Woodstock – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Forever Young: Garth Hudson (1937-2025) https://www.carmillaonline.com/2025/02/08/forever-young-garth-hudson-1937-2025/ Sat, 08 Feb 2025 04:23:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86776 di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader [...]]]> di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader della Band, sempre che la Band avesse un leader – Garth Hudson è scomparso a 87 anni l’11 gennaio scorso in una casa di riposo di Woodstock, sconfitto dal tempo, il grande nemico.

A Woodstock, località fatale per i musicisti e per i consumatori di songs immortali della sua generazione, The Band aveva inciso molti anni prima, nel 1968, il classico Lp Music From Big Pink, che conteneva le classicissime canzoni The Weight e I Shall Be Released, quest’ultima opera di Bob Dylan, che la Band accompagnava in concerto dal 1964. C’erano anche loro, insieme a Al Kooper, Mike Bloomfield, Barry Goldberg e Sam Clay, sul palco del Festival di Newport, nel 1965, quando Bob Dylan attaccò a cantare Like a Rolling Stone, la canzone simbolo della rock’n’roll renaissance, a un pubblico di fanatici del folk engagé e che, per cantargliela sul muso, Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica (questo il titolo del libro di Elijah Wald, Vallardi 2022, dal quale il regista James Mangold ha tratto un magnifico film, A Complete Unknown).

Sul palco di Newport, e poi su un ingrato palco londinese, la «svolta elettrica» (e simbolista, ma in langue de bois «commerciale») di Dylan – che il popolo del folk avrebbe voluto tenere per sempre al guinzaglio, autore d’inni socialisteggianti e di parabole pacifiste forever – fu accolta da urla e improperi: «Giuda! Traditore!» Anche Hudson era sul palco a prendersi gl’insulti che chiudevano un’epoca e ne aprivano un’altra.

Fu sempre a Woodstock – dove viveva, e che per questo fu la località in cui si tenne il grande concerto Peace & Love del 1969, nella vana speranza di stanarlo – che Dylan si ritirò dopo l’incidente in motocicletta del 1967. Aveva rinunciato a esibirsi in pubblico perché pensava che cominciasse a tirare una brutta aria giù nelle platee sempre più stoned e rabbiose dei concerti. A Woodstock, infine, Dylan e la Band registrarono in uno studio improvvisato i leggendari Basement Tapes, o registrazioni del sottoscala. Altro classico della popular music: una raccolta di canzoni tradizionali (e originali) che rimase a lungo inedito, o meglio segreto. Salvo il «bootleg», naturalmente… The Basement Tapes fu anzi il primo disco piratato in assoluto della scena rock. Garth Hudson era anche lì. Non c’è svolta significativa del rock’n’roll alla quale il suo sax o il suo organo Hammond non abbiano preso parte da protagonisti.

A differenza dei suoi compagni, Dylan compreso, lui non era un qualsiasi talentuoso rocker autodidatta, come all’epoca ne circolavano tanti, tutti per lo più straordinariamente bravi. Hudson aveva studiato e praticato musica fin da bambino, su a Windsor, nell’Ontario, una piccola città «situata sulle rive del fiume Detroit», dov’era nato nel 1937. Sempre Robbie Robertson – nella sua autobiografia, Testimony (Jimenez 2019) – scrive di lui: «Suonava diversi sassofoni, e al piano era un vero mostro. Garth poteva suonare qualunque tipo di musica. Sembrava un elegante musicista jazz, oppure uno che non vedeva la luce del giorno da una vita. Suonava meravigliosamente bene, e in maniera assai più complessa di quanto avessimo mai fatto noialtri. Noi avevamo imbracciato gli strumenti da ragazzini ed eravamo partiti in quarta, ma Garth aveva una formazione classica, e sulla tastiera era in grado di tracciare strade musicali di cui noi non immaginavamo nemmeno l’esistenza». Qualche giorno fa, su X, Bob Dylan lo ha ricordato così: «Era un ragazzo meraviglioso e la vera forza trainante dietro The Band. Basta ascoltare la registrazione originale di The Weight per capirlo». Ancora Robertson: «Non avevo dubbi che fosse il musicista rock migliore al mondo. Poteva suonare con noi come poteva suonare con John Coltrane o con la New York Symphony Orchestra».

Negli anni Ottanta – dopo lo scioglimento del 1977, celebrato da un grande film di Martin Scorsese – c’è una mezza reunion di The Band e Hudson ne fa parte fino allo scioglimento definitivo, a fine millennio. Pubblica qualche disco in proprio negli Ottanta e Novanta. Lavora come sessionman con Van Morrison, Leonard Cohen e tutti i grandi nomi del rock e del pop. Gli altri ragazzi della Band originale scompaiono uno dopo l’altro, anche loro sconfitti dal tempo, che non fa prigionieri: Robbie Robertson nel 2023, Levon Helm nel 2012, Fred Carter jr nel 2010, Richard Bell nel 2007, Rick Danko nel 1999, Richard Manuel nel 1986. Hudson, uomo riservato e grande artista, è uscito di scena imperturbabile, in punta di piedi.

«Uno dei suoi grandi momenti» – scrive Rob Sheffield su “Rolling Stone”- «è immortalato in The Last Waltz, il film di Scorsese» (al quale prendono parte Neil Young, Joni Mitchell, Eric Clapton, Muddy Waters, Ringo Starr, Neil Diamond, Emmylou Harris, naturalmente Dylan, e persino Lawrence Ferlinghetti). «Alla fine di It Makes No Difference», continua Sheffield, «la migliore performance di sempre della Band, Robbie suona un tormentato assolo prima di lasciare spazio a Garth e al suo sax soprano, che con la sua serenità chiude il pezzo su una nota di stoica rassegnazione. Solo uno come lui può suonare in modo così potente e allo stesso tempo così poco appariscente. Sono appena 68 secondi, ma dentro c’è tutto il carico d’emozione di The Last Waltz e della storia della Band».

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Emergenza climatica https://www.carmillaonline.com/2020/01/16/woodstock-di-romagna/ Thu, 16 Jan 2020 22:03:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57436 Piccolo racconto freak anni ’70

di Mauro Baldrati

Quel giorno di primavera del 1976 Jimi Hendrix di Romagna (ex Jimi a dire il vero, ma il suo personaggio, per quanto abbattuto dal servizio militare, ancora resisteva), era nella vecchia casa di Mezzaluna con l’amico Pino, detto Gomez. Stavano ragionando sulla difficoltà di trovare l’erba buona. Era sempre più rara.

“Dobbiamo coltivarcela da noi” disse Gomez. Jimi era d’accordo, lo era sempre stato, ma il problema era: dove, in una terra di pianura, senza boschi né nascondigli, affollata di contadini, cacciatori [...]]]> Piccolo racconto freak anni ’70

di Mauro Baldrati

Quel giorno di primavera del 1976 Jimi Hendrix di Romagna (ex Jimi a dire il vero, ma il suo personaggio, per quanto abbattuto dal servizio militare, ancora resisteva), era nella vecchia casa di Mezzaluna con l’amico Pino, detto Gomez. Stavano ragionando sulla difficoltà di trovare l’erba buona. Era sempre più rara.

“Dobbiamo coltivarcela da noi” disse Gomez. Jimi era d’accordo, lo era sempre stato, ma il problema era: dove, in una terra di pianura, senza boschi né nascondigli, affollata di contadini, cacciatori e pescatori? “Lungo l’argine del fiume” disse Gomez. Verso Fusignano di sono dei canneti, potremmo piantare lì cinque o sei piante.”

“Mmm” mugugnò Jimi. “Ce la rubano di sicuro. Molti ragazzi cercano posti dove piantare l’erba.”

“Allora giù alla foce, sul Reno” disse Gomez, dopo una riflessione. “La vegetazione è più fitta, troviamo un posto.”

Ma Jimi non era convinto. Si trattava di luoghi allo scoperto, che non sarebbero sfuggiti ai ragazzi che esploravano di continuo i dintorni dei paesi. Sarebbe stata una beffa, coltivare con amore una decine di piante e poi, al momento del raccolto, non trovarle più.

“Io un posto lo conosco” disse allora Jimi. Gomez si illuminò. “Davvero?” esclamò. “Sì. E’ giù per le Borse, verso Voltana. Si chiama Woodstock.”

Woodstoock era una piccola isola che si trovava tra due canali di irrigazione, in un luogo raggiungibile solo da un sentiero alquanto sconnesso sull’argine di uno dei canali. Era distante circa mezzo chilometro dalla strada Bentivoglio, che a quei tempi non era ancora asfaltata. L’avevano chiamata come il luogo del famoso festival Jimi e l’amico Dennis, più o meno cinque anni prima. Era un triangolo rettangolo di vegetazione selvaggia, uno dei pochi territori non coltivati a grano o barbabietole.

Subito Jimi e Gomez salirono sulla Dyane 6 e si diressero verso la Bentivoglio, dove la piccola auto supermolleggiata imboccò il sentiero, incurante delle buche e degli avallamenti.

A Woodstock si accedeva da un piccolo passaggio che attraversava il canale. Dentro, il terreno era poroso, grasso, fertile. La vegetazione era folta, ma con piccole radure che lasciavano passare la luce del sole. Ne scelsero una radente il canale, non visibile dall’argine. Una posizione perfetta. L’erba voleva il sole.

“Bellissima” commentò Gomez. “Verranno delle piante magnifiche.”

Tornarono nella vecchia casa di Jimi dove piantumarono i semi. Arrivavano dall’India, dalla regione del Kerala, portati da un amico fricchettone di Lugo. Jimi aveva un libro, “Come coltivare la cannabis”, con tutte le istruzioni. I semi andavano avvolti nel cotone idrofilo finché spuntava il minuscolo germoglio, poi seppelliti sotto alcuni centimetri di terra, in una cassetta. Dopo un paio di settimane erano spuntate le piantine. A quel punto si prendeva la cassetta e si andava nel luogo del trapianto. A Woodstock.

Le piante venivano su gagliarde e bellissime. Dopo avere rimosso i maschi, che avrebbero impollinato le femmine, abbassando la qualità delle cime, quasi ogni giorno i due amici andavano sul posto, a piedi sull’argine per non dare nell’occhio con la macchina, per innaffiarle e curarle. Non solo il terreno era grasso e nutriente, ma l’acqua dei canali era ricca di materia organica, c’erano le raganelle, i tritoni e i pesci gatto. Le piante crescevano robuste, vigorose. Promettevano una grande quantità di erba di ottima qualità. Una quantità enorme, perché in giugno erano già alte un paio di metri. Venti piante. Che sarebbero cresciute fino a tre o addirittura quattro metri. Almeno dieci chili di erba.

Jimi e Gomez le osservavano incantati, in adorazione. Che meravigliose cime verdi, sane, e generose.

Ma Jimi non riusciva a liberarsi dal pensiero del furto. Le piante erano preziose. Irresistibile la tentazione. Si riproposero di intensificare la vigilanza. Qualche giorno prima del raccolto avrebbero dormito sul posto, in una tenda.

Avevano programmato tutto: il raccolto sarebbe avvenuto di notte, un paio d’ore prima dell’alba, quando in giro non c’era nessuno. O quasi. Gente stramba ce n’era sempre in giro. Ma non da quelle parti. Le avrebbero caricate sulla Dyane, che avrebbe viaggiato sull’argine a fari spenti. Poi, a casa di Jimi, le avrebbero appese a testa in giù in una stanza al piano terra per fare seccare le foglie e le cime. Non vedevano l’ora.

Ai primi di luglio, circa quattro settimane prima del raccolto, Jimi aveva in programma un breve viaggio ad Amsterdam, dove andava abbastanza spesso, perché aveva un amico che l’ospitava. Voleva comprare dei nuovi semi tailandesi, di cui si narravano storie meravigliose, e almeno un etto di nero afgano. Erano infatti tempi in cui si fumava moltissimo, forse per difendersi dall’invasione dell’eroina, che era già iniziata, e la ricerca di roba buona e genuina, non tagliata, era incessante.

“Starò via massimo dieci giorni” disse. “Le puoi innaffiare tu?”. Gomez rispose che non c’erano problemi. Se ne sarebbe occupato volentieri.

Così Jimi partì, in auto con un tipo di Mezzano e la sua fidanzata. Restarono una settimana in città, andarono nei luoghi giusti e tornarono con una buona dotazione di semi, di nero e anche di marocchino sputnik fresco e profumato.

Appena arrivato nella vecchia casa Jimi scaricò la roba e, benché molto stanco, si precipitò a casa di Gomez, che abitava in una casetta popolare “di là dal fiume”, cioè nel paese vecchio.

Lo trovò stranamente cupo, taciturno e depresso. Orribilmente depresso. “Ma cos’è successo?” chiese, con ansia.

“Non ci crederai” rispose Gomez, con voce cavernosa. “A cosa? A cosa non crederò?” incalzò Jimi. “Ecco…” iniziò Gomez, guardando a terra. “E’ venuto un temporale mostruoso. Giorni e giorni di pioggia. Beh, i canali sono straripati e hanno sommerso Woodstock.” Jimi lo guardò con occhi stralunati. “Che? Straripati? Sommerso? E… le piante?” Gomez non sollevò lo sguardo. “Secche. Tutte secche.” Jimi ebbe un colpo al cuore. “Secche?” ripeté. “Vuoi dire… secche?” Gomez annuì. “Tutte. Non se ne è salvata neanche una.”

Jimi cadde a sedere sul piccolo divano di plastica. Secche. Venti piante magnifiche. Una dotazione di erba per anni. “Ma proprio neanche una?” gemette. Gomez scosse la testa. Non poteva crederci. Gomez aveva una faccia come se stesse per scoppiare in lacrime.

Nonostante la stanchezza per il lungo viaggio di ritorno saltarono sulla Dyane e andarono sul posto. Doveva vedere coi suoi occhi, per crederci.

Le venti piante erano venti pali. Dritti, senza una foglia. Venti pali secchi. Restarono in contemplazione di quello spettacolo orribile, increduli. “L’acqua arrivava qui” disse Gomez, toccando la base di un palo. “Le radici erano sommerse.”

Jimi avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, tipo: perché non ne hai raccolte alcune, anche se non erano del tutto mature? Qualcosa si sarebbe salvato. Ma Gomez non aveva la macchina, né la patente, come le avrebbe trasportate? E dove? Per portarle nella sua casetta avrebbe dovuto attraversare il paese con le piante sulle spalle. Impossibile. Non restava che rassegnarsi.

Tristi, taciturni, raccolsero le due pale che avevano portato quasi tre mesi prima per dissodare il terreno e si avviarono verso la macchina, che si trovava all’inizio del sentiero, sulla Bentivoglio.

Camminavano in silenzio, con le spalle curve, quando dal nulla spuntò un omaccio. Aveva una vecchia bicicletta che spingeva a mano, poiché il sentiero sconnesso non permetteva di pedalare.

“Dove andate con quei paletti, eh?” esclamò, guardando le pale. Aveva una faccia aggressiva, lucida di sudore, con una barba non rasata. I due amici lo fissarono stupiti, senza rispondere. Jimi pensò che li avesse sgamati. Li aveva visti curare le piante. Bah, poco male. Ormai non erano più piante, ma solo dei pali. “Allora, cosa dovete fare con quei paletti?” incalzò l’omaccio. Sembrava stravolto dalla rabbia, sul punto di saltare loro alla gola. “Ma niente” buttò là Gomez. Una risposta senza senso. Era meglio tacere. “Ah, niente eh? Cosa credete, di prendermi sui ruzzoli a me? Credete che non sappia che andate a madavescoli? Ma io vi faccio la posta! Sono un guardiapesca io, vi tengo d’occhio!”

Madavescoli. Li aveva scambiati per cercatori di lombrichi, e quindi pescatori di frodo. Era così assurdo, come se avessero oltrepassato una porta per entrare in un mondo parallelo. La tragedia delle piante morte si era di colpo trasformata in una scena grottesca. Cercatori di lombrichi. A Jimi veniva da ridere, ma si trattenne. L’omaccio avrebbe potuto arrabbiarsi di brutto e chiamare i carabinieri, se si fosse sentito preso sui ruzzoli. Quindi tacque, e restò serio.

L’omaccio sbraitò e minacciò ancora un paio di volte, poi se ne andò imprecando, mentre Jimi e Gomez restarono fermi, fissandolo, in attesa che scomparisse dalla vista.

“Ti sembra che non ci sia qualche spaccamaroni in giro?” disse Gomez, camminando a testa bassa. Già. Erano dappertutto. Come le cavallette. Però a Jimi veniva da ridere. Era come avesse visto due leopardi e li avesse scambiati per due cammelli. Chissà cosa frullava nella sua testa di rapa. Vedeva pescatori di frodo dappertutto.

Jimi scoppiò a ridere. Gomez lo guardò, ci pensò su, poi scoppiò a ridere a sua volta. Avanzarono sul sentiero, con le pale che usavano come bastoni da passeggio, poi si fermavano e ridevano. Gomez dovette addirittura sedersi, per non cadere.

Si sedettero entrambi, sul bordo del sentiero. Davanti a loro si stendevano gli sterminati campi di stoppie. “Madavescoli!” esclamò Jimi. “Fatta roba!” E giù a ridere, mentre il sole tramontava e tingeva di rosso l’orizzonte.

(Questa è un’opera di fantasia, ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale. A parte Woodstock – nella foto satellitare – che oggi è un’oasi naturale protetta del WWF.
Le foto sono state scattate dall’autore negli anni ’70 per una mostra sulle aggregazioni giovanili – a quei tempi chiamate bande)

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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La nostra breve eternità è finita https://www.carmillaonline.com/2014/12/23/nostra-breve-eternita-finita/ Tue, 23 Dec 2014 21:00:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19728 di Sandro Moiso

joeIl 2014 è stato un anno tristissimo per la musica. Alcuni autentici giganti di quella musica che aveva contribuito a fare grandi gli anni sessanta e settanta se ne sono andati, anche se non mi dispiace pensare alle meravigliose jam session che si staranno già svolgendo in qualche angolo dell’Universo non ancora raggiungibile dalle sonde della NASA. Soltanto negli ultimi mesi Jack Bruce, Ian McLagan e, nella notte di domenica 21, Joe Cocker.

Tutti e tre inglesi, tutti e tre figli della working class, tutti e tre, e per vie diverse, maestri nel far transitare per la nostra esistenza [...]]]> di Sandro Moiso

joeIl 2014 è stato un anno tristissimo per la musica.
Alcuni autentici giganti di quella musica che aveva contribuito a fare grandi gli anni sessanta e settanta se ne sono andati, anche se non mi dispiace pensare alle meravigliose jam session che si staranno già svolgendo in qualche angolo dell’Universo non ancora raggiungibile dalle sonde della NASA.
Soltanto negli ultimi mesi Jack Bruce, Ian McLagan e, nella notte di domenica 21, Joe Cocker.

Tutti e tre inglesi, tutti e tre figli della working class, tutti e tre, e per vie diverse, maestri nel far transitare per la nostra esistenza quella impercettibile musica delle sfere, di cui già parlavano Pitagora e Platone, destinata a tenere insieme il cosmo.
Una vibrazione che negli anni sessanta e settanta si fece carne e spirito di milioni di giovani, proiettandoli con le loro speranza nell’eternità.

Joe Cocker era nato nel 1944 a Sheffield, orrenda città dell’acciaio che avrebbe così confermato che è dalla merda che nascono i fiori, e da buon proletario, prima di diventare famoso come cantante rock-blues, aveva lavorato prima come apprendista e poi come idraulico.
Ma aveva già la testa piena di stelle, come gli stivali che avrebbe indossato durante la sua storica esibizione a Woodstock.

E lì, molto prima che i suoi meriti fossero premiati con riconoscimenti ufficiali del governo e della corona inglese, aveva toccato il cielo, le aveva prese in pugno e le aveva regalate a cinquecentomila giovani riuniti sulla prateria della Yasgur’s Farm.
Aveva celebrato un rito, con movenze da sciamano spastico che avevano rapito la mente, le orecchie e il cuore anche di chi lo aveva visto soltanto nelle immagini del film.

Quello è il Joe Cocker che abbiamo amato di più, non quello dei duetti o quello della riproduzione in sedicesimo fatta da Zucchero Fornaciari. In fin dei conti lo abbiamo sempre preferito, così sudato, disperato e barcollante, anche a Kim Basinger e al suo spogliarello sulle note di You Can Leave Your Hat On.
With A Little Help From My Friends era altro, anche rispetto alla versione originale dei Beatles. Lì era diventata un inno, perché tutti avevamo bisogno di un piccolo aiuto da parte dei nostri amici e dei nostri compagni.

Era stata, e rimane a distanza di anni, l’esibizione più potente di quel festival. Più di quella di Hendrix, più di quella degli Who, più di quella di chiunque altro.
Un corpo ed una voce che traboccavano energia, sudore, passione. Uno sguardo allucinato proiettato verso un punto lontanissimo, probabilmente di un altro mondo. Mani che cercavano uno strumento invisibile, probabilmente a corde ma non ancora inventato. Unico come quel giovane cantante, in bilico sull’orlo di un buco nero che solo lui poteva vedere.

Joe Cocker and the Grease Band, così si era presentato sul palco di Woodstock il 17 agosto 1969, domenica. Gli altri erano Chris Stainton alle tastiere, Henry McCullough alla chitarra solista, Neil Hubbard alla ritmica, Alan Spenner al basso e Bruce Rowland alla batteria. Gli stessi che lo avrebbero accompagnato, insieme ad uno stuolo dei migliori musicisti americani, nel suo secondo album, edito nel novembre del 1969 a soli sei mesi dal primo.

Primo album che, naturalmente, si era intitolato With A Little Help From My Friends non solo perché il brano di Lennon e McCartney ne costituiva il cuore, il centro e il capolavoro, ma anche per la presenza di una compagine di musicisti che comprendeva Jimmy Page, Matthew Fisher, Stevie Winwood, Mike Kellie (ovvero la crema dei musicisti rock inglesi della fine degli anni sessanta) oltre ai soliti Chris Stainton e Henry McCullough.

Poi venne la lunga e, probabilmente dal punto di vista alcolico e lisergico, estenuante tournée americana del 1970, che diede come risultato un film e un doppio album (registrato al Fillmore East di New York il 27 e il 28 marzo 1970): Mad Dogs & Englishmen. In cui Joe riprende tutte le sue cover, perché quasi tutti i suoi successi di allora erano cover di canzoni precedentemente scritte ed eseguita da altri, rivitalizzandole e rendendo una versione straziante di Bird On A Wire di Leonard Cohen. La band è ancora una volta stellare, con Leon Russell al pianoforte e alla chitarra, Chris Stainton alle tastiere, Don Preston alla chitarra ritmica, Carl Radle al basso, Jim Gordon e Jim Keltner alla batteria, Chuck Blackwell alle percussioni, Jim Price e Bobby Keys ai fiati e Rita Coolidge tra le coriste.

Un documento straordinario per forza e commozione che segna però anche la fine del primo ciclo del nostro eroe e, forse, ne chiude anche la fase migliore nonostante i successi che torneranno a partire dagli anni ottanta. Mentre Jack Bruce e Ian McLagan hanno continuato a suonare fino all’ultimo come nei primi tempi, con la stessa rabbia e la stessa inventiva, Cocker si era, nonostante tutto un po’ imbolsito. Certo è stato Bruce a prendersi gioco della Thatcher, la Lady di ferro, e della sua scomparsa ancora nell’ultimo disco, Silver Rails, con un brano intitolato Rusty Lady, la signora arrugginita. Ed è stato McLagan a suonare ancora meravigliosamente l’organo, come ai tempi degli Small Faces, nell’ultimo album di Lucinda Williams. Mentre Joe si era, per così dire, appannato. Si era ripetuto ed era diventato un po’ una copia scolorita di se stesso e soltanto la voce gli impediva di diventare l’ombra di ciò che era stato.

Ma ora che se ne è andato, un po’ di eternità se ne andata con lui. La nostra.
Perciò se qualcuno non potrà fare a meno di santificare le feste, si ricordi che ascoltare in ginocchio e ondeggiando ad occhi chiusi la sua voce nel brano in cui spera ancora in un aiuto dagli amici può essere ancora il modo migliore per pregare. Ringraziandolo per tutta l’energia che seppe, anche solo per un breve momento, rubare al cosmo per donarla, come un novello Prometeo, a tutti noi.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 59 https://www.carmillaonline.com/2014/05/20/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-59/ Mon, 19 May 2014 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14692 di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città! È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà [...]]]> di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città!
È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà grande affetto: “Dopo il punk, ultima scossa tellurica datata 1977, il rock che non vive di maniera ha ripreso a vivere solo grazie all’innesto di nuove forme musicali e al recupero di quelle tradizionali, diventando una creatura mutevole, spesso sfuggente, ma ancora vitale perché crogiuolo di suoni e significati. E speranze. La Mano Negra è l’incarnazione più riuscita di questo meticciamento, tanto da dargli un nome, patchanka, che tutti utilizziamo per indicare quel cocktail inebriante di rock’n’roll, punk, musica araba, reggae e quello che saltava in testa ai membri della band in quel momento. Una fusione viscerale e coinvolgente, politicamente esplosiva perché autonoma, avulsa dai canoni spettacolari dello showbiz: rock per pensare e per ballare, dove l’attività del bacino asseconda quello degli emisferi cerebrali. Out of time documenta con generosità (sono 6 ore, tutte meritevoli) la storia di questa banda di delinquenti che ha rifiutato le lusinghe dello star system andando a suonare (perlopiù gratis) nelle periferie del mondo, regalando emozioni e catturando ogni volta nuove energie vitali per la propria arte. Il doppio dvd presenta 4 coloratissimi film documentari, 17 videoclip (molti inediti) e altre 17 tracce audio tra cui – guarda un po’ – saltano fuori cover di Little Richard, Elvis, Fats Domino e Chuck Berry, le radici della rivoluzione. Musica e immagini ci rendono un universo di truffatori, puttane, sbronze e consapevolezza politica, contro l’odierno strapotere culturale e politico yanqui. Edizione in francese (di tali Joseph Dahan, Thomas Darnal, Philippe Teboul) con sottotitoli, ma musica e immagini parlano da sé. Facce scure, sorrisi, chitarre, trombe e tamburi… come dice la Mano Negra: pura vida”.
E poi che altro cinema c’è stato? Beh, il mio, perché il 12 maggio Bruce Springsteen era in città e io (mesi prima) avevo già deciso che non avevo l’età per cercare i biglietti. Però, la mattina, un mio vicino mi fa: “ne ho uno che mi avanza… interessa?”. Secondo te? Ad Assago siamo tutti ipnotizzati da un concerto bello, intenso e musicalmente validissimo che fa seguito all’album tributo We Shall Overcome – The Seeger Sessions: folk, work song, un po’ di Woody Guthrie e nessuna concessione al repertorio del Boss. Alla prima canzone scoppio a piangere, davanti a gente che non conosco. Non sono l’unico a commuoversi e mi abbraccio con uno sconosciuto. Il mio amico Max non ha dubbi: non è passione musicale condivisa, è solo depressione incipiente.
Il 30 invece ho visto, sempre ad Assago ma stavolta con acustica degna di un mercato ittico, Santana: concerto buono ma non eccezionale, con qualche chicca (A Love Supreme, l’attacco di Santana III) ma troppi pezzi da Supernatural e dai recenti album danzerecci che sembrano prodotti in un villaggio vacanze. Sono piazzato in tribuna Gold ed è un pacco perché è lontanissima dal palco: la vera fiesta è sotto, con una marea di latinos che hanno finalmente una meritata serata para gozar en paz. Seduto vicino a me c’è Antonio Ricci che al cellulare, sornione, dà indicazioni per la messa in onda in diretta di Striscia la notizia: “Allunghiamo il brodo… mettici Capitan Ventosa”. Sotto la tribuna bambini, vecchie signore che ballano il merengue anche se non c’entra nulla e tanti giovani ingiacchettati che quando riconoscono le hit si scamiciano, “esagerando” per manifestare il loro apprezzamento. Per tornare a casa ci metto un’ora e mezza, come se abitassi ancora a Genova: i vigili ti dirottano solo sulla tangenziale dove ci sono lavori, incidenti e polizia e non è possibile puntare direttamente verso il centro città. Tutti provano a superare tutti e la coda conosce un processo di gemmazione inarrestabile. Questa è la Milano che ha eletto ieri Letizia Moratti sindaco. Addavenì la dittatura, ma quella cattiva cattiva. (Dvd; 26 e 27/5/06)

ddv5902lenny586 – Splendido Lenny di Bob Fosse, Usa 1974
Quando rivedo un film dopo tanti anni, ho sempre una paura tremenda. Perché la memoria addolcisce tutto e a 17 anni non avevo pensieri: ogni film era un regalo, una storia nuova con delle immagini da affidare al catalogo dei ricordi. E infatti Lenny ce l’ho ancora stampato qui in testa: le scene, le facce dei personaggi, le interpretazioni, il bianco e nero aspro e doloroso, anche la musica. E poi la vecchia nonna ebrea che fa Feee feeee!, Dustin Hoffman in un ruolo della vita, la battaglia artistica contro la società e le convenzioni, la disperazione, la solitudine e i propri demoni combattuti con armi suicide come alcol e droga. Ho letto l’anno passato Come parlare sporco e influenzare la gente, curato da Luttazzi, e qui ritrovo quel sapore amaro e disincantato. Film amato ai tempi del liceo e anche a quelli dell’università: il timore di non aver capito nulla allora è fugato: Lenny è ancora bellissimo (oppure non capisco niente anche adesso, fate voi). (Dvd; 4/6/06)

ddv5903TheCorporation587 – Il mappazzone The Corporation di tre tizi, Canada 2003
Film paratelevisivo dei carneadi Mark Achbar, Jennifer Abbott & Joel Bakan, frutto del rimontaggio di un ciclo di episodi più lunghi. Gode di meriti dovuti alla sua natura no global ma, sinceramente, è un pasticcio montato neanche granché bene. Tante storie di capitalismo sfruttate senza un’idea dietro che non fosse il metterle in fila. E mancano anche le conclusioni su cosa produca questo sistema mondiale, fermandosi al singolo cattivello preso con le mani nel sacco. In più l’edizione italiana parla continuamente della Corporazione, qualcosa che a me evoca dei sindacati fascisti e non il Nuovo Ordine Mondiale (per non parlare del SIM, ecco). Peccato, anche se vedendo cosa raccontano, meglio che l’abbiano fatto, dài. (Dvd; 6/6/06)

ddv5904Vergeat589 – Il capolavoro artigianale Vic Vergeat Live at Music Village di Riccardo Festinese ed IO, Italia 2006
Questa è una storia lunga ed è meglio raccontata a voce, ma il succo è che a fine novembre dell’anno passato abbiamo organizzato in pochi giorni le riprese di un concerto di Vic Vergeat, un amico musicista sulla cui vicenda di milite chitarrista ignoto Riccardo ed io stiamo progettando un documentario. In due giorni abbiamo messo su una squadra di 4 persone (noi compresi) approfittando dei potenti mezzi televisivi della redazione in cui lavoriamo (abbiamo cioè fregato nastri, microfoni e telecamere). Poi, in loco s’è decisa la regia, impostato le luci e scelto coll’artista una scaletta. E poi ci siamo affidati alla buona sorte. La prima serata non è stata eccezionale né per Vic né per noi: stavamo ancora capendo tutti come comportarci. La seconda è venuta benissimo, band e troupe in forma, con l’unico personale problema di tenere la telecamera dritta mentre balli. Il Dvd lo abbiamo montato all’antica, mettendo al passo tutte le camere e scegliendo gli stacchi – pochi – in modo preciso, non a cazzo come sembra di moda fare adesso. È venuto sinceramente bene e le advanced copies mandate alle riviste musicali hanno fruttato una marea di recensioni entusiastiche, dovute anche all’affetto per il musicista e per la modalità produttiva da banditi, a costo veramente ridottissimo. L’unico problema è che il Dvd, poi, la Cramps non lo ha praticamente distribuito. Io l’ho portato materialmente da Black Widow, negozio di settore di Genova, e le dieci copie che gli ho lasciato sono state tutte acquistate entro una settimana. Misteri del mercato. È stata una bella esperienza e sul curriculum adesso vanto regia, direzione della fotografia, montaggio e produzione di un titolo. Che però non ha dato gli esiti sperati. Amen. (Dvd; luglio 2006)

ddv5905ER590 – Il capolavoro seriale E.R. Anno 1 di Aa.Vv., USA 1994/95
Mi sono detto: massì, tra un match e l’altro della Coppa del mondo di calcio in Germania, mi vedo un episodio tanto per gradire e capire perché tanti decerebrati perdono le bave per un maledetto telefilm, come drogati davanti al video per ricevere la dose settimanale. E poi, ovviamente, la scimmia m’è salita in spalla: diventato campione del mondo senza troppo entusiasmo (fuorché nella semifinale coi tedeschi, quando ho gridato afono per non svegliare Sofia), non sono però riuscito più a staccarmi dal serial. Perché è vero: E.R. è altissima narrazione popolare che affronta cronaca e vita, con un linguaggio, un ritmo e un’abilità narrativa e tecnica notevoli. È un capolavoro fruibile a tutti i livelli, io chiaramente al più basso, quello emozionale, de panza, amando subito tutti i personaggi, vivendone i problemi, sentendoli incredibilmente vivi e veri. E il dvd è un’invenzione geniale: 40 minuti a sera, in lingua originale, col formato giusto. E poi tutti a nanna. (Dvd; giugno, luglio e agosto 2006)

??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????591 – Adorabile Volver di Pedro Almodòvar, Spagna 2006
Primo film in sala da un anno e quattro giorni a questa parte, di nuovo a Champoluc: serve un’estate intera e vuota, ormai, per riuscire ad andare al cinema. E per fortuna questo è un bel film che ti sbilancia con le consuete follie almodovariane che tu accetti dicendoti: e beh, Almodòvar! Del resto sei stanco, dormi poco, capisci già quasi niente di tuo… e poi, come per magia, alla fine, tutto ha un senso, il mosaico si ricompone e capisci che sei uomo di poca fede di fronte all’abilità di Pedro. E poi quelle facce, gli occhi di Penelope, quei colori, quella musica, quelle lacrime. E sei felice. (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 14/8/06)

ddv5907JoeCocker592 – Il felicemente caotico Joe Cocker Mad Dogs and Englishmen di Pierre Adidge, USA 1971
Quando non c’era il dvd e neanche uno straccio di tivù musicale, se ti perdevi un concerto non ti restava che andare al cinema. E beccarti un film come questo: la cronaca di un tour incredibile che attraversò gli USA nel 1970. Reduce da altre tournée e beneficiato dalla performance immortalata dal film su Woodstock, Joe Cocker fu letteralmente costretto dai discografici a tornare on the road. In pochi giorni quel geniaccio di Leon Russell (il pianista di Delta Lady… ah no? Non la conoscete? Strano…) gli mise su una band funkyssima, con sezione fiati e coriste da infarto: una ventina di crociati del rock (e del blues e del gospel e del soul etc. etc.) con bambini e cani a carico, incubo di ristoratori e albergatori nel cuore dell’Amerika. La regia è minimale: sesso e droga sono pressoché invisibili, ma li leggi negli occhi dei protagonisti, occhi distrutti dalla fatica (in poco più di due mesi, 58 concerti) e dalla tensione che stava montando, dal momento che Cocker non sopportava il ruolo di Russell, vero leader sopra e sotto il palco. Il film è disordinato ed eccitante come i concerti ripresi, talmente intensi che il catarroso Cocker ci ha messo quindici anni per riprendersi e diventare il crooner pelato per yuppies di metà anni Ottanta. Il proletario inglese di allora sembra il bisnipote di quello odierno. Ha ancora i capelli e due basette da ufficiale napoleonico e se l’air guitar è l’abilità a mimare la sei corde ecco a voi il campione del mondo di air orchestra, capace di assecondare coi movimenti spastici del corpo tutti i musicisti che lo accompagnano sul palco. Film tenero, quando si pensava che il rock potesse cambiare il mondo ed evitare la prossima guerra. (Dvd; 23/8/06)

ddv5908MyArchitect593 – Inaspettatamente sentimentale, My Architect di Nathaniel Kahn, USA 2003
Oggi un po’ dimenticato quando si cita il Movimento Moderno, l’architetto e urbanista Louis Kahn gode di grande fama tra gli intenditori. A me, personalmente, è sempre stato pesantemente sulle balle. Quando studiavo architettura non amavo le sue (poche) realizzazioni monumentali e un po’ ottuse e un prof che ritengo un coglione lo magnificava apoditticamente (sono un po’ invelenito, lo ammetto, perché la carogna mi aveva fatto sputare sangue per l’esame di Composizione II). Grazie a questo documentario scopro che Kahn era anche un farfallone, indebitato fino al collo e incapace di gestire i suoi affari che comunque lo avevano portato in giro per il mondo come guru architettonico ben prima degli odierni archistar. Il figlio avuto fuori dal matrimonio indaga sul padre che non ha conosciuto abbastanza e scopre quanto detto sopra. Ma gli vuole bene lo stesso e gli dedica questo affettuoso filmetto dove si cercano tracce del padre ripercorrendone anche la carriera. Ci sono momenti grandiosi (un bengalese che, davanti al parlamento di Dacca, chiede: “Chi? Farrakhan?!”), altri crudi (l’urbanista pratico che massacra il lavoro dell’architetto), altri ancora impudichi o calorosi. Documentario altalenante, curioso, formalmente impreciso come lo sono le opere fatte col cuore e non con la testa. Per cui fa piacere vederlo. (Dvd; 26/8/06)

ddv5909Hitchhikers594 – The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Garth Jennings, Gran Bretagna 2005
Siam dalle parti del capolavoro, e ve lo dice uno che la fantascienza non la capisce mai fino in fondo. In origine uno sceneggiato radiofonico, poi libro, infine film. Conoscevo il testo (che però avevo anche abbastanza dimenticato) e trovo magnifica la riduzione cinematografica, che conserva invenzioni, stupore e ironia: procuratevi un asciugamani, che si parte. (Scusate, ma non so cosa scrivere di più… non so: 42? Grazie per il pesce? Dai, un film così non si commenta, si ama e basta). (Dvd; 30/8/06)

ddv5910InsideMan595 – Molto cool, Inside Man di Spike Lee, USA 2005
È un giovedì e ci diamo un tono da genitori che non subiscono la dittatura dei figli e che vanno allegramente al cinema. Anche a metà settimana, capito? Ed è tutto falso, ma il film lo vediamo veramente, anche se poi non c’è tempo neanche per un toast e una birretta. Inside Man non è niente male e ci va bene così: solido film di genere, con megarapina in banca, simpatia evidente per i delinquenti e investigatore scaltro (Denzel Washington) che esibisce con gusto la sua sensuale blackness. Dialoghi serrati e ben gestiti, attori notevoli, bellissima fotografia sgranata e regia inventiva. E si parla anche della psicosi newyorchese post 11/9 e delle libertà individuali sotto tiro, senza che stavolta Spike parta col trombone retorico, ma facendolo per cenni brevi e sapidi. Bravo. E bravi. Noi. (Cinema Gloria, Milano; 7/9/06)

ddv5911lecollinehannogliocchi596 – Il pessimo anatroccolo Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja, USA 2006
Rifacimento putridissimo di un classico dell’horror che non ho mai visto. Di questo posso dire che la prima parte non mi sembra granché. Lo comunico placidamente a Barbara nell’intervallo, sospirando per la sfiga di chi va poco al cinema e in più si piglia un film dissenterico. Poi però c’è una svolta maligna e il film diventa cattivello come si deve: la bellissima Vinessa Shaw viene ammazzata senza pentimenti (cosa che aggiunge mistero al plot: hai veramente seccato una così? …una che vale da sola la visione del film? Naaa, dài…) e assume importanza anche un sottotesto politico prevedibile ma orchestrato decentemente. Insomma: volevo gli zompi e qualche idea e alla fin fine – siccome son di bocca buona e maltrattato dall’insonnia – li ho avuti. Rilevo che sono tra i pochissimi a cui sia minimamente piaciuto il film. Ci sarà qualche motivo, temo. (Cinema Ducale, Milano; 14/9/06)

ddv5912blackmoreMr. Blackmore, I suppose…
Ritchie Blackmore è l’uomo responsabile di milioni di chitarristi grazie al riff primordiale di Smoke on the Water. Eccentrico, taciturno, spigoloso: dai tempi dei Deep Purple, la fama che lo precede non è rassicurante. Ha fatto impazzire compagni di band coi suoi scherzi pesanti, ha licenziato frotte di musicisti e ha spiazzato i critici con interviste aggressive o dichiarando l’amore per gli ABBA. Dieci anni fa ha imbracciato l’acustica (e spesso anche il liuto) per dedicarsi con perizia alla musica rinascimentale, lasciando tutti di stucco. Ma ha anche ideato un gioco di ruolo: lui è il menestrello in leggings, la futura sposa Candice Night la sua dama e il pubblico la corte danzante. Tutti in costume, come in Non ci resta che piangere. Da allora, complici le esplicite prese per il culo dei critici, non parla più con la stampa rock. Io però ci provo nonostante si dica che Ritchie sia succube non solo della compagna, ma addirittura della futura suocera. Non si sa mai e infatti, siccome non è prevedibile, il giorno prima del concerto che tiene a Milano, arriva un fax che dice: «Sì!». Per cui dopo un’esibizione divertente – e nel consueto clima folle – attendo fuori dai camerini la chiamata. Quando è il momento la prima sorpresa: il chitarrista non è più in calzamaglia e stivaloni, ma è vestito da calciatore della Germania, con tanto di scarpini. Non scherzo. Candice invece, è ancora in costume e presenzia, regalandomi una serie di scambi dialogici degni di una Casa Vianello medievale. Vi risparmio tante ciance, ma Blackmore adora Bob Dylan, Zidane e purtroppo difende Bush. Vado poi dritto alle polemiche con la stampa che non gli perdona di aver abbandonato l’hard rock e lo demolisce puntualmente da anni a ogni disco che pubblica. Azzardo che i nostalgici siano loro, non lui. Ritchie diventa rigido e scandisce le parole una per una, temo che s’incazzi: «Questo È Corretto Al Cento Per Cento». Pfuii… «Ma non m’importa che ci trattino male. Se c’è un brutto pezzo su di noi non m’interessa leggerlo. Se è buono… beh, sono cose che so già. Sono annoiato da interviste sul rock, metal, l’hard… preferisco parlare di altre cose». Allora rilancio: è vero, come hanno scritto, che a casa ti piace passare il battitappeto? «Beh, è vero!». Interviene Candice: «È per questo che mi piace!». Ma perché, tutto ciò? «Sai, nel 1981 viene a trovarmi a casa il mio batterista dei Rainbow. Stavo passando il battitappeto e lui c’è rimasto male: “Ma tu sei una rockstar!”. Tre settimane dopo siamo in tour e in albergo decido di spostare il letto dalla parete. Ho il sonno leggero e da quel lato c’era casino. Quando sposti un letto in albergo, sotto c’è un mondo. Vivo. E allora ho passato il battitappeto e ovviamente in quel momento è arrivato il batterista… e da allora la voce è girata…». Da qui in poi è tutta discesa e allora mi permetto: suonare musica del Rinascimento non è una fuga dal presente? «Sì, certo. Abbiamo tutti fantasie. La mia è di essere ubriaco nel quindicesimo secolo. Non mi piace il mondo di oggi. Musicalmente fa schifo. Mi piace ascoltare musica antica, non la radio». Candice elabora: «E poi, la fuga dal presente… c’è chi va allo stadio, chi passa le ore sotto una macchina a riparare il carburatore… a noi piace andare in giardino, con la luna piena e un falò e suonare musica romantica, con gli amici, nella natura. È una fuga, certo, ma dal PC, dal cellulare…». Ma perché, lo avete? Candice chiarisce: «Solo per le emergenze, io. Lui no, figurati». Chiudo con la più banale domanda, che in tempi di disagio esistenziale mi illumina sempre un po’: alla fine, cosa vi rende felici? Di nuovo la compagna: «A me, piantare fiori in giardino». Ritchie è più raffinato: «A me piace lamentarmi. È un passatempo inglese: sono felice quando mi lamento, è catartico, terapeutico. Sai, in America (dove vivono, N.d.C.) con il politically correct è impossibile farlo. A me piace dire ciò che penso. E quindi lamentarmi». Chiude Candice: «E quando comincia vado in giardino a piantare fiori!». Non esistessero, due così, non ci sarebbe sceneggiatore capace di inventarli. (Live, 16/9/06)

ddv5913Caimano597 – Paura! Il caimano di Nanni Moretti, Italia 2006
Film temuto. Io a Nanni ho voluto bene. Perché godevo colpevolmente compiaciuto delle gomitate complici, delle strizzate d’occhio… e gli ho perdonato anche i morettismi, quei discorsi tra noi. E vabbeh, è la sua cifra. Se non ti piace, non guardarlo. Però negli ultimi tempi mi sembrava che si fosse persa un po’ la misura e questo film – tra dichiarazioni di vario genere e aspettative della stampa – mi faceva molta paura. Una scommessa rischiosa che non volevo veder perdere. E invece, vi dirò, il film mi funziona eccome. La costruzione è azzeccata e Moretti scioglie la tensione con la sua ironia. È un atto d’accusa, certo, ma non c’è piagnisteo, semmai ferma incazzatura. E non credo abbia spostato d’un voto il confronto Prodi/Berlusconi (i voti semmai li hanno spostati altri, ma questa è una storia di cui mai nessuno vi renderà conto, neanche la magistratura). Silvio Orlando è bravissimo, Margherita Buy inaspettatamente perfetta e se la cavano bene anche tutti gli altri. Invece orrenda e spero non premonitrice la scena finale. (Dvd; 22/9/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 59)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 58)

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Il menestrello nero: Richard P.Havens https://www.carmillaonline.com/2013/05/03/il-menestrello-nero-richard-p-havens/ Fri, 03 May 2013 00:00:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4937 havens

di Sandro Moiso

Venerdì 8 agosto 1969: otto bombe rudimentali a bassa potenza esplodono su 8 treni in movimento in diverse località d’Italia, provocando 12 feriti. E’ l’inizio della strategia della tensione. 

Nella settimana successiva muoiono in Vietnam 325 soldati americani, superando nettamente la media dei 200 militari statunitensi uccisi  a settimana che aveva caratterizzato fino ad allora quell’estate di sangue e di guerra.

Venerdì 15 agosto 1969: dopo tre giorni e tre notti di scontri furiosi intorno al quartiere di Bogside a Derry e [...]]]> havens

di Sandro Moiso

Venerdì 8 agosto 1969: otto bombe rudimentali a bassa potenza esplodono su 8 treni in movimento in diverse località d’Italia, provocando 12 feriti. E’ l’inizio della strategia della tensione. 

Nella settimana successiva muoiono in Vietnam 325 soldati americani, superando nettamente la media dei 200 militari statunitensi uccisi  a settimana che aveva caratterizzato fino ad allora quell’estate di sangue e di guerra.

Venerdì 15 agosto 1969: dopo tre giorni e tre notti di scontri furiosi intorno al quartiere di Bogside a Derry e nei quartieri cattolici di Belfast, tra militanti cattolici e protestanti, il Regno Unito decide di inviare nell’Ulster (Irlanda del Nord) un folto contingente di truppe per ristabilire l’ordine. A Bogside, per la prima volta sul territorio metropolitano del Regno Unito, la Royal Ulster Constabulary (RUC, nome assunto dalla polizia dell’Irlanda del Nord  dal 1922 al 2001) ha fatto uso di gas Cs contro i militanti cattolici indipendentisti che hanno respinto per due giorni, con pietre e molotov, i suoi assalti. A seguito di questi incidenti il movimento repubblicano irlandese vedrà la nascita della Provisional IRA che si separerà dall’Official IRA che non ha saputo reagire con più determinazione all’assalto protestante ai quartieri cattolici.

Venerdì 15 agosto 1969: sull’Atlantico si va formando l’uragano Camilla che colpirà la Costa Orientale degli Stati Uniti di lì a poche ore, mentre sui 600 acri (2,4 kmq) della fattoria di Max Yasgur, un allevatore della  contea di Ulster (Stato di New York, USA), per ironia della sorte stanno per avere inizio i tre giorni di Pace, amore e musica passati alla storia come Festival di Woodstock. Dove, fin dalla prima mattina, circa un milione di giovani sta cercando di convergere sull’area del festival. Solo il 40% di loro riuscirà a raggiungere la meta attraverso un ingorgo che si sviluppa per 15 miglia tutt’intorno alla cittadina.

Venerdì 15 agosto 1969, Woodstock: dovrebbe essere il giorno dei cantanti e gruppi folk e gli Sweetwater (una band jazz-rock-folk di Los Angeles) avrebbero dovuto aprire il concerto, ma sono rimasti imbottigliati, o forse hanno solo smarrito i loro strumenti, in mezzo al mare di persone e di auto.      

Ore 17:07: Richie Havens e i suoi due accompagnatori (Paul “Deano” Williams alla chitarra e Daniel Ben Zebulon alle percussioni) sono chiamati sul palco, in anticipo rispetto alla scaletta prevista, per sopperire ai ritardi del primo e degli altri gruppi. Dovrebbero suonare quattro pezzi, ma ne suoneranno molti di più.

Richie Havens, 28 anni, sale sul palco vestito con un dashiki arancione, comodi pantaloni chiari e sandali africani ai piedi. Il dashiki è l’abito tradizionale maschile dell’Africa Occidentale, una tunica che copre il corpo fin sotto le ginocchia. Si è diffuso rapidamente tra i militanti afro-americani fin dal 1967, con l’apertura ad Harlem, Manhattan, di due negozi della New Brees che li produce e vende negli sgargianti colori tradizionali.

L’abito in questo caso fa il monaco e lo stile percussivo con cui Havens accompagna le sue canzoni con la chitarra rimanda subito alla cultura africana rivendicata ed ostentata da migliaia di afro-americani nell’America bianca degli anni sessanta e settanta. La voce profonda del cantautore intona canzoni appartenenti alla musica ascoltata dalla stragrande maggioranza dei giovani bianchi presenti (Beatles  e folk), ma la chitarra percossa ossessivamente in accordatura aperta e il piede che batte ritmicamente sul legno del palco rinviano ad un’altra sfera culturale e ad un altro mondo.

Per chi guarda le immagini del film tratto dal festival ciò che colpisce di più in Havens, oltre che la voce e il sudore che cola copioso sul volto, sono le mani e il piede, inquadrati ripetutamente in un montaggio che rispetta l’accelerazione che l’esecutore impone alle due canzoni presenti nella pellicola: “Handsome Johnny” e “Freedom”. In realtà quest’ultima è una rielaborazione del tradizionale gospel “Motherless Child” che viene completamente stravolta dall’ipnotica ripetizione della parola Freedom aggiunta al testo da Richie come si trattasse di un’invocazione di libertà universale, l’urlo degli schiavi in rivolta, il lamento di un continente ancora colonizzato, la speranza degli oppressi.

La parola dashiki è di origine yoruba, un’etnia presente soprattutto in Nigeria, ma anche lo stile chitarristico di Havens rinvia allo stile ipnotico del chitarrismo nigeriano, una specie di ju-ju music, adatta al ballo e alla trance visionaria, di cui troviamo esempio nei dischi di King Sunny Ade.

In tutto, a Woodstock, il cantante afro-americano finirà con l’eseguire undici brani, ma sarà proprio l’ultimo “Freedom/Motherless Child”, letteralmente improvvisato per sopperire al tempo ancora da coprire, a colpire di più il pubblico con il suo incedere ipnotico, veloce, quasi disperato e a renderlo celebre a livello internazionale.

In realtà quando Havens sale sul palco di Woodstock ha già alle spalle cinque album, due per la Douglas Records e tre per la Verve, incisi tra il 1965 e il 1969. Originario di Brooklyn, dov’era nato il 21 gennaio 1941, Richie , dopo aver fatto parte di gruppi doo-woop, aveva iniziato a battere i locali del Greenwich Village, dove si stava sviluppando la rivoluzione folk che avrebbe avuto come protagonisti, tra gli altri, Fred Neil, Dave Van Ronk e Bob Dylan.

Mentre l’ultimo sarebbe diventato famoso come “il menestrello di Duluth”, per qualche anno , nel circuito del Greenwich Village, Richie ne avrebbe costituito l’alter ego in black: “il menestrello nero” appunto. Così, dopo la tradizionale ed interminabile gavetta la cui dieta sarebbe stata costituita principalmente dalla classica “fam da sonador”*, sarà notato, prima, da Fred Neil che gli farà da mentore per un primo contratto con la Douglas Records e, poi, da Albert Grossman, il manager di Bob Dylan, che lo porterà a firmare un contratto con la Verve Forecast.

 Il primo risultato su vinile, di questo secondo contratto, fu l’album “Mixed Bag” del 1967, che contiene alcune composizioni dello stesso Havens (tra i quali “Handsome Johnny” eseguita a Woodstock e scritta con Louis Gossett Jr.) e numerosi altri composti da Tuli Kupfrberg (Morning Morning), Bob Dylan (Just Like a Woman), Lennonn e Mc Cartney (Eleanor Rigby), John Mayall (Sandy) e Jesse Fuller (San Francisco Bay Blues), oltre che la bellisima “High Flying Bird” di Billy e Jane Wheeler, ripresa in quegli anni da gruppi folk-psichedelici come Illwind, Wizards from KansasIt’s a Beautiful Day e Jeffersonn Airplane.

Tra i musicisti che lo accompagnano, in quel primo disco per un’etichetta importante, ci sono Bruce Langhorne, Felix Pappalardi, Harvey Brooks e il fedelissimo Paul “Dino” Williams. Nei successivi due album si aggiungeranno, tra gli altri, Stephen Stills e Eddie Gomez. Lo schema rimarrà lo stesso: molte canzoni di autori “bianchi “ e pochi brani ad opera dello stesso Richie. Tra questi ultimi, brani come “The Klan” oppure “Stop Pulling and Pushing Me” riveleranno l’impegno militante del cantautore, mentre  “No Opportunity Necessary, No Experience Required”, sarà ripreso da altri , in particolare da Nina Simone che ne darà una straordinaria versione.

Somethin’ Else Again” (1968) e “Richard P. Havens, 1983” (1969) saranno i due album che lo consacreranno anche a livello di classifica. Havens continuerà a mescolare tra di loro una grande varietà di stili nella sua musica, pescando a piene mani nel folk, nel blues, nel rock, nel jazz, nel funk e nel soul alternandoli con elementi del country e del bluegrass filtrati tutti attraverso l’esperienza musicale newyorkese. Ma infondendo in essi sempre una carica musicale e ritmica che affonda le sue radici nel blues delle origini e nella memoria musicale africana, anche se nessuno dei suoi brani incisi in studio raggiungerà più l’intensità di “Freedom/Motherless Child“. Brano che, curiosamente, non comparirà in nessuno dei suoi album ufficiali, ma soltanto in quello antologico tratto dal festival del 1969.

Ancora nel 1971 scalerà le classifiche di Billboard con l’album “Alarm Clock” e il 45 giri “Here Comes The Sun”, tratto dallo stesso. Poi l’abbinamento tra afro-music, folk e Beatles perderà mordente e per molti anni Richard Havens si limiterà ad esibirsi dal vivo. Soltanto nel 1987 tornerà in classifica con l’album “Simple Things”. Mentre l’ultimo album, dal titolo “Nobody Left To Crown”, uscirà nel 2008. Da segnalare, come curiosità, che nel 1983 sarà pubblicato l’album “Common Ground”, prodotto da Pino Daniele, accompagnato dallo stesso Daniele e dal suo gruppo comprendente anche il sassofonista Mel Collins.

L’unico altro musicista dell’epoca a lui paragonabile rimane, forse, Terry Callier. Originario di Chicago, fin dai primi dischi accosterà folk, blues, funk e jazz in una miscela molto originale, ma decisamente più morbida di quella proposta da Havens. Mentre, oggi, l’unico musicista ad essere considerato dalla critica il vero e proprio erede di Richie è Ben Harper, soprattutto quello dei primi album.

Ma, per tornare alle origini, rimane senz’altro l’esibizione di Woodstock il fulcro dell’arte di Richie Havens. Ciò che più colpisce, rivedendo le immagini di allora, è il fatto che quel festival prevalentemente bianco, se si eccettua la presenza nella terza serata di Sly and the Family Stone, si aprì e chiuse con due esponenti della musica nera: Havens, appunto, e Jimi Hendrix, che suonerà alle nove del mattino del 18 agosto, mentre gran parte dei partecipanti sta già lasciando i prati della Yasgur’s Farm.

Due modi diversi di intendere la musica: acustica e folk-blues quella di Richie, lancinante e  distorta elettricamente quella di Jimi, che sembrano però riunire, con un arco immaginario che attraversa non solo i tre giorni del festival ma tutta l’esperienza musicale americana ed afro-americana, il ritmo del continente d’origine con quello delle metropoli attraversate dalle contraddizioni di classe, politiche e razziali degli anni sessanta e settanta.

In entrambi i casi non ci troviamo davanti ad un suono pulito e raffinato; i groove sono ossessivi e il funk ostinato. La musica nera non si è ancora arresa al gusto dei bianchi, così come il free jazz aveva già orgogliosamente dichiarato fin dai primi dischi di Ornette Coleman, ed esplora ogni soluzione possibile, cercando anche di superare i limiti di quello stesso blues da cui sembrava che tutto avesse avuto inizio. Prendendosi gioco, nel caso di Hendrix, anche del tradizionale inno americano (Star Spangled Banner), devastato e ridotto ad un cumulo di macerie sonore.

Jimi morì, l’anno seguente, il 18 settembre 1970, tre settimane dopo la sua esibizione al festival dell’isola di Wight, dove si era esibito anche Miles Davis con la sua electric band. Aveva 27 anni.

Richie Havens è morto il 22 aprile di quest’anno, a 72 anni.

* in piemontese “la fame del suonatore”, attribuita a coloro che girovagavano nelle città e nei paesi a caccia di un’elemosina o di un piatto di minestra in cambio dell’esecuzione di qualche canzone popolare e, più in generale, a tutti coloro che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena soltanto con il frutto del proprio lavoro.

 

Discografia consigliata:

 Richie HavensMixed Bag

                             Somethin’Else Again

                             Richard P. Havens, 1983

Richie Havens e Jimi Hendrix sono presenti sul doppio cd antologico Woodstock 40, rispettivamente con Freedom e Star Spangled Banner/Purple Haze & Instrumental Solo.

 

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