Wesley Snipes – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un film, una miniserie https://www.carmillaonline.com/2022/01/27/un-film-una-miniserie/ Thu, 27 Jan 2022 21:12:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70305 di Mauro Baldrati

Amandla è un film sudafricano all black in cui il carico mostruoso di violenza, di sopraffazione del regime razzista deflagra in tutta la sua bestialità. Due fratelli, due bambini zulu vivono in una fattoria, dove lavorano i genitori. Stanno bene, sono sereni, trattati meglio della grande maggioranza dei loro simili. Possono disporre dell’infanzia, non sono costretti a lavorare in miniera come i loro confratellini del sud. Ma la gentilezza è un’offesa in un sistema dove l’aggressione e la violenza sono l’unica legge. Il più grande, Impi, è amico con la [...]]]> di Mauro Baldrati

Amandla è un film sudafricano all black in cui il carico mostruoso di violenza, di sopraffazione del regime razzista deflagra in tutta la sua bestialità. Due fratelli, due bambini zulu vivono in una fattoria, dove lavorano i genitori. Stanno bene, sono sereni, trattati meglio della grande maggioranza dei loro simili. Possono disporre dell’infanzia, non sono costretti a lavorare in miniera come i loro confratellini del sud. Ma la gentilezza è un’offesa in un sistema dove l’aggressione e la violenza sono l’unica legge. Il più grande, Impi, è amico con la figlia dei fattori, una ragazzina bionda con gli occhi azzurri. I due iniziano a sperimentare l’amicizia, l’attrazione della prima pubertà, il preludio di un amore adoloscenziale. Il padre di Impi se ne accorge, lo mette in guardia: non può essere amico di una bianca. Questo costituisce un problema, per tutti loro. Ma le cose stanno iniziando a cambiare, dice Impi, Mandela sta per uscire di prigione (siamo nel 1987, mancano tre anni). Ma il papà è più pragmatico: in realtà non cambia nulla. Non cambierà per tutti loro, per la classe proletaria nera. Infatti non cambierà neanche quando li ritroviamo adulti, in uno slum di baracche, viottoli sterrati, rigagnoli a cielo aperto. Sono fuggiti, di notte, scalzi, dopo che tre razzisti bianchi hanno assassinato a bastonate i genitori, non avendo trovato il figlio. Il piccolo scarafaggio nero ha commesso l’oltraggio di baciare la ragazzina bianca. Deve morire, impiccato, bruciato. Come deve essere. Poi, diventati uomini, i due fratelli hanno preso strade opposte: Impi è entrato nel mondo del crimine, ma con uno scopo nobile: mantenere la sua famiglia, con la moglie che aspetta una bambina, e per pagare gli studi del fratello Nkosana, che deve sostenere l’esame per l’accademia di polizia. Dunque Nkosana sta per entrare nella legalità come agente grazie all’illegalità del fratello. E qui, nel ghetto, la violenza, la mancanza di qualsiasi umanità riesplode, più distruttiva che mai. Una banda di criminali dello slum, capeggiati da una specie di capotribù sanguinario e sadico, obbliga Impi a compiere ogni genere di efferatezza, con la minaccia che se rifiuta ammazzeranno la moglie incinta. La vicenda prosegue in un delta di crudeltà, follia omicida, dove ogni traccia di umanità è calpestata e oltraggiata, in un’atmosfera cupa e disperata, fino al finale, forse obbligato, di pura tragedia. Un film durissimo, intriso di una violenza, non solo fisica, che rasenta la perversione. Ed è doppiamente inquietante perché proviene dal nucleo abissale di un mondo dove la degenerazione non è solo verosimile, ma iperrealista (Su Netflix).

True Story. Un’altra epopea di due fratelli neri, in una miniserie a tratti pirotecnica, con performances attoriali di rara raffinatezza. E’ un interessante ibrido di noir e opera comica, di una comicità intrisa di malessere, di violenza che si alterna con le maschere di una vita demolita dalla recita e dal successo, senza soluzione di continuità. Kevin Hart interpreta quello che è nella realtà: un attore comico di enorme popolarità, Kid. Quel poco che gli resta di vita privata si identifica col personaggio che deve recitare per il pubblico, all’interno del meccanismo dello star system americano: uno che sa come e cosa deve rispondere ai fans e nelle interviste, sempre disponibile per un selfie, con un bagaglio sterminato di battute pronte, da professionista scafato. Kid è un tesoretto per i produttori che gli organizzano le giornate fin nei minimi particolari. Anche lui, come Impi, ha un fratello che deve mantenere: Carlton, interpretato da un redivivo, straordinario Wesley Snipes, emerso un po’ acciaccato da un periodo di action movies e tre anni di carcere per evasione fiscale. Carlton è squinternato, un artista del fallimento. Gestisce un ristorante sempre in passivo, è oberato da debiti, a cui provvede il granitico Kid, tra continue proteste e giuramenti solenni di Carlton di cambiare vita. E’ mosso da una calma glaciale, il contrario dell’esuberanza di quella macchina indistruttibile del successo che è Kid. Proprio il rapporto tra i due, i loro dialoghi, il loro affetto fraterno nonostante tutto, costituisce uno dei tesori dei sette episodi che compongono la serie. I duetti, con le battute, le espressioni, i segreti che avvolgono Carlton come una ragnatela, contrapposti all’estroversione compulsiva di Kid, sono intermezzi teatrali di pura arte della recitazione e dello script. Come anche i faccia-faccia col fan Gene, impersonato dall’attore italo-spagnolo-siriano-nordafricano Theo Rossi, che segue Kid come un’ombra, conosce a memoria ogni battuta, ogni gesto, ne collezione le foto, in una classica procedura di identificazione con la celebrity. Chi ama il teatro resterà incantato da questi schetch, dalla recitazione che si tiene in equilibrio perfetto tra finzione e naturalismo dei personaggi, coi loro tic, le loro pose e tensioni. E le preoccupazioni anche, che perseguitano Kid e interferiscono pesantemente con la sua vita recitata. Carlton invece le sopporta più facilmente, essendo abituato alla precarietà del debito perenne, della caccia spietata dei creditori che lo minacciano e lo obbligano a vivere alla giornata. Infatti l’interfaccia noir si intreccia in maniera originale con la casa madre comico-drammatica. Un evento improvviso e cruento (con uno sviluppo assolutamente inaspettato), obbliga i due protagonisti a combattere senza esclusione di colpi per restare a galla, forse per restare vivi. E un altro aspetto interessante della vicenda è l’alternarsi della migliore tradizione teatrale comica americana con delitti efferati che, proprio per questo contrasto, risultano divertenti, come in una perfetta breaking bad underground (Su Netflix)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 55 https://www.carmillaonline.com/2013/11/07/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-55/ Thu, 07 Nov 2013 22:41:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10525 di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987 La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto [...]]]> di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987
La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto adesso, diciott’anni dopo la prima volta, è uno dei thriller più lenti della storia dei film lenti, con una partenza con retromarcia e freno a mano che mi ha fatto visualizzare i miei testicoli in un tino mentre Emmanuelle Seigner me li schiaccia allegramente. È tutto artificioso e il film decolla solo dopo un’oretta di lamentele mie e della compagna, quasi dovessimo digerire un montone crudo. Ma non si trova mai il ritmo giusto: quello che un tempo si poteva ritenere sapiente costruzione oggi risulta solo inutile inasprimento della pena. Un film invecchiato malissimo che si porta dietro come una zavorra tutta la paccottiglia degli anni Ottanta (le capigliature, la fotografia iperrealista, la musica finta e pure Grace Jones…). Harrison Ford è un bambascione poco a suo agio nel ruolo drammatico; la Seigner ha un faccione da adolescente e una sola espressione (che evidentemente ha convinto ben bene Polanski: i registi che fan recitare le fidanzate son sempre forieri di catastrofi interpretative). Plot dalla semplicità irritante, complicato da un sacco di fregnacce, altro che Hitchcock. Colonna sonora sintetica di Morricone e montaggio avaro e retrò. Grande delusione: Frantic mi ha sfranto le palle, altroché. (Dvd; 17/4/05)

BIP! Breve interludio paterno (in qualche maniera, un film)
Siccome questo è un cinediario – che un attore abbastanza noto di cui non voglio fare il nome ha definito “la più grande innovazione critica degli ultimi vent’anni” – non posso che burocraticamente informarvi che l’attesa è finita e lunedì 25 aprile, giorno della Liberazione, alle 3 e 07 è arrivata Sofia. E ho visto tutto: un piccolo Gollum antifascista che non piangeva. Barbara stava benissimo, io distrutto. E per aderire agli stereotipi di tante brutte pellicole ho ripreso a fumare.

ddv5502537 – Il liberatorio Soul to Soul di Denis Sanders, USA 1971
Non vedo film da un sacco di tempo, ma con buoni motivi, come potrete immaginare. Sofia è un bombardone da 3 chili e mezzo che frigna, mangia, caga e dorme. È tenera e calda e le si perdona tutto. Quando sentivo gli altri genitori dirmi che, con un neonato, diventava tutto impossibile (un cinema, un libro, un disco) pensavo che mancassero di buona volontà. E invece i poveretti qualche ragione l’avevano. Leggiucchio qui e là, ma film, ahimé, è durissima. Due ore di libertà e la disponibilità mentale per concedersi una proiezione sembrano traguardi irraggiungibili. In più la nuova casa è semivuota e non possediamo ancora un divano, elemento d’arredo deputato allo svacco più atroce e all’assunzione di qualunque tavanata televisiva, tipo un film da venerdì sera su Italia1. Urgono però le consegne dei pezzi per le mie gloriose collaborazioni editoriali, ergo mi scoppio felice un dvd musicale, questo Soul to Soul di cui segue arguta e stringata recensione per i tipi di Rodeo. “Un paese africano, il Ghana, fresco d’indipendenza e orgoglioso, e dei musicisti afroamericani alla ricerca delle proprie radici. Nasce così uno di quei concerti epocali, Soul to Soul, dove neanche i protagonisti si rendono conto dell’importanza dell’evento. Ce lo ricorda un fantastico Dvd, prezioso documento perché in diretta, non ricostruzione a posteriori. È tutto naif in maniera commovente, il film e il concerto di Accra, in riva all’oceano, e non si sente la consueta puzza di business o carità pelosa. L’incontro fra due culture (ormai) estranee e unite solo dal ritmo, produce momenti umani e musicali emozionanti e inattesi: Ike e Tina seducono, Wilson Pickett trascina, Santana travolge e il pianista soul jazz Les McCann conquista tutti jammando sul palco con un giovane stregone locale. L’Africa giovane e curiosa, i neri americani alla ricerca di un’identità, senza la spocchia del primo mondo: tutti uniti in una danza sfrenata per un film mai retorico, coloratissimo, da ballare. Nero è il velluto della notte, ed è bellissimo. Extra sfiziosi, parecchi commenti, bonus tracks e anche il cd con la colonna sonora. Cosa volete di più?”. Aggiungo che Ike e Tina erano due burini mica da ridere, però clamorosi, con le sensuali Ikettes di contorno. Lui freddo band leader, con un vibrato chitarristico da brivido, lei una panterona sensuale. Grandiosissimo Santana, ma lo so inconsciamente dal 1970, quando mio padre comprò Abraxas e le note vibranti di Black Magic Woman mi entrarono in zucca. Eccezionali le voci di Mavis Staples e di Les McCann e trascinante il groove di Pickett, con africani che zompano sul palco e inventano lo stage-diving almeno vent’anni prima dei biancuzzi punk. Film veramente emozionante. In modo distratto, ma non senza esserne colpevolmente intrigato, ho pure visto Signs a brandelli, in passaggio Rai. Costruito da Shyamalan con la consueta furbizia, merita una visione completa per una più seria trattazione, anche perché se l’avessi visto in condizioni normali, cioè senza un sonno boia e il cervello in pappa, l’avrei valutato una grossa cazzata. Perché è una grossa cazzata. Ma siccome dopo agosto smetto di imbrattare fogli elettronici con recensioni che nessuno legge, dubito che i posteri sapranno quali rivoluzionarie idee ho elaborato su extraterrestri, cerchi nel grano, credulità popolare e altro. Sappiate solo che il film mi ha divertito e che non siamo mai stati sulla Luna. Oh yeah. (Dvd; 19/5/05)

ddv5503538 – Red, White and Blues del solito incompetente, USA 2003
Sulla carta, il Dvd merita e non me lo faccio sfuggire: l’evoluzione del blues britannico, attraverso interviste ai protagonisti. Dimenticata in America, la musica popolare nera venne adottata da una schiera di giovanotti britannici che la fecero diventare l’idioma musicale delle masse mondiali e la riportarono a casa, regalando qualche anno di gloria agli anziani bluesmen originali. Non mi spaventa che il regista sia quel deficiente di Mike Figgis, già responsabile dell’immondo Via da Las Vegas, ma sbaglio, perché una grande storia e l’opportunità di farsela raccontare da chi l’ha scritta, vengono buttate nel cesso con puntuale incapacità. Non c’è un’organizzazione di racconto coerente, ci si perde in inessenziali e puntigliose spigolature e si dimentica la trama generale. Come per il Wenders di The Soul of a Man, anche questo capitolo di The Blues, il progetto voluto e prodotto da Scorsese, è insoddisfacente per manifesta ignoranza dell’autore. Ne viene fuori un documentario che di televisivo ha la banalità, lo scarso approfondimento e la cattiva (ed eterogenea) qualità delle riprese ed è un delitto, perché buttare via le testimonianze di Eric Clapton, John Mayall, Steve Winwood, Peter Green e tanti altri è proprio da stronzi, stronzi grossi e grassi. Ci sono lampi isolati, dovuti alla genialità di chi risponde, ma perlopiù le domande sono sbagliate, oziose, che non centrano il cuore delle questioni, mancando di prospettiva storica. Ancora una volta del blues non viene trasmesso il calore, il dolore, l’intensità erotica, il divertimento, l’ironia. Niente. In mezzo a tanto spreco, la ripresa di diverse session con Tom Jones (eh!?), Lulu (EH!?) e Van Morrison (mah) che producono esecuzioni un po’ ingessate, sicuramente meno interessanti delle esecuzioni di prima generazione (nere) e di seconda (bianche e britanniche). Unica consolazione musicale l’accompagnamento della terrificante chitarra del sessantenne Jeff Beck, un giovinotto che dimostra quanto il blues possa avere un futuro se solo si decide di rimescolare le carte. Non bastasse il contenuto del film, i sottotitoli italiani sono obbligatori (hard subtitles, mi dicono, bella stupidaggine) e densi di strafalcioni che denunciano la totale incapacità dei curatori. Buona parte degli extra, inoltre, (con quell’impunito di Figgis protagonista) sono in 16/9 NON anamorfizzati, per cui Jeff Beck e tutto il cast sembrano usciti da un quadro di Munch. Una bella porcata di Dvd, insomma. Ma Scorsese avrà mai visto Mississippi Blues di Tavernier? Umile, faticoso e intensissimo, realizzato viaggiando nel sud degli States, mica rimanendo col culo posato. Bah! Ma succedono anche cose peggiori: il 22 maggio, con questi occhi, ho visto Mal batterista e cantante di Smoke On the Water nel “Meglio di Buona Domenica”. Con lui anche Dino e altre due cariatidi di cui non so e non voglio sapere il nome. (Dvd; 25/5/05)

ddv5504539 – L’Odissea di Franco Rossi e di noi italiani, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Ulisse manca da casina da vent’anni e Penelope è insidiata dai Proci, una torma di sibaritici fannulloni che pretende il trono di Itaca, nonché il fringe benefit della regina chiavabile. Telemaco non ci sta e va a cercare il padre che nel frattempo approda nella terra dei Feaci dove lo accoglie la futura signora Starr, Barbara Bach nella parte di Nausicaa. Ulisse le racconta dei sette anni prigioniero di Calipso, ninfa niente male che se lo deve essere succhiato come un’ostrica. Infine l’ha lasciato libero e dopo 17 giorni di mare aperto eccolo arrivare alla corte di Alcinoo. Ogni sera Ulisse si accende come un televisore e racconta le sue vicissitudini, tra le quali: la cortese visita al monocolo Polifemo (diretta da Mario Bava), il canto per niente melodioso delle sirene, l’episodio acido della visita a Eolo (conciato come un personaggio di Star Trek), la cattività in mano alla maga Circe, la discesa nell’Ade per ascoltare Tiresia (episodio francamente mortale). Alla fine Ulisse ottiene un passaggio a Itaca e lì si compie la vendetta, tremenda vendetta. Beh, che l’Odissea fosse un buon testo, non ci piove. La regia complessiva è perfetta, sobria e poetica nella sua semplicità, lavorando molto per allusioni, senza grandi effettacci. Lo sceneggiato inizia lentamente, poi prende più ritmo ed è bellissimo, con un passo composto che non conosciamo più, abituati a stacchi di montaggio continui e a narrazioni compresse ed ellittiche. Difeso da Atena e odiato da Poseidone cui ha ciecato il figlio ciclope, Ulisse rappresenta l’irriducibile ansia dell’uomo di conoscere, scoprire, imparare, sfidando il volere degli dèi. L’eroe ha la faccia da Cutugno di Bekim Fehmiu di cui, da bambino, mi colpiva che fosse apolide. Penelope ha il volto severo di Irene Papas mentre gli altri sono illustri sconosciuti, ma dai volti incisivi, tant’è che li ricordavo quasi trent’anni dopo. Musiche talvolta psichedeliche, più spesso minacciose, ed efficaci scenografie barbariche: credo che una visione dell’Odissea con additivi chimici potrebbe regalare intense sensazioni, altro che canna e Teletubbies. La nostra visione, tra pappe, sonni interrotti e altro, s’è spalmata in un arco di tempo imbarazzante, proseguendo fino a luglio. Nel frattempo abbiamo visto anche altre cose, come l’italico film horror del referendum sull’aberrante Legge 40, quando tre quarti del popolo italiano ha preferito occuparsi d’altro. Le votazioni si sono strategicamente tenute il week end in cui finivano le scuole con i bravi papà e mammà – improvvisamente cattolici – che friggevano dall’ansia di scappare dalle città. Per lenire l’incazzatura, abbiamo anche visto pezzi sparsi dell’immortale Fantozzi contro tutti (la sempre clamorosa scena della coppa Cobram, con il rag. Ugo che prende “la bomba”); Straziami ma di baci saziami con Tognazzi sordomuto; il lercio e notevole telefilm The Shield, che sembra un Ellroy girato Dogma-style e infine Dillo con parole mie, un incredibile film di Luchetti, senza trama, con attori inconsistenti e poco simpatici e situazioni e battute da far tremare i polsi. Chissà perché. (Vhs originale; giugno e luglio 2005)

ddv5505541 – La strana coppia di Gene Saks, USA 1968 e l’inutile Live8
Serve un’abulica domenica di luglio per rivedere un film così, la cui prima volta si perde nella notte dei tempi: 1983 (credo), con zia Luisa. Mi era piaciuto tantissimo e oggi metto alla prova la memoria. Tratto da un’opera teatrale di Neil Simon, la regia s’impegna poco a rendere originale la messa in scena e tantissime volte c’è la fastidiosa impressione della quarta parete, quella invisibile che divide palco da spettatori. Ciò detto, il testo alterna momenti clamorosi ad altri più mosci, ma le interpretazioni eccezionali fanno brillare anche i dialoghi meno incisivi. Oscar (Matthau) è un divorziato impenitente, disordinato, infantile, cinico e casinista. Condivide con altri amici la passione per il poker, ma una sera all’appello manca Felix (Lemmon), il preciso, rigoroso, maniacale, ordinatissimo Felix. Praticamente il cagacazzo universale. Dopo dodici anni s’è lasciato con la moglie ed è una tragedia. È talmente in stato confusionario che non riesce neppure a suicidarsi ed emergono tutte le sue nevrosi e allergie, la borsite, la sinusite, gli spasmi nervosi al collo, tic assortiti e pure il colpo della strega. Com’è ovvio finisce a casa del diametralmente opposto Oscar. I due caratteri cozzeranno mettendo a repentaglio l’amicizia, ma in un finale agrodolce ci sarà un’inaspettata ricomposizione del conflitto. La partenza è strepitosa, sorretta anche dai caratteristi di contorno. Un diluvio di battute e situazioni che, man mano, va scemando: quando la strana coppia convive suona tutto già un po’ anticipato e si ride di meno. La vicenda diventa statica e si arriva al finale un po’ stracchi. Succede anche nelle migliori commedie, ma non importa. Avevo voglia di farmi due risate e La strana coppia ha assolto il compito, complice anche Sofia dormiente per l’esatta durata del film. Ieri biblica diretta tivù su RaiTre, divisa tra i palchi di Londra, Roma e delle altre città coinvolte in Live8, l’evento organizzato da Bob Geldof vent’anni dopo Live Aid. Una veejay esornativa continuava a chiamare il concerto LaivOtto “perché siamo in Italia”. Seee, buonanotte: semmai VivOtto, babbea. Poi, posto che i destinatari della beneficenza sembravano i cantanti che ingombravano il palco di Roma (di fronte a un pubblico immoto) l’impressione è che il concerto capitolino sia stato un pianto, con pochissimi artisti capaci d’inventarsi qualcosa d’originale. Che nel finale fossero assieme Zero, la Pausini e Baglioni la dice lunga (con Zero che invocava “non dimenticateci!”: e come sarebbe possibile? Avrò gli incubi per qualche lustro). A Londra ho visto degli Who potenti e dei Pink Floyd magari non in forma eccelsa (la voce di Waters era dylaniata) ma comunque emozionanti. Hanno detto che risuoneranno assieme per la pace tra Israele e Palestina. Probabile come un ritorno sulle scene di Lucio Battisti. A Toronto, poi, hanno suonato anche i Deep Purple ma nessuno s’è degnato di farmeli vedere. In compenso ho ascoltato tanti giovanotti inglesi e americani osannati dai media come nuovi rocker: dei finti ribelli vestiti per benino che mi hanno fatto sinceramente cagare a spruzzo. Il concerto doveva muovere le coscienze e ricordare ai signori della guerra riuniti al G8 che c’è un mondo intero a guardarli: eh, paura. (Diretta RaiUno; 3/7/05)

ddv5506543 – Bastardi Compagni di scuola di Carlo Verdone, Italia 1988
Vent’anni dopo la maturità, una festa che riunisce tutti i compagni di classe di un liceo romano. C’è chi è invecchiato male tanto da essere irriconoscibile, c’è chi ha fatto i soldi (onestamente o meno) e chi si arrangia con mille mestieri, c’è chi lavora e chi fa il politicante. E poi c’è il Patata, il povero Verdone prof di liceo privato, ossessionato da moglie buzzicona e volgarissima e innamorato di una sua studentessa ingenua. Fin troppo. E poi un finto paralitico, una madre sola, una psicanalista stufa di psicanalisi. Due storie mi sembrano più deboli (quella della Giorgi e Natoli e quella del breve incontro dei due che si amano da sempre), ma l’impianto generale e le singole caratterizzazioni sono riusciti. Soprattutto c’è una sana cattiveria. I Compagni di scuola sono carogne, falliti, egoisti e invidiosi e ne viene fuori il film di Verdone meno piacione: amaro, feroce, senza calamenti di braghe o strizzamenti d’occhio al pubblico. Aiutato in sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, si compone un ritratto generazionale quasi livoroso in cui si fanno i conti con i merdosi anni Ottanta, senza il qualunquismo con sospensione di giudizio (che è implicita adesione) dei Vanzina. Buona commedia, dài. Intanto, dopo aver scatenato una guerra mondiale per il petrolio George W. Bush ha la faccia da culo di presentarsi al G8 dicendo che adesso bisogna tornare a investire sulle risorse energetiche alternative: il nucleare! Come al solito siamo antiamericani noi, eh, non coglione lui. (Diretta RaiDue; 5/7/05)

ddv5507545 – L’affilato Blade II di Guillermo Del Toro, USA 2002
Inchiodato dall’evidenza dei programmi televisivi sui quotidiani e dalla precisa richiesta di Barbara, non mi resta che sciropparmi questo horror immaginifico in cui Wesley Snipes interpreta con marmorea convinzione un mezzo vampiro che sa riconoscere i quasi suoi simili e coltiva l’hobby d’incenerirli. Lo chiamano “il diurno”, come un volgare albergo a ore, perché non soffre la luce solare. Al limite Blade ha una sete bestia di sangue, ma sa controllarsi. O quasi. Si parte salvando Kris Kristofferson, l’uomo che ha scritto Me & Bobby McGee, prigioniero dei succhiasangue e forse vampirizzato lui stesso. Blade dovrebbe ucciderlo ma ci pensa un po’, se no il film dura 15 minuti, e infatti il vecchio Kris sta benone. E allora quale avventura aspetta il tagliente supereroe? I vampiri gli chiedono di aiutarli contro altri vampiri, ma andati a male e ben peggio di loro. Ma sotto c’è qualche intrigo e il capo dei ciucciaplasma, tal Damaskino, non la conta giusta. Tra lame d’argento, trecce d’aglio e ferali raggi di sole, andrà a finire con un intrigo degno del rapporto edipico tra la Morte Nera e Luke Skywalker, per intenderci. Sembra un videogioco, ma con qualche bella svisata ironica. Non conosco il fumetto, ma il film è godibile, decisamente superiore al primo episodio. Passando ad argomenti frivoli: non aprite quel La Porta! Grazie a Blob scopro che Gabriele è vivo e lotta con noi. Non sono più aduso al palinsesto notturno e avevo perso da molto tempo le tracce del nostro eroe fulminato. Blob me lo fa vedere in forma clamorosa, con giacchetta di pelle nera manco fosse Bono, che sproloquia di Platone, Aristotele, Ibn Arabi, Averroé e Avicenna. Un grande. Ma adesso a fare i bagagli, ché tra due giorni portiamo Sofia nel posto più bello del mondo, Champoluc. (Diretta su Italia1; 28/7/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 55)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 51 https://www.carmillaonline.com/2013/07/16/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-51/ Mon, 15 Jul 2013 22:01:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7240 di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000 Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a [...]]]> di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000
Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a rampognare, anche perché lo spunto è astuto. Io me la vedo così: un gruppo di executive in riunione al piano più alto di un grattacielo di L.A. Il più intelligentone fa sfoggio di cultura e annuncia che ha visto il film di un nebuloso regista tedesco, un film dove gli angeli possono sentire i pensieri della gente. “E vabbeh, ne faremo un remake”, dice il praticone della compagnia. Poi interviene il creativo (cioè il ladro della congrega): “E se usassimo l’idea del sentire i pensieri attribuendola a un uomo che può ascoltare cosa pensano le donne?”. Mmh, brusio in sala, rotelle che girano. Poi si fa avanti con prepotenza il maschilista della riunione, con voce gutturale e mano a sprimacciare il pisello: “Non dimentichiamo che capire cosa cacchio pensi il gentil sesso – se e quando pensa, ah ah – è da millenni la preoccupazione principale dell’uomo maschio di genere maschile, eh!”. Allora interviene il ragioniere: “Cioè di colui che tiene il borsellino e decide cosa si va a vedere al cine”. “Ma non rischiamo di farla sporca?”, chiede il timoroso. “No”, conclude l’ipocrita: “Diamo la regia a una donna!”. “Venduto!”, decide il capo. Taglio di montaggio ed ecco What Women Want nei cinema. La commedia parte un po’ lentamente, ma poi ha una mezz’ora centrale ruffiana quanto si vuole ma decisamente riuscita, col macho Mel Gibson che finalmente capisce cosa vogliono le donne e sfrutta l’indescrivibile vantaggio in affari (anche sentimentali/sessuali). Ovviamente siamo dalle parti di quel maschilismo paternalistico per cui le donne sono magnifiche creature inutilmente complicate, che dicono bianco per intendere nero etc. etc., ma la porcata ricattatoria è organizzata con sapienza criminale, lo ammetto. Però poi si getta la maschera e tutta la parte finale scade in un perbenismo moralista da far accapponare ulteriormente la pelle. Quell’antisemita sanguinario neocoglione di Gibson ha capito la lezione ed è diventato buonissimo, intuitivo, sensibile e rispettoso delle legittime richieste femminili. Trova l’amore di una collega (Helen Hunt) e l’affetto di una figlia che ancora quindici minuti prima voleva darla via con la fionda e adesso diventerà presumibilmente una vergine di ferro, comprensiva anche lei delle ansie paterne. E cosa potevo aspettarmi di meglio? Vabbeh, mi sta bene. (Diretta su Canale5; 19/12/04)

ddv5102505 – The Making Of Grace dell’amico Fritz, USA 2004
Me lo sono regalato a Natale, pur avendone già una copia (ma vuoi mettere? Questo ha le bonus tracks!) (L’industria discografica prospera sulla stupidità di gente come me, lo so): si tratta di Grace, l’unico clamoroso album di Jeff Buckley, pubblicato finché era vivo. E negli extra di questa Legacy Edition (termini che il marketing deve avere verificato misurando la salivazione di fessi come chi scrive) c’è anche un professionale documentario, firmato da Ernie Fritz che racconta la nascita di un capolavoro, probabilmente uno degli ultimi dischi “importanti” del rock. E il regista, già autore di altri documentari musicali e di videoclip, asseconda il fantastico materiale visivo e sonoro fornitogli dall’angelico Jeff e assembla diligentemente. Non c’è spazio per grandi invenzioni: la musica dice già tutto. Rimane solo il rimpianto per la perdita di un talento cristallino e una voce e una scrittura commoventi. Buckley era un genio multiforme, affamato di scoperte e invenzioni e riusciva a racchiudere in se stesso Dylan, Van Morrison, Edith Piaf, il padre Tim Buckley e Leonard Cohen, mediandoli con una sensibilità, che – a differenza del suo Pantheon di riferimento – capiva la potenza di un accordo amplificato. E dalla sintesi era nata una musica pulsante come il rock dei Pearl Jam, ma sorretta da un’immaginazione, una potenza e un lirismo originali e ineguagliabili. Nella sua semplicità, il documentario fa piangere di rabbia. Il santino è dietro l’angolo e il prodotto discografico non potrebbe certo ragionare in termini critici, ma quel 29 maggio 1997 in cui Jeff Buckley è affogato (mica droghe o altro: un banale e idiota bagno in un affluente del Mississippi) abbiamo veramente perso qualcosa. Rimane solo la musica. Splendida. (Dvd; 29/12/04)

ddv5103506 – L’imperfetto e necessario Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, USA 2004
Un presidente eletto con una frode palese. Menzogne e inadempienze del suo governo inetto che portano a due guerre sanguinose, pagate in contanti da chi consuma la benzina in Occidente e con la vita da chi sta in Medio Oriente. Gli investimenti che ripartono, la rielezione assicurata e guadagni stratosferici per chi commercia in armamenti e petrolio, casualmente in affari con chi risiede alla Casa Bianca. Michael Moore ci racconta con le armi del documentario l’intreccio vertiginoso di affari e politica che parte da Washington e arriva in quel posto a noi e ne viene fuori un film discreto se lo guardiamo da un punto di vista tecnico-narrativo (ha pause, divagazioni, banalità, contorcimenti, compiacimenti e scorciatoie), importantissimo però per il messaggio che porta al pubblico: ci stanno pigliando per il culo in maniera mortale. Non ci sono grandi novità né rivelazioni sconvolgenti, eppure s’è parlato di cinema di propaganda e di faziosità diffuse. Ammesso che sia fazioso far vedere lo sguardo ottuso di Bush (non ha altre espressioni, cosa si può fare?), ciò che viene raccontato è inoppugnabile nella sua basica linearità. Semmai è sconvolgente la palese partigianeria – questa sì – di chi rifiuta di confrontarsi con la materia proposta dal film. In questi giorni tutto il mondo assiste alla catastrofe del sud-est asiatico, sconvolto da uno tsunami che ha provocato (in previsione) oltre duecentomila morti. Pensose riflessioni sulla matrigna Anima Mundi, complessi di colpa, aiuti umanitari per le economie in ginocchio. Tanto bla bla e nessuno che faccia due conti e si renda conto che, dati alla mano, George W. Bush è già responsabile di mezzo tsunami, in Iraq. Le feste di Natale, gli auguri di Capodanno e – qui ci starebbe anche una colorita bestemmia – nessuno che si ricordi che anche noi siamo una nazione in guerra, con un corpo militare in azione in un paese occupato, senza sovranità reale. In Fahrenheit 9/11 Moore rinuncia ad essere in scena dall’inizio alla fine, limita il suo acre umorismo a poche battute e all’uso intelligente del montaggio e prova a realizzare qualcosa che faccia pensare. Che il film sia frutto di un work in progress è evidente dalla disarmonia delle parti, con l’urgenza dell’attualità che inseguiva lo script e non viceversa, ma il risultato – anche se puntualmente discutibile – è potente. Efficace, non so: nonostante gli incassi clamorosi, non è riuscito nel suo intento primario, impedire la rielezione del figlio di puttana. Ma Moore ha fatto quello che un artista dovrebbe fare, mettere la sua competenza al servizio di un’idea, cosa che in Italia sembra non sfiorare minimamente alcun supposto intellettuale. A proposito: lo tsunami ha risparmiato Emilio Fede e Max Ferrari (il gioviale direttore di Telepadania). Non è l’amore a essere cieco. È la Natura, cazzo. (Dvd; 29/12/04)

ddv5104507 – Emerson Lake & Palmer Master From the Vaults di Valente Cineasta Ignoto, Belgio 1970
Spettacolare esibizione degli ELP, subito dopo la pubblicazione del loro primo disco, registrata per la tivù. Mancando il repertorio, ogni brano è infarcito di improvvisazioni parossistiche e citazioni diffuse: una goduria per chi ama la musica avventurosa e tollera la disposizione circense del supergruppo. Sorretti dall’adrenalina e dall’esuberanza giovanile (e forse qualche stimolante più o meno naturale) i tre si producono in performance agonistiche, divertendosi un mondo. Su tutti spicca lo spaccone Keith Emerson (ma ve lo ricordate nella sigla di Odeon?) che qui trova il modo di montare il suo organo, di accoltellarlo, cavalcarlo, suonarlo al contrario, prenderlo a calci, gomitate e ceffoni, tirandone fuori suoni incredibili. La regia è buona, il montaggio figlio dell’epoca, la fotografia alla carlona: ma che importa? È la musica che conta, ed è eccezionale. Responsabile di cotanta meraviglia la tivù belga: per essere uno dei popoli più noiosi al mondo, c’è da dire che avevano gusti televisivi singolari e apprezzabili. Quest’edizione è abbastanza scrausa (pellicola rigata, scaletta rimontata in maniera opinabile) ma sembra che presto ne uscirà una versione filologica (che non mancherò di procurarmi, figuratevi). Tornando sulla terra: oggi, tale Roberto Dal Bosco, muratore mantovano ventottenne (“un timido”, secondo suo nonno), ha tirato sul collo del premier un treppiede fotografico. Per buona educazione, nessuno a sinistra di Eichman può dire ciò che pensa. Buon anno. (Dvd; 31/12/04)

ddv5105b508 – Il capolavoro The Fog of War di Ellis Morris, USA 2003, e poi Destra di governo e Sinistra televisiva
Premio Oscar 2004, il lacerante ritratto dell’ottantacinquenne Robert McNamara. Segretario della Difesa con Kennedy e Johnson, già presidente della Ford e poi della Banca Mondiale, McNamara è stato anche il cervello dietro i bombardamenti sul Giappone nel 1944 (che, quanto a vittime, altro che Nagasaki e Hiroshima…), era nella stanza dei bottoni durante la crisi dei missili a Cuba e ha avuto un ruolo controverso nell’escalation della guerra in Vietnam. Il vecchiaccio ha carattere da vendere: è lucido, cinico, intelligente e para ogni colpo predisposto dalla regia, umanamente comprensiva ma storicamente e politicamente per nulla accomodante. L’intervista diventa una seduta psicanalitica e si scava nella rimozione interiore, negli alibi, nel senso di colpa e anche nel desiderio di perdono e redenzione. The Fog of War riesce a farci commuovere di fronte a un uomo che ha deciso la vita (e la morte) di molti e ne è consapevole: Morris è bravissimo nell’organizzare il materiale, nell’incalzare il politico, nel sottolineare con immagini perfette ciò che ci viene detto. Un documentario coi controcazzi che parte da un uomo e diventa un trattato sulla natura umana, musicato con classe da Philip Glass. Intanto, qui da noi: La Russa e Gasparri fan cagnara parlamentare per la faccenda del treppiede. È gente che andava all’università con le spranghe, per dire. Calderoli invece teme un colpo di stato (ma l’avete già fatto voi, sveglione!) e – forse dimenticando quella cosina là… credo si chiami separazione dei poteri – ha chiesto al degno compare Castelli di disporre un’inchiesta sul magistrato che ha lasciato libero il blando attentatore. Calderoli ringrazi l’imponderabile Caso che l’ha portato ad essere ministro della Repubblica (!), perché in una società giusta sarebbe in coda ad aspettare un immeritato sussidio di disoccupazione. Dietro a Castelli, Gasparri e La Russa, ovviamente. E per questa bella Destra di governo, c’è sempre anche la Sinistra televisiva a ricordarci che non ne usciremo mai: il primo gennaio RaiTre ha trasmesso il Concerto di Capodanno della Banda Osiris, un programma divertente come un rastrello nelle gengive. Abilità strumentale indiscutibile e qualche invenzione orchestrale al servizio di un umorismo agghiacciante. La regia pare improvvisata ed è spesso fuori tempo e inquadra con allarmante frequenza la platea (semivuota) dove a 78 denti ride come una matta solo Serena Dandini, sponsor di un’operazione che dà la sensazione (sicuramente ingenerosa, ci mancherebbe) che a RaiTre, se fai parte della banda, hai svoltato, perlomeno per un po’. Qualche tempo fa, a Parla con me (egoriferito a partire dal titolo) Michele Santoro, sostenendo che la Sinistra non avesse ancora imparato a fare televisione, ha chiesto provocatoriamente alla Dandini: “Ma quando la Sinistra tornerà al governo, chi la farà la tivù? Tu?!”. E la dentona ha riso, senza comprendere la domanda. E intanto si ramazzano ascolti infinitesimali (in ragione di programmi fatti presuntuosamente male e brutti, non di chissà quali complotti berlusconiani o dell’Auditel), dimenticando che il destinatario finale dei programmi dovrebbe essere il pubblico, cioè la gente. Che in fondo in fondo gli fa schifo, comincio a credere, alla Dandini come ai DS. (Dvd; 2/1/05)

ddv5106509 – Kitsch e potenza sonora in The Song Remains the Same di Peter Clifton e Joe Massot, USA 1976, e il futuro di Israele e Palestina
Il Dirigibile di Piombo, nonostante abbia fregato i piani di volo ad alcuni musicisti meno fortunati (Willie Dixon, Small Faces, Jeff Beck, Spirit, bluesmen assortiti etc.), è stato innegabilmente il gruppo hard rock più fantasioso, potente ed evocativo che la storia ricordi, mantenendo con augusta spocchia il primato e senza cadere nelle trappole delle reunion celebrative e dei dischi inutili. Adesso, dopo anni di ricerche, masterizzazioni e ritocchi, è uscito un clamoroso doppio supporto chiamato immodestamente Dvd, ma se volete vedervi la sublime e abietta zozzura di questa band titanica durante gli anni d’oro, dovete procurarvi l’inadulterato The Song Remains the Same, controverso rock flick che li riprende in concerto al Madison Square Garden del ’73, lardellando il tutto con immagini di finzione girate in Inghilterra, Scozia e Galles. Queste sublimi vaccate raccontano in maniera obliqua l’estetica del gruppo: Tolkien, la mistica dei fuorilegge, gli ideali hippie, il ritorno alla natura, l’esoterismo… Prima di sentire gli Zepp in concerto passano 12 interminabili minuti in cui subiamo, nell’ordine: il manager Peter Grant che entra in scena sterminando una gang rivale di cui fan parte l’Uomo senza volto e l’Uomo Lupo, giuro; il boccoluto Robert Plant in location rurale con famiglia; John Paul Jones con grottesca acconciatura che racconta fiabe ai figli (spaventandoli a morte, direi); John Bonham che coltiva la terra; il luciferino Jimmy Page che suona la ghironda in un bosco incantato. Poi la musica parte ed è decisamente goduriosa. Ma per coprire i lunghi assoli la regia ci regala ulteriori genialate. In No Quarter c’è una confusa storia con un gruppo di cavalieri mascherati guidati da Jones che, poco prima, suonava un immenso organo da chiesa sembrando Herbert Lom in La Pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau. In The Rain Song tocca a Plant, cavaliere pellegrino per lande desolate fino all’assalto di un maniero da cui trae in salvo una vacua biondina. In Dazed and Confused Page scala una montagna per incontrare un vecchio se stesso, con tanto di lanterna come nella busta interna dell’album IV. Infine, durante il monumentale assolo di Moby Dick, vediamo Bonzo dilettarsi con un dragster e addestrare il piccolo Jason. Le riprese live, su un palco minuscolo e spoglio, non sono clamorose, la musica sí: Plant urlacchia, Page incanta con l’archetto, Bonzo squassa la batteria, Jones tiene le fila. Questi hanno scorticato il blues, con incursioni vichinghe in Kashmir, Giamaica, Marocco e Louisiana, e gli si perdona tutto, anche un prodotto cafone come questo film. In serata ho anche visto, su RaiTre, il documentario Promesse di Justine Shapiro e B.Z. Goldberg, ritratto a più voci di bambini israeliani e palestinesi, sovrastati da una realtà di guerra, paura e frustrazione. Tolta qualche ingenuità, si evitano il consolatorio e il piagnisteo e ne risulta un buon lavoro, non clamoroso, ma con momenti di tenerezza e squarci di verità. Ben scelti i protagonisti con Shlomo piccolo studioso della Torah, Moishe colono cazzoso, due gemelli laici, un corridore palestinese protagonista dell’Intifada, le figlie di un dirigente del FLP ancora in attesa di accusa formale e infine Mahmoud, il piccolo dal volto angelico che vuole diventare uno hezbollah e non crede che il regista (cui s’è affezionato, credendolo americano) sia un ebreo come gli altri e fornisce una sua teoria sugli ebrei ebrei, da combattere. Documentario non ideologico, da un lato tragico, ma anche capace di trasmettere la visione fiduciosa che può avere un bimbo. Ah: dopo che il senatore a vita Mario Luzi, ha detto cose di lancinante buon senso, Gasparri ne ha chiesto le dimissioni e Calderoli s’è così espresso: “Disconoscevo che il poeta Luzi esistesse al mondo”. Questi, il conflitto israelo-palestinese ce l’hanno in testa, altroché. (Dvd; 6/1/05)

ddv5107510 – L’incredibile Con Air, di un autentico cane, USA 1997
Questo film è uno tsunami di merda, così orrendo che, nella categoria dei film pacco, rasenta la perfezione: è tutto talmente fuori misura che diventa quasi bello. Ho detto quasi, eh? Cameron Poe (il tragico Nicholas Cage, calvo coi capelli lunghi) è finito in carcere perché ha ammazzato impulsivamente un ubriacone che importunava sua moglie incinta. Ha pagato il debito con la giustizia facendo flessioni, imparando lo spagnolo e l’arte degli origami (e fin qui siamo già a livello Top Secret). Il giorno in cui ottiene la libertà provvisoria lo imbarcano su un aereo dove c’è la peggio feccia delle carceri statunitensi, tra cui un John Malkovich psicopatico e uno Steve Buscemi maniaco pedofilo. Come è prevedibile (anche se mancano passaggi logici e abbondano voragini di sceneggiatura), l’aereo viene sequestrato e il nostro eroe deve far buon viso a cattiva sorte. Su di lui fa affidamento uno sceriffo che ha la faccia da cretino di John Cusack. Ovviamente finirà benissimo con una conclusione pirotecnica a Las Vegas. Tutto esageratissimo, battute atroci, improvvise manifestazioni di dolore o giubilo come se si recitasse in una filodrammatica del basso Piemonte, facce scolpite nel marmo e montaggio impazzito, senza senso alcuno se non dar l’impressione del movimento. Un filmaccio bestiale commesso da tale Simon West, al cui confronto una porcata immane come Armageddon fa la figura di un Bergman d’annata. Okay: e allora perché l’hai visto? Perché volevo ridere, ragazzi miei: come in tutti periodi di relativa vacanza, sono stordito dalla visione sadomasochistica dei telegiornali e le notizie più importanti di queste due settimane sono risultate: a) se i cadaveri italiani dispersi a causa dello Tsunami fossero o meno bruciati dai locali (impossibile dire se sì o no, ma tant’è ogni giorno il dubbio è stato riproposto per diversi minuti); b) se i bambini orfani ricoverati negli ospedali fossero rapiti (idem c.s.); c) il commento del Papa su qualunque argomento, dallo Tsunami all’arrivo dei saldi; d) i saldi, con inutili interviste ai passanti su cosa avessero comprato o meno e perché; e) varie ed eventuali marchette pubblicitarie. Per cui, credetemi, una schifezza come Con Air, alla fin fine, è quasi un elisir. (Diretta su RaiDue; 7/1/05)

ddv5108511 – Il deludente Giornata nera per l’ariete di Luigi Bazzoni, Italia 1972 e altre cose, tra cui: sono immortale!
Tanto, son vivo per miracolo: venerdì scorso, andando a Genova al matrimonio di Ferro, ho fatto un testacoda sulla Serravalle, dove cominciano le curve dopo Ronco Scrivia. Andavo neanche forte, ma si stava alzando una nebbia insidiosa e l’asfalto era umido. Barbara mi dice: cautela. Io rispondo da maschio cretino e poi, in curva, vedo davanti a me un banco di nebbia. Do una toccatina allo sterzo e la Ka diventa un toboga. Per fortuna non stacco il piede dalla frizione, perché facciamo qualche decina di metri all’indietro e una macchina ci supera mentre noi siamo contromano (ma marciando per inerzia nella direzione giusta). In quei pochi secondi non ho rivisto il film della mia vita ma ho pensato ai due nazisti dell’Illinois in volo nei Blues Brothers. Poi la macchina – senza mia volontà alcuna – ha attraversato le due corsie e s’è lentamente appoggiata alla massicciata sulla minima corsia di soccorso, graffiando giusto il paraurti. Potevamo schiantarci, essere investiti o semplicemente fermarci in mezzo alla strada e venire travolti, ammazzando qualcuno. Niente di tutto ciò: statisticamente siamo nell’altamente improbabile e ci sarebbero tutti gli estremi per un clamoroso ritorno alla fede cattolica. Dopo due minuti di mutismo agghiacciante, ci raggiunge un carro attrezzi. “Ma chi l’ha avvertita?”, chiedo. E il soccorritore: “Crede di essere il primo, stasera?”. Ci ha fatto fare inversione, il sant’uomo, e siamo ripartiti, in silenzio. Arrivati a Genova, abbiamo tremato tutta la notte. Poi la vita è ripresa come sempre, e così i film. Istigato da una golosa recensione di FilmTv mi son procurato Giornata nera per l’ariete, un giallo argentiano che risulta sconclusionato, lungo, impreziosito solo dalla notevole fotografia di Storaro. Franco Nero, come in fondo il resto del cast, presenta una pettinatura risibile. Belle e originali le location a Roma, mentre delude la partitura di Morricone. Un pacco di film, tutto sommato. In questi giorni abbiamo visto anche altre cose, ma mai col dovuto impegno che richiede una seria trattazione come quella cui vi ho abituato, o miei cari lettori. Per esempio, c’è passato distrattamente Demolition Man, dell’italiano Marco Brambilla in trasferta hollywoodiana, curioso esempio di fantascienza retrò, molto anni Trenta nella semplicità produttiva (registica e scenografica) e nell’approccio brillante. Prodotto ideale per famiglie, con poca violenza esplicita. Stallone e la Bullock sono espressivi come dei comò e Wesley Snipes è inaspettatamente azzeccato e meno litico del solito. La vera trovata è nel rappresentare una società del 2036 assolutamente addormentata, coi sensi uccisi dai divieti: sono vietati fumo, sale e alimentazione grassa e il contatto fisico è fuggito con orrore: ci si dà il cinque senza toccarsi e si fa l’amore solo virtualmente. Verrebbe naturale bestemmiare tutto il tempo, ma il turpiloquio è punito da onnipresenti rivelatori sonori e se si finisce nei criopenitenziari, durante il congelamento t’insegnano a fare la calzetta: Stallone che si lamenta perché sente la prepotente spinta a far la sartina rimane la cosa migliore di un film poverello e moscetto. Troppo raffinato per il grande pubblico, ma anche troppo sfigato per il pubblico colto. Non so che cos’abbia fatto dopo, il Brambilla, ma questo suo Demolition Man m’è simpatico come tutti i brutti anatroccoli. Decisamente odioso, invece, Qualcosa è cambiato con Jack Nicholson gigione nella parte del misantropo monomaniaco, omofobico e razzista. Ovviamente portato sulla retta via da un artista gay sensibilissimo e una cameriera umanissima col figlio malatissimo, Helen Hunt. La pappa intossicante si trascina per due ore e venti minuti in cui non riusciamo a schiacciare Off sul telecomando, totalmente irretiti dal crescendo di minchiate. Resistiamo nella speranza di un colpo di coda, e invece, Qualcosa è cambiato non cambia proprio un cazzo e la storia va a finire nel più prevedibile dei modi. Lacrimevole, falso, edificante e ipocrita – caratteristiche intuibili fin dai primi 5 minuti di visione -, questa stronzata ha fatto vincere due Oscar a Nicholson e alla Hunt ed è pure tenuto in gran conto da diversi critici. Anche se sono immortale, non valeva proprio la pena vederlo. (Vhs registrata da RaiUno; 19/1/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 51)

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