William Morris – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Beghe di Titani (Victoriana 30/I) https://www.carmillaonline.com/2021/09/04/beghe-di-titani-victoriana-30-i/ Sat, 04 Sep 2021 20:30:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68037 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe potuto apparire il ciclo completo (da tenere presente è anche Perseus and Andromeda, 1876, all’Art Gallery of South Australia di Adelaide, sorta di esplorazione iniziale di due dei soggetti della serie). La commissione, intrapresa nel 1875 e portata avanti praticamente fino alla sua morte, appartiene dunque all’ultima fase della produzione di Burne-Jones, e intreccia le sue letture di pagine dell’amico William Morris (1834-1896) – alla base delle tavole è “The Doom of King Acrisius” da The Earthly Paradise – a dialettiche virtualmente un po’ complicate tra i due. Ed è bene guardare dietro le cornici.

Tra il 1870 e il 1877, Burne-Jones espone soltanto due lavori, vessato com’è da attacchi della stampa (le nudità del suo Phyllis and Demophoön, 1870, sono state giudicate particolarmente riprovevoli) e ancora devastato dalla passione per la sua modella, Maria Cassavetti Zambaco (1843-1914), a sua volta pittrice, scultrice e disegnatrice di medaglie, figlia di un commerciante angloellenico e nipote del console greco. Il fatto è che Burne-Jones è sposato con Georgiana “Georgie” MacDonald (1840-1920), pittrice, artista dell’incisione e cara amica di George Eliot e John Ruskin (oltre che zia, tramite una delle varie sorelle, di Rudyard Kipling): dopo i primi anni d’idillio, il matrimonio è appunto buferato dall’ingresso di Zambaco, di cui Burne-Jones si innamora perdutamente. La donna cerca di convincerlo a lasciare la moglie, a togliersi la vita assieme col laudano, arrivando poi a tentare il suicidio nel Regent’s Canal con pubblico scandalo. Nel frattempo si sono lasciati, ma Maria continuerà ad apparire nei quadri di Edward come una dark lady o un’incantatrice (emblematico il meraviglioso The Beguiling of Merlin, 1872-77, dove i due incantatori/pittori paiono abbastanza trasparentemente in scena), e finirà comunque tagliata fuori dai giri di amici comuni. Intanto, Georgiana approfondisce l’amicizia con William Morris, la cui moglie Jane ha un rapporto con Rossetti. Nonostante alcune allusioni nelle poesie di Morris suscitino il dubbio che chieda a “Georgie” di lasciare il marito, formalmente nessuno dei due matrimoni si scioglie e tutto resta compresso nell’intreccio delle loro vite. Georgiana “vince”, e le sue lettere sul tema sono un capolavoro di buonsenso e di dolcezza; ma non giudichiamo male la tumultuosa amante, con la sua passionalità mediterranea. Maria morirà a Parigi nel 1914, in una sorta di esilio dai giorni preraffaelliti, parecchio dopo la morte di Edward. Questa è la situazione che idealmente sta dietro il Perseus Cycle.

Il periodo è difficile, ma nel 1875 arriva a Burne-Jones una commissione interessante, da parte dell’allora giovane deputato conservatore Arthur Balfour (1848-1930), poi destinato ad assurgere a Primo Ministro: un ciclo di dipinti da opere letterarie per il salotto della sua casa di Londra. Il pittore sceglie il mito di Perseo, ispirandosi al testo dell’amico Morris e progettando una sequenza di dieci scene, sei in forma di dipinti ad olio e quattro come pannelli in bassorilievo e tecnica mista. Tutte le opere devono essere incastonate in una cornice di girali d’acanto sviluppata intorno alle pareti superiori del salotto. All’esposizione alla Grosvenor Gallery di Londra nel 1878, tuttavia, il lavoro non viene gradito (in particolare, piovono critiche sulla tavola Perseus and the Graiae del National Museum Wales di Cardiff, su cui torneremo) e Burne-Jones abbandona la realizzazione dell’originale soluzione in bassorilievo che aveva inizialmente avviato.

Per quanto altri eroi della mitologia classica presentino caratteristiche più amate, pochi quanto Perseo – con la cassa che lo chiude bambino assieme alla madre, la Gorgone da decapitare e poi la testa/maschera pietrificatrice da brandire, lo scudo/specchio e la spada falcata, il cavallo alato Perseo, Andromeda e il mostro marino, le costellazioni annesse… – hanno evocato agli artisti soluzioni visive d’impatto. Non stupisce che nell’occidente sessista – e in particolare nelle arti tra Otto e Novecento, quando una serie di topoi affermati come la donna incatenata, addormentata o morta consentivano di ridurla a spudorato oggetto di controllo e creazione maschile – abbia avuto tanto successo. Anche nei meravigliosi cicli di Burne-Jones (non solo quello di Perseo, ma gli altri della Pygmalion and Galatea series, della Briar Rose e di St George and the Dragon, come del resto in tavole come King Cophetua and the Beggar Maid), dove pure tanta eleganza e dolcezza illumina i dipinti, l’eroe maschile assume un ruolo un tantino equivoco di salvatore, animatore e creatore, e le donne ridotte a oggetto trascolorano su un piano di puro mito, e di atemporale bellezza estetica.

Resta il fatto che, al di là delle ambiguità, il mito di Perseo sia una festa per la fantasia. E non è un caso che una decina d’anni fa, a misurare le potenzialità della nuova santabarbara di effetti speciali, sia stato ripescato nella forma del vecchio film Scontro di titani (Clash of the Titans) di Desmond Davis (1981), uno strano peplum fuori stagione che vantava un ottimo cast e alcune trovate brillanti, soprattutto grazie al genio di Ray Harryhausen – alternate a scene francamente narcotiche – in vista di un remake Clash of the Titans (in Italia poi titolato senza grossa fantasia Scontro tra titani) di Louis Leterrier, 2010, che in origine doveva essere molto più sovversivo. Se il film campione d’incassi del 1981 mixava miti greci a modiche concessioni nordiche – essenzialmente nel nome del mostro marino della scena-tormentone “Liberate il Kraken!” invece che Ceto come nel mito greco – il remake avrebbe dovuto essere molto più sincretista, arruolando nel progetto come vilain principale la dea-mostro ancestrale mesopotamica Tiamat, e coinvolgendo contro di lei a fianco di Zeus anche divinità non olimpiche come Thoth, Osiride, Marduk, e persino Yahweh. Ma quel progetto degli sceneggiatori John Glenn e Travis Wright avrebbe causato qualche mal di pancia sul piano della politica confessionale e confuso gli spettatori, per cui viene drasticamente riformato. Troviamo così riproposto l’Olimpo in stile sandalone del 1981 (dove Zeus era nientemeno che Laurence Olivier, Claire Bloom impersonava Era, Maggie Smith un’arrabbiatissima Teti, Ursula Andress ovviamente Afrodite), ma con un diverso design un po’ ucronico, e viene sviluppata in forma attiva un’ostilità solo virtuale nei miti greci, tra Zeus (Liam Neeson) e il fratello Ade (Ralph “Voldemort” Fiennes). Per il resto, con qualche libertà come il ritorno del Kraken (stavolta una bestiaccia a vertiginosi effetti di computergrafica invece dello stop motion di Harryhausen) e la presenza nel secondo film di Djinn stregoni del deserto, le trame delle due pellicole ricalcano più o meno la storia dei mitologi.

In Scontro di titani, per compiacere i censori che avevano posto il veto alla nudità di Andromeda, la si era fatta interpretare da un’attrice di raro candore, la fresca Judi Bowker emblema d’innocenza (già Chiara d’Assisi in Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli, 1971, e Mina Harker nel televisivo Count Dracula di Philip Saville, 1977), incatenata a una roccia ma debitamente paludata, mentre un Kraken a metà tra il Mostro della laguna nera e l’Aquila moralista del Muppet Show emergeva dalle acque: tutto il torbido di secoli di Andromede sadomaso nell’arte veniva così sostanzialmente disinfettato. Ora però sono cambiati i tempi, non basta più incatenare l’eroina (Alexa Davalos) ferma alla roccia: in Scontro tra titani viene perciò appesa a una sorta di argano steampunk (o più propriamente Ptolemypunk, roba da ingegneri alessandrini) per l’esposizione al mostro. Certo, fa effetto che Argo diventi una città di mare (ma il suo porto Nauplia non è in fondo distante) e la storia di Andromeda venga spostata in Grecia dal Levante dei Peleset (Ioppe, odierna Giaffa, ma in fondo i mitologi parlavano anche dell’Etiopia, dunque con coordinate geografiche piuttosto vaghe). Peccato per la sceneggiatura bocciata, sia perché era molto più originale e visionaria, sia perché la storia di Perseo, se la si legge un po’ tra le righe, svela imprestiti meticci molto più genericamente “mediterranei” che non “greci” nel senso del classicismo di Canova (e dei peplum). Si prevedeva l’amore tra Perseo e una Dea della terra, l’ascesa del minaccioso culto di Tiamat, un’Andromeda inizialmente circondata da schiavi sessuali maschi… Ma vari sceneggiatori si avvicendano, e alla fine invece di Tiamat c’è Ade.

La novità è che ora arriverà anche un sequel: La furia dei titani (Wrath of the Titans) di Jonathan Liebesman, 2012, dominato da un tema della morte degli dei che piacerebbe a Plutarco. In compenso, ha un ricco serraglio da Theogony Park: chimere, ciclopi, il Minotauro, un Crono immane fuggito dal Tartaro… A interpretare un’Andromeda ora finalmente attiva, a capo di truppe, e non passiva principessa da salvare, è adesso Rosamund Pike.

Uno degli aspetti d’interesse per gli artisti, nel ciclo di Perseo, è in effetti costituito dalla ricchezza di spunti creativi delle sue singole “stazioni”, quelle che per Burne-Jones diventano tavole. Per questo, merita considerarle nell’ordine – almeno a grandi linee – della sequenza da lui offerta.

La prima, The Call of Perseus, è ispirata a “The Doom of King Acrisius”, I, 248-50, combinando due scene: allo sconvolto Perseo quella che sembrava una vecchia (a sinistra, in secondo piano) si rivela Atena, pronta ad assisterlo nella terrifica impresa che lo attende (a destra, in primo piano). Delineando un’interfaccia visiva al componimento di Morris, Burne-Jones mantiene comunque un’autonomia, modificando leggermente i contenuti, come si può notare in particolare nel modo in cui è abbigliata la dea. Né nel dipinto di Stoccarda, né nel cartone preparatorio conservato a Southampton è infatti presente “l’usbergo sulle ginocchia” descritto dal poema; soltanto nel secondo è ben visibile la corazza pettorale e, per quanto in entrambi Atena sia dotata di elmo, la sua foggia è davvero troppo semplice per potersi accordare adeguatamente all’aggettivo “fair”. Eppure, la soluzione adottata da Burne-Jones nella tavola di Stoccolma supera in suggestione i versi di Morris: infatti, è come se cogliesse il momento in cui il manto della vecchia scompare per lasciar posto all’armatura di Atena, in una sorta di trasparenza improvvisa, quasi una trasfigurazione, del tessuto che freme addosso alla dea.

Atena chiama Perseo a una prova e, al contempo, gli offre una spada e uno specchio (in altre versioni uno scudo lucido), mezzi necessari per uccidere una sua nemica, la Gorgone Medusa pietrificatrice. Il giovane è nudo, e va considerato che sovente la “prova con mostri” dell’eroe – Eracle, Edipo, Odisseo… – si ascrive a un contesto iniziatico, di rito di passaggio: un transito al mondo adulto di ogni maschio della comunità. Ecco il senso della nudità, ed è almeno suggestivo ravvisare eco iniziatiche in taluni legami od omologie tra eroi e mostri combattuti. È il tema di quello che potremmo definire l’eroe analogo, come Eracle per Era e tanti altri: così Perseo, dal nome infero e lunare che evoca la Dea Tremenda nelle ipostasi di Perse, Persefone – e dunque Ecate – è associabile alla Gorgone anguicrinita, al punto da potersi domandare se in origine non ne fosse un semplice paredro. Al centro, insomma, Perse, la Dea infera dalle chiome di serpente, e accanto a lei Perseo: tanto più che l’unico verso pervenuto delle Forcidi di Eschilo assimila Perseo al cinghiale, come dea-cinghiale è la Gorgone associata alla Luna, e l’arma di lui è la harpe, la spada falcata lunare. A contrapporli sarà poi una diversa, sopravvenuta teologia che abbinerà a lui, assurto a grande eroe indoeuropeo che con la harpe decapita il mostro femmina lunare e ctonio, un’altra dea, protettrice-guerriera e vergine.

Per quanto riguarda la seconda tavola, Perseus and the Graiae, degna di particolare attenzione è la versione conservata al National Museum Wales di Cardiff, 1877-78, ovvero l’unico pannello in bassorilievo e tecnica mista a essere stato completato.

I volti e le mani delle figure sono dipinti ad olio direttamente sul supporto ligneo di quercia, mentre lo sfondo tenné, rigato dalle venature, è volutamente privo di pittura, riuscendo così a creare la suggestione di uno scenario scabro, arido e brullo. Le vesti sono invece modellate in gesso a bassorilievo e rese preziose dalla successiva applicazione della foglia d’oro per i pepli bruniti delle Graie, dalle cui pieghe traspare la base di colore rosso, e della foglia d’argento su pigmento grigio scuro per l’armatura di Perseo, con un risultato particolarmente vivido e straordinario per la cotta di maglia, che appare a tutti gli effetti “più vera del vero”. Infine, la scena è sovrastata da un testo latino composto da lettere dorate in mogano intagliato, fissate singolarmente sul pannello di quercia: il componimento, in esametri dattilici, è opera di Sir Richard Claverhouse Jebb (1841-1905), eminente classicista e traduttore, e riassume le vicende del ciclo di Perseo.

La tavola di Cardiff risulta essere la prima versione delle Graie: seguono quella di Southampton, 1877-80, dove il testo è inserito all’interno di un riquadro con fondo blu oltremare, delimitato da una cornice dorata, a ricordare certi tipi di decorazione nei manoscritti miniati, o alcune soluzioni adottate dai pittori rinascimentali (cfr. la Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova), e per terza quella ben più tarda di Stoccarda, 1892, dipinta ad olio, dove il componimento scritto viene espunto e le tonalità diventano più scure e monocrome (evoluzione che sembrerebbe tradire tutto il peso delle critiche ricevute alla Grosvenor Gallery). E sempre a proposito di notazioni coloristiche, è interessante notare un dettaglio legato ai pepli delle Graie di quest’ultima versione: la tinta bluastra dei tessuti è quella che richiama più strettamente il colore dei mantelli da loro indossati nel poema di Morris (I, 253-55).

Le tre dee antiche (Γραῖαι, cioè grigie, ovvero le anziane per antonomasia, a incarnare le fasi dell’invecchiamento) appaiono accucciate in uno scenario desertico – ben diverso dalla sala dalle bianche colonne descritta da Morris –, e si stanno passando l’unico occhio – quello che hanno in comune, secondo il mito – e Perseo si piega a sottrarlo, tenendolo tra le dita, per costringerle a indicargli la strada. Un occhio, tra l’altro, irradiato di luce dorata; non a caso, il “lumen” di cui sono prive le Graie, come recita l’iscrizione; un organo, insomma, che diventa simile a una stella brillante, capace di illuminare il cammino (con fors’anche un vago riferimento alle metamorfosi in costellazioni che concludono il mito di Perseo). E, ancora, è tutta di Burne-Jones la trasfigurazione in pura Bellezza di soggetti canonizzati nel segno del Brutto, la cosiddetta Beautification of Ugliness. Le Graie del mito sono in generale descritte – tranne che da Eschilo – come orrende e grottesche (un solo occhio e un solo dente in comune), ma qui notiamo all’ennesima potenza la tendenza del pittore a trasfigurare con tratti delicati qualunque personaggio, a rendere eteree anche figure come queste dee arcaiche, che pure una gravità la mostrano, nell’ambito di una ben precisa poetica che smarca da un certo realismo – tra polvere, trucioli e sudore – di Millais e Holman Hunt. D’altra parte, qualcosa di questa delicata bellezza riflette l’eleganza di colori e modelli che Morris ha dispensato nei suoi incredibili tessuti e carte da parati. In più, la particolare tecnica della tavola di Cardiff permette di trovare la pelle delle Graie – soprattutto quella a sinistra – effettivamente grigia come da etimologia, più che delicata e pallida com’è di solito nei personaggi di Burne-Jones (inclusa quella dell’eroe, a prefigurare di lontano i maliziosi adolescenti di Aubrey Beardsley), conservando pur tuttavia i tratti morbidi della grazia della gioventù. Quanto ciò appaia singolare nel caso delle tre antiche dee è evidente.

La stazione pittorica successiva manca in Morris, che semplifica la storia. Secondo il mito, le Graie hanno dovuto rivelare dove si trovino le armi speciali per uccidere Medusa: così, Perseo viene indirizzato da ninfe d’acqua il cui statuto è un po’ diverso da versione a versione. Per alcuni si tratterebbe di ninfe dello Stige sulla soglia dell’Ade, per altri di ninfe marine. Proprio come Nereidi vengono spesso considerate, e lo si evince anche da due varianti di titolo attribuite alla terza tavola: Perseus and the Nereids o Perseus and the Sea Nymphs (altrimenti The Arming of Perseus).

In questo tableau rarefatto, troviamo di nuovo l’idealizzazione dei volti; in particolare, nel dipinto di Stoccarda, le ninfe diventano pressoché identiche nei lineamenti, senza contare che, rispetto allo studio conservato a Southampton, anche le loro capigliature si uniformano in crocchie brune e i pepli dai colori iridescenti come conchiglie vengono dismessi in favore di monotone nuances azzurrine. Le ninfe poggiano delicatamente i piedi su una sorta di pozzanghera, a richiamo delle acque familiari o infere, e nel cartone preparatorio, che ha una luminosità un po’ più accentuata, questa assomiglia a sua volta a una sottile lamina d’argento applicata sul terreno sabbioso, seppur sospinta a rialzarsi quasi impercettibilmente lungo il bordo, in corrispondenza di lievi increspature spumose. Le interlocutrici dell’eroe sono di nuovo tre, a ricordare le Grazie della Primavera di Botticelli (laddove le Nereidi sarebbero, malcontate, una cinquantina, mentre a rigore lo Stige verrebbe amministrato da una sola, omonima, ninfa Oceanina), e gli porgono tre oggetti, cioè l’elmo dell’invisibilità, una bisaccia speciale in cui collocare la testa mozza della Gorgone e una coppia di calzari alati. Davanti a loro, un androgino Perseo, stretto nell’armatura, ha assunto, per infilare una delle calzature, una posizione seduta un tantino innaturale e goffa, come preoccupato e forse disilluso da quelle che restano spiazzanti immagini del Femminile: si potrebbe addirittura azzardare – bentrovato ma forse un po’ forzato – che la scelta di tre simil-Grazie alluda al terzetto di belle cugine composto da Maria Zambaco, Marie Spartali Stillman e Aglaia Coronio, dette appunto “the Three Graces”. Tuttavia, è possibile che la situazione apparentemente calma (una commissione importante, la gioia della pittura che offre a Burne-Jones le sue armi incantate), ma in realtà increspata da un senso di tensione sospesa (per tutto ciò che si è detto su quegli anni turbinosi del pittore, forse evocati anche nello sfondo scurito del dipinto di Stoccarda), influisca un po’ su tutte le sue scelte iconografiche. Forse, una certa confusione e fatica del pittore è anche avvertibile nel gioco visivo di contrapposizioni tra la morbidezza degli abiti delle ninfe – che in fondo appartengono a una dimensione di bellezza intangibile e senza tempo – e la rigidezza costrittiva della tenuta che inguaina l’eroe, o la loro pacatezza a fronte della sua preoccupazione carica di implicazioni mortifere.

Tornando ancora allo sfondo scuro che lambisce le Nereidi, forse non è un caso che ci sia un’evidente somiglianza con quello delle Graie di Stoccarda: entrambi presentano infatti fluttuanti profili montagnosi dominati da nebbiose sfumature antracite, ma con connotazioni ben più drastiche per quel che riguarda il secondo dipinto: questo sembra estinguere la luce invece presente nel pannello di Cardiff, come la fiamma di una candela viene smorzata dall’incombere dello spegnitoio, a suggerire il peso di una vecchiaia incombente e il progressivo approssimarsi della morte (d’altra parte, la realizzazione delle Graie di Stoccolma precede di soli sei anni la fine dell’esistenza di Burne-Jones). Per contro, non si può non notare nella figura di Perseo una determinazione a sopravvivere in una realtà spesso durissima, ed ecco le armi speciali delle Nereidi, di cui prontamente inizia a servirsi.

Nella sequenza, la quarta tavola è The Finding of Medusa, 1888-92: di nuovo, l’ispirazione è a Morris, che però ambienta la scena in una sala di pietra dai muri neri, eretta oniricamente in mezzo a una landa lunare increspata di serpenti. Nello studio conservato a Southampton, siamo invece in una sorta di grotta oscura, o di forra (mentre nel disegno alla Staatsgalerie l’ambientazione rocciosa risalta maggiormente poiché rischiarata da quello che sembra un pallido albeggiare rosato). La metà sinistra dell’opera è dominata dall’alta figura paludata di Medusa, una femme fatale dai tratti fascinosi e gelidi, con chiome ribelli fluttuanti (dove, notiamo, non si riconoscono i serpenti che Morris dice impigliati tra i capelli). Lei passeggia nella sala, dice il poema, volgendo il capo da un muro all’altro, e gemendo al cader giù di quei serpenti dalle chiome. In basso sulla destra, sono invece accucciate le altre due Gorgoni, con grandi ali (vecchie e curve, dice Morris, con gli occhi resi di sasso dalla grande angoscia, mentre qui di nuovo le troviamo giovani e belle). Ci si aspetterebbe che la presenza statuaria di Medusa mirasse allo spettatore, pronta a impietrirlo; invece, lo sguardo è vagamente sfuggente, quasi fosse già stata sconfitta, e ancora più emblematiche sono le sorelle, che occhieggiano quasi spaventate. Secondo il poema, Medusa sta piangendo la propria trasformazione in mostro per aver amoreggiato in modo blasfemo con Poseidone nel tempio di Atena. Ed è alle spalle delle sorelle che sorge Perseo, rivolto all’indietro per guardare nello specchio datogli dalla dea protettrice; la bisaccia è già pronta all’uso, la mano destra è ben serrata sulla spada e il torace è protetto da un’elegante corazza con decorazione a lobi fogliati, distinguibile soltanto nel disegno di Stoccarda. L’eroe però, spiega Morris, è turbato dall’angoscia di Medusa:

 

[…] “Vorrei che mai

avesse rivolto a me il suo volto pien d’angoscia”.

Ma con ciò Pallade di tal pensier l’ha folgorato:

“È poi ver che vuole vivere colui che fu portato

a tal dolor e a tale miserare

da cui né nume né uom può liberare?

Poiché il voto tremendo di Pallade la lega

fino al passar di tutto, di cielo e terra omega

ma voglia Dio che la cosa sia finita”.

 

Atena rende l’atto di Perseo, un po’ ambiguamente, quasi un’eutanasia. Medusa risulta insomma, in tutti i sensi, una donna perduta (come le vampire vittoriane, in fondo): non può essere liberata dalla sua condanna, come invece la Bella Addormentata del ciclo della Briar Rose, e non resta che salvarla in altro modo. Del resto, per i vittoriani, una donna che non possa essere passiva e sottomessa – e Medusa, bella e potente come le dee di Rossetti, ma anche più avulsa dal contemporaneo e proiettata nel mito con tutta la torpida indolenza della femme fatale – non ha che un unico ineluttabile destino, la morte.

Come oggi generalmente accettato, fu la rilettura teologica da parte delle società patriarcali della maschera della Grande Dea neolitica – specie in aspetti oscuri o mortiferi avvertiti, a torto o a ragione, come allarmanti – a popolare di mostri-femmina l’immaginario dell’antichità: un sottofondo che, combinato nelle teratomachie divine ed eroiche dei popoli d’occidente come in infinite favole di paura, sopravvivrà fino ai miti moderni e postmoderni cifrato in elementi sorprendentemente arcaici. Persino al di là del furioso infierire contro mostri-femmina malvagi, l’immaginario occidentale pare consacrare la violenza a regola di pietà contro la diversità femminile in quanto tale. Un esempio impressionante è costituito dalla leggenda irlandese di Libon, superstite coi due fratelli a un’inondazione del I secolo che avrebbe sterminato il resto della popolazione, e per questo mutata in sirena. Libon sarebbe vissuta tranquilla nel suo mondo marino fino al 588, quando incontrò i santi Beoc e Comgall, che benevolmente le proposero di tagliarle la coda – rendendola una donna “normale” – o di ucciderla, in quanto mostro. Libon scelse la morte, e per il sacrificio, bontà loro, venne santificata e ricordata con il nome di santa Libon o santa Mengen, «colei che è nata dal mare», raffigurata nelle chiese irlandesi proprio come sirena dalle gambe a forma di coda di pesce.

(– continua)

 

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Il comunismo possibile della Comune di Parigi https://www.carmillaonline.com/2021/01/01/il-comunismo-possibile-della-comune-di-parigi/ Thu, 31 Dec 2020 23:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64120 di Fabio Ciabatti

Kristin Ross, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, pp. 260, 16,00 euro

La scarsità delle risorse disponibili e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza a danno delle classi popolari: questi fenomeni sociali sembrano oramai accettati come dati naturali e ineluttabili da un senso comune che è stato rafforzato da una crisi oramai più che decennale e appena intaccato dalle politiche di contrasto alle conseguenze economiche della pandemia in atto. È proprio su questi presupposti, e non prioritariamente su pregiudizi etnico-culturali, che, [...]]]> di Fabio Ciabatti

Kristin Ross, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, pp. 260, 16,00 euro

La scarsità delle risorse disponibili e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza a danno delle classi popolari: questi fenomeni sociali sembrano oramai accettati come dati naturali e ineluttabili da un senso comune che è stato rafforzato da una crisi oramai più che decennale e appena intaccato dalle politiche di contrasto alle conseguenze economiche della pandemia in atto. È proprio su questi presupposti, e non prioritariamente su pregiudizi etnico-culturali, che, per esempio, la destra ha costruito un discorso sull’immigrazione semplice e apparentemente razionale: gli stranieri sottraggono agli autoctoni bisognosi lavoro, case popolari, servizi pubblici. Oggi sembra impossibile intaccare le premesse di tale ragionamento e anche per questo non si riesce a incidere sul senso comune.
Eppure non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui è stato possibile rivendicare la ricchezza per tutti e tutte. Ce lo ci ricorda Lusso comune, il libro di Kristin Ross che indaga, come chiarisce il sottotitolo, L’immaginario politico della Comune di Parigi. Sul significato dell’espressione “lusso comune” torneremo più avanti. Per ora notiamo che il libro di Ross non è una storia della rivolta che ebbe luogo nella capitale francese nel 1871. Si tratta piuttosto di seguire il filo delle idee che anticipano la rivolta nei club popolari parigini, che animano la prassi dei comunardi nel fuoco della lotta e che prolungano la storia dell’insurrezione parigina ben oltre la sua sanguinosa repressione attraverso le elaborazioni degli esuli e dei loro sostenitori (come William Morris, Pëter Kropotkin e Karl Marx) che non avevano preso parte direttamente alla Comune. Idee che mantengono, anche negli anni successivi, i tratti di un pensiero in costruzione che concepisce sé stesso come partecipazione concreta all’evento rivoluzionario e per questo possono apparire poco raffinate e coerenti.

Da questo punto di vista, riprendendo quella che Henri Lefebvre definiva la dialettica del vissuto e del pensato, Ross afferma perentoriamente: “sono le azioni che generano i sogni e le idee, e non viceversa”. L’autrice, insomma, parla della Comune di Parigi come di un evento che dischiude orizzonti di possibilità prima impensabili. In quanto esperienza vissuta di un’uguaglianza in azione, la Comune fu innanzitutto un insieme di operazioni dirette allo smantellamento dell’apparato burocratico statale messe in atto da uomini e donne qualsiasi. Marx scrive che la cosa più importante della Comune di Parigi non sta tanto negli ideali che aveva cercato di realizzare quanto nella sua “esistenza operante”. La Comune fu cioè un laboratorio ricco di sperimentazioni politiche improvvisate sul momento o concepite rielaborando scenari e idee provenienti dal passato sulla base delle necessità della lotta in corso e dei desideri emersi nelle assemblee popolari negli anni della fine dell’Impero.
Ross, per esempio, sostiene che la fondazione dell’Unione delle Donne ha rappresentato la convergenza delle teorie di Marx e Černyševskij (autore del celebre romanzo Che fare?, fonte di ispirazione per i populisti russi e per Lenin). La sua principale animatrice fu infatti la russa Elisabeth Dmitrieff, che passò i tre mesi precedenti la Comune a Londra parlando quasi quotidianamente con Marx a proposito delle riflessioni dei populisti sulle organizzazioni rurali russe come l’obščina, la comune agricola. L’Unione divenne l’organizzazione più grande e attiva della Comune progettando una riorganizzazione totale del lavoro femminile e la soppressione delle disuguaglianze economiche fondate sulla disparità di genere nel mentre partecipava ai combattimenti, direttamente o assistendo chi si batteva sulle barricate. Proponendo di formare officine di cucito come comunità produttive libere, organismi che si sarebbero dovuti diffondere oltre i confini cittadini per creare una federazione internazionale di cooperative indipendenti, l’Unione delle Donne trasportò a Parigi lo spirito dell’obščina russa, liberato da ogni contaminazione con lo sciovinismo slavofilo. Partecipò così a quella pratica corale di importazione di modelli, di idee, formule e slogan da terre e tempi lontani, tutti sottoposti a febbrile rielaborazione. Il nuovo poteva essere modellato solo a partire dagli anacronismi sepolti nel presente, sostengono Kropotkin e Morris, esponenti di un filone di pensiero definibile come comunismo anarchico che, essendo elaborato proprio attraverso le riflessioni sulla Comune, presenta significativi punti di contatto con il contemporaneo sviluppo del pensiero di Marx, anch’esso profondamente influenzato dall’evento parigino del 1871. “Stare attenti alle energie del passato – commenta Ross – era una maniera per pensarsi rivolti verso il futuro”.

Questa peculiare dialettica tra passato e futuro si ritrova anche nell’ideale della Repubblica Universale che animò la Comune. Lo slogan era nato durante la rivoluzione francese del 1789, ma la sua ripresa nel 1871 costituisce, allo stesso tempo, una rottura con quella eredità nella direzione di un internazionalismo operaio. La Comune, come ricordò anni dopo la sua sconfitta uno dei suoi partecipanti, è stata prima di ogni cosa “un coraggioso atto di internazionalismo”, non solo per il gran numero di stranieri che vi partecipò, ma proprio perché fu un’insurrezione condotta sotto la bandiera della Repubblica Universale. La Comune non ambiva ad essere la capitale della Francia, a farsi Stato ma, nel momento in cui si apprestava a smantellare la burocrazia imperiale iniziando con esercito e polizia, volle rappresentare un collettivo autonomo all’interno di una federazione universale di popoli.
Affinché questa federazione avesse qualche possibilità di realizzazione i comunardi capirono presto che era fondamentale costruire un nuovo rapporto tra città e campagna, tra operai e contadini. “Come base della giustizia economica proponiamo due tesi fondamentali: la terra appartiene a coloro che la lavorano, cioè alle comuni agricole. Il capitale e tutti gli strumenti di lavoro appartengono ai lavoratori e alle loro associazioni”. Questa affermazione la troviamo nell’indirizzo programmatico di Le cause du peuple, rivista della sezione ginevrina dell’Internazionale, animata da esuli russi poco prima della Comune di Parigi. E queste stesse tesi le troviamo riecheggiate nello scritto di BenoÎt Malon e Adré Léo indirizzata alla classe contadina francese dall’interno di una Comune oramai sotto assedio. Ma c’è di più. Secondo le successive elaborazioni di Reclus e Kropotkin, la gestione cooperativa della “grande fabbrica della terra” conduce a una società caratterizzata dalla riproduzione semplice e dai ritmi ciclici della natura e, allo stesso tempo, ci porta verso un mondo contraddistinto dall’uguaglianza nell’abbondanza.

E con ciò torniamo al lusso comune, espressione inventata da Eugène Pottier per designare quella specifica forma di emancipazione immaginata dalla Federazione degli Artisti, sorta durante la Comune. Il manifesto della Federazione dell’aprile 1871 si chiude così: “Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il lusso comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale”. Questa espressione indica dunque la volontà di rompere con la follia rappresentata dalla produzione della ricchezza per pochi attraverso la povertà dei molti e lo spreco delle risorse; esprime l’intenzione di dare vita a nuovi legami sociali, a una nuova attività produttiva fondata su rinnovati rapporti di solidarietà e cooperazione e sul rispetto della natura. Per i comunardi il comunismo non è privazione, condivisione della povertà, ma un mondo radicalmente diverso caratterizzato da abbondanza, apertura e ricchezza. Un mondo in cui il tempo di lavoro smetterà di essere la misura della ricchezza e la ricchezza stessa non sarà più misurabile in termini di valore di scambio. Con il comunismo, che esige e riconosce il contributo di ciascuno per il bene comune, sarà possibile il vero sviluppo dell’individuo e il godimento dell’autentico lusso che può essere solo il lusso comune. “La varietà della vita è un obiettivo del vero Comunismo tanto quanto l’uguaglianza di condizioni”, sostiene Morris.
Tutto ciò significa anche trasformare le coordinate estetiche dell’intera comunità superando la divisione tra chi può permettersi il lusso di giocare con le parole e le immagini e chi non può farlo. In questo senso va la rivendicazione e l’attuazione in forme embrionali di un’educazione “politecnica” e “integrale” in grado di superare la divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Lusso comune significa perciò rivendicare un’arte pubblica perché la bellezza non deve prosperare solo negli spazi privati o nella dimensione monumentale. L’arte si deve trasformare in qualcosa di vissuto, integrato nella vita di tutti i giorni, non superfluo ma essenziale per la vita della comunità.

In conclusione, per Kristin Ross rivendicare l’immaginario della Comune significa andare ben oltre la considerazione della rivolta parigina come un’anticipazione imperfetta, in quanto sconfitta, di quella che sarebbe stata la vittoriosa rivoluzione russa. Per non parlare dell’iscrizione dell’insurrezione della capitale transalpina nell’ambito della storia del patriottismo repubblicano francese. Tutto ciò è certamente condivisibile, ma è quanto mai opportuna la considerazione che a tale proposito fa Mario Pezzella nella postfazione al volume. La Comune libertaria dei consigli e dell’autogestione è stata solo una parte dell’evento, quella parte che ha prevalso nei provvedimenti e nei comportamenti che riguardavano l’organizzazione dello spazio e della vita quotidiana. Se prendiamo in considerazione la sua espressione più propriamente politica dobbiamo, però, prendere atto dell’importanza assunta da posizioni blanquiste e giacobine che hanno sbandato sempre di più verso la ripetizione delle forme di emergenza del 1792, Comitato di salute pubblica compreso. Se ci rivolgiamo alla Comune “sociale” cercando un’ispirazione per un comunismo ancora possibile dobbiamo comprenderne anche la sua debolezza di fronte alle tendenze autoritarie e giacobine. Anche perché, possiamo aggiungere, la potenziale scissione tra l’anima sociale e quella politica è una caratteristica forse ineliminabile di ogni evento rivoluzionario. Non ha senso perciò sostituire l’immagine mitica della rivoluzione del 1917 con quella, altrettanto mitica, della rivolta del 1871. “La nostra intenzione – conclude Pezzella – non deve essere la ripetizione di un fatto, ma la liberazione di un possibile”.

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