Vladimir Propp – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

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Una fiaba di resistenza attraverso i secoli https://www.carmillaonline.com/2021/02/11/una-fiaba-di-resistenza-attraverso-i-secoli/ Thu, 11 Feb 2021 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64911 di Paolo Lago

Roberta Calandra, Otto. Tutti siamo tutti, prefazione di G. Mastrangelo, Edizioni Croce, Roma, 2020, pp. 271, € 18,00.

Nel film Cloud Atlas (2012), diretto da Lana e Lilly Wachowski e da Tom Tykwer, tratto dal romanzo L’atlante delle nuvole di David Mitchell, sei storie ambientate in tempi e luoghi diversi si intrecciano fra di loro, tutte legate dai motivi della reincarnazione e del destino. Alcuni personaggi che compaiono nel corso del tempo, caratterizzati da una voglia sulla pelle a forma di stella cometa, in tutte le storie, cercheranno di cambiare [...]]]> di Paolo Lago

Roberta Calandra, Otto. Tutti siamo tutti, prefazione di G. Mastrangelo, Edizioni Croce, Roma, 2020, pp. 271, € 18,00.

Nel film Cloud Atlas (2012), diretto da Lana e Lilly Wachowski e da Tom Tykwer, tratto dal romanzo L’atlante delle nuvole di David Mitchell, sei storie ambientate in tempi e luoghi diversi si intrecciano fra di loro, tutte legate dai motivi della reincarnazione e del destino. Alcuni personaggi che compaiono nel corso del tempo, caratterizzati da una voglia sulla pelle a forma di stella cometa, in tutte le storie, cercheranno di cambiare il mondo in cui vivono. Anche i personaggi di Otto – il recente romanzo di Roberta Calandra uscito per Edizioni Croce – che, a loro insaputa, si ritrovano attraverso i secoli sotto identità diverse, cercano di cambiare la realtà in cui vivono tramite dinamiche di resistenza che si oppongono fermamente ad ogni processo di prevaricazione e di violenza nei confronti dei più deboli. Come Cloud Atlas, anche Otto imbastisce una serie di personaggi, di spazi, di luoghi, di periodi storici che si intersecano e si legano.

Il titolo del romanzo si riferisce agli otto personaggi protagonisti, tutti legati fra di loro, che ricompaiono in uno spazio e in un tempo diverso sotto una diversa sembianza: Philippe e Olympia durante la Rivoluzione Francese, Gabriel e William, due poeti romantici inglesi dell’Ottocento, Milena e Greta in un lager nazista, Giacomo ed Elena nella Roma dei primi anni Duemila. I personaggi del romanzo cercano, come accennato, di cambiare la realtà che li circonda per mezzo di una resistenza all’oppressione e al lento e diffuso annientamento della dimensione umana che ritornano e si ripropongono in spazi e tempi diversi. Le storie inscenate dall’abile penna dell’autrice assumono l’aspetto di una lunga fiaba che si srotola attraverso lo spazio e il tempo, in una dimensione di erranza che sembra conferire senso all’intera narrazione. È proprio il continuo intrecciarsi dei personaggi e degli scenari che carica di senso il racconto, rivestendo di una inedita connotazione quegli stessi luoghi consegnati al dramma della Storia. Gli orrori scaturiti dalla Rivoluzione Francese, le ribellioni dei primi anni Venti dell’Ottocento, la sconvolgente dimensione disumana della quotidianità in un lager nazista, scorci di inizio Duemila funestati dalla distruzione delle Torri Gemelle di New York. Come nella struttura della fiaba analizzata da Propp, anche in Otto sono presenti alcune delle funzioni chiave rilevate dal teorico russo: l’allontanamento che, come nell’antico romanzo greco, separa costantemente la coppia di innamorati (intesi come gli “eroi” della storia), la partenza, il ritorno, la prova da superare e, solo in un caso, il topico happy end con il ricongiungimento finale. A queste funzioni si affiancano anche dei personaggi-tipo, caratteristici, secondo Propp, della “morfologia della fiaba”: l’eroe, l’antagonista, l’aiutante magico che, spesso, può anche configurarsi come un oggetto magico. A passare di mano in mano attraverso il tempo e lo spazio è infatti una collana di perle che assume quasi la funzione di “oggetto magico” dalle valenze sacrali, riuscendo a donare conforto ai personaggi nelle situazioni più difficili.

Nel primo episodio, dopo un prologo che si ricollega all’ultima storia raccontata, Olympia combatte strenuamente per la libertà e i diritti delle donne fino a essere rinchiusa, alla stregua di una folle, alla Salpetriére, “una sorta di manicomio-prigione femminile”. Il “suo progetto più ambizioso” era la stesura della “Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina”, “un testo che ha l’intenzione di rendere consapevoli le donne, al fine di chiederne la reintegrazione completa come soggetti politici”. Come una Cassandra destinata a non essere creduta e trattata da folle, Olympia “non smette di arringare le sue sfortunate compagne, ricevendo in cambio di tanta sicumera punizioni sempre più violente”. La Salpetriére, descritta con piglio storico e cronachistico dalla scrittrice, finisce per assomigliare all’ospedale di Bicêtre come è tratteggiato da Michel Foucault nella Storia della follia nell’età classica, definito dallo studioso come “un’enorme riserva di terrori”, nel quale gli “insensati” si ritrovavano al fianco degli indigenti, dei mendicanti e di molti prigionieri politici o che, semplicemente, lì erano stati spediti per rancori personali dei potenti. Anche Olympia è vittima del “grande internamento” di cui parla Foucault, della separazione della cosiddetta follia dalla ‘normalità’, dell’esclusione del diverso. E, sullo sfondo, campeggia la passione che lega i due amanti, Olympia e Philippe, in una magica danza destinata a sopravvivere nei secoli, nonostante tutto l’orrore che la Storia può generare.

Olympia resiste al sistema dell’oppressione, della segregazione e dell’internamento, come resistono anche Gabriel e William nella seconda parte del romanzo, che prende avvio nell’Inghilterra del 1820. Avvolti dalla passione, i due devono fare i conti con la società inglese che considera l’omosessualità come un reato punibile con la morte: se William sceglierà di schierarsi al fianco degli indipendentisti greci (furono diversi gli intellettuali e gli artisti che accorsero in Grecia da tutta Europa per combattere per la causa dell’indipendenza), Gabriel porterà romanticamente avanti la sua protesta personale contro le dinamiche sociali che hanno provocato l’allontanamento di William, conducendo una vita sregolata fino alla consunzione. Anche a Roma William frequenta le riunioni clandestine dei ribelli finendo poi arrestato. La Storia, quella con la “S” maiuscola, fa infatti spesso irruzione all’interno del racconto, il quale si dipana in una dimensione fantastica e fiabesca senza però mai perdere di vista la realtà storica che fa da sfondo alle vicende. L’elemento magico e fiabesco viene introdotto dalla ricorrente apparizione dell’oggetto che, appunto, si è definito come “magico”, la collana di perle che compare, a forma di otto, nella copertina del libro. Il racconto che vede protagonisti i due poeti inglesi si chiude con l’immagine della collana di perle che cade a terra, mentre anche la parte precedente, relativa alla Rivoluzione Francese, si focalizzava, nei suoi momenti finali, sulla stessa collana fra le mani di Philippe.

Una vera e propria opera di resistenza viene attuata anche da Milena e Greta nell’inferno del lager nazista di Ravensbruck. Nelle due ragazze rivivono Philippe e Olympia, Gabriel e William, personaggi che si rincontrano, adesso, in uno dei più terribili momenti della storia dell’umanità. La passione, legata a doppio filo dalla magica predestinazione che li avvolge (di cui è emblema, anche qui, la collana di perle, nascosta agli aguzzini con i più diversi sotterfugi), riesce a preservare le due giovani donne da molte situazioni disumane che si trovano a vivere all’interno del lager. La scrittura di Roberta Calandra raggiunge dei momenti veramente alti nel riuscire a descrivere, con tonalità crude e realistiche, eppure circonfuse di magica grazia, ciò che, per definizione, è inenarrabile: l’Olocausto, la tragedia dei campi di sterminio, alcuni dei baratri più profondi degli orrori della Storia. Eppure, anche qui, quest’ultima è sempre presente nella sua interezza, la fedeltà storica non viene mai tradita.

Infine, incontriamo Giacomo ed Elena, in un ritorno quasi contemporaneo (siamo agli inizi del Duemila) dei personaggi precedenti, in un’azione narrativa che si dipana soprattutto a Roma nell’ambiente fatuo e cinico dell’alta borghesia (all’inizio, Giacomo è un giovane attore in cerca di fortuna mentre Elena una già affermata regista teatrale). Ed è Elena, qui, a possedere la collana di perle, estremo lascito della madre morta suicida.
I vari episodi, oltre che agli eventi storici, attingono a diverse fonti bibliografiche, riportate in calce al libro. Se nel primo episodio, tra di esse, incontriamo anche una lettera del marchese De Sade alla moglie e la Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina di Olympia de Gouges, alla cui vita è ispirata la figura della protagonista femminile, nel secondo si moltiplicano quelle letterarie: l’autrice attinge a svariati poeti romantici inglesi, da Keats a Percy Bishe Shelley. Nel terzo episodio, l’intera vicenda attinge a Milena, l’amica di Kafka, di Margarete Buber Neumann mentre nel quarto, incentrato sull’universo del teatro, tra le fonti incontriamo Shakespeare e Artaud ma anche il Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini.

La narrazione di Otto, attingendo a vere e proprie “radici storiche” (lo stesso Propp afferma che le fiabe e i “racconti di fate” possiedono radici ben solide all’interno della realtà storica), si srotola perciò in un vero e proprio viaggio attraverso lo spazio e il tempo, mettendo in connessione, appunto, come Cloud Atlas, spazi e tempi diversi. I personaggi sono avvolti da un nomadismo identitario che riflette la società contemporanea, caratterizzata da un flusso continuo di informazioni, di cambi di identità sociale, di veri e propri spostamenti migratori attraverso spazi lontanissimi fra di loro. E se la struttura di Otto, come quella di Cloud Atlas (e come quella di una recente raccolta di racconti di Cristoph Ransmayr, Atlante di un uomo irrequieto) potrebbe quasi essere una metafora del nomadismo identitario che investe la società contemporanea, il finale rimane comunque aperto, con la parola “FINE” seguita da un punto interrogativo. La vicenda narrata da Otto, come l’urlo finale del personaggio di Paolo in Teorema di Pasolini (autore, come abbiamo visto, citato tra le “fonti”), è allora probabilmente destinata “a durare oltre ogni possibile fine”.

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