede mentre diventavo padre, due guerre senza garanzia di ritornare, solo medaglie per l’onore”. Questa commistura di fede, patria e guerra ri-propone, oltre un possibile tentativo di provocazione dell’autore, la figura del “soldato buono” una delle rappresentazioni più forti e longeve (nonché politicamente ed eticamente dubbie) della cultura popolare italiana» (p. 81).

Se poi al testo della canzone si aggiungono le dichiarazioni della cantante alla stampa che parlano della sua volontà di diventare madre come di una “missione” a cui tutte le donne sono chiamate, allora il patriottismo dispensato dalla canzone può essere interpretato come il «segnale di un nuovo conservatorismo giovanile all’interno di un paese ormai culturalmente invecchiato in modo irreparabile» (pp. 81-82). Di certo, sostiene lo studioso, l’immagine «della donna procreatrice, cui fa riferimento Emma, funziona paradossalmente bene in un contesto quale quello del festival, in cui le donne (con piccole dovute eccezioni) appaiono come la somma di parti anatomiche messe a servizio degli uomini, di cui fungono da spalla silente» (p. 82).

L’arretratezza italiana nell’affrontare la diversità di genere (o d’identità sessuale) emerge in maniera eclatante quando viene affrontato il tema dell’omosessualità. In questo caso la kermesse sanremese non manca di mettere in scena tutti gli stereotipi più scontati. L’immagine dell’Italia offerta dal festival è quella di un paese «dominato da uomini (maschi) eterosessuali e vecchi, chiuso su se stesso e con poca voglia di cambiare. Questo è un paese autoreferenziale, trincerato dietro una fede cattolica, che appare sempre più oggetto di opportunismo e molto raffinato nella sua capacità di mettere all’angolo (tramite, paradossalmente, la sua spettacolarizzazione) ogni forma di diversità culturale» (p. 84).

Nel saggio Lo spettacolo del multiculturalismo viene offerta una lettura critica del documentario L’Orchestra di Piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrante mettendo in rapporto l’idea di multiculturalismo suggerita dall’opera con il dibattito politico che ha caratterizzato le lezioni comunali romane del 2008. Alla realizzazione di Ferrante dedicata all’orchestra multiculturale dell’Esquilino, viene rimproverato di non approfondire i temi lanciati dalle sue immagini e di non giungere mai a un confronto paritario con l’Altro” dandogli realmente voce. «Il film sembra risentire della mancanza di un dialogo critico con lo stesso “Altro” che intende rappresentare e viene penalizzato dalla scelta di evitare di approfondire il contesto che ha reso possibile la realizzazione dell’Orchestra. Il fatto, per esempio, che la band abbia, nel corso degli anni, rinunciato a fare dichiarazioni apertamente politiche, temendo comprensibilmente di non essere poi in grado di creare una struttura solida che potesse pagare regolari stipendi ai musicisti (come spiegatomi da Mario Tronco durante un’intervista), delinea una situazione di fondo piuttosto critica che testimonia anche i paradossi che segnano le ideologie multiculturali contemporanee. Il film avrebbe potuto trarre dei benefici dall’approfondire queste tematiche, piuttosto che dal smorzarle in nome della rappresentazione dei “musicisti immigrati” come persone simpatiche» (p. 92).

Dalla visione dell’opera, sostiene ancora Favero, si individua come unico vero protagonista l’organizzatore italiano Mario Tronco mentre le vite dei musicisti sono soltanto sfiorate in superficie: «ci vengono presentati come personaggi abbastanza gioiosi, distaccati, bizzarri e divertenti, ognuno di essi rappresentante di quella “pittoresca” parte di mondo da cui proviene […] i musicisti ci vengono subito presentati (nel film e durante il concerto) in associazione alla loro nazionalità (mentre gli italiani alle loro città di provenienza). Ciò li rende principalmente “rappresentanti di un’etnicità” piuttosto che “musicisti professionisti”» (pp. 92-93). Insomma, secondo lo studioso il film «manca, da un punto di vista politico, di un riflessivo esporsi e dialogare con l’“Altro” che intende rappresentare. Questo forse riflette anche il destino dell’orchestra che, malgrado il suo intento originario, con gli anni si è trovata intrappolata a rappresentare la diversità e l’alterità, di fronte a un pubblico prevalentemente “bianco” e di classe media (partecipando ai loro concerti ho potuto notare la netta minoranza di stranieri presenti tra il pubblico) invece che a creare un ponte a cavallo di categorie razziali ed etniche […] Qui i migranti diventano oggetto dell’intrattenimento altrui invece che produttori di musica e di un film-denuncia a difesa dei loro diritti. La sensazione è che non sia stata sfruttata a dovere la splendida opportunità di mettere in discussione le categorie ferree che dividono gli “italiani” dagli “stranieri”» (pp. 93-94).

Gli ultimi due saggi sono dedicati rispettivamente all’immaginario italiano sull’India – Bello e distante. La politica dell’esotismo e la rappresentazione visiva dell’India nella cultura popolare italiana – e al mito del Nord nella cultura popolare italiana – ’O Sole mio: turisti charter italiani in visita al Sole di Mezzanotte di Capo Nord (Norvegia). Lo studioso indaga qui le esperienze turistiche di italiani a Capo Nord, la costruzione del Sole di Mezzanotte come oggetto mitico.

Dentro e oltre l’immagine decostruisce criticamente alcuni dei miti e delle rappresentazioni che hanno contribuito a costruire l’identità nazionale italiana e lo fa con gli occhi di un antropologo, Paolo S. H. Favero, che si trova nella particolare, e per certi versi privilegiata, posizione di insider/outsider.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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Il Partito della Nazione https://www.carmillaonline.com/2017/08/13/il-partito-della-nazione/ Sun, 13 Aug 2017 18:34:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39851 di Alessandra Daniele

– Le recenti iniziative del governo hanno provocato il ritiro delle principali ONG dall’attività di soccorso nello Stretto di Sicilia – la conduttrice si rivolge al deputato PD – Come rispondete alle accuse d’aver messo in secondo piano le esigenze umanitarie? – Salvare le vite in pericolo per noi rimane una priorità. Il codice che abbiamo chiesto di sottoscrivere alle ONG non è stato concepito per ostacolare questo loro compito fondamentale, ma per agevolarlo. La conduttrice si gira verso il megaschermo. – Sentiamo adesso il nostro ospite della Lega in collegamento… Il deputato PD la ferma. – [...]]]> di Alessandra Daniele

– Le recenti iniziative del governo hanno provocato il ritiro delle principali ONG dall’attività di soccorso nello Stretto di Sicilia – la conduttrice si rivolge al deputato PD – Come rispondete alle accuse d’aver messo in secondo piano le esigenze umanitarie?
– Salvare le vite in pericolo per noi rimane una priorità. Il codice che abbiamo chiesto di sottoscrivere alle ONG non è stato concepito per ostacolare questo loro compito fondamentale, ma per agevolarlo.
La conduttrice si gira verso il megaschermo.
– Sentiamo adesso il nostro ospite della Lega in collegamento…
Il deputato PD la ferma.
– Aspetti, non è necessario – dà un pugno sul tavolo – Basta invasione! Gli italiani sono stufi dei loschi traffici delle ONG complici degli scafisti! Che si ritirino tutte, chiudiamo i porti, rispediamole a casa loro!
La conduttrice lo guarda perplessa. Poi passa alla seconda domanda.
– Lo Ius Soli sembra essersi arenato in Parlamento. Sarà approvato in tempo entro la fine della legislatura?
– Lo Ius Soli è una battaglia di civiltà. Chi nasce, cresce, e studia in Italia ha diritto d’essere italiano a tutti gli effetti. L’approvazione della legge sulla cittadinanza sarà una nostra priorità.
La conduttrice fa per voltarsi.
– Come risponde la Lega…
Il deputato PD le afferra il polso e la blocca.
– Lo Ius Soli è morto. Sarebbe un regalo agli scafisti, un’esca per nuove ondate di clandestini, delinquenti, stupratori. La cittadinanza italiana è un privilegio che non può essere regalato, bisogna guadagnarselo. Basta con la sostituzione etnica degli italiani purosangue!
La conduttrice sgrana gli occhi.
– Scusi, ma lei oggi sta affermando tutto e il contrario di tutto.
Il deputato annuisce.
– Esatto. Il PD è un partito veramente democratico che contiene tutte le posizioni politiche, anche all’interno della stessa persona. Un partito moderato, estremista, liberale, sovranista, popolare, europeista, nazionale, socialista. Nessun altro partito è necessario. Né a destra, né a sinistra. Né al governo, né all’opposizione. Anche il Vaticano s’è allineato – sorride – Dio è con noi.
– Quindi la vostra posizione sugli immigrati…
– Gli immigrati sono una minaccia, una risorsa per il Paese, pagheranno le nostre pensioni, ma poi ce le scipperanno. Vanno accolti, respinti, integrati ma a casa loro. Sono un’emergenza epocale che durerà un secolo, ma possiamo risolverla in una settimana, perché solo il PD ha gli occhi prismatici per vederla da tutti i punti di vista contemporaneamente.
– Ma quali saranno le soluzioni prese nel concreto?
– Quelle più utili al Paese, naturalmente – Stringe il polso della conduttrice, fissando lo sguardo all’infinito – la Sacra Nazione Italica regina dei mari e delle colonie tripolitane.

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