White Zombie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

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Nemico (e) immaginario. Incapacità di sognare alternative e volontà di autodistruzione https://www.carmillaonline.com/2016/08/03/zombie-scenari-apocalittici-incapacita-sognare-un-altro-mondo-volonta-assistere-allautodistruzione/ Wed, 03 Aug 2016 21:30:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31153 di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti [...]]]> di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti tanto dalla delega elettorale, quanto dal giovanilistico pulviscolo dei messaggini gravitanti attorno ai “nuovi politici”) e dai mass media (che dispensano illusioni di partecipazione attraverso la presenza del pubblico in studio, telefonate in diretta, messaggini autoreferenziali via social media ecc).

Per comprendere qualcosa in più sulla realtà contemporanea può essere d’aiuto indagare la finzione. Nel saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Mimesis, 2014), la figura dello zombie e gli scenari apocalittici, frequentemente ad essa associati nelle produzioni audiovisive contemporanee, vengono indagati come manifestazioni delle angosce e delle paure occidentali.

«Se il reale non è dato bensì è da interpretare, la finzione può rivelarsi di grande aiuto per due ragioni complementari e contraddittorie. Innanzitutto […] perché, come ogni cosa, la finzione è segnata e porta su di sé l’impronta della mano che l’ha creata, essa ci dà informazioni – per seguire la metafora – su questa mano. Proprio come possiamo interpretare la psiche di un artista osservando le sue tele, così possiamo interpretare una cultura, e in seguito a poco a poco anche una società, osservando l’immaginario che essa ha prodotto. Allo stesso tempo l’oggetto della finzione – l’immaginario, a maggior ragione –, attraverso la sua natura metaforica può aiutarci a pensare alla nostra epoca poiché distante da essa. Lo zombie lo illustra perfettamente: se è figlio della nostra cultura esso è anche una figura estrema e fuori dal contesto, e sotto questo aspetto divertente, buffa, spassosa. L’estremo, essendo così distante dal nostro quotidiano, scioccando il nostro immaginario e perfino la nostra società, si offre dunque come una svolta per guardarla» (p. 109).

Nel ricostruire per sommi capi lo sviluppo della figura dello zombie l’autore parte, inevitabilmente, dalle culture africana ed haitiana, ove, attingendo dall’immaginario della schiavitù, lo zombie rimanda tanto ad un soggetto depersonalizzato, incapace di ribellarsi, quanto all’idea di resurrezione cristiana. Nel corso dell’Ottocento la figura dello zombie entra a far parte del folklore statunitense ed europeo fino a far capolino nella letteratura e nel cinema grazie ad opere come il romanzo The Magic Island (1929) di William Seabrook ed il film White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, con Bela Lugosi.

Successivamente Coulombe si sofferma sul mutamento della figura dello zombie operata dalla trilogia di Geoge A. Romero composta da Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), Dawn of the Dead (Zombi, 1978) e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985). In questi film, che delineano una nuova figura di zombie, poi ripresa da vari registi, non siamo di fronte ad un vivente scambiato per morto ma ad un morto che pare un vivente, un “quasi-vivente”. Prende così piede l’immagine dello zombie in avanzato stato di decomposizione e «non è più l’effetto di un maleficio eseguito da uno stregone, egli è ora senza padrone e se serve come strumento di un piano, questo è segreto e oscuro» (p. 25).

Particolarmente importante nell’evoluzione romeriana dello zombie è il romanzo I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson, pubblicato nel 1954, in cui si narra di Robert Neville, ultimo uomo sopravvissuto ad una misteriosa epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in vampiri. «Qui ritroviamo l’idea, ripresa da Romero, di una seconda specie che si nutre degli uomini, che nasce dall’umanità stessa e che tuttavia dimostra una natura così differente da quella umana da desiderare una propria autonomia» (p. 26). Romero struttura così film che riflettono sulle condizioni di esistenza in un mondo ormai alla deriva, ove i rapporti sociali appaiono fortemente compromessi.

Le produzioni audiovisive più recenti, pur mantenendo l’idea di castigo divino come giudizio morale sulla civiltà occidentale «metteranno in scena una modalità di trasmissione più in linea con i timori che animavano gli anni ’70 e soprattutto ’80: ormai si diventerà zombie solo dopo essere stati morsi da un individuo infetto o semplicemente attraverso il sangue. Così lo zombie, questo morto tornato alla vita, costituirà un’inquietante metafora dell’affetto da AIDS, considerato un vivo che tuttavia è condannato alla morte e al contagio del suo prossimo» (p. 29). La figura dello zombie perde così la sua connotazione fantastica per incarnare «la metafora di un’inquietudine rispetto a una nuova immagine di morte – l’AIDS – e il timore legato alle ricerche sulla biotecnologia» (p. 30) dando immagine, inoltre, al turbamento contemporaneo rispetto al senso della morte.

Il cinema zombie «incarna la sconfitta dell’Occidente fino alla sua autodistruzione. Un male prodotto dall’Occidente che dà vita a creature subumane si rivela in grado di decimare la popolazione del pianeta» (p. 30) e gli esseri umani che si trovano a fronteggiare il pericolo zombie dimostrano il peggio di sé mostrandosi del tutto incapaci di andare al di là del loro cinico individualismo.

La prossimità tra uomo e zombie impone interrogativi circa i limiti della condizione umana e la possibilità dello statuto umano di decadere. Siamo al tempo stesso attratti ed inquietati dallo zombie perché non sappiamo cosa sta dietro al silenzio della sua coscienza. Quando lo zombie non è attivo nell’aggredire l’uomo, si mostra a quest’ultimo in uno stato di apatia che richiama facilmente l’immagine di un individuo gravemente traumatizzato, la figura del sopravvissuto ad un disastro che “si fa zombie”, “assente da se stesso”, come se l’enormità del trauma avesse «fatto vacillare ciò che ci rende umani: la nostra capacità di pensare» (p. 48). Dunque, lo zombie ci inquieta nel suo stato apatico in quanto evoca una condizione dell’uomo possibile, seppur rara.

A partire da tali ragionamenti Coulombe si chiede: «Siamo sicuri che lo zombie rappresenti la figura dell’eccezione? Questa perdita della nostra capacità di pensare è necessariamente il frutto di un incidente? Si tratta sempre di qualcosa di raro e irrimediabile? Osservando la nostra società un po’ più attentamente si nota che il “traumatizzato” sembra incarnare non soltanto un incidentato ma molti soggetti che sono vittime della modernità e della sua crudele logica della performance. Bisogna dunque pensare al dramma non come a un evento singolare e contingente, bensì come alla corrosione progressiva del carattere prodotta dal ritmo dell’Occidente stesso. Lo zombie non è la figura dell’eccezione ma incarna più ampiamente un frammento della nostra condizione contemporanea nella quale la maggior parte di noi potrebbe, in un momento o nell’altro, identificarsi» (pp. 49-50).

Walter Benjamin (Sur quelques thèmes baudelairiens), riprendendo le analisi freudiane relative al trauma, analizza lo shock causato non tanto dalla brutalità dell’attentato terroristico o della guerra, ma dalla successione di molteplici shock quotidiani che finiscono col turbare la soggettività dell’individuo rendendolo sempre più insensibile al mondo e refrattario a nuove esperienze. «Lo shock della modernità non produce gli zombie da un giorno all’altro. Nel cuore della modernità risiede tuttavia qualcosa di simile al divenire-zombie, per riprendere il linguaggio deleuziano. L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51).

L’aggressività e la violenza dello zombie tradiscono invece un’altra inquietudine contemporanea, cioè che «sotto la facciata della nostra civiltà batte il cuore di una bestia sanguinaria. Noi saremmo fondamentalmente dei mostri» (p. 53). Nei film sugli zombie si narra infatti la storia di un’epidemia che porta a galla la brutalità celata sotto alla facciata della nostra civiltà. «Questi film mostrano una concezione cinica e oscura della psiche, una concezione che comunque non hanno inventato: lo zombie evoca un certo tipo di ritorno allo stato di natura» (p. 54). Chiaramente lo “stato di natura” è un espediente filosofico utilizzato al fine di immaginare il comportamento umano in caso di abolizione delle regole e delle convenzioni sociali ma, fa notare lo studioso, «se in Hobbes, come negli altri teorici dello stato di natura, una tale condizione non corrispondeva a uno stato storico ma a un’ipotesi teorica, i media contemporanei non hanno colto questa sfumatura. Questi ultimi pensano allo stato di natura come alla chiave di lettura e al punto di fuga della violenza contemporanea» (p. 55).

piccola-filosofia-dello-zombieCoulombe, riprendendo alcune riflessioni di Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita), sottolinea come lo zombie, perdendo la coscienza, si trovi a perdere ogni forma di bios, dunque di statuto umano, avvicinandosi alla figura dell’homo sacer greco, dunque per molti protagonisti umani dei film può non essere un problema uccidere lo zombie in quanto la sua esistenza è ritenuta indegna. «Se lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile» (p. 58). Dunque, secondo lo studioso, «La gioia e l’inquietudine dei film di zombie sono basate proprio sul fatto che essi replicano l’equivoco di questo statuto tanto quanto le sue conseguenze. Recandoci nei cinema assistiamo alla storia di persone che uccidono coloro la cui vita è ormai indegna di essere vissuta; giocando ai videogiochi ci carichiamo perfino del “lavoro sporco”. In qualche modo il nostro è uno sfogo ultimo poiché le nostre pulsioni aggressive e omicide hanno trovato la loro liberazione su una creatura passiva ma pericolosa, la cui morte e tortura non costituiscono più un crimine» (pp. 58-59).

«Se lo zombie è una figura grottesca, buffa e divertente, esso è anche sintomatico dei dubbi nei confronti dei limiti di ciò che è proprio dell’uomo: il pensiero. Un tale dubbio sulla coscienza […] comporta più profondamente un dubbio sociale rispetto al ruolo di questa coscienza, anche un dubbio che porta a chiedersi che cosa voglia dire essere cittadino. Non abbiamo il mostro che meritiamo ma quello che temiamo. La coscienza ha così espulso il suo incubo: lo zombie. Avendo ormai ribaltato il cogito cartesiano, il fatto di riflettere non sembra più stabilire nulla di determinante né utile. L’ordine del mondo – quello del liberalismo economico, quello dell’urgenza – è ormai senza guida, le sue necessità sono cieche. Questo nuovo ordine non accorda più alcun ruolo alla coscienza intesa come momento di introspezione che permette un’etica singolare e personale, un distacco dal mondo per pensarne la coerenza. Il mondo sembra ora più che mai una macchina ben oliata in cui le modifiche e le riflessioni sul suo senso – direzione e significato combinati – non sembrano più necessarie. Lo zombie è la figura di un’assenza e il fatto che noi possiamo riconoscerci in lui dice molto sulla contingenza del pensiero e in senso lato sul suo ruolo nella nostra società» (pp. 60-61).

Nelle società occidentali contemporanee la morte è celata, nascosta, e lo zombie incarna la morte di cui non si è più in grado di parlare. «La finzione si sostituisce a ciò che la nostra cultura non sa più mostrarci» (p. 72). Nella cultura occidentale ormai da tempo votata al “controllo del corpo”, si sostiene nel saggio, «il morto-vivente costituisce, nella sua stessa carne, un ritorno del represso: rappresenta un corpo abietto, squarciato, impuro. Lo zombie mostra la lenta degradazione dei corpi e delle cose mettendola in scena, una degradazione che la nostra cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile. Lo zombie è la vendetta dell’informe. Se la morte è l’ultimo tabù della società occidentale, esso insiste per mostrarlo e per sottolineare metaforicamente la rivincita della morte sul vivente» (p. 19). È come se la parte nascosta dell’uomo, attraverso gli zombie, fosse resa improvvisamente visibile a spettatori desiderosi di assistere a rappresentazioni ripugnanti.

Nel mondo contemporaneo tendente al controllo del corpo, lo zombie rappresenta allora «un ritorno a un’animalità primitiva, ma anche al godimento che questo ritorno del rimosso procura. L’abiezione rimanda dunque a una dialettica in cui affetti, disgusto e godimento si uniscono: il godimento dello zombie e il disgusto negli spettatori; il disgusto del godimento dello zombie per lo spettatore e il godimento attraverso il disgusto nel morto-vivente» (pp. 75-76). Ed il ritorno del rimosso sotto forma di finzione grottesca, secondo lo studioso, induce lo spettatore alla risata di alleggerimento.

Lo zombie, con il suo corpo squarciato, “aperto”, privo di individualità ed in perenne trasformazione, è una figura che ribalta i valori della cultura occidentale contemporanea. «La risata, l’ordine capovolto del mondo, la morte temporanea: l’universo dello zombie sembra portare a compimento il progetto carnevalesco. È quindi facile interpretare questo genere cinematografico come rivoluzionario e sovversivo, come del resto molti hanno già fatto. Tuttavia a questo cinema manca ancora una parte essenziale dell’organizzazione carnevalesca: la sua capacità di offrire un “futuro migliore” e un mondo basato sulla negazione dell’ordine stabilito. Il rovesciamento dei valori dello zombie non propone luoghi di emancipazione per la classe popolare […] ma la vittoria di una nuova specie debole e alienata; il carnevale non è sognato per l’uomo ma per una creatura che ha avuto la meglio su di lui. Non si tratta di qualcosa di innocente. Il grottesco dello zombie diventa ancora il sintomo non solo del rifiuto della morte e della carne nella nostra cultura, ma anche della nostra incapacità di sognare un futuro alternativo per l’uomo» (p. 80).

Dunque, secondo Coulombe, quel che si manifesta nella figura dello zombie è una volontà di rovesciamento delle costrizioni sociali del tutto priva di progettualità. «Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia» (p. 81). Da tale incapacità di sognare un altro mondo, si ripiega, dando sfogo ad una certa pulsione di morte, sulla volontà di assistere, almeno, alla distruzione del mondo occidentale.

In diversi film apocalittici o di zombie, la macchina da presa indugia su strade ed edifici da cui è improvvisamente scomparso l’essere umano. A partire da tali immagini di città abbandonata, Coulombe struttura un interessante confronto con il senso di sublime delle rovine romantiche. Se, in questo ultimo caso, il sublime risulta malinconico in quanto fondato «sull’incolmabile distanza che separa il viaggiatore dalle civiltà che costruirono questi monumenti, di cui restano ormai solo le rovine» (p. 91), dunque si tratta di un sentimento del sublime determinato dalla forza del tempo, nel caso delle città post apocalittiche abbandonate il sublime pare piuttosto fondarsi sulla contraddizione tra una realtà urbana generalmente caotica e frenetica e la città improvvisamente priva di esseri umani, silenziosa e statica. «Assistiamo allora a un fallimento dell’immaginazione, incapace di figurarsi che cosa abbia potuto fermare una tale dinamica. L’effetto di questa distruzione è sublime perché è invisibile, e per questo impossibile da collocare, da limitare, da inquadrare» (pp. 92-93).

Se le rovine romantiche lasciano intravedere la scomparsa di una civiltà, di cui, appunto, restano solo le rovine, le “rovine” post-apocalittiche cinematografiche, in questo caso, “mostrano” la sparizione dell’essere umano. «L’assenza è un concetto di grande portata poetica poiché non richiama il nulla o un vuoto, ma una mancanza. Una persona in lutto ce lo saprebbe dire, il defunto è ancora presente ovunque […] In questo caso è necessario pensare all’assenza come a una presenza negativa […] Queste città abbandonate sono malinconiche perché piene di tutti gli individui assenti che indicano, in negativo, il movimento abituale della città» (p. 91).

Buona parte dei film di zombie, pur mantenendo un alone di mistero circa le cause di questa improvvisa assenza umana nelle città e del dilagare dell’epidemia, tendono ad insinuare l’idea che le responsabilità della scomparsa degli uomini siano del tutto umane e non per forza di cosa generate da qualche maldestro esperimento scientifico. La scomparsa dell’essere umano è genericamente una “punizione meritata” dall’uomo e non per questo o quello sconfinamento particolare; è un’intera civiltà chiamata in causa.

Lo studioso sottolinea come, da qualche tempo, la cultura occidentale risulti attraversata, anche grazie ai mass media, da pensieri apocalittici. Tali pensieri attingono «tanto dai grandi drammi del ventesimo secolo quanto dalla sensazione, provata dal soggetto, di essere ormai impotente di fronte alle logiche capitalistiche che lo dominano e che distruggono progressivamente l’ambiente» (p. 94).

Coulombe sottolinea come sebbene la sensazione di vivere in un’epoca di declino non sia certo una novità, la contemporaneità sembra però aggiunge nuovi aspetti a questo sentimento di degradazione morale. Tra questi l’autore sottolinea «la nostra recente capacità di distruggere il pianeta e la crescita interrotta dalle disuguaglianze sociali nell’occidente come nell’economia mondiale» (p. 95).

Pur consapevole della distruzione del pianeta in atto, l’individuo contemporaneo non sembra disposto ad intervenire. «Perché, se il mondo è al limite della distruzione, tentare di costruire qualcosa, di investirci? Il relativismo che ha conquistato l’occidente rende difficile qualunque azione fondata sui valori che superano il puro interesse personale o la frustrazione […] il pessimismo contemporaneo sembra ancora più sinistro poiché può contare su un sentimento generale di malessere nel nostro rapporto con gli altri […] Questa inquietudine e questo pessimismo finiscono per annebbiare le temporalità e ci lasciano l’impressione che non solo sarebbe troppo tardi per rimediare ma che siamo già in uno scenario post apocalittico: […] Da qui il sentimento, che progressivamente conquista le coscienze e i media, di un ritorno allo stato di natura che renda necessario l’egoismo, un incentrarsi su di sé e sulla semplice sopravvivenza» (p. 97).

Dunque, come sanno bene soprattutto i migranti che tentano di mettere piede nelle città occidentali sempre più fortificate, «ogni sconosciuto è un potenziale nemico, ogni amico è in potenza morto vivente, non restano che i membri della propria famiglia ai quali aggrapparsi» (p. 98).

Gli audiovisivi che ci raccontano di zombie ci mostrano come nel momento in cui si è costretti a lottare per la sopravvivenza, ciascuno finisce col decidere quel che è giusto per se stesso sentendosi in diritto di farsi giudice unico. «La civiltà distrutta sullo schermo, anche se distrutta da un’orda di morti viventi, ci ricorda questo pianeta morente evocato da numerosi discorsi ambientalisti, o questo pianeta sovrappopolato che non riesce a nutrire tutti gli abitanti. I film di zombie mettono in scena la fine del mondo di cui ci minacciano i media, mostrano il precipizio al bordo del quale ci troviamo. E anche la caduta. È stupefacente quanto questa caduta figurata ci tranquillizzi. Da una parte essa evoca una punizione percepita come meritata – i media ci rimproverano. Eppure, allo stesso tempo, desiderando la punizione di cui è minacciato, l’uomo rientra in possesso di un certo controllo sul proprio destino, anche solo per assistere alla perdita di quest’ultimo. Questa logica ha un nome: pessimismo» (p. 100).

TWD_987Coulombe indica come di fronte all’opprimente senso di impotenza, l’uomo tenti di sfuggire ad essa prendendo una posizione simbolica capace di restituire un qualsiasi ascendente, anche solo in maniera sacrificale; la pulsione di morte sarebbe allora causata dalla volontà di ritrovare un briciolo di controllo sulle cose che ci stanno attorno; «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte non semplicemente, comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica ecc… – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato» (p. 103).

I film di zombie «ci divertono perché dipingono una civiltà distrutta da nemici grotteschi. Di fronte all’ambiguità del mondo, di fronte all’incertezza del nostro futuro, di fronte a un’ondata di sentimento di colpevolezza mentre pensiamo alle sorti del pianeta, il cinema zombie ci intrattiene e ci rassicura. Non c’è più quel senso di colpa, non c’è più quella paura: per due ore lo spettatore osserva queste rappresentazioni con un sorriso appena accennato, vedere l’annientamento del mondo causa una piccola vertigine e un senso di conforto» (p. 106).

Secondo Coulombe «Abbiamo bisogno dell’aiuto della finzione per sopportare la nostra condizione di uomini» (pp. 107-108) e, verrebbe da aggiungere alla luce dell’attualità, quando la finzione non basta a lenire la disperazione, in assenza di capacità di sognare un mondo diverso, possono generarsi mostri reali. Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, l’incapacità di sognare alternative non è da meno.

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