Walt Whitman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 https://www.carmillaonline.com/2022/08/10/la-metafisica-delle-guerre-civili-americane-paul-auster/ Wed, 10 Aug 2022 20:02:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72827 di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe [...]]]> di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe pronto a “imbracciare le armi contro le autorità”. (Gerry Freda – Il Giornale, 27 luglio 2022)

“La guerra civile è già in corso”. (Gloria Feldt, femminista americana, 26 giugno 2022)

E’ il fantasma della guerra civile che oggi sembra assumere, sempre più spesso, forme concrete e tangibili nella società statunitense. Qualcuno, gravemente contagiato dal politically correct, potrebbe affermare che ad aggirarsi nell’immaginario di quella società sia ancora e soltanto il fantasma di Donald Trump, ma in realtà quel fantasma agita le coscienze e l’immaginario americano da ben più tempo.

Almeno dagli anni che precedettero e seguirono la Guerra Civile svoltasi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865. Quella guerra che costituisce infatti, al di là di ogni retorica, il fatto politico fondamentale della nazione nord-americana, ben più della Dichiarazione di Indipendenza e della successiva guerra contro la corona britannica. Un fatto politico e militare la cui valenza mitopoietica e fantasmatica per l’immaginario collettivo fu chiaramente colta già all’epoca dal fondatore della poesia americana moderna, Walt Whitman:

Quattro anni in cui si sono concentrati secoli di passioni ancestrali, immagini di prima categoria, tempeste di vita e di morte – una miniera inesauribile di vite e di morti, che riempiranno la storia, il teatro, la letteratura e persino la filosofia dei secoli a venire – anzi, un’autentica colonna vertebrale della poesia e dell’arte (anche di carattere personale) per tutta l’America futura (molto più possente, secondo me, per le penne che saranno in grado di cimentarsi con esse dell’assedio di Troia di Omero e delle guerre francesi di Shakespeare)1.

Se all’epoca di Thoreau e John Brown furono molti gli scrittori che si schierarono apertamente con la causa della lotta contro la schiavitù, da Melville a Whitman e da Whittier ed Emerson ad Hawthorne, ancora nel corso del ‘900 molti sono stati gli autori statunitensi a schierarsi con la causa della lotta contro le guerre imperiali o per la libertà dei popoli, dalla guerra civile spagnola alla lotta contro la guerra in Vietnam. Si pensi soltanto a Ernest Hemingway, John Dos Passos, William March, Joseph Heller oppure Allen Ginsberg e i poeti, soprattutto, della generazione beat, come Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti.

Gli scrittori degli ultimi decenni invece, almeno a partire dalla dubbia elezione di George Bush Jr., sembrano maggiormente preoccupati da ciò che i rappresentanti dei vertici economico-finanziari e dei media mainstream iniziano a denunciare sul pericolo di rivolte e di rimessa in discussione dei principali assunti dell’attuale modo di produzione, rendendo ancor più significativo il fatto che ormai da diversi anni proprio dagli Stati Uniti provengano opere letterarie che trattano il tema della guerra civile oppure della resistenza armata contro lo Stato e tutti i suoi addentellati economici, politici e militari.

Un autore come Paul Auster, con il suo Man in the Dark (uscito in Italia per Einaudi con il titolo Uomo nel buio), nel 2008 è stato uno dei primi a introdurre il tema all’interno della letteratura non di genere, seguito poi da diversi altri scrittori. Ma occorre dirlo, prima di procedere successivamente all’analisi della trama libro: sembra non esservi più vitalità. partecipazione e convinzione nell’osservazione dei drammi in atto o a venire. Come se si fosse persa la causa per cui combattere, che, in fin dei conti, per gran parte degli scrittori americani del passato è sempre stata rappresentata dai valori “autentici” della democrazia e della libertà americana, più che da qualsiasi altra esplicita causa politica.

Questo è il deserto sociale, ideale, umano che sta alle spalle dei romanzi di Paul Auster, soprattutto della guerra civile soltanto immaginata ma dalle conseguenze e cause reali, anche se tutte racchiuse nella psiche dei disturbati protagonisti e dell’anziano narratore di Man in the dark2. Un confronto militar-terroristico in cui gli Stati Uniti si sono divisi, almeno nella mente dell’anziano critico letterario August Brill che svolge il ruolo di narratore, secondo linee di faglia molto simili a quelle determinate anche dall’ultimo voto americano.

Una guerra in cui chi combatte non comprende le ragioni di ciò che sta succedendo e vorrebbe in realtà abbandonare il campo il più in fretta possibile. Senza riuscirci, in un alternarsi di piani temporali e narrativi che inseguono inutilmente un centro, che sembra non esistere più da tempo, se non nei sogni, deliri e costruzioni narrative di uno scrittore vecchio e malato. Cui è toccato assistere, alla tv, più e più volte alla decapitazione da parte dei miliziani dell’Isis dell’ex-boy friend della nipote, recatosi nelle aree incendiate dal califfato islamico per un servizio di trasporti privato al fine di avere un lavoro meglio pagato.
Sogno dentro sogno seguiamo per un attimo le riflessioni di Owen Brick, il personaggio immaginato da August Brill:

Memore dei discorsi di Serge su una guerra civile, si domanda perché ci si combatta e chi stia combattendo contro chi. Ancora il Nord contro il Sud? L’Est contro l’Ovest? Il Rosso contro il Blu? Il Bianco contro il Nero? Qualunque sia stata la causa della guerra, si dice e qualunque interesse o ideale sia in gioco, non ha senso. Come può essere l’America se Tobak non sa nulla dell’Iraq? Completamente smarrito, Brick torna all’ipotesi precedente, cioè di essere prigioniero di un sogno3.

E’ lo smarrimento a dominare la narrazione, smarrimento che domina anche nelle altre opere di Auster che andremo ad esaminare. Ed è così che Il folle mondo viene avanti rotolando, intuizione tratta da da una poesia di Rose Hawthorne, ultima dei tre figli di Nathaniel Hawthorne, nata nel1851, come ci ricorda lo stesso Auster nel riassumerne brevemente la vita nell’ambito del romanzo.

Rose rossa di capelli, nota in famiglia come Rosebud, Bocciolo di Rosa, una donna che visse due vite, la prima triste, tormentata, fallimentare, la seconda straordinaria […] una donna che per quarantacinque anni ha brancolato per il mondo, una persona difficile e scontrosa, una «straniera a se stessa» per propria ammissione, che dapprima tentò la sorte con la musica, poi con la pittura, e non avendo avuto risultati con nessuna di queste attività si volse alla poesia e ai racconti, riuscendo anche a pubblicarne alcuni (senz’altro grazie al nome di suo padre), ma la sua produzione era pesante e goffa, a essere generosi mediocre: tranne un verso di una poesia […] E il folle mondo viene avanti rotolando.
Aggiungiamo al ritratto pubblico le circostanze private della fuga d’amore, a vent’anni, col giovane scrittore George Lathrop, un talento che non mantenne mai le promesse, gli amari conflitti del loro matrimonio, la separazione, la riconciliazione, la morte a cinque anni del loro unico figlio, la separazione definitiva, i litigi protratti di rose con suo fratello e sua sorella […] Ma poi, nella maturità, Rose subì una metamorfosi. Si convertì al cattolicesimo, prese i voti e fondò un ordine di suore, le Serve del conforto per il cancro incurabile, dedicando i suoi ultimi trent’anni alla cura dei malati terminali poveri come appassionata tutrice del diritto di ognuno a morire con dignità. Il folle mondo viene avanti4.

L’immagine, già tipica del blues e della folk music, della pietra che rotola (rolling stone) sul fondo di un fiume, sulle strade del mondo oppure verso l’abisso, viene qui, indirettamente, ripresa e portata alle sue estreme conseguenze. Sia sul piano dell’esperienza personale, sia sul piano simbolico di una Nazione che rotola verso il suo incerto futuro senza più alcun punto di riferimento o legame certo.

Il secondo romanzo di Auster qui analizzato è Leviatano5, liberamente ispirato alle imprese di Unabomber, identità fittizia, attribuitagli in parte dai media e in parte dal Federal Bureau of Investigation, di Theodore John “Ted” Kaczynski, terrorista individualista contrario alla società dominata dalla tecnologia, matematico ed ex-docente universitario statunitense che tra il 1978 e il 1996 inviò numerosi pacchi postali a varie persone, causando 3 morti e 23 feriti. E’ stato anche autore di un celebre manifesto politico-filosofico che riuscì a far stampare su alcuni quotidiani USA, prima di essere denunciato dal fratello che ne aveva riconosciuto lo stile leggendo quello stesso testo.

Auster non ripercorre esattamente le vicende di Ted Kaczynski, ma ancora una volta ricorre alla figura di invenzione di uno scrittore, Peter Aaron, che, dopo aver intuito che la vittima di un’esplosione, causata dalla preparazione di una bomba, per un attentato è il suo più caro amico: Benjamin Sachs, autore di un unico romanzo, decide di narrare la vita e le vicende che l’hanno condotto alla decisione di diventare terrorista.

Ben si dedica alla distruzione con l’esplosivo delle copie della Statue della Libertà sparse in centinaia di località americane, sempre evitando di fare vittime. Anche in questo caso la scelta simbolica rinvia alla delusione nei confronti delle mancate promesse di libertà, uguaglianza e democrazia che il monumento originale, posto in mezzo alla baia prospicente New York, dovrebbe rappresentare. Ben in realtà ha preso il posto di un uomo che ha ucciso per difendersi, Reed Di Maggio, ma di cui ha iniziato ad apprezzare le idee dopo aver scovato, in una stanza chiusa nella casa della vedova, i suoi documenti, i suoi libri e la sua tesi. Uno studio sulla figura di Alexander Berkman l’anarco-comunista americano che aver sparato a Henry Clay Frick, colui che durante lo sciopero degli operai metallurgici di Homestead del 1892 aveva riunito un esercito di detective e agenti di compagnie private e ordinato loro di fare fuoco sugli scioperanti.

Giovane radicale ebreo emigrato pochi anni prima, all’epoca Berkman aveva vent’anni e scese in Pennsylvania inseguendo Frick con una pistola, con la speranza di eliminare quel simbolo dell’oppressione capitalista. Frick sopravvisse all’attentato e Berkman fu rinchiuso in un penitenziario di Stato per quattordici anni. Dopo il suo rilascio […] portò avanti il suo impegno politico, soprattutto insieme ad Emma Goldman. Fu direttore di “Mother Earth”, contribuì alla fondazione di una scuola libertaria, tenne discorsi, si batté per cause come lo sciopero degli operai tessili di Lawrence […] Quando l’America entrò nella Prima guerra mondiale fu messo di nuovo in carcere, questa volta per aver parlato contro la coscrizione obbligatoria6.

Quindi Ben si ispira a Reed che, a sua volta, si era ispirato a Berkman. Così in qualche modo farà anche Peter, iniziando a scrivere un romanzo intitolato come il secondo progettato dall’amico, che finirà col narrare la storia di Ben e si intitolerà Leviatano, come il libro vero a e allo stesso fittizio che il lettore si trova a leggere, finito pochi istanti prima dell’arrivo degli agenti del FBI decisi ad interrogarlo per perseguirlo penalmente per i suoi precedenti silenzi sull’amico scomparso. Ancora una volta una vicenda di scambi di identità e di acquisizione casuale di ruoli già appartenuti ad altri, in un’America sempre più confusa, ad ogni livello, che sembra anch’essa andare avanti rotolando follemente.

Tema che costituisce anche il centro del terzo romanzo di cui si vuole qui parlare, Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things, 1987)7, che in realtà, pur mostrandoci da vicino gli effetti devastanti sulla vita americana di una catastrofica guerra civile una volta avvenuta, è il primo dei tre.

L’epoca è indefinita, ma non molto distante nel tempo rispetto al presente e l’unica cosa certa è che Thanatos ha trionfato, insieme al disordine, alla fame e all’impossibilità di immaginare un futuro diverso, illuminato magari da un barlume di speranza.

Almeno la metà della gente è senza casa e non sa assolutamente dove andare. Pertanto ogni volta che giri l’angolo trovi cadaveri, sul marciapiede, sotto i portoni, sulla strada stessa.
[…] I cadaveri il più delle volte sono nudi. Gli spazzini perlustrano le strade senza interruzione, e non passa tanto tempo prima che un morto sia spogliato dei propri averi. Le prime a sparire sono le scarpe, molto richieste e molto difficili da trovare. Subito dopo vengono le borse e poi di solito ogni altra cosa, gli abiti e tutto quel che contengono. Gli ultimi ad arrivare sono gli uomini con pinza e scalpelli, che strappano i denti d’oro e d’argento dalla bocca.
[…] Ogni mattina passano i camion per la raccolta dei cadaveri. Questa è la funzione principale del governo, che investe in quest’operazione più che in qualsiasi altra cosa. Tutt’intorno alla città ci sono i forni crematori – i cosiddetti Centri di Trasformazione – e giorno e notte si vede il fumo che sale in cielo. Ma dato che le strade sono in così cattivo stato e molte si trovano ridotte in macerie, il compito diventa sempre più difficile. Gli uomini sono costretti a fermare i camion e andare a piedi a raccogliere i corpi, e questo rallenta considerevolmente il lavoro. Come se non bastasse, ci sono frequenti danni meccanici ai veicoli, seguiti dagli occasionali scoppi di risate di chi sta a guardare. Lanciare pietre agli uomini dei camion della morte è una comune occupazione tra i senzatetto. Anche se questi uomini sono armati e sono noti per puntare le loro mitragliatrici sulla folla, alcuni di questi lanciatori di sassi sono molto abili nel nascondersi, e le loro tattiche di «toccata e fuga» ottengono talvolta il risultato di paralizzare completamente la raccolta. Non c’è un motivo coerente dietro questi attacchi. Maturano nella rabbia, nel risentimento e nella noia, e poiché i raccoglitori di cadaveri sono gli unici dipendenti municipali a farsi vedere nei quartieri, diventano facili obiettivi. Si potrebbe dire che i sassi rappresentano il disgusto della gente nei confronti di un governo che non fa nulla per loro finché non sono morti. Ma questo discorso ci porterebbe troppo in là. I sassi sono un’espressione di infelicità e basta. In città infatti non c’è posto per la politica, di nessun tipo. Le persone hanno troppa fame, sono troppo sconvolte, troppo in lotta le una contro le altre8.

La forma è quella di un diario in forma epistolare, scritto da una giovane donna di buona famiglia che ha attraversato l’Oceano per tornare nella grande metropoli sconvolta (la Grande Mela?) a cercare tracce del fratello William scomparso dopo essersi recato là per scrivere un reportage. Un contesto in cui Beckett sembra incontrare il Boccaccio della Cornice del Decameron, mentre le immagini dei forni crematori e dei morti privati di tutto, anche dei denti, rinviano alle grandi tragedie del ‘900.
Come nel romanzo La strada di Cormack Mc Carthy (Einaudi, 2007 – edizione originale 2006) tutto è già avvenuto e non ha bisogno di essere spiegato. I protagonisti o l’io narrante non possono far altro che andare incontro alla fine, anche se quest’ultima, come scrive Auster:

è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arrivi a un punto in cui ti accorgi che non vi giungerai mai.
[…] Qualunque cosa è possibile, ed è come non dire niente, come essere nati in un mondo che non è mai esistito. Forse troveremo William dopo aver lasciato la città, ma cerco di non sperarci troppo. L’unica cosa che chiedo, per ora, è la possibilità di vivere ancora per un giorno9.

Sopravvivere, ancora per un giorno, in un mondo privato di qualsiasi senso, se non ancora quello della guerra e della rivolta senza scopo.

L’unica alternativa che abbiamo eliminato del tutto è il nord. Sembra infatti che in quella parte del paese vi sia un grande pericolo e la possibilità di tumulti, ed è già un po’ di tempo che si parla di un’invasione di armate straniere radunate nella foresta e pronte a colpire la città quando la neve sarà sciolta.[…] Boris continua a spiare e ascoltare, ma i discorsi che sente sono troppo confusi e discordi per avere un valore concreto. Lui ritiene che ciò significhi che il governo sarà di nuovo rovesciato. Se così fosse, potremmo avere il vantaggio della temporanea confusione, ma a questo punto nulla è davvero chiaro. Nulla è chiaro e noi continuiamo ad aspettare10.

Non si fugge da ciò che un tempo si annunciava come il Paradiso e che oggi è soltanto più uno degli inferni possibili sulla Terra. Il senso è finito insieme a ciò che ne produceva una possibile, e riduttiva, espressione. Il lungo tramonto dell’Occidente rimane tale, soltanto un interminabile crepuscolo, alla cui luce incerta si possono consumare tutti i delitti, tutte le meschine vendette, tutte le perversioni dell’essere umano alimentate dalla fame e dalla disperazione. Cannibalismo compreso.

Nella logica “metafisica” di Auster tutti e due gli altri romanzi, di cui si è parlato più sopra, convergono quindi inesorabilmente verso la fine che era già contenuta nell’inizio di questa immaginaria trilogia delle guerre civili americane.
Tornano in mente le affermazioni di Karl Marx sulla fine dell’Impero romano, che causò e fu causata allo stesso tempo dalla comune rovina delle classi in lotta. Tornano le immagini di imperi millenari o secolari che scompaiono in un batter d’occhi, soltanto un po’ più lungo del solito. Tornano alla memoria le immagini di imperi le cui frontiere sono sorvegliate da eserciti alleati e stranieri, ma pronti a divorarli appena mostreranno un minimo di debolezza in più.

Tornano le immagini di rivolte senza scopo, rebellion without a cause parafrasando il titolo di un celebre film di Nicholas Ray dove già il protagonista correva incontro alla morte su una strada che conduceva soltanto ad un precipizio11. Le immagini del Campidoglio assaltato, dei diritti inutilmente negati, degli scontri inter-razziali, dei massacri nelle scuole, nei mall e nelle chiese. Tutte pietre lanciate per infelicità, rabbia, risentimento o forse soltanto per noia.

Tornano le immagini di Jayland Walker, afroamericano poco più che ventenne, ucciso con sessanta colpi d’arma da fuoco dalla polizia di Akron, Ohio, e ai mille casi di uccisioni che avvengono ogni anno negli Stati Uniti ad opera delle forze del dis/ordine. Mille morti ammazzati di cui almeno il trenta per cento è costituito da afro-americani.
E tornano anche le immagini di un 4 luglio insanguinato non soltanto dalla strage alla parata di Chicago, ma anche dai nove tentativi messi in atto in altrettante località degli Stati Uniti, nello stesso giorno di quest’anno.
Giorno in cui, nella sola Chicago, 57 persone sono rimaste uccise in sparatorie al di fuori di quella di Highland Park 12.

Mentre politologi e storici – come la docente di San Diego, Barbara Walter, autrice del saggio How Civil Wars Start – avvertono che il rischio di guerra civile è reale […] l’espressione “guerra civile” diventa subito tra gli argomenti più cercati su Google, così come lock and load: caricare un’arma da guerra nel gergo militare13.

L’Occidente cade nelle pagine di Auster, la grande metropoli non mantiene le sue passate promesse e il mondo sta a guardare in attesa che altri vengano (da Nord, Est, Sud?) a rivendicarne il ruolo, le aspirazioni e le fasulle promesse. Benvenuti alla fine del viaggio di un modo di produzione che da troppo tempo sta morendo, come un malato terminale, però, cui sia stata negata per sempre la possibilità del suicidio assistito. Mentre anche i suoi possibili killer, impoveriti e indigenti, preferiscono rivolgere le proprie armi contro i propri simili piuttosto che sveltire le pratiche funerarie per la sua definitiva eliminazione.

Ancora una volta, però, non sono l’analisi politica e sociologica o il piagnisteo democratico a condurci ad una tale cruda e inesorabile visione, bensì la letteratura. Ma, per favore, non definitela nichilista.


  1. Walt Whitman, Taccuini della guerra di secessione, Mattioli 1885, Fidenza 2017, pag. 19  

  2. Paul Auster, Uomo nel buio, Einaudi, Torino 2008  

  3. Paul Auster, op. cit., p.41  

  4. Paul Auster, op. cit., pp. 38-39  

  5. Paul Auster, Leviatano, Einaudi, Torino 2003 – Leviathan, prima edizione americana 1992  

  6. Paul Auster, Leviatano, p. 257  

  7. Il paese delle ultime cose, Guanda, 1996 – Nel paese delle ultime cose, Einaudi, 2003  

  8. P. Auster, Nel paese delle ultime cose. Einaudi, Torino 2003, pp. 16-17  

  9. P. Auster, op. cit., pp. 163-167  

  10. Ibidem, p. 166  

  11. Rebel Without a Cause (1955), in Italia meglio noto con il titolo Gioventù bruciata, di Nicholas Ray e con James Dean  

  12. Marina Catucci, La tradizione del “mass shooting”: 4 luglio di fuoco in nove stati, il Manifesto, 7 luglio 2022  

  13. Massimo Gaggi, “Caricate i fucili”. Si scaldano le milizie (e torna l’incubo della guerra civile) , Corriere della sera, 10 agosto 2022  

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Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Un autentico capolavoro del ‘900 https://www.carmillaonline.com/2020/01/15/un-autentico-capolavoro-del-900/ Wed, 15 Jan 2020 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57294 di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue [...]]]> di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue opere maggiori: Manhattan Transfer (1925) e la trilogia americana, ora riproposta integralmente da Mondadori in un unico volume, formata dai tre romanzi Il 42° parallelo (1930), Millenovecentodiciannove (1932) e Un mucchio di quattrini (1936).

Nato casualmente in un albergo di Chicago, come figlio illegittimo, dal rapporto tra John Randolph, avvocato di successo di origine portoghese, e Lucy Madison, figlia di una ricca famiglia del Maryland; segnato dalla partecipazione, come volontario, al primo conflitto mondiale, da cui trasse l’ispirazione per il suo primo romanzo Iniziazione di un uomo (1917), scritto a caldo immediatamente dopo il rientro in patria, e il successivo Tre Soldati (1921) che rimane, insieme ad Addio alle armi (1929) di Hemingway e Fuoco! (1933) di William March, una delle testimonianze più importanti della letteratura nordamericana sui traumi e le sofferenze causate dal primo macello interimperialista, Dos Passos si andò radicalizzando sempre più avvicinandosi al Partito Comunista statunitense.

Sono di questo periodo più radicale, sia dal punto di vista politico e che letterario, le sue opere maggiori e il suo appassionato libello dedicato alle vicende destinate a portare nel 1927 alla sedia elettrica i militanti anarchici di origine italiana Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: Davanti alla sedia elettrica (Facing The Chair. Story of the Americanization of Two Foreign Workers, 1927).
Ed è proprio delle diverse forme dell’americanizzazione ovvero della formazione della società americana a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, e dei destini singoli e collettivi che ne conseguono che si occupa la trama, strutturalmente complessa, della Trilogia USA.

Storie di donne e di uomini, di illusioni e delusioni, di vittorie parziali e sconfitte totali, che vedono coinvolti personaggi tratti sia dalla fantasia che dalla realtà storica contemporanea dell’autore, da John Reed a Henry Ford. Storie che si incrociano in tempi diversi nei tre romanzi oppure che corrono su binari lontani senza mai incontrarsi, ma tutte destinate a dare un ritratto veritiero e profondo, soprattutto sul piano psicologico e dell’immaginario, di quel melting pot culturale e di classe da cui sarebbe nata l’immagine moderna degli Stati Uniti e dell’American Way of Life.

Un ritratto spietato, a tratti disperato, che non lascia spazio a molte speranze, anche se soprattutto nel terzo ed ultimo romanzo della trilogia si affaccia qualche bagliore di luce alla fine del tunnel.
Ma è la scelta stilistica a colpire, ancor prima della trama, o delle trame: un montaggio narrativo ispirato sia alle avanguardie europee dei primi anni venti, che Dos Passos aveva frequentato più o meno direttamente, attraverso la frequentazione dell’abitazione di Gertrude Stein, durante il suo soggiorno parigino di quegli anni, e al montaggio cinematografico ideato dal regista sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che l’autore avrebbe conosciuto frequentando la libreria “Shakespeare & Company” di Sylvia Beach situata sulla Rive gauche parigina.
Proprio nella stessa libreria l’autore americano aveva acquistato l’Ulysses di James Joyce che lo avrebbe ispirato per la struttura espositiva sia di Manhattan Transfer che dei tre successivi romanzi.

Tra i fondatori della rivista culturale di estrema sinistra “The New Masses”, Dos Passos entrò presto in conflitto con la progressiva stalinizzazione della sinistra americana e proprio a partire dalla guerra civile spagnola1, durante la quale lo stalinismo fece eliminare il suo traduttore e amico spagnolo José Robles Pazos2 , inizio ad allontanarsi dalla Sinistra tout court e avvicinandosi, nel corso dei decenni successivi a posizioni sempre più conservatrici.

Cessava in questo modo la fase più importante e creativa dello scrittore statunitense che, proprio per i motivi appena addotti, iniziò a subire quasi da subito gli attacchi di Ernest Hemingway e di certa critica leftist con l’intento, poi riuscito, di cancellarlo o quasi dalla storia della letteratura americana.
Atteggiamento certamente stupido e ideologicamente sovradeterminato che riuscì per parecchi anni a rimuovere l’importanza dello scrittore dal panorama letterario. Simile a quello usato, ma per motivi formalmente più fondati, nel secondo dopoguerra nei confronti di un altro gigante della letteratura mondiale: Louis-Ferdinand Céline.

I romanzi della trilogia furono publicati per la prima volta in Italia nella collana “I grandi narratori di ogni paese” della mondadoriana Medusa nel 1936 (The Forthy Second Parallel, nella traduzione di Cesare Pavese), nel 1938 (The Big Money sempre nella traduzione di Pavese) e nel 1951 ( Nineteen-Nineteen nella traduzione di Glauco Cambon), mentre per molti anni è rimasto disponibile nelle librerie, prima di scomparire per un lungo periodo di tempo, soltanto Il 42° parallelo.

Sinceramente, dopo aver conservato per anni i tre testi nelle edizioni original, non avrei mai creduto di vederli ricomparire tutti insieme in una così bella e curata edizione, in cui l’Introduzione di Cinzia Scarpino e la Nota alla traduzione di Sara Sullam rendono giustizia sia alla grandezza della scrittura di Dos Passos che all’importanza dell’opera di Cesare Pavese in quanto traduttore e rinnovatore della soffocante cultura letteraria italiana della sua epoca. Per tutti questi motivi c’è da essere veramente grati alla collana “Oscar moderni – Baobab” di Mondadori per la riscoperta e riproposizione di un autentico classico della letteratura moderna.

Proprio Cesare Pavese ebbe a dire:

La poesia di Dos Passos sta in questo modo asciutto di percepire e rendere le cose. «Joe non riuscì a guardare il film»; e questo è il punto più introspettivo di una narrazione tutta fatti esterni, inesauribilmente e nitidamente esposti, con un distacco che è giudizio morale. Attraverso questo suo orrore di tracciar svolazzi psicologici in una vita dove basta guardare e accumulare le mille parvenze per giudicare, Dos Passos si è fatto uno stile, nella sua umile oggettività ricchissimo di sfumature: sono mezzi gesti, mezze parole, oppure colori odori suoni, pieni di significato, gioiosi nella loro energia espressiva; una novità nella poesia americana, se non si risalga fino a certe pagine d’impressioni, ai jottings (appunti) disseminati nelle prose e versi di quell’altro enfant terrible di questa cultura, che è Walt Whitman.3

Una scrittura cinematografica come poche altre, dove lo scavo psicologico non si trasforma in dozzinale psicologismo, ma in cui sono gli atti, ancor prima delle parole o dei pensieri, a rendere visibile il carattere e l’etica dei personaggi. Una scrittura cinematografica che proprio nei sintetici Cine-giornali, distribuiti lungo tutto l’arco dei romanzi e realizzati con un autentica ed efficacissima tecnica di cut up di notizie e titoli di giornali, riesce a dare al lettore l’idea e la ricostruzione di un’intera epoca.

Un capolavoro del ‘900, non solo americano, che tutti gli amanti della grande letteratura dovrebbero leggere oppure riscoprire.


  1. Dos Passos dedicò alla stessa, alla rivoluzione messicana e a quella bolscevica una serie di scritti contenuti poi in J.Dos Passos, Introduzione alla guerra civile (Journeys Between Wars), pubblicato in Italia nel 1947 nella collana “Arianna” ancora una volta dalla casa editrice Mondadori  

  2. Si veda in proposito Ignacio Martínez De Pisón, Morte di un traduttore, Ugo Guanda Editore, Parma 2006  

  3. C. Pavese, John Dos Passos e il romanzo americano, saggio pubblicato su “La Cultura”, gennaio-marzo 1933, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, quinta edizione 1962, pag. 120  

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L’uomo, l’ambiente e la letteratura. Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura https://www.carmillaonline.com/2018/03/01/luomo-lambiente-e-la-letteratura-le-relazioni-narrative-fra-ecologia-e-letteratura/ Thu, 01 Mar 2018 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43990 di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le [...]]]> di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.

Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.

La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).

Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).

Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.

Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.

Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.

Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.

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Un inno alla Natura (e all’azione diretta) https://www.carmillaonline.com/2015/11/04/un-inno-alla-natura-e-al-sabotaggio/ Wed, 04 Nov 2015 21:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26390 di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel [...]]]> di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel 1927 e morto in Arizona nel 1989, appartiene sicuramente alla schiera di scrittori statunitensi che hanno posto al centro della loro letteratura la natura e il rapporto che l’uomo mantiene con essa. Insieme al tema della morte è infatti questo ad aver caratterizzato buona parte della migliore letteratura americana e a differenziarla decisamente dalla cultura europea che ha visto nella natura, dai classici a Baudelaire e a Nietzsche, soltanto qualcosa da superare.

Invece, da Henry David Thoreau a Herman Melville e da Walt Whitman a A.B.Guthrie solo per citarne alcuni, il tema del rapporto, spesso distruttivo, instauratosi tra la nostra specie e l’ambiente circostante costituisce il vero centro narrativo dell’opera letteraria. Valga per tutti il capolavoro che fonda la letteratura nord americana: Moby Dick, in cui distruzione e morte della natura vanno di pari passo con quella dell’uomo.

Abbey, però, scrive il suo Desert Solitaire. A Season in the Wilderness nel 1968 e molte cose sono cambiate rispetto al mondo in cui scrivevano gli autori dell’Ottocento e del primo novecento. Non in meglio, poiché la devastazione dell’ambiente legata allo sfruttamento delle risorse oppure alla crescita delle città e delle metropoli o anche soltanto al turismo si è fatta ormai evidentissima. Ogni promessa del millantato progresso si è dimostrata vana e l’American Way of Life soltanto una menzogne o una trappola per allocchi. Ecco perché la sua scrittura si rivela fin dalle prime opere così radicale.

Autore di romanzi come Fire on the Mountain (1962)1 e The Monkey Wrench Gang (1975),2 ha finito col diventare l’inconsapevole (?) ispiratore di movimenti radicali di difesa dell’ambiente e del territorio come Earth First ed altri, sia in America che in Europa. A differenza, però, di un altro grande cantore della wilderness o natura selvaggia, Jack London, l’ambiente, con la sua geologia, la sua flora, la sua fauna, le su acque e i suoi pericoli, per Abbey non è soltanto qualcosa in cui e con cui l’uomo deve imparare a convivere e sopravvivere.

Per lo scrittore statunitense l’uomo deve riconoscersi parte del tutto e difendere, anche con il sabotaggio più radicale, la natura incontaminata, là dove ancora esiste, dallo sfruttamento capitalistico dei suoli e delle sue ricchezze. Preferendo, piuttosto, alla devastazione incontrollata della wilderness, la distruzione della società dell’ingordigia, dell’abbrutimento e dello sfruttamento di qualsiasi specie, non soltanto della nostra. Non essendo, in fin dei conti, quest’ultima né migliore né più importante delle altre all’interno del grande quadro del cosmo che ci circonda e permea.

Non a caso il punto di partenza, l’osservatorio privilegiato sulla realtà è costituito dalle grandi regioni desertiche che si estendono tra l’Ovest e il Sud Ovest degli Stati Uniti. E non solo perché in quei territori di canyon profondissimi, labirinti geologici e caldo insopportabile il nostro si trovò a svolgere l’attività di ranger per il National Park Service per periodi piuttosto lunghi e in quasi totale solitudine.

Il deserto non dice nulla. Completamente passivo, agìto ma non agente, se ne sta lì come lo scheletro nudo dell’Essere, spoglio, sparso, austero e completamente inutile, invitando non all’amore ma alla contemplazione. Così semplice e ordinato da suggerire classicità; senonché il deserto è un regno oltre l’umano e nella visione classicista solo l’umano è significativo, se non addirittura reale” (pag. 326) Inutile, impensabile per il modo di produzione capitalistico qualcosa che non sia immediatamente utile, e oltre l’umano, totalmente distante da quella cultura umanistica e di stampo prettamente europeo in cui tutto deve essere ridotto all’uomo e alla sua esperienza.

Ho scoperto che non mi opponevo all’umanità in generale, ma alla centralità dell’uomo, all’antropocentrismo, all’idea che il mondo esiste solamente per l’uomo; che non mi opponevo alla scienza – che significa semplicemente conoscenza – ma alla scienza male applicata, alla venerazione della tecnica e della tecnologia, a quella perversione della scienza giustamente chiamata scientismo; che non mi opponevo alla civiltà ma alla cultura” (pag. 331) Sono qui già accennati argomenti che saranno poi sviluppati da filosofi anarchici come John Zerzan.

Ma è proprio la distinzione tra civiltà e cultura che diventa chiarissima in Abbey: “ Civiltà è la forza vitale nella storia dell’uomo; cultura è la massa inerte delle istituzioni e organizzazioni che vi si accumula intorno e tende a rallentare l’avanzata della vita; Civiltà è Giordano Bruno che affronta la morte sul rogo; cultura è il cardinale Bellarmino, che condanna Giordano Bruno a essere bruciato in Campo de’ Fiori; […] Civiltà è rivolta, insurrezione, rivoluzione; cultura è la guerra di uno Stato contro l’altro o delle macchine contro il popolo, come in Ungheria o in Vietnam; Civiltà è tolleranza, distacco e humor, oppure passione, rabbia e vendetta; cultura è l’esame di ingresso, la camera a gas, la tesi di laurea e la sedia elettrica;

Civiltà è Nestor Machno, il contadino ucraino che combatté i tedeschi, poi i Rossi, quindi i Bianchi, poi ancora i Rossi; cultura è Stalin e la Patria; Civiltà è Gesù che trasforma l’acqua in vino; cultura è Cristo che cammina sulle acque; Civiltà è un ragazzo con una molotov in mano; cultura è il carro armato sovietico o il poliziotto di Los Angeles che gli spara; Civiltà è il fiume che scorre libero; cultura, 592.000 tonnellate di cemento;3 la Civiltà scorre; la cultura si ispessisce e si coagula, come sangue esausto e malato” ( pp. 333 – 334)

Tutto il pensiero radicale dal 1968 in avanti è qui concentrato in poche righe. La lotta per difendere la Natura e l’ambiente è l’unica lotta che può salvare la specie nella sua breve transumanza nell’universo. L’uomo è tale se inserito nella Natura, ma diventa disumano quando se ne separa. Come in Marx, mai citato da Abbey, storia dell’uomo e storia naturale dovranno tornare a coincidere. Pena la fine dell’umanità stessa.

Fine che potrebbe rivelarsi, oltre che tragica, ridicola. Con milioni di individui di ogni sesso ed età inscatolati in sedie a rotelle meccaniche, inquinanti e mortali, che li separano, attraverso pochi millimetri di metallo, dalle bellezze del mondo circostante, rendendoli anche solo incapaci di comprenderle. La poesia della natura non è più per tutti in un mondo dominato dal profitto, dai media e dalle automobili.

Sono entrato nelle caverne ai piedi delle Mooney Falls, cascate alte settanta metri. Che cosa ho fatto? Non c’era nulla da fare. Ho ascoltato le voci, le molte voci vaghe e distanti ma sorprendentemente umane dell’Havasu Creek. […] Mi sono immerso nel luogo e ho fantasticato per giorni sulla riva della pozza sotto la cascata, ho vagato nudo sotto i pioppi come Adamo, ispezionando i miei giardini di cactus. I giorni si sono fatti strani e ambigui, il fluire del tempo era pervaso da un elemento sinistro. Ho vissuto ore narcotiche durante le quali, come il taoista Zhuangzi, mi preoccupavo delle farfalle e di chi sognava cosa […] e ho smarrito la capacità di distinguere tra me e il mondo circostante” (pag. 275)

L’istituzione dei parchi nazionali sembra poi costituire null’altro che il tentativo di vendere un prodotto a milioni di turisti/acquirenti con l’istituzione di giganteschi Expo che racchiudono la natura in autentiche riserve indiane. Destino che negli Usa sembra accomunare i nativi americani e la wilderness negli stessi ambiti locali. “Quest’area bizzarra che sono sicuro un giorno o l’altro verrà trasformata nell’ennesimo parco nazionale provvisto di polizia, amministratori, strade asfaltate, percorsi naturalistici per automobili, punti panoramici ufficiali, aree per il campeggio prefissate, lavanderie a gettone, punti ristoro, distributori di Coca Cola, toilette e biglietti d’ingresso” (pag. 235)

I Supai sono una tribù eccellente: sono generosi, festosi e intelligenti. Non solo intelligenti, scaltri. Non solo scaltri, saggi. Esempio: l’Ente degli Affari Indiani e il Bureau of Public Rooads, come la maggior parte degli enti governativi, si intromettono sempre, si agitano sempre, sono sempre in cerca di qualcosa da fare, e l’anno scorso hanno fatto un’offerta congiunta per costruire una strada da un milione di dollari nell’Havasu Canyon senza alcun costo per la tribù, spalancando così la loro terra alle ricchezza de turismo motorizzato. La maggioranza dei Supai ha votato contro la proposta” (pag. 274)

I popoli nativi sembrano ancora riconoscere la differenza tra capitale e vera ricchezza, tra grandi opere e ambiente vitale. Tra interesse della specie e, ancora una volta, cultura. “E’ questo il locus dei? Qui ci sono abbastanza cattedrali, templi e altari per un pantheon di divinità indù […] Se l’uomo non avesse un’immaginazione così debole e facile a stancarsi, se la sua capacità di meravigliarsi non fosse così limitata, abbandonerebbe per sempre le fantasticherie celesti. Imparerebbe a percepire l’assoluto e il meraviglioso nell’acqua, nelle foglie e nel silenzio, e sarebbe una consolazione più che sufficiente per la perdita degli antichi sogni” (pp. 244 – 245)

L’amore per la natura selvaggia è ben più di un semplice appetito per ciò che è inaccessibile., è anche un’espressione di fedeltà alla terra, la terra che ci ha creato e che ci sostiene, l’unica casa che mai conosceremo, l’unico paradiso di cui abbiamo davvero bisogno. Se solo avessimo gli occhi per vedere. Il peccato originale , il vero peccato originale, è la distruzione cieca per semplice cupidigia del paradiso naturale che ci circonda. Se solo ne fossimo degni” (pag.231)

Sospeso tra memoria romanzata, poesia, saggio, libello politico e panteismo radicale il libro di Abbey si rivela ancora, a distanza di cinquant’anni dalla sua prima stesura e a distanza di venti dalla sua prima edizione italiana,4 un testo fondamentale, non solo per la letteratura americana moderna ma anche per saper distinguere tra civiltà e cultura (elevata o di massa che sia), tra passione e falsa coscienza, tra azione e sottomissione.

Nel deserto non c’è carenza d’acqua, ce n’è la giusta quantità, un rapporto perfetto tra acqua e roccia e tra acqua e sabbia che assicura la presenza di quello spazio ampio, libero, aperto e generoso tra le piante egli animali, le case, i paesi che rende l’arido West così diverso da ogni altra parte della nazione. Qui non manca l’acqua, a meno che non si voglia costruire una città dove una città non dovrebbe esserci.

Gli Sviluppatori – politici, imprenditori, banchieri, amministratori ed ingegneri – ovviamente la pensano altrimenti e si lamentano in continuazione con amarezza della terribile siccità, soprattutto del Sud Ovest. Propongono progetti faraonici per deviare l’acqua […] Non riescono a capire che la crescita per la crescita è una follia cancerosa […] Non capiranno mai che un sistema economico che può solo espandersi o morire è disonesto nei confronti di tutto ciò che è umano” (pag. 179)


  1. Fuoco sulla montagna, Meridiano Zero, 2004  

  2. I sabotatori, Meridiano Zero, 2001  

  3. Riferimento, quest’ultimo, alla costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica destinate a sconvolgere alcuni degli ambienti più belli e selvaggi del Sud Ovest degli Stati Uniti  

  4. Muzzio, 1993  

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