Vittorio Sgarbi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Alfageddon https://www.carmillaonline.com/2019/08/04/alfageddon/ Sun, 04 Aug 2019 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53925 di Alessandra Daniele

“Di Maio è l’Alfano di Salvini” – Vittorio Sgarbi

In realtà, trasformismo a parte, la parabola politica del cazzarillo grillino è stata finora l’opposto di quella alfaniana. L’ineffabile Angelino infatti, con una percentuale irrisoria di reale consenso elettorale, saltando da uno schieramento all’altro era riuscito ad occupare, o meglio a squattare una dopo l’altra tre delle principali cariche governative: ministro della Giustizia, ministro degli Interni e ministro degli Esteri. Un record. Al contrario Luigi Di Maio, partito dal roboante 32% ottenuto alle elezioni del 4 marzo ’18, s’è subito ridotto a galoppino di Dj Salvini, dimezzando i consensi in [...]]]> di Alessandra Daniele

“Di Maio è l’Alfano di Salvini” – Vittorio Sgarbi

In realtà, trasformismo a parte, la parabola politica del cazzarillo grillino è stata finora l’opposto di quella alfaniana.
L’ineffabile Angelino infatti, con una percentuale irrisoria di reale consenso elettorale, saltando da uno schieramento all’altro era riuscito ad occupare, o meglio a squattare una dopo l’altra tre delle principali cariche governative: ministro della Giustizia, ministro degli Interni e ministro degli Esteri. Un record.
Al contrario Luigi Di Maio, partito dal roboante 32% ottenuto alle elezioni del 4 marzo ’18, s’è subito ridotto a galoppino di Dj Salvini, dimezzando i consensi in pochi mesi.
Secondo i sondaggi più recenti, dopo l’ultimo voltafaccia sul TAV il Movimento 5 Stelle è precipitato addirittura sotto il 15%.
Le stelle cadono, e l’apocalisse pare ormai irreversibile. Chi si fiderà più d’un partito disposto a tradire tutte le sue battaglie, compresa quella sulla quale è stato fondato?
Intanto, anche nell’ex dimora di Alfano s’è aperto il settimo sigillo
Forza Italia non è mai stata un vero partito. È semplicemente il mezzo che a Berlusconi serviva per arrivare personalmente al governo, mentre i suoi protettori politici, beccati col sorcio in bocca da Mani Pulite, si davano alla latitanza.
Forza Italia è come uno di quei finti negozietti di souvenir che la mafia  adopera come paravento, e canale per il riciclaggio.
Berlusconi ha ormai quasi 83 anni, e un comodo seggio al parlamento europeo che gli durerà fino alla soglia dei 90. Forza Italia in fondo non gli serve più. Quindi non si preoccupa più di tanto che venga fagocitata dalla Lega.
Gli avanzi finiscono spesso in pasto ai maiali – pensa tranquillo – che poi a loro volta finiscono in tavola.
Quanto manca alla prossima grigliata?
L’Espresso, La Repubblica e Il Corriere della Sera hanno scoperto che Matteo Salvini è il nuovo Nuovo Hitler.
Prepariamoci alla Coalizione dei Volenterosi che esporterà la democrazia in Italia. Magari con l’appoggio interno dell’ennesimo voltafaccia grillino.
Operazione Alfageddon.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 72 https://www.carmillaonline.com/2015/06/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-72/ Thu, 11 Jun 2015 20:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22948 ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Guido Reni, Vittorio Sgarbi e l’Italian Way Of Life https://www.carmillaonline.com/2015/03/26/guido-reni-vittorio-sgarbi-e-litalian-way-of-life/ Wed, 25 Mar 2015 23:03:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21524 di Mauro Baldrati

G.RENI_La caduta dei gigantiPierluigi Lorenzetti stava sfogliando il catalogo della mostra Da Cimabue a Morandi, che si teneva nella cornice sontuosa di Palazza Fava, il museo della Fondazione Carisbo, a Bologna. Dopo le polemiche furiose sulla scarsa scientificità del curatore Vittorio Sgarbi nella scelta delle opere, con relative querele e controquerele, il pubblico affluiva numeroso. Lorenzetti, redattore sella sezione culturale di un quotidiano cittadino, ne aveva già scritto diffusamente. Aveva intervistato Sgarbi, alla conferenza stampa di inaugurazione, dove il critico era arrivato in compagnia della fidanzata di turno, spettacolare, [...]]]> di Mauro Baldrati

G.RENI_La caduta dei gigantiPierluigi Lorenzetti stava sfogliando il catalogo della mostra Da Cimabue a Morandi, che si teneva nella cornice sontuosa di Palazza Fava, il museo della Fondazione Carisbo, a Bologna. Dopo le polemiche furiose sulla scarsa scientificità del curatore Vittorio Sgarbi nella scelta delle opere, con relative querele e controquerele, il pubblico affluiva numeroso.
Lorenzetti, redattore sella sezione culturale di un quotidiano cittadino, ne aveva già scritto diffusamente. Aveva intervistato Sgarbi, alla conferenza stampa di inaugurazione, dove il critico era arrivato in compagnia della fidanzata di turno, spettacolare, vincolata dalla Soprintendenza, come sempre. Poi c’era stato il colpo di scena, un’arte, se così si poteva definire, nella quale Sgarbi eccelleva: la scoperta di un inedito di Guido Reni, un bozzetto preparatorio del capolavoro La caduta dei giganti, che un collezionista anonimo gli aveva sottoposto, a mostra già iniziata. Sgarbi lo aveva attribuito senza indugi a Guido Reni: “Mi rendo conto di trovarmi davanti all’opera preparatoria dei Giganti” aveva dichiarato alla stampa. “La mia attribuzione si basa anche su un documento del Malvasia. È un capolavoro anche per la sua portata storica. Si notano la pittura croccante e una figura in meno rispetto all’opera finale”. Il valore stimato era di 400.000 euro, e subito la Fondazione Carisbo, tramite il potente Fabio Roversi Monaco, presidente della Genus Bononiae, si era detta interessata all’acquisto.
Polemiche, annunci, la scoperta di un inedito: così la mostra procedeva a vele spiegate.

Il telefono di casa squillò. Rispose la moglie di Lorenzetti, che lui chiamava affettuosamente “Mona”, in onore alla mitica seconda moglie di Henry Miller, il suo scrittore preferito.
“Luigi, è una signora. Per te.”
“Chi è?” chiese Lorenzetti.
“Non l’ha detto” rispose Mona.
Lorenzetti prese la cornetta di malavoglia. Non sopportava gli interlocutori che non si presentavano. Sapeva di questuante, di richiedente di favori o di recensioni.
“Dottor Lorenzetti?” disse una voce femminile. Sicura, garbata, non giovanissima. “Dottor Lorenzetti, ho letto con attenzione il suo articolo sulla mostra e sul bozzetto di Guido Reni.”
“Chi parla, scusi?”
“Mi permetta di non presentarmi, dottor Lorenzetti. Non credo di poterlo fare, con quello che ho da dirle.”
“Signora, e lei mi permetta di non recepire dichiarazioni anonime.”
Un breve silenzio. “Dottor Lorenzetti, le ho telefonato perché ho bisogno di capire se noi del mondo dell’arte bolognese siamo stupidi. Quel bozzetto non è di Guido Reni. Ogni studioso lo sa.”
Pierluigi Lorenzetti rimase interdetto. Qualcosa in lui si ribellava, una interlocutrice anonima che pretendeva di fornire un altro annuncio eclatante. Quella telefonata poteva diventare pericolosa. Eppure il tono della signora, così tranquillo e sicuro di sé, gli impediva di riattaccare.
“E’ attribuito a tale Gaetano Gandolfi, vissuto circa 150 anni dopo Guido Reni, un pittore minore.”
“Signora, le ripeto che non accetto una segnalazione anonima, mi dispiace. Mi dica il suo nome, e non lo rivelerò.”
“Non posso, mi creda. Comunque la cosa è verificabile. Qualche tempo fa è stato messo all’asta da Gregory’s per un valore stimato di circa 2.500-3.500 euro. E’ rimasto invenduto. Controlli, le fornisco il link del catalogo.”
Lorenzetti, sempre più confuso, prese carta e penna e si apprestò a trascrivere il link.

Il caporedattore sembrava arrabbiato. Ma Lorenzetti non ne era sicuro. Quando Cataldo si arrabbiava iniziava a parlare pesante, con turpiloquio hard. Invece sembrava riflettere, come se cercasse di mettere a posto i pezzi di un puzzle.
“Sei proprio sicuro, hai controllato?”
“Assolutamente sì. E’ di Gandolfi, è nel catalogo.”
“Fantastico. Lo abbiamo pompato per bene. Mi consola il fatto che anche gli altri giornali lo hanno scritto: favoloso inedito del maestro e simili cazzate. A questo punto senti Sgarbi, scrivi un altro pezzo, e spingi sul pedale. Fallo subito, lo voglio prima della chiusura.”

Il vocione del critico, che aveva riempito di terrore gli interlocutori televisivi che aveva strapazzato o sbranato o addirittura percosso durante la sua lunga carriera di polemista estremo, sembrava frenato. Come se cercasse di tenere a bada una sorta di rabbia compressa.
“Mi riservo di osservarlo nuovamente per poter fare una perizia definitiva. Sapevo dell’opera messa all’asta dalla casa Gregory’s, appartiene allo stesso proprietario che ci ha proposto il bozzetto della Caduta dei giganti. Potrebbe trattarsi della stessa opera. Bisognerà in particolare studiare bene il retro del quadro. Quello di Gandolfi è infatti firmato dietro dallo stesso artista. E questo non lascerebbe alcun dubbio all’attribuzione.” Stava chiaramente fornendo una dichiarazione. Stava mettendo le mani avanti. Cristo, pensò Lorenzetti, ma non poteva “osservarlo attentamente” prima di presentarlo al mondo in pompa magna?
“Ma lo farà entrare comunque nella mostra, come ha annunciato?” chiese Lorenzetti. “Questo fatto non cambia le cose?” Tutti se lo chiedevano.
“Per me non cambia nulla. Il valore artistico del quadro resta immutato. Anzi, aumenta l’interesse intorno a quest’opera. Perché il fatto che 150 anni dopo Gaetano Gandolfi decida di cimentarsi con una immagine così cara a Guido Reni, dimostra la straordinaria modernità del suo predecessore, che continua, tra i pittori, a fare scuola e a essere imitato anche più di un secolo dopo. Quindi l’opera rimane perfetta per la mostra di Palazzo Fava.”
Quindi, non cambiava nulla perché comunque il fatto che un certo Gandolfi avesse dedicato il suo quadro a Guido Reni non faceva che accrescere la statura artistica del maestro. Una bella… paraculite! pensò Pierluigi Lorenzetti.
Ma di sicuro non lo avrebbe scritto.

Il giorno dopo uscì un pezzo dal titolo Vittorio Sgarbi cade su Guido Reni, con una ricostruzione del fatto, i riferimenti alla casa d’aste Gregory’s, ma senza alcun accenno alla telefonata della signora. Lui, Lorenzetti, e il suo giornale, avevano scoperto l’arcano, punto e basta. “E’ davvero la mostra delle sorprese Da Cimabue a Morandi, curata da Vittorio Sgarbi a Palazzo Fava” aveva scritto. “Si susseguono i colpi di scena quasi cinematografici con cadenza quotidiana. Se giovedì, infatti, lo studioso ferrarese aveva annunciato l’acquisizione, all’interno dell’esposizione , del bozzetto preparatorio realizzato da Guido Reni per la sua maestosa Caduta dei Giganti, che già campeggia nelle sale di via Manzoni, oggi la stessa attribuzione di quel lavoro potrebbe cambiare.”
Alla sera il direttore del giornale aveva telefonato sgridando Lorenzetti e il caporedattore per il titolo irrispettoso dell’articolo, ma non sembrava per nulla arrabbiato. Anzi, a Lorenzetti parve di intuire un tono divertito nella reprimenda.
L’indomani uscì un nuovo articolo con una breve intervista a Vittorio Sgarbi e alcune dichiarazioni di Roversi Monaco che si diceva soddisfatto perché l’importanza di Guido Reni ne usciva, se possibile, ancora più clamorosa, e pensava di acquistare comunque il bozzetto di Gandolfi.

Perché da questa storia tutti ne uscirono contenti e soddisfatti. Vittorio Sgarbi per la pubblicità gratuita, il ritorno in prima pagina, le polemiche ecc. Infatti il critico sapeva benissimo che in Italia non esisteva pubblicità negativa o positiva, ma solo il can can, il volume alto, lo spettacolo; tutti requisiti preziosi per chi, come lui, viveva e operava sopra le righe. E la mostra, che aveva aumentato il numero di visitatori, tanto che avevano deciso di prorogarla fino ad agosto. E il giornale, che aveva incrementato le vendite, come sempre quando c’era di mezzo Vittorio Sgarbi. E pure Roversi Monaco, il quale aveva risparmiato un investimento sbagliato di 400.000 euro, che, se pure per la banca erano spiccioli, di sicuro non avrebbe costituito un buon riferimento dal punto di vista manageriale.
Tutti contenti, anche il pubblico di spettatori-fruitori-elettori, i quali potevano sentirsi parte di un evento che aveva creato scandalo, polemiche, ricavando una dose abbastanza soddisfacente di eccitazione per il gossip inaspettato.
L’unico che non gioiva era il misterioso collezionista, che aveva perso un businnes facile facile da quasi mezzo milione, e forse avrebbe dovuto accontentarsi di poche migliaia di euro.

Ma anche questo poteva capitare, nel mondo luccicante, rumoroso e telegenico dell’Italian Way Of Life.

[In apertura: La caduta dei giganti di Guido Reni. Qui il catalogo della casa d’aste Gregory’s; il bozzetto di Gandolfi è il lotto n.40]

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 62 https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-62/ Thu, 18 Sep 2014 20:44:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17191 di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005 Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi [...]]]> di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005
Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi te lo devi finire. La prima parte del film, preparatoria, è irritante nella sua linearità, con degli imbecilli studenti americani in Interrail e che hanno praticamente la patata tatuata in fronte. Beh, anch’io ero partito per il classico viaggio post liceo pieno di aspettative verso leggendarie valchirie pronte a sbranarsi il bel pezzo di manzo che ero. Invece era finita che m’ero messo con Barbara. Perlomeno fino a stasera, visto che durante la visione del film borbotta più volte. I protagonisti, comunque, beati loro, si fanno una drogata tappa copulativa ad Amsterdam e son tentati dal colpo grosso: sono attirati a Bratislava per trombare ancor più, alla grandissima. E trombano, con gran sollazzo di regia (Eli Roth) e spettatore lubrico: ci manca che Barbara mi asciughi la bavetta alla bocca. Però per troppa foga e amor di figa i due rimangono invischiati in un gioco mortale: il film allora prende quota e c’è una certa astuta cattiveria visiva e narrativa che non lesina pelle, sia nuda che lacerata e sanguinolenta. Il film si pretende sia ambientata in Slovacchia, ma siamo nella Repubblica Ceca e la fauna locale che appartiene alla categoria “macrognocche da infarto”, viene esibita abbondantemente senza nascondere la natura maschile e maschilistica di questo esercizio sadico, rivolto a un pubblico preciso. Son moralista? Macché! Mi piacciono pure le donne nude – pensa te – ma mi dà fastidio il ricatto quando è così scoperto, senza nessuna astuzia se non l’esibizione (in cui casco a piedi giunti, è chiaro. E capisco anche il protagonista: il chiavatone che si fa vale una mutilazione permanente). Comunque: ritorno in me e faccio il prof dalla voce nasale: il problema generale di Hostel è essere un film che fa dell’esposizione oscena la sua ragione. Un po’ come quella stronzata di Saw, horror efferato, cinematograficamente furbetto e di cui mai vedrò i seguiti, neanche sotto tortura, quella tortura. (Diretta Sky; 6/10/07)

ddv6202662 e 663 – L’ha scritto Balzac E.R. (Anno 3 e 4) di Michael Crichton e Aa.Vv., USA 1996/97
Vi è mai successo? Avete voglia di un bel filmone fluviale, una di quelle faccende che rimani nel buio della sala, o tramortito sul divano, e pensi: questi personaggi sono vivi. Io li conosco, gli voglio bene, devo sapere cosa gli accadrà domani. Perché per quella porzione di tempo che ti ha preso il film tu sei entrato nella loro vita, nei loro problemi, hai condiviso la loro felicità o i drammi, i dubbi, i successi e le sconfitte. Ecco: penso a La maman et la putain… Leaud dove sarà ora? Starà ancora parlando e parlando, indeciso su cosa fare della sua vita? Beh, avevo voglia di una cosa così e mai mi sarei aspettato di trovarla in un serial televisivo. Perché la tivù di solito banalizza, attutisce, tranquillizza, consola, distrae, addormenta. E invece ecco che quel E.R. che ho schifato per tanti anni mi dimostra che può avvenire anche il contrario. Intendiamoci, ero esaltato anche dalle prime due serie ma con queste terza e quarta stagione si ascende ad ancora più alte sfere celesti. Si tratta di un capolavoro. È la Commedia Umana del ventesimo secolo, il documento visivo più completo per capire cosa siano gli Stati Uniti, degli anni Novanta e di oggi: lavoro, Aids, razzismo, rapporti uomo donna, omosessualità, disgregazione della famiglia, assistenza sanitaria, classismo, ricerca medica, mutuo, povertà, droga, delinquenza, armi, consumi, le gang, gli homeless, il Capitale, la vita e la morte… c’è tutto, con uno sguardo democratico, mai estremista, talvolta cerchiobottista ma mai falso o moralista (è lo show, credo, più visto di tutti i tempi: queste serie viaggiavano su una media di 30 milioni di spettatori. No, dico: 30 milioni. Intesi?). Ottimo il cast, il montaggio, le musiche, il ritmo, la regia, la psicologia dei personaggi, la verosimiglianza quotidiana e anche esistenziale. Tutto. Perfetto. Quando lo vedeva solo Barbara mi stava sul cazzo (E.R., non lei), poi, visto in originale l’episodio pilota della prima serie, sono rimasto completamente schiavo. È l’optimum televisivo: l’Heimat che gli americani non sanno di aver prodotto. E so già che un giorno dovrà arrivare a conclusione. E dove finiranno tutti loro, eh? E io? Argh. (Dvd; ottobre e novembre 2007)

ddv6203665 – Il finto The Prestige di Christopher Nolan, USA 2006
A Genova, per un blitzkrieg weekend, con pupattola al seguito. Dopo cerimonie voodoo, scongiuri e pratiche animistiche per addormentarla, ci concediamo un film e papà ci precede, un po’ aggressivo, come a dire di non cominciare a rompere: “Ho un dvd ottimo, con responsi critici da favola”. Ahia, qui finisce a schifio. Lo produce dalla borsa e io faccio la faccia un po’ così, da vera merda. Siccome si irrita subito perché distruggergli i film che mi propone è il mio sport preferito, lo ammansisco dicendogli che anche l’amico Pif lo ha trovato splendido, per intreccio e sorprese. Lo vediamo e, invece, sarò io un genio, ma mi erano chiari tutti gli inghippi con abbondanti mezz’ore di anticipo. E siccome io NON sono un genio vuol dire che il film è una vaccata. E per la cronaca mio padre non ha invece capito una mazza e s’è pure addormentato. Messo in scena benissimo, The Prestige è però freddo e lunghetto e sembra il compitino di un primo della classe che vuole sempre stupirti, sennonché a Nolan il prestigio non viene per nulla, secondo me. Con Memento il regista ci riusciva prima di diventare noioso, qui no. Il cast gronda dollari e oltre ai divetti Hugh Jackman e Christian Bale ci sono anche il classico Michael Caine, l’elegante David Bowie e la fatalona Scarlett Johansson, che com’è fotografata qui sembra una caricatura: è alta un metro e un barattolo, la forma del viso ricorda quello di un divieto di sosta con labbra carnosissime e ha tette che la precedono di un quarto d’ora buono. No, non è sessismo mio, è sessismo loro, credetemi. Vabbeh, film che passa ma che delude anche. L’unica cosa che mi ha divertito è stato Bowie nella parte dello squinternato e geniale Tesla. Basta. Comunque Pif ha messo su un suo programma su MTV, Il testimone, ed è bellissimo, questo sì. Semplice nella forma, ricchissimo nella sostanza: un distillato di intelligenza del mio piccolo amico, uno che farà carriera, son sicuro. (Dvd; 7/12/07)

ddv6204666 – Una porcata, Homecoming di Joe Dante, USA 2005
Papà ci riprova e mi dice, mani avanti: “Oh, Joe Dante! Ci siamo capiti? Dante!”. Beh, ne ho letto qui e là e in effetti molti critici erano in erezione marmorea per ‘sto filmetto. L’idea di partenza è folgorante (i cadaveri dei soldati USA morti in Iraq riemergono da sottoterra perché vogliono votare contro Bush) ma lo svolgimento è paratelevisivo a voler essere generosi, con attori che non se li imbarcherebbero neanche i Legnanesi in una replica parrocchiale. Mamma mia che brutto, una schifezza umiliante. Siccome Dante è pur sempre Dante, gli perdonano qualunque cosa, ma già La seconda guerra civile americana era una stupidaggine che si sgonfiava dopo aver semplicemente letto il riassunto sui quotidiani. E anche stavolta c’è solo un’intuizione e non un adeguato sviluppo nonché una forma degna di tal nome. E poi mi hanno un po’ rotto il cazzo gli americani liberali che della guerra in Iraq si ricordano sempre le vittime statunitensi e mai i centomila civili iracheni stecchiti (a volare bassi con le stime). Più gli altri (soldati, ribelli, pure terroristi) che son uomini anche loro. Se per loro un filmetto così è buono per pulirsi la coscienza, io aggiungo che mi ci pulirei qualcos’altro. E dài, eh. (Dvd; 8/12/07)

ddv6205667 – L’inaspettato Munich di Steven Spielberg, USA 2005
Non pago, dopo due cocenti delusioni, papà insiste ancora con le sue proposte cinematografiche e stavolta fa centro nella maniera più inusitata. Vedo il dvd di Spielberg e comincio a lamentarmi. Perché diverse cose sue recenti mi hanno irritato e certa poetica infantile non mi piglia più, non so. Che poi sa mettere in scena – e chi dice di no – però, boh. “Ma lo guardiamo, papà, dài, non offenderti”, e… ammazza che film! Va come un treno, è sottilmente ambiguo, per nulla compiacente, ricco e pure appassionante, limpidissimo e zeppo di fughe di “genere”. Insomma: il capolavoro che non ti aspetti, snobbato dal grande pubblico al botteghino e rifiutato sdegnosamente dagli israeliani (il che fa capire molte cose). Voglio dire: quale azione terroristica è risultata mai più odiosa dei fatti di Monaco, dell’uccisione di quegli atleti israeliani nel luogo dove dovrebbe vigere la tregua olimpica? Quanto può aver allontanato dalla comprensione della causa palestinese quell’atto? Eppure Steven (ebreo, sempre attentissimo alla memoria del suo popolo) riesce a metterci anche il punto di vista *loro* e si sforza di capirlo e costringe lo spettatore a mettersi in discussione come il protagonista, chiedendosi il senso della vendetta, del sangue che non lava altro sangue, ma ne farà versare ancora. E dove siano la ragione e il torto. Oh: mai amato troppo Spielberg, ma un film così mi fa perdonare tante cose. Per me – in un ambito mainstream e con cotanta paternità – perfetto. (Dvd; 9/12/07)

ddv6206669 – Ancora un capolavoro: Grizzly Man di Werner Herzog, USA 2005
Film incredibile, scomodo, folle e irritante come sa essere la vita. E la morte. Lo sguardo glaciale di Werner, senza giudizi, sull’esistenza irregolare di Timothy Treadwell, un ambientalista sui generis che ha deciso di votarsi all’impossibile convivenza con dei grizzly, cari e buoni finché non han fame. La storia è perlopiù narrata attraverso i filmini che Treadwell ha realizzato (un centinaio di ore di materiale, accuratamente selezionato e montato), accompagnati dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto (l’ex fidanzata, la sorella, un medico, una guardia forestale), tipi che non paiono meno strani dell’oggetto dell’investigazione filmica. Ma Herzog, come sempre, sembra chiederci: qual è la normalità? E possiamo piegare la natura ai nostri desideri? Le immagini documentarie di Treadwell sono curiose e danno un sapore particolare e agghiacciante al racconto, anche se ci vengono negate le sequenze finali della sua vita, che viviamo solo attraverso lo sguardo allucinato della sorella che invece le vede. Scelta etica che diventa anche cinematograficamente potentissima. Gran film, tanto per cambiare, tra l’altro musicato da quel genio che è Richard Thompson, uno dei miei musicisti preferiti (definizione preferita: “suona come se Chuck Berry fosse uno scozzese cresciuto in Libano”; in Italia quanti saremo ad avere tutti, ma dico proprio tutti, i suoi dischi?). (Dvd; 14/12/07)

ddv6207672 – Droga tagliata un po’ male: 24 – Stagione quattro di Aa.Vv., USA 2005
Siccome sono rimbambito ho visto la quarta serie prima della terza. Amen, più mistero ancora. In realtà non si gioca tanto sui tradimenti, perché è una serie un po’ fascistona e schematica, con buoni e cattivi schierati, morale busheggiante e arabi amorali, pronti ad ammazzare i figli. Stavolta non c’è teoria del complotto, ma pura e semplice azione. Jack Bauer agisce trasgredendo ordini e protocolli, risolvendo quello che i burocrati culi di piombo affrontano con leggerezza, incompetenza e lentezza. E intanto fa secchi un centinaio di arabi (o simili, anche se sono iraniani per gli yankee è la stessa cosa) traspiranti e puzzoni, anche quando plurilaureati. Per salvare la faccia ci sono anche arabi buoni che denunciano le attività dei fratelli cattivi. Unica (involontaria?) contraddizione: il discorso del cattivone di turno, tale Marwan, alla nazione americana, che riassume in due frasi la rabbia di chi odia la politica USA. Lo fa in maniera così precisa e ficcante che dubito che chi l’abbia scritta non ne intravedesse la verità. Rispetto alle prime due serie è tutto un po’ raffazzonato: più di un personaggio è dimenticato durante la narrazione (puf! Scomparsi!), molte volte gli impicci nascono da leggerezze francamente incoerenti (mancanza di uomini, tecnologia o abilità) e lo schema narrativo (indizio, ricerca del personaggio, interrogatorio, tortura, successo) è ripetuto troppe volte. Grande adrenalina, poco fosforo. Me ne farò una ragione. (Dvd; dicembre 2007 e gennaio 2008)

ddv6208674 – Il tristanzuolo Kontroll di tale Antal Nimrod, Ungheria 2004
Un film autoriale ungherese che trovo poco risolto: quando si bordeggia la commedia si ride a denti così stretti che ti fai male. Nelle parti drammatiche o poetiche è invece tutto sfuggente o un po’ banalotto. Bellissima fotografia sotterranea (il film è ambientato nella metropolitana di Budapest), okay, qualche attore dalla faccia interessante, una certa tenerezza, ma non cerchiamo scuse: Kontroll risulta – stringi stringi – una magiara rottura di coglioni come poche. (Dvd; 26/1/08)

ddv6209681 – Lo storico Barbarella di Roger Vadim, Francia/Italia 1968
Siccome l’hanno visto in milioni, siccome di Jane Fonda manca poco che si veda anche una gastroscopia, siccome i costumi li ha disegnati Paco Rabanne, siccome la psichedelia fantascientifica arrivava alle masse (virata pop e vagamente cartoonish), siccome c’era la liberazione sessuale, siccome tutte queste cose, Barbarella è un film che va visto. Lo faccio e mi ritengo autorizzato a definirlo una cagata dove salvo solo il grandissimo Ugo Tognazzi, perché il timbro della sua voce è splendido e perché – perlomeno sulla scena – si bomba la Fonda. Mi direte: ma questo film aveva un senso allora, non oggi, e l’erotismo e bla bla. Okay, ma io l’ho visto adesso, c’è già YouPorn e son nervoso, per cui fatevene una ragione. (Dvd; 29/2/08)

ddv6210682 – Scappo in Madagascar, di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2005
Un filmetto piacevole che ci mette mezz’ora ad ingranare e poi cresce bene. Il tratto un po’ spigoloso non mi piace granché ma molte scene (per presenza di masse – la tribù di lemuri imbecilli –, o architetture – Grand Central Station) non sono niente male. Il gioco citazionistico è spinto al massimo per dare motivo d’interesse agli adulti a seguire una vicenda abbastanza esile e perfetta per i pupattoli. Talvolta funziona (La febbre del sabato sera) altre è pura menzione (Momenti di gloria). Ma Madagascar si fa vedere, coinvolgendoti con la stupidità assoluta dell’orgiastico Re Julien o della pattuglia di stolidi ed efficaci pinguini che vogliono tornare in Antartide. Tra miraggi carnivori, comicità demenziale e anche un’insospettabile scorrettezza politica, viene fuori un film per bambini e adulti rimbambiti. Per cui ottimo per me. Ricordo diverse critiche perché sostanzialmente gli animali, ritornati al loro habitat naturale, ripensano nostalgicamente alla cattività urbana: come sempre l’ironia è un vento gelido che sfiora i polemisti da quotidiano. (Diretta Tv, Italia1; 4/3/08)

ddv6211683 – L’incredibile Zardoz di John Boorman, Gran Bretagna 1973
Solamente gli anni Settanta potevano partorire una cosa così: un film magnificamente astruso nei dialoghi e nel racconto della società futura e contemporaneamente sempliciotto nello svolgimento narrativo (e comunque complicato da rivelazioni che arrivano poco a poco). Costumi tra l’inventivo e il risibile, scenografie di plexiglass coloratissime e una generale atmosfera psichedelica e drogata, esaltata da una fotografia splendente; Sean Connery irsutissimo e seminudo, con uno slippino in pelle molto sadomaso a infagottare il pacco, l’adorata Charlotte Rampling sempre splendida. Fu un insuccesso clamoroso e la cosa non mi stupisce. Però gli vuoi bene, perché un film costa miliardi e c’è un matto, Boorman, che li ha messi di tasca propria per concedersi questa follia che oggi ha un immenso valore nel raccontarci come si poteva far cinema allora. E cosa passa talvolta nella testa degli uomini. (Dvd; 8/3/08)

ddv6212684 – La mitologica visione di Medea di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Assente Barbara per le vacanze pasquali, procedo a uno spietato repulisti della videoteca, valutando per ogni cassetta qualità della registrazione, futura obsolescenza, reperibilità con altre fonti. Sarà una banalità, ma ormai su Youtube trovi veramente di tutto, è la nastroteca virtuale galattica dove c’è ogni cosa. Per il resto, il proibito, connessione veloce e peer to peer e – mulo o torrente – trovi il resto. E se proprio non lo trovi vai su Amazon e non rompere più le palle, dài. Eliminando le vhs ho sacrificato decine di film e spezzoni di Springsteen, Negrita, Gialappa, Fuori orario, amenità varie e Blob… anche se qualcosa mi sono rivisto, non ho saputo resistere. Come Fede che mette le bandierine durante le regionali del 1995, i funerali di Falcone, l’arresto di Giovanni Brusca, di nuovo Fede in orgasmo durante l’attacco all’Iraq del 1991, Achille Occhetto che piange alla Bolognina, Giuliano Ferrara tracimante in ogni dove, il sonoro ceffone di Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, Enrica Bonaccorti che becca un concorrente telefonico che risponde (esattamente: “Eternit”) prima della domanda del cruciverbone, Antonella Clerici che dichiara che pensa sempre al cazzo… Poi, messo via Miracolo a Milano (regalato, non buttato, ma l’ho visto almeno 5 volte), ho pensato che voglio più bene a Vittorio De Sica (il primo De Sica) che a Rossellini (specialmente l’ultimo). E che Herzog è immenso, specie quando la sua vita finisce nei film in cui ne racconta altre (e le vhs di Werner le ho tenute tutte). E che come certo cinema sperimentale degli anni Venti e Trenta, così libero, inventivo e geniale non c’è stato più niente. Poi ho rivisto il corto The Waiting Room di Jos Stelling, piccolo capolavoro erotico, e a spizzichi e bocconi Sign ‘O’ the Times esagerato film concerto con Prince al top: tutto feeling e ritmo, che grande chitarrista! Ma qualcosa l’ho assunto anche integralmente, tanto da elaborare un giudizio più meditato: è il caso di questa Medea di Pasolini. E il giudizio è: epico stracciamento di palle. E poi – scusate – hai sempre la sensazione che le masse rurali, che PPP metteva davanti alla cinepresa, non capissero una mazza di quello che dovevano fare. Attori presi dalla strada, dell’Anatolia però. Vedi gente che a comando fa qualche movimento, con sguardi persi verso la cinepresa, e poi si ferma come ad aspettare un cenno d’assenso. Una sensazione straniante, se vogliamo salvare la regia; un effetto tra il comico e il tragico se dobbiamo dire la verità. Perché Pasolini era un genio, è chiaro. E se decidiamo che l’ingenuità registica e narrativa siano un valore, va bene, era anche un bravo regista (che io, personalmente, ho sempre amato). Però francamente preferisco che l’inquadratura sia un po’ più curata, magari non traballante; così come il montaggio. E gli attori, pure. Se no vedersi una cosa come Medea diventa un continuo giustificarsi col tuo angelo custode cinematografico che ti ricorda che dovrebbe essere un capolavoro. La scelta delle location è formidabile (specialmente la Piazza dei miracoli di Pisa), i colori e i costumi sono molto evocativi. La vicenda – se conosci il Mito – è abbastanza leggibile; altrimenti è un florilegio di dialoghi al contempo declamatori ma anche doverosamente esplicativi – se no non si capirebbe veramente una minchia – seguiti da ellissi siderali e silenzi agghiaccianti che menano gran strage di spettatori. Ritmo, manco a parlarne. Maria Callas appare in un’intervista prima del film e non è quel che si dice una strafiga, ma è simpatica, molto intelligente e soprattutto affascinante: sprigiona energia ed erotismo. Poi la vedi nel film ed è veramente mostruosa, truccata come un reperto archeologico, boh. Medea l’ho visto con impegno meritevole di miglior ricompensa dopo aver già rinunciato a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette: al quindicesimo del primo tempo ho avuto il sospetto che mi stesse crescendo un terzo coglione e ho deciso che poteva bastare: dialoghi ammorbanti, montaggio sgradevole, attori con facce da culo, vicenda che non mi intriga e densa di nomi che dimentico appena sento. Sarà colpa mia, ma non ho più l’età. (Vhs da RaiDue; 16/3/08)

ddv6213685 – A bocca aperta davanti agli Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, Italia 1970
L’idea è: cerchiamo nella giovane Africa libera gli attori e le location per girare il mito di Oreste. Accompagnati dalla voce del Poeta, il film gira quando PPP si dimentica di associare Oreste e company alle immagini e racconta ciò che vede. Quando invece spiega il delirante progetto a degli studenti africani a Roma ci sono momenti spiazzanti, da supercazzola. Del resto rispondere a Pasolini che chiede se sia meglio ambientare l’Orestiade nell’Africa di allora (1970) o della prima decolonizzazione (1960), sembra uno scherzo crudele, oltre tutto fatto a gente che parla l’italiano stentatamente. L’impressione fortissima è che con questa specie di documentario il Pierpa si sia pagato il viaggio in Africa (col nasale Alberto Moravia al seguito, sai che spasso), oppure abbia messo una pezza a un progetto finito (ma anche pensato) male ed astruso. La musica originale è di quell’altro mio idolo che è Gato Barbieri, che però a un certo punto è vittima di un pentimento della regia in corso d’opera. Non bastassero le difficoltà precedenti, Pier Paolo si chiede: e se la tragedia fosse cantata? Giuro. Così, su atonale e ululante musica free, due cantanti neri devono anche impersonare Agamennone che scazza con Clitemnestra, raggiungendo vette degne del prof. Biscroma di Bracardi. Questo filmettino da oltre 60 minuti l’ho visto perché buttare via un nastro registrato 12 anni fa senza neanche dargli una possibilità mi sembrava brutto. Diciamo che è stato un omaggio alla mia passata passione cinefila. Che, grazie a dio, è passata. (Vhs da RaiTre; 17/3/08)

ddv6214686 – La burla Echelon controllo totale di un cialtrone, Francia 2002
Il documentario che dovrebbe raccontarci come siamo controllati in ogni nostra mossa comunicativa: cellulari, Internet, Sms, etc. Solo che è tutto narrato (da tale David Korn-Brzoza) in modo fiacco senza neanche la cialtronaggine croccante di un Voyager televisivo, per dire (e non basta usare il widescreen per fare cinema: serve un’intenzione). La fatidica rivelazione del complotto mondiale contro la nostra privacy è gestita coi piedi, buttata lì, quasi non fosse importante. L’ho mollato dopo dieci minuti di improperi: non si fa così, se no poi diventa tutto teoria del complotto e le denunce vengono attribuite ai soliti paranoici, eh. (Vhs da Tele+; 17/3/08)

(Continua – 62)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Un weekend del 1993 – 3/5 https://www.carmillaonline.com/2014/08/07/weekend-1993-35/ Thu, 07 Aug 2014 21:01:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15654 di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1 e la 2] Metti un sabato sera, al rave

weekend3La serata s’è subito messa bene. Vecchi amici, un buon rosso e cibo eritreo. Raffa e io siamo gli unici fessi che, da veri ghiottoni, ingoiano il peperone verde piccante intero. Saporito sì, ma fortino e la lingua diventa un altoforno. Le lacrime agli occhi e la sudorazione da sauna non c’impediscono di apprezzare il compagno Pier che tiene banco durante la cena e sfoggia il suo ethos. Sembra una convention elettorale perché espone, in 100 punti, il [...]]]> di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1 e la 2]
Metti un sabato sera, al rave

weekend3La serata s’è subito messa bene. Vecchi amici, un buon rosso e cibo eritreo. Raffa e io siamo gli unici fessi che, da veri ghiottoni, ingoiano il peperone verde piccante intero. Saporito sì, ma fortino e la lingua diventa un altoforno. Le lacrime agli occhi e la sudorazione da sauna non c’impediscono di apprezzare il compagno Pier che tiene banco durante la cena e sfoggia il suo ethos. Sembra una convention elettorale perché espone, in 100 punti, il suo programma, con una parola buona per tutti: il frignone Leoluca Orlando, Di Pietro, Occhetto, Formentini, gli orridi Ragazzi del muretto, Castagna, Venditti, Alba Parietti, Minghi, Costanzo, Mino Damato, Mara Venier, Pannella, Sgarbi, Fede, Ferrara e Berlinguer padre, figlia e cugino. E di Andreotti ha una certezza: “Altro che un bacetto a Riina, ci ha messo 5 centimetri di lingua”. E ancora Santoro, Guglielmi, Curzi, Donatella Raffai, Dandini e Augias: “E questa è la cultura di RaiTre: tutti gli animali della savana che ciulano”.
Lo accuso d’intolleranza e mi ricorda che più di una volta ho detto che se vado al potere, come niente faccio due milioni di morti, ispirato proponimento polpottista che abbraccia in pieno. M’arrendo all’evidenza della mia confusione mentale. Si parla d’altro ma è sempre Pier a fare lo show con bislacche teorie sul rapporto intimo di coppia, teorie che non lo hanno ancora, incredibilmente, reso padre. Si parla anche di politica, di questo governo delegittimato e delle probabili elezioni in primavera. Dichiaro che questa volta si vince facile, a man bassa: altro che Patroclooo, Achilleeeee! Raffa dice che non vinceremo mai. Mi fa presente che sono di sinistra e pure genoano: ho mai vinto qualcosa in vita mia? M’incupisco. Poi Matteo tira fuori Berlusconi e la sua uscita su Fini, per le comunali di Roma. Si dice che voglia entrare in politica. Sì, e mette su un partito così, dal nulla? Ma dài, Matteo… Pacche sulle spalle che si riservano allo scemo del villaggio. E alle undici, satolli, sudati e bevuti, che si fa?
Raffa, sempre in vena di originali iniziative, propone di andare ad un rave che si tiene alla “Cascina detta di pulci” di Vaiano Valle: si esibiranno i Mutoid, anarco-transmutanti inglesi svernati a Santarcangelo di Romagna. E come dire di no a questa botta di vita intellettuale, a quest’occasione di frugifero confronto sociale ed artistico? Faccio presente che non vorrei far troppo tardi, se no la Uno di Barbara si trasforma in una zucca e le scarpine di cristallo non mi entrano più. Sì, sì, mi rispondono, e si parte giulivi verso l’area del dissenso.
L’arrivo è avventuroso e l’atmosfera nella cascina è strana. È cadente e ci vive dentro una comunità di punkabbestia con i loro cani: bisogna stare molto attenti alla marea di stronzi per terra e dallo stato del pelo delle bestie si comprende il soprannome della cascina. I punkabbestia tanto sono truci nell’aspetto quanto gentili nel comportamento. Vengono addirittura a prenderci: ci viene incontro una macrognocca con la testa da gorgona rasta. La cascina è in mezzo ai campi e per evitare ingorghi fanno parcheggiare lì vicino, poi ti portano loro con un furgone. Guida un’altra bellona, dalla testa che sembra la coda di un pavone in amore. Nel Centro Sociale musica techno-punk a volume assordante: siamo decisamente i primi e infatti non è neanche mezzanotte. Facciamo i disinvolti ma è impossibile non notarci: siamo lì (scopriremo) con 4 ore d’anticipo sull’avvenimento. A piercing vari, dreadlock, giarrettiere smagliate e tagli da ultimo incazzato dei mohicani oppongo desert boots e giacchetta di velluto da futuro architetto, che indosso con la classe di un modello sgonfio. Qualcuno intuisce che ho delle sigarette: inizia una processione per chiedermele. Mi adeguo e dopo un po’ cerco anch’io gente da cui farmele offrire perché le mie le ho finite, solo che io sembro un infiltrato della Digos e me le danno mal volentieri. Un tizio più barcollante degli altri mi offre una pasticca e io declino molto urbanamente facendo presente che ho già le Mentos da sballo. Non ride.
Verso l’una ci illudiamo che il rave stia iniziando perché arriva un po’ di gente. In realtà anche i punkabbestia hanno i loro Fantozzi, mica come noi che, equivocando simpaticamente, possiamo sempre far finta di esser venuti per cena. Infine ecco i nomadi Mutoid che cominciano a predisporre il luogo per l’esibizione con le loro bellissime macchine customizzate alla Mad Max. L’abbigliamento aderisce a quello del film: il più sobrio indossa una maglia di cotta metallica che neanche re Artù in acido. La birra scorre a fiumi, i cani scagazzano, la musica pompa ossessiva, gli autoveicoli modificati degli artisti sgasano tra fuoco e fiamme. Quando gli altoparlanti sputano i Clash tento di fare cenni d’assenso ai convenuti. I miei sorrisini d’intesa non producono nessun effetto. Cazzo gliene frega a loro se i Clash li conosco anch’io? Niente, infatti. Allora, faccio il compagnone e m’introduco in una delle stanze in cui, presumibilmente, ad un certo punto si danzerà. Mi rendo conto che ho una concezione del ballo e dell’espressione corporea che forse potrebbe condividere giusto Visconti, tipo valzer finale de Il gattopardo. Nella stanza ci sono luci fluorescenti e le casse vomitano un riff ottuso e ripetitivo. Tutti dondolano, qualcuno si avvicina e mi guarda strano: sicuro che son della Questura. Verso le due l’orchite e la scarsa interrelazione con i frequentatori del centro sociale ci inducono a fuggire alla chetichella. Spariamo balle ad alta voce, tipo: “Andiamo a fare due passi, ma torniamo” oppure “Là dentro si soffoca”. Non ci crede nessuno; siamo entrati per primi e stiamo miseramente scappando. C’incamminiamo per i campi, dandoci alla macchia complice il buio, ma il furgone della Cascina guidato dall’implacabile macrognocca gorgona ci scova e ci offre un passaggio: vergogna da ladri, ma non esitiamo, tanto ormai abbiamo già fatto tutte le peggio figure possibili. Durante il percorso mi appoggio al portellone che scoprirò non essere chiuso: alla prima curva, scivola lateralmente portandomi con sé. Resisto strenuamente appeso al portello aperto, con le gambe che ondeggiano fuori dal veicolo, sotto gli occhi severi delle bellissime rasta. Arriviamo alle macchine, ringraziamo e salutiamo con gli occhi bassi. Del rave leggeremo su Decoder. Siamo uomini d’azione, e letterati pure.

(3 — CONTINUA)

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