Wermacht – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 08 Mar 2025 21:00:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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Wagner, la rivoluzione e l’irresistibile sound delle chitarre elettriche https://www.carmillaonline.com/2021/08/09/rocknroll-gods-wagner-e-lirresistibile-sound-delle-chitarre-elettriche/ Mon, 09 Aug 2021 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67339 di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger. I am invulnerable, I see no foe. I’m related to the earliest time, and to the latest. (Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione. Il dio Pan è la Rivoluzione (da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal [...]]]> di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger.
I am invulnerable, I see no foe.
I’m related to the earliest time, and to the latest.

(Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione.
Il dio Pan è la Rivoluzione

(da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal libretto rosso di Mao o dai sacri testi di Marx, Engels e Lenin. Anche se quest’ultimo, predicendo che il comunismo sarebbe derivato dall’applicazione dell’uso della corrente elettrica al socialismo, un po’ ci aveva azzeccato.

Ad anticipare l’importanza del sound (che non è soltanto dato dagli strumenti suonati seguendo uno spartito oppure dal suono “naturale” degli stessi o, ancora, dalla voce che canta intonata seguendo una melodia definita) come mezzo o media per far breccia nella corazza, anche inconsapevole, dell’Io, fu, nel XIX secolo, soltanto Richard Wagner (1813-1883), sia attraverso la costruzione delle sue opere musicali che in un suo scritto della metà dell’Ottocento, L’opera d’arte dell’avvenire. Il musicista tedesco è stato infatti il primo a cogliere l’importanza comunicativa del respiro, del sospiro e del fiato, della furia e del brusio delle voci e dell’uso e del ronzio di suoni e strumenti non convenzionali (ad esempio gli incudini destinati a sostituire i timpani in alcune parti orchestrali dell’Anello dei Nibelunghi) oppure difficilmente ammessi dai canoni estetici e musicali che avevano governato la musica e il dramma lirico fino ad allora1, in un contesto musicale considerato “colto”.

Nella concezione wagneriana il sound costituiva un’integrazione della parola cantata, superandola nell’intento di “significare” e coinvolgere gli spettatori/ascoltatori:

Come quando Sigfrido ascolta Brünnhilde o come quando Kundy parla «roca» e «a tratti, come nel tentativo di ritrovare la parola»2, il discorso si riduce alle modalità fisiologiche della voce: rumori appena udibili, svincolati dalla bocca che li emette e dalla volontà di colei che li pronuncia, aumentano fino a «risuonare possenti» o assoluti e viaggiare poi per lo spazio e il tempo sotto forma di sound che «riecheggia lontano».
E’, questo, un effetto acustico che né il Medioevo dei protagonisti dell’opera né il XIX secolo di Wagner avrebbe potuto realizzare, ma che le nostre orecchie conoscono a memoria: notte dopo notte gli impianti di amplificazione della musica rock (amplificatori e delay, equalizzatori e mixer) producono questi suoni stereofonici, tracce di voce e rimbombi. In altre parole, quelle di Jimi Hendrix: la Elsa di Wagner è la prima abitante di Electric Ladyland e ciò che lei descrive con incredibile precisione tramite i termini «risuonare», «aumentare» e «rimbombare» ha poco a che fare con le preghiere e il credo cristiano, ma anticipa semplicemente la teoria del feedback positivo e degli oscillatori.
Non potendo, con i requisiti tecnici dell’epoca, realizzare questo feedback sonoro, Wagner lo compose3.

L’effetto suscitato dal sound wagneriano è quello del superamento della parola (che ricordiamolo sempre era, nei libretti d’opera, “parola scritta” così come “scritta” era anche sempre la partitura), ma anche della norma stabilita dal canto gregoriano che aveva disciplinato l’espressione musicale vocale per i secoli passati. E’ un ritorno alla Natura e ai suoi suoni che i nastri magnetici nel XX secolo permetteranno di inserire direttamente insieme agli strumenti e alle voci nella musica registrata ed incisa. Valga per tutti l’esempio di un brano dei Pink Floyd, Grantchester Meadows, compreso nel doppio album Ummagumma.

Sempre secondo Kittler: «poiché in Wagner testo e partitura si motivano sempre a vicenda, l’oscillare del libretto tra rumore naturale e strumento dell’orchestra, tra random noise (rumore casuale) e segnale di caccia» gli permette di dare vita ad effetti proibiti «fin tanto che la musica è stata dominata dalle partiture e le partiture dalla scrittura. Ma il nuovo medium di Wagner, il sound, fa saltare in aria seicento anni di dominio della lettera, ovvero di letteratura»4. E di dominio del cristianesimo in ambito artistico e morale, andrebbe aggiunto, poiché

ciò che è qui in gioco è la libertà della musica: per la prima volta nella storia della composizione occidentale, il Ring congeda il dio cristiano la cui celebrazione, a partire dal canto gregoriano, ha limitato tutti gli eventi sonori. Il poeta Wagner cessa di […] compiere solenni pellegrinaggi a Roma per invocare invece nuovamente gli antichi dei e dee, mentre il musicista compone il Padre Reno come inizio pre-razionale in cui armonia dei sovratoni e brusio, arte e natura sono indissolubilmente legati5.

Se salta però il dominio della lettera/partitura e della concezione cristiana dell’armonia del mondo diventa evidente che a saltare ben presto sarà, più in generale, l’ordine del mondo, non soltanto artistico e religioso. E non è certo un caso che due delle opere teoriche più importanti di Richard Wagner, Arte e rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire, siano state scritte nel 1849, quando l’eco della primavera dei popoli che tra il 1848 e il 1849 aveva scosso l’ultima Europa aristocratica e imperiale non si era ancora spento dopo l’apparizione sulla scena del teatro del mondo di un nuovo, titanico protagonista: il proletariato, di fabbrica e non.

Portatore, oltre tutto, di un nuovo immaginario legato alla fabbrica, alle sue lotte, al suo “rumore” che soltanto poco più di sessant’anni dopo il futurista italiano Luigi Russolo avrebbe contribuito a far penetrare nell’estetica musicale e artistica moderna. “Rumore innaturale” (macchine, tram, caos metropolitano e della guerra) che avrebbe affiancato nel nuovo paesaggio urbano e artistico il “rumore naturale” inseguito da Wagner. Rumore di una tragedia annunciata (guerre, inquinamento, sfruttamento delle macchine e del capitale sull’uomo, la specie e la natura) che l’arte degli inizi del XX secolo non avrebbe più potuto ignorare, costretta com’era a copiarne ormai anche gli aspetti più devastanti.

Con buona pace dei “delicati”, su cui avrebbe poi ironizzato Louis Ferdinand Céline, il nuovo paesaggio dello scempio entrava a far parte del mondo letterario, figurativo e sonoro. Paesaggio cui l’avvento dell’elettricità avrebbe dato un contributo devastante e determinante dal punto di vista del suono (registrato o prodotto che fosse). Ecco dove, forse, l’utopia leniniana del socialismo più l’elettricità si sarebbe maggiormente avvicinata all’avverarsi, escludendone la sempre indeterminata e confusa nozione di “comunismo”.

I Greci avevano un dio che abitava nel regno dell’acustica. Quando i pastori sognavano e si rompeva la calma del meriggio, Pan rimbombava improvvisamente nelle orecchie di tutti. [Ora] si dice che il grande Pan sia defunto, ma gli dei delle orecchie non possono morire: ritornano sotto la maschera dei moderni impianti di amplificazione. Ricompaiono in forma di canzone rock6.

Lacan ha affermato che: «Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi»7, da qui deriverebbe il fatto che gli argini stabiliti dall’ordine, qualunque esso sia, si rompono prima di tutto nella testa ad opera di un suono, di una parola, di un rumore o di un urlo. Come afferma ancora Kittler: «Nessuna parola, nessun muro e nessun argine tra dentro e fuori possono resistere al sound, perché questo costituisce ciò che in musica non si può mettere per iscritto»8.

Il sound è la manifestazione immediata di ciò che si può ottenere dalla tecnologia che la musica ha a disposizione per esprimersi, a seconda delle epoche.

The Dark Side of the Moon, ha venduto otto milioni di dischi dal 1973, anno di uscita, al 1979 e, secondo le ultime stime (2011), ha ormai sfiorato le 45 milioni di copie […] E pensare che tutto era iniziato in modo così semplice. Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre studenti di architettura nell’Inghilterra degli anni Sessanta, si esibivano con le loro chitarre nei teatri di periferia suonando vecchi classici di Chuck Berry. Si chiamavano The Architectural Abdabs, un gruppo che oggi nessuno ricorda più. Un bel giorno di primavera del 1965, si unì a loro un chitarrista e cantante che inventò il marchio Pink Floyd, cioè il nome della band e il sound che la caratterizza: amplificatori sovramodulati, mixer come quinto strumento, suoni vorticanti nello spazio e tecnologia delle basse frequenze combinata con l’optoelettronica fino ai limiti del possibile. Con buchi neri al posto degli occhi, Syd Barrett apre al rock’n’roll il dominio dell’astronomia, Astronomy Domine […] Poi, l’uomo che ha inventato i Pink Floyd sparisce da tutti i palchi e sprofonda in una terra di nessuno medica tra psicosi da LSD e schizofrenia, mentre il suo gruppo trova un altro chitarrista e insieme a lui la formula del successo9.

Anche se è vero che i dati di vendita e i flussi di denaro della macchina discografica capitalistica vengono nutriti dal flusso decodificato dell’alienazione sociale, è pur sempre vero che essa si affida ad una legge non scritta che territorializza la normalità e prescrive ai folli di rimanere su terreni ben definiti e soprattutto extra moenia: è la legge dei grandi architetti della giurisdizione sociale, della salute mentale, delle istituzioni politiche e delle regole del lavoro salariato.
Tutto dovrebbe fondersi in una sorta di circolo virtuoso in cui l’ascolto musicale costituisce soltanto un aspetto importante di un ben congegnato panem et circenses, attraverso cui controllare i flussi dell’immaginario di massa.
Ma, come afferma ancora Kittler (1943-2011) nel suo testo:

I cosiddetti Sessantottini che oggi svolazzano per i media soltanto perché hanno influenzato la mia generazione sono infatti delle chimere ipocrite: non era necessario intonare ruggiti da Vietcong o ricorrere alle armi per battere il ritmo del nostro tempo: c’era […] la musica pop. Ma quest’ultima, una volta tanto, non giunse dai maledetti Usa. Non sarebbe stato possibile altrimenti, nel 1964, quella che gli americani ammirarono e allo stesso tempo temettero: la British Invasion. Di fronte ai Beatles Elvis Presley abdicò alla sua corona. Potenti come lo era stato un tempo il dio Dioniso, giovani voci e chitarre sfondarono il muro del rigido sistema di regole della Federal Communication Commission. A differenza del piccolo sassone Wagner, queste star potevano ergersi in tuttala loro bellezza su un palco illuminato da lampi. Cantavano di amore e di guerra, dai prati intorno a Cambridge, ma soprattutto di musica, perché sapevano bene quel che facevano: per un breve ma storico momento i musicisti pop inglesi spazzarono via tutte le barriere e tutti i muri che l’industria musicale capitalistica (per non dire statunitense) aveva eretto anche solo per vietare l’amore. Non esistevano più l’autore dei testi e il compositore, l’arrangiatore e l’orchestra, la partitura e l’evento sul palcoscenico come sfere separate l’una dall’altra: c’erano solo quattro musicisti che suonavano, cantavano e regolavano da soli i propri microfoni, gli echi e le tracce sul nastro, fino a ripetere l’opera d’arte totale. Così divennero eroi […] persino dei. Il prezzo da pagare per la nuova Grecia l’ha chiamato inequivocabilmente per nome Jim Morrison, la più selvaggia e geniale di quelle stelle:
«Cancel my subscription to the resurrection! / Send my credentials to the house of detention, / I’ve got some friends inside.10»11.

«Speech has become, as it were, immortal.» Queste furono le parole di Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues e i neri che lo cantavano; anche i rumori delle macchine della nave a vapore e il fiume stesso erano udibili.
[…] Cos’, il disco ha prodotto il jazz. Non poter scrivere o leggere le note non era più una ragione di morte per la musica, anche se per il miracolo di nome Swinging London ci voleva qualcosa di più. Prima il Rhythm & Blues nero doveva attraversare l’Atlantico insieme a centinaia di migliaia di soldati yankee e preparare nell’Inghilterra meridionale lo sbarco in Normandia; e dozzine di registratori a nastro della Wermacht dovevano finire, come bottino di guerra, negli studios di Abbey Road a Londra prima che la Seconda guerra mondiale potesse ritornare sotto forma di musica pop.
Invenzione e innovazione avvengono sempre nei punti nevralgici di connessione, sia tecnica che culturale: né il jazz né il rock’n’roll avrebbero mai potuto da soli dare il la alla Swinging London e alla British Invasion degli Stati Uniti. A esplodere tra amplificatori Marshall, chitarre soliste e mormorii di microfoni fu il feedback continuo tra tecnologia europea, armonia musicale romantica e analfabetismo musicale americano. Per scrivere canzoni pop non è necessario imparare da giovani il pentagramma, anche se male non fa; è però fondamentale che l’ingegnere del suono e i registratori siano all’altezza del compito12.

La rivoluzione tecnologica delle pedaliere, dei distorsori, dei wah wah, delle Fender Telecaster e Stratocaster stava avvenendo però, all’insaputa di tutti, nei laboratori in cui tecnici del suono come Dick Dale e altri cercavano nuovi strumenti per ridurre il numero di membri di ogni singolo gruppo (il distorsore e il fuzz uccisero la presenza dei saxofonisti nei gruppi strumentali e surf dei primi anni Sessanta), aumentare il fascino del sound ispirato agli echi e ai flussi delle onde dell’Oceano ed evitare l’uso costoso di studi di registrazione in cui aggiungere artificialmente suoni che non era prima possibile realizzare con gli strumenti normali anche se elettrificati.

Furono i ragazzi delle periferie americane ed europee, a scoprire in quelle nuove apparecchiature gli strumenti di un suono che avrebbe danneggiato cervelli e norme sociali ben più al di là delle parole, delle strofe o degli slogan, pubblicitari e politici. Mentre Barrett inventava il suono cosmico a Londra, dall’altra parte dell’Atlantico e ancora sulla costa del Pacifico un giovane afro-americano di Seattle, Jimi Hendrix, assolutamente privo di educazione musicale, si preparava ed iniziava a stravolgere il suono delle chitarre e il sound del secolo (e di quelli a venire). E così pure iniziavano a fare chitarristi come Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page, Jerry Garcia, John Cipollina, Jorma Kaukonen ed infiniti altri, poi ripresi da centinaia di migliaia di ragazzi che suonavano, improvvisavano, distorcevano e storpiavano suoni e parole di canzoni che avrebbero dovuto rimanere innocui inni all’amore, alla gioventù o, al massimo, ai suoi problemi di solitudine affettiva. Il Brain Damage collettivo era stato ormai fatto e il medium era diventato l’autentico messaggio. Come aveva già affermato il sociologo e filosofo canadese Marshall Mc Luhan.

Lo testimoniano cronache come quella dei primi anni Settanta che qui riportiamo, che dimostrano come nelle città industriali l’elettricità avesse portato un nuovo modo di intendere l’arte, la musica, la cultura e, soprattutto, il ruolo sociale dei giovani.

E’ sabato pomeriggio alla Difiore’s House of Music, situata nel West Side di Cleveland, Ohio. Quindici ragazzi delle scuole superiori stanno provando varie chitarre Les Paul, suonando, attraverso gli amplificatori Marshall, Peavey e Fender, ognuno fuori tempo rispetto agli altri, cercando di riprodurre al meglio i riff preferiti rubati a Jimi Hendrix, Jeff Beck e Leslie West. Nel rumore prodotto nulla sembra avere senso. Uno dei ragazzi, che indossa una giacca dell’esercito, sta cercando di suonare uno standard blues, un altro ha appena capito che, se riuscirà a far tirar fuori i soldi al padre per una Les Paul Deluxe, forse riuscirà a suonare correttamente tutti i break di Black Dog dei Led Zeppelin, mentre un altro ancora ha appena fatto conoscenza con un pedale WAH WAH e sta cercando furiosamente un accordo, con il piede destro che pesta sul pedale cercando di ottenere l’effetto più potente possibile come se si trattasse di un martello pneumatico munito di turbo compressore.

Nulla sembra avere più qualsiasi senso. Persone sensibili che hanno portato lì i loro figlioletti di sei anni dopo averli accompagnati alla lezione di tromba stanno artigliando le porte cercando di uscire fuori il più in fretta possibile per trovare sollievo da quel baccano infernale! I tecnici e i commessi stanno buttando giù aspirine come se fossero caramelle e guardano disperati gli orologi. Niente ha più senso. Il suono prodotto dalla brigata di Les Paul continua a crescere sempre più forte e i ragazzi sembrano scoprire ulteriori e ancor più potenti dispositivi da testare per il tramite di banchi di amplificatori dal costo complessivo molto superiore alle loro possibilità economiche, mentre i trasformatori modificano le fasi e i wah wah stanno urlando come bambini affamati e le distorsioni fanno rizzare i peli nell’atmosfera carica di elettricità. Qualcun altro ha scollegato una chitarra e l’ha lasciata sul pavimento a ronzare sulle corde a tutto volume mentre altri ragazzi accorrono sempre più numerosi e iniziano a suonare anche se i commessi cercano di strappare loro di mano le chitarre, urlando “Fuori i soldi prima!”, ma ormai ci sono troppi ragazzi, forse più di cinquanta, e adesso non solo hanno impugnato tutte le Gibson e le Fender disponibili ma anche le loro copie giapponesi di costo molto inferiore. Un tizio ha collegato in serie due amplificatori Peavey e le vetrine iniziano a tremare come per un terremoto, mentre nel locale di servizio assistenza due lavori di riparazione sono stati rovinati poiché le mani dei tecnici tremano troppo forte per poter fare delle saldature accurate e nel negozio vicino il barbiere ha rischiato di tagliare la gola di un cliente per lo stesso motivo e il volume continua a crescere sempre di più, sempre più forte e ancora di più e ancor più ragazzi arrivano fino al momento in cui ogni amplificatore ed ogni chitarra del negozio risulta in uso da parte di qualcuno e anche se LA POLIZIA E’ STATA CHIAMATA, MA NON PUO’ ARRESTARE TUTTO CIO’ CHE STA AVVENENDO, QUALUNQUE COSA SIA!13

Complici la guerra in Vietnam, le proteste studentesche e per i diritti degli afro-americani e di tutte le altre minoranze, la tecnologia del suono si vide stravolta nell’uso e nel senso del suo prodotto. Come le trombe suonate dai sacerdoti davanti alle mura di Gerico avrebbero contribuito a farle crollare, così il sound delle chitarre elettriche contribuì a far crollare ben altri muri, dentro e fuori la psiche dei ragazzi, ricreando quella specie di mente bicamerale, in cui era possibile percepire uditivamente e collettivamente oltre le parole la voce degli dei, di cui avrebbe parlato Julian Jaynes in un suo celebre studio del 197614.

Lo comprese Bob Dylan, in anticipo su tutti, quando abbandonò già a metà degli anni Sessanta il suono acustico per abbracciare, con grande scandalo e disagio dei custodi della tradizione folk di sinistra, quello elettrico, impugnando egli stesso sul palco, come avrebbe fatto per tutti gli anni a venire, una grintosa chitarra elettrica.

Tutto ciò però, sul medio periodo, creò anche alcuni imprevisti e paradossi. Ad esempio, qui nell’italietta di San Remo, un’intera generazione di giovani potenziali rivoluzionari (scazzati da famiglia, lavoro, scuola e festival televisivi) iniziò a scambiare ogni rocker elettrico straniero per un ”compagno”.
Ricordo ancora perfettamente come ad un concerto dei Family, a Milano, il pubblico esplodesse in una salva di slogan e pugni chiusi sollevati quando il cantante, Roger Chapman, si asciugò il viso dal sudore con un asciugamano rosso. Lui stava facendo solo quello, ma il pubblico lo scambiò per ben altro segnale.

E così pure gli scontri del Vigorelli per i Led Zeppelin o a Torino per i Santana o, ancora, quelli per contrastare i concerto organizzati dal “sionista” David Zard, impresario musicale che voleva impossessarsi della “nostra” musica “commercializzandola”. Bufale ideologiche megagalattiche che tendevano a nascondere che quella musica che ci parlava così tanto profondamente era nata dal e per il mercato discografico, anche se gli scontri nascevano spontaneamente dalla furia di migliaia di giovani che non avevano affatto bisogno della provocazione ”fascista” per scatenare la loro rabbia, così come i perbenisti e gli sbirri dell’Unità o del Manifesto invece amavano e amano ancora raccontare (come nel caso dei fatti del G8 di Genova del 2001), per cercare di unire fattivamente sound e vita quotidiana.

Eravamo giovani, potenziali delinquenti e le schitarrate e le distorsioni davano voce a qualcosa che non sapevamo ancora esprimere a parole e che, forse, soltanto i situazionisti avevano saputo già esprimere politicamente, anche se in forme meno spontanee e già pronte per essere ricodificate dalla pubblicità futura. Poiché, alla faccia anche di Guy Debord, solo la vera rivoluzione e la sua forma più spontanea ed immediata, l’insurrezione e l’insorgenza di massa anche priva di parole, will not be televised (come aveva già affermato il grande poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron nel 1971). Esprimevamo negli atti una sorta di general intellect spontaneo di cui una miriade di maestri, filosofi e professori universitari tentò di impadronirsi, soffocandolo e rinchiudendolo sotto l’ala di improbabili cappelli ideologici.

Per quella generazione, per la mia generazione si può parlare, a proposito di quegli anni, più che di coscienza di classe di una pre-coscienza che superava il limite formale della coscienza di classe per ricollegarci, inconsapevolmente, a richiami più antichi e liberatori provenienti dall’intera storia della specie e dalle sue esigenze primarie più profonde e rimosse dall’ordine giudaico-cristiano e borghese in cui eravamo cresciuti e di cui costituivamo il prodotto “degenerato”. In questo forse si andava delineando un comunismo più concreto e più riconducibile alle esigenze dell’intera specie umana e alle sue esperienze. Come affermò Amadeo Bordiga in quegli stessi anni, ben lontano dall’accettare i capelloni e gli urlatori (come li avrebbe definiti ancora in un pessimo articolo del 1968):

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale15.

Le spoglie mortali di Jim Morrison giacciono oggi sepolte a Parigi, nel cimitero di Père Lachaise. L’ultimo autentico sacerdote del dio Pan, che nel 1969, durante il cosiddetto Miami Incident, invitò gli ascoltatori, mischiandosi poi tra di loro, a spogliarsi e ad amarsi per liberarsi da ogni giogo mentale, sociale, politico e culturale16, ha chiuso idealmente il cerchio ricongiungendosi al ricordo degli ultimi caduti della Comune presso il cosiddetto “muro dei federati” e ai più coraggiosi e visionari insorti dell’Ottocento che avevano brindato allo stesso dio durante i loro banchetti rivoluzionari.


  1. Si legga in proposito: Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei. Wagner e i media senza dimenticare i Pink Floyd, L’orma editore, Roma 2013  

  2. Richard Wagner, Tutti i libretti, UTET, Torino 1996, p. 732  

  3. Friedrich Kittler, Respiro del mondo. Tecnologia dei media in Wagner, ora in F. Kittler, op. cit., pp. 27-28  

  4. F. Kittler, op. cit., pp. 30-31  

  5. F. Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., p. 88  

  6. Friedrich Kittler, Il dio delle orecchie in F. Kittler, op.cit., pp. 47-48  

  7. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003 (prima edizione 1973), p. 190  

  8. Ivi, p. 51  

  9. Ibid., pp. 49-50  

  10. The Doors, When the Music’s Over, 1967  

  11. Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., pp. 97-98  

  12. Ivi, pp. 94-95  

  13. Peter Laughner (poi chitarrista dei seminali Pere Ubu di Akron, Ohio), recensione del long playing, di Lou Reed, Rock’n’Roll Animal in “Zeppelin Magazine”, 7 febbraio 1974.  

  14. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano 1984  

  15. Amadeo Bordiga, Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965  

  16. «Siete solo una massa di fottuti idioti! Vi fate dire quello che dovete fare. Per quanto tempo volete andare avanti così? Per quanto ancora vi farete calpestare? Forse vi piace, forse vi fate calpestare volentieri. Vi piace, forse, che qualcuno vi ficchi la testa nella merda. Siete tutti una massa dis chiavi che si fa calpestare […] Cosa volete fare per opporvi a questo? Che cosa intendete fare? […] Ah, vorrei vedere un po’ più di nudità qui! Spogliatevi e amatevi!» cit. in R. Kittler, op. cit. p. 110, che continua poi ancora ricordando che il batterista dei Doors, John Densmore, vide subito dopo il cantante balzare giù dal palco tra il pubblico della sala da ballo. «Le danze si fecero sempre più frenetiche, l’abbigliamento sempre meno appropriato. Il giorno dopo quando l’esercito dell’impresa di pulizie entrò nel Dinner Key Auditorium trovò abiti da teenager sparsi dappertutto per la sala concerti e li ammucchiò in un angolo fino a che la pila non raggiunse il metro e mezzo di altezza e i tre metri di diametro, come se l’usanza, per nulla greca, di celebrare vestiti gli dei avesse finalmente trovato la sua giusta fine […] Jim Morrison, il colpevole, dovette comparire di fronte a una giuria di Miami (per l’accusa di atti osceni) che lo condannò a sei mesi di reclusione; il giudice fu più benevolo e commutò la sentenza in un’ammenda di 500 dollari». (Kittler, op. cit., pp. 110-111)  

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“Andonno e l’ammazzonno”: Padule di Fucecchio, 23 agosto 1944 https://www.carmillaonline.com/2016/03/10/andonno-e-lammazzonno-padule-di-fucecchio-23-agosto-1944/ Wed, 09 Mar 2016 23:01:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29070 di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore. Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” [...]]]> di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore.
Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” oltre che ad altre pubblicazioni politiche e giuridiche, ha dedicato alla ricostruzione dell’evento molti anni di attività. Sia in veste di magistrato che di storico.

Ma assimilare il suo ultimo testo sull’eccidio del 23 agosto 1944 ad un’opera di carattere soltanto storico o giuridico sarebbe estremamente riduttivo.
Nell’arco dei diversi anni che l’autore le ha dedicato, la ricerca si è trasformata in un’autentica ricerca partecipata in cui in gioco non sono entrati soltanto i testi consultati, le sentenze emesse, le testimonianze degli accusati e degli accusatori (ovvero dei soldati ed ufficiali tedeschi autori diretti o responsabili della strage e dei superstiti della stessa), ma anche le sue personali memorie famigliari, la passione e la lingua dei sopravvissuti, le testimonianze inscritte nel paesaggio e nel tempo e anche quella, apparentemente muta, di coloro che egli chiama i diversamente vivi. I morti, appunto, che parlano ancora attraverso le parole, i sogni, gli incubi e gli stessi silenzi dei loro congiunti rimasti in vita.

Un’opera unica nel suo genere, che scatena nel lettore un’autentica tempesta di sentimenti, passioni, dolore e orrore. La stessa che lo stesso Baiada non nasconde di aver vissuto sia come magistrato che come ricercatore e scrittore. “Scrivo con le lacrime agli occhi” afferma ad un certo punto l’autore e in un’altra parte spiega: “L’esito di questo libro riconduce all’impossibilità e insieme alla necessità di dire l’indicibile, perché questa contraddizione è un altro volto della necessità e dell’impossibilità di dare un senso all’insensato, del rischio di giustificare l’ingiustizia. Il testo è nato per accumulo, poi per frammentazione, e so che non esaurisce i fatti, e che per questo si rifiuta di riordinarli in un andamento lineare. E’ una caratteristica che rivendico e che in fondo mantiene la promessa, quella appunto di non dire l’ultima parola su una strage fra le più gravi dell’occupazione tedesca in Italia, forse la più assurda. L’incompiutezza può sfidare a proseguire il cammino, la memoria non si ferma” (pag. 306)

La precisione non è la verità” aveva affermato in un suo testo Henry Matisse e, anche se il contesto della pittura moderna e quello della ricerca storica sembrano così distanti, è vero che la trasmissione delle realtà umana, sensibile ed extrasensibile (quella dei ricordi, del dolore, dei sentimenti e delle passioni), non può avvenire soltanto attraverso la fredda rappresentazione o catalogazione dei fatti mentre la loro interpretazione non può sfuggire all’influenza dell’inconscio collettivo, o anche soltanto di chi scrive o dipinge, e dei suoi percorsi. Tutti elementi che introducono in qualsiasi rappresentazione più di un elemento contraddittorio che soltanto una necessità di riordinamento e aggiustamento, detta altrimenti spiegazione, istituzionale o politica che sia, può far finta di rimuovere oppure cancellare del tutto.

C’è un sentiero del lavoro intellettuale che è difficile da percorrere, ma che è più solido e più piacevole, proprio perché non è dell’intelletto ma del sentimento. Pochi riescono ad attingerlo […] Persino le ricerche e gli studi , a volte, tradiscono questa consapevolezza, quando verificano ossessivamente i dettagli, illudendosi che la maggiore esattezza significhi migliore memoria e più condivisione” (pag.290)

E’ un tema scottante quello che Baiada, con estrema lucidità, porta alla ribalta e che contiene al suo interno diversi elementi di carattere giuridico, politico, conoscitivo e di classe. Perché anche la verità può non coincidere con la realtà. Troppo spesso, infatti, la ricostruzione delle storie delle lotte oppure delle violenze del potere diventano retoriche, pur essendo magari partite con le migliori intenzioni. Mentre le spiegazioni che vogliono essere definitive o complete, troppo spesso finiscono col giustificare, anche indirettamente, ciò che è ingiustificabile. La brutalità dell’oppressore viene così inserita in una strategia spiegabile, forse addirittura condivisibile; al contrario delle strategie di resistenza messe in atto dagli oppressi, che continuano ad essere molte volte considerate irrazionali o inadeguate, sia nel caso in cui prevedano l’uso della violenza sia nel caso opposto. Diciamolo pure: una mal interpretata obiettività del lavoro storico rischia così, molte volte, di colpevolizzare le vittime quanto i carnefici.

Nel leggere il testo sulla strage del Fucecchio vengono in mente in continuazione riferimenti ad episodi a noi più vicini, dalle stragi americane in Vietnam, agli agenti di polizia che ingiuriano e umiliano e torturano i giovani della scuola Diaz oppure ai tormenti dei milioni di disperati che cercano di sfuggire a guerre odiose ( ma quando mai una guerra non lo è?) finendo col ritrovarsi soltanto in una terra di nessuno (Calais, la frontiera macedone o ungherese o qualsiasi altro luogo in Europa o nel Vicino Oriente) dove, così come gli sfollati, gli sbandati, i disperati e i renitenti alla leva rifugiatisi nel padule, potrebbero essere in qualsiasi momento trasformati in corpi da eliminare e rimuovere. Con qualsiasi mezzo.

Episodi talvolta altrettanto gravi ed altre no, ma che sempre vedono tra i loro esecutori uomini e soldati comuni. Nel caso di Fucecchio soldati dei reparti esplorativi meccanizzati della Wermacht. Non delle SS che la vulgata popolare, troppo spesso, tende ad individuare come uniche colpevoli degli atti di crudeltà; mentre dal magnifico saggio “La banalità del male” di Hannah Arendt in avanti abbiamo imparato che sono troppo spesso proprio gli uomini, e talvolta le donne, comuni1 a perpetrare i crimini più orrendi soltanto perché hanno burocraticamente ricevuto un incarico

E’ la guerra” sembra essere spesso la spiegazione più ricorrente, in cui il pur sotteso intento morale finisce sempre con lo sfociare semplicemente in una giustificazione. Generale e non vera, perché, come afferma chiaramente Baiada, non si tratta soltanto di guerra.
Certo le truppe tedesche nel 1944 stavano abbandonando Firenze (dove la battaglia con gli insorti italiani appoggiati dagli Alleati si era protratta fino al 20 agosto), dopo aver già abbandonato Roma il 4 giugno.

Così “Si può immaginare che in un angolo buio la percezione della disfatta inducesse i tedeschi a lasciarsi dietro una scia di lutti […] in cui i superstiti avrebbero letto un monito indelebile: anche vincendo una guerra, mettersi contro i tedeschi costa troppo sangue […] Potrebbe esserci il sangue delle stragi nel fatto che nel volgere di un secolo la Germania, pur avendo perso due guerre, ha un peso che nel 1914 sarebbe stato inimmaginabile. La domanda sul perché, insomma, potrebbe nasconderne un’altra: per chi?” (pag.263)

Perché “intorno al Padule di Fucecchio, soprattutto lungo i suoi margini settentrionali e orientali, i tedeschi irrompono nelle case, percorrono i campi, invadono le aie, e uccidono e uccidono, anche donne, bambini, vecchi.[…] L’eccidio è in un’area povera, con legami tra vaste famiglie “ (pag.11), ed evitano accuratamente di addentrarsi nel cannellaio, il centro della palude, dove effettivamente si nascondono i membri di una formazione partigiana. “Per i tedeschi la distinzione tra partigiani e italiani è confusa quando si uccide. Ma nitida quando c’è da combattere. Non entrano nella palude, sopravvalutando la formazione partigiana, ma uccidono nella zona circostante dove non rischiano nulla […] Qui gli armati si dirigono contro i disarmati e ne fanno strage” (pag.60)

Ma all’autentica festa di morte svoltasi nel padule non partecipano nelle vesti di aguzzini soltanto soldati ed ufficiali tedeschi: ci sono anche italiani. Fascisti, in veste di interpreti, informatori, spie e guide. Spesso mascherati, con divise tedesche e cappucci per non farsi riconoscere da coloro che saranno uccisi o che vedranno le loro famiglie massacrate. Gli stessi che dopo essersi ritirati al seguito delle truppe germaniche, ritorneranno di lì a qualche anno sul luogo del delitto. Impuniti e ancora capaci di incutere timore tra i superstiti. Alla faccia di tutti i piagnistei della destra e dei “pacificatori democratici” sugli omicidi di fascisti e le vendette che sarebbero state consumate dopo la Liberazione.

La cosa più straziante e allo stesso tempo bella del libro è costituita dal fatto che a narrare i fatti, gli omicidi, gli stupri, l’assoluta arbitrarietà della violenza, la paura non è quasi mai la voce distaccata dello storico o del giureconsulto, ma la voce dei testimoni diretti, nel loro dialetto così distante dal fiorentino esibito dall’attuale premier o dai comici di regime. L’uno così vivo, nonostante tutto, e l’altro così morto.

E’ la lingua dei poveri e degli incolti a narrare, cioè proprio di coloro la cui testimonianza è spesso rimossa dai testi di storia, scritti quasi sempre dai depositari di una “istruzione” lontana dai meno abbienti. Privarli della parola può costituire infatti, troppo spesso, l’ultima e più crudele forma di espropriazione e di esclusione, facendo così che anche la memoria dei “vinti” della storia diventi patrimonio dei “vincitori”.

Ne è consapevole una delle testimoni superstiti, Maria Grazia Gallegani, che rileggendo, nel 1997, gli atti del 1945, quando fu sentita dai britannici, si domanda: ”La storia viene sempre poi, cioè, artefatta, perché non riporta mai le cose vere, non capisco perché. Come fanno i posteri poi a sape’ la verità?” – Intervistatore: “Beh, guardando questi documenti” – “Eh, lo so. Ma non corrispondono sempre, alla verità” (pag.292)

Non è il caso di Baiada che, al contrario, organizza un saggio di autentica storia orale ricostruita attraverso le testimonianza rilasciate in tempi diversi prima agli ufficiali britannici incaricati di indagare sulla strage nel periodo immediatamente successivo alla stessa, poi a carabinieri e in seguito ai magistrati dei processi. Ma raccolte anche dallo stesso autore tra i superstiti o i loro famigliari ed eredi ancora in vita.

Famigliari ed eredi cui i vari processi non hanno dato reali soddisfazioni. Così è possibile notare che “Una larga parte della strage avviene nella tenuta dei Poggi Banchieri, e stermina le famiglie dei loro contadini, dei parenti e degli sfollati che vi hanno trovato ospitalità. All’edificio padronale si accede dalla via Francesca, è una grande villa con giardino, e una targa dice: «Villa Banchieri Castelmartini, restaurata con il contributo dello Stato»; è probabile che lo Stato abbia dato più per il restauro della villa che per il risarcimento alle famiglie delle vittime” (pag.24)

A riassumere le vicende giudiziarie inerenti l’eccidio, successive alla fine del conflitto, basterebbe il titolo di uno dei capitoli: Settant’anni e quattro processi. Giustizia no.
I primi tre processi sono militari, “nessuno può chiedere i risarcimenti e di responsabilità dello Stato tedesco non se ne parla neanche; le condanne sono miti o espiate solo in parte” (pag.266). Tutti e quattro i processi, comunque, riguardano soltanto i militari tedeschi, mentre per i fascisti prosegue l’impunità iniziata con l’amnistia Togliatti.

Non a caso però nel processo di Firenze del 1948 a carico di uno dei comandanti dei militari coinvolti nell’eccidio si invocano e si ottengono le attenuanti “per coloro che, pur non appartenendo alle forze armate italiane, hanno, nel corso di un’alleanza, versato il loro sangue in una guerra comune”. Insomma poiché prima dell’8 settembre 1943 i tedeschi erano alleati degli italiani, ciò che hanno compiuto dopo quella data a danno delle popolazioni italiane può essere ritenuto meno grave. “Il giudice relatore è Enrico Santacroce: diventerà procuratore generale militare, e il 14 gennaio 1960 firmerà la sconcia «provvisoria archiviazione degli atti», lucchetto dell’armadio della vergogna” (pag.272)

Soltanto nel 2006, con il processo per le stragi di Civitella, Cornia e San Pancrazio, arriverà una prima condanna della Germania a risarcire i danni causati ai cittadini italiani in quei drammatici eventi. Ma già “nel 2008 la Germania ricorre alla corte internazionale di giustizia dell’Aia, che dopo un lungo procedimento le dà ragione, a febbraio 2012, con una sentenza che fa notizia […] Comunque, ancor prima della pronuncia della corte internazionale, per il solo fatto che Berlino ha proposto ricorso, l’Italia penalizza gli interessi dei suoi cittadini con due leggi. Non negano il diritto al risarcimento né la responsabilità tedesca: si limitano a sospendere l’esecuzione. Con le dovute proporzioni, lo stesso effetto della mancata estradizione degli imputati: condanna sì, esecuzione no” (pag. 274) Cosa che il riconoscimento, dalla municipalità tedesca di Engelsbrand, a uno degli uomini che si macchiarono di una delle peggiori stragi naziste, quella di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, Wilhelm Kusterer oggi 94enne, non fa altro che confermare con l’aggravante dell’autentica beffa per il dolore di chi quella strage la subì.

Germania che sembra rivendicare, nonostante le prese di distanza della Cancelliera Merkel dall’ultimo fatto, una sua precisa continuità d’azione, come ben dimostrano gli stretti rapporti con il regime turco del presidente Erdogan che sembrano rinnovare i fasti dell’alleanza tra Impero Ottomano e Impero Guglielmino ai tempi del primo conflitto mondiale e della strage degli Armeni2 che servì da modello alla successiva “soluzione finale” per gli Ebrei dell’Europa Orientale occupata dalle truppe naziste.

Nel dicembre del 1942, Hitler aveva dichiarato. “A chi porta le armi deve essere assicurata assoluta copertura, affinché il povero diavolo non si debba chiedere se poi sarà ancora chiamato a rispondere delle sue azioni” (cit. pag.194) La decisione sembra funzionare ancora oggi, tanto che con il decreto del 10 febbraio scorso, secretato per motivi di sicurezza, i nostri militari di unità speciali, per missioni speciali decise e coordinate da Palazzo Chigi, avranno le garanzie funzionali degli 007 e, dunque, licenza di uccidere e impunità per eventuali reati commessi.

All’epoca la Germania massacrava non per difesa o per costruire fortificazioni, come si è sentito ripetere dai difensori degli imputati in tanti processi, “ma per il controllo del territorio, in funzione del saccheggio e della deportazione” (pag. 278), in funzione primariamente terroristica. Ma l’imperialismo non si può processare, così “la giustizia negata è una prosecuzione del crimine con altri mezzi” (pag.249)

padule 1 Il grande merito di Luca Baiada e del suo terribile e magnifico libro, è proprio quello di voler mantenere aperta la ferita, di non volerla lasciar richiudere facendo finta che suturarla sia l’unica cosa utile e saggia da fare; perché quella suturazione consisterebbe soltanto nel buttare altra terra sui cadaveri delle vittime, cancellandone la memoria e favorendo una presunta pacificazione che non c’è mai stata e mai potrà esserci. Perché il tempo dei “vinti” continuerà a scorrere diversamente da quello dei vincitori fino a quando sopravviveranno le differenze di classe.

Vittoria Tognozzi, un’altra testimone superstite, nel 1999 affermava: ”Dice bisogna scusare, dice chi ha fatto male, dice, bisogna. Perdonare, dissi io? Io non farei altro, se l’avessi davanti all’occhi, dissi io, l’ammazzerei, subito immediatamente” (pag.154). Ricordando, successivamente, la morte di Ugo Romani, ucciso il 6 luglio 1944 mentre cercava di difendere la sua famiglia dallo stupro e dall’omicidio che i tedeschi intendevano mettere in atto, ricorda “E allora lui l’ammazzò un tedesco, lo spezzò col pennato 3 e lo buttò nel pozzo nero. E lui lo ‘mpicconno in cima alle scale” . Il tedesco fu tagliato in due, racconta Vittoria allo stesso Baiada e sorride soddisfatta mostrando come l’arnese possa andare su e giù. Mentre alla domanda perché secondo lei non ci sia stata giustizia , risponde: “Perché non c’è sangue nelle vene degli italiani” (pag. 45)


  1. Si legga anche in proposito il saggio di Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi 1999  

  2. Si veda La questione della complicità tedesca e Il genocidio armeno raffrontato all’Olocausto e ai processi di Norimberga in Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, Guerini e Associati 2003  

  3. roncola  

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