visione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Il cinema e la rottura del nesso fra visione e conoscenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-e-la-rottura-del-nesso-fra-visione-e-conoscenza/ Tue, 23 Aug 2022 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73248 di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di [...]]]>

di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.

Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.

Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostitutendolo con una più neutra indicazione di perido.

Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).

Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).

Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).

La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .

Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.

Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).

Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.

I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.

Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.

Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da

una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).

L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.

La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.

La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).

Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).

A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.

Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).

«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.

«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.

Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.

C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).

Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .

Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.

In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).

Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.

Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).

Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.

A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).

Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).

Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.

Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).

Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che

in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).

Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.

Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice

per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).

Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti

fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).

Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).

In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui

il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).

Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).

 


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 


  1. Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016. 

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Il reale delle/nelle immagini. La dimensione dell’oltrefotografia https://www.carmillaonline.com/2022/05/22/il-reale-delle-nelle-immagini-la-dimensione-delloltrefotografia/ Sun, 22 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71759 di Gioacchino Toni

È ancora possibile guardare alla fotografia e parlare di essa accontentandosi, in sostanza, di considerarla, al di là della distinzione analogico/digitale, soprattutto come modello privilegiato di rappresentazione della realtà? Inoltre, a quale realtà si intende far riferimento?

In un suo recente volume, Mauro Zanchi, La fotografia come medium estendibile (Postmedia, 2022), propone un ripensamento dei termini, dei limiti e delle logiche con cui si producono e condividono quelle che forse non si dovrebbero nemmeno più chiamare fotografie essendo ormai state inglobate nella “complessa macchina combinatoria dell’iconosfera” ove si intrecciano Web, [...]]]> di Gioacchino Toni

È ancora possibile guardare alla fotografia e parlare di essa accontentandosi, in sostanza, di considerarla, al di là della distinzione analogico/digitale, soprattutto come modello privilegiato di rappresentazione della realtà? Inoltre, a quale realtà si intende far riferimento?

In un suo recente volume, Mauro Zanchi, La fotografia come medium estendibile (Postmedia, 2022), propone un ripensamento dei termini, dei limiti e delle logiche con cui si producono e condividono quelle che forse non si dovrebbero nemmeno più chiamare fotografie essendo ormai state inglobate nella “complessa macchina combinatoria dell’iconosfera” ove si intrecciano Web, smartphone, piattaforme social, intelligenza artificiale, internet delle cose ecc.

Cosa è davvero stata in grado di cogliere la fotografia sino ad ora? Basti pensare, ricorda Zanchi, che, a quanto sostiene la scienza, ad ora si è stati in grado di vedere soltanto una piccolissima parte della materia esistente. È dunque a tale parte del visibile che ci si riferisce quando si parla di ciò che la fotografia è stata in grado di cogliere o, forse, c’è qualcosa in più che ha saputo e/o che potrebbe cogliere?

È pertanto all’inesplorato che lo studioso propone di guardare e per fare ciò è necessario riconsiderare il potere evocativo dell’immagine allargando i confini ben oltre il suo essere “superficie delegata a testimoniare un referente reale”; l’immagine può essere un medium utile a “comprendere ciò che ancora non vediamo e che ci contiene”, oltre che per per “tornare a vedere ciò che non vediamo più o che non abbiamo ancora intuito”.

Si entra così nel regno della “oltrefotografia”, in una dimensione disorientante in cui occorre “ridefinire l’identità personale e collettiva, per contrastare la paura di trasformare un sistema di pensiero ereditato, che crediamo definisca il singolo individuo e il suo gruppo sociale”.

Non si tratta però, avverte lo studioso, di coglier una parte dell’invisibile attraverso qualche nuova tecnica o apparecchiatura. “L’oltrefotografia semmai è un campo per allenarsi a non pensare che l’atto del vedere sia assorbire in modo neutro qualcosa che sta lì di fronte bello e fatto, ad andare oltre i limiti del visibile, al di là delle entità che ancora non vediamo, oltre l’illusione che esista qualcosa che si possa sentire solo nella vista”.

Nell’epoca dell’info-iconosfera, di sovrabbondanza di figurazioni, sostiene lo studioso, è forse doveroso “attivarsi per preservare e proteggere le immagini di natura superiore, le visioni dal profondo, ciò che è prezioso come il respiro, che si rivela in determinati momenti della vita e porta piacere estetico”. Occorre, continua Zanchi, “saper coltivare e far crescere le immagini che hanno la capacità di nutrire i nostro bisogno di imparare e di fornire la dose giornaliera di acqua della nostra curiosità”. Quelle a cui si riferisce lo studioso sono immagini appartenenti alla “dimensione contemplativa, al sacro in sé, a ciò che non si conosce ancora ma lo si anela, all’esperienza epifanica, all’apparizione imprevista, alla visione dell’attimo caduco, ai riflessi dei momenti misterici”.

Nel volume vengono passate in rassegna alcune produzioni cinematografiche e televisive che, in qualche modo, si prestano a ragionamenti sull’oltrefotografia: 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick suggerisce una riflessione sulla periodica necessità che la fotografia muoia affinché possa rinascere “nell’istantaneità einsteiniana spaziotemporale”; Shining (1980) di Stanley Kubrick allude alla possibilità di vedere nella fotografia un “wormhole spaziotemporale”; Balde Runner (1982) di Ridley Scott consente di ragionare su come la fotografia possa esser un dispositivo di costruzione di realtà; Crocodile (2017) della serie Black Mirror ideata da Charlie Brooker, nel prospettare la possibilità di appropriarsi dei ricordi più intimi e di incidere su di essi, consente di ragionare sul ruolo che viene ad avere l’immagine fotografica nell’epoca della condivisione digitale nel mondo delle piattaforme digitali; A Ghost Story (2017) di David Lowery induce a pensare all’atto del guardare come “incontro tra il tempo e ciò che ne è al di fuori”; The Entire History of You (2011) della serie Black Mirror pone di fronte all’incidenza che le protesi mnemoniche artificiali possono avere sulla realtà degli esseri umani ecc.

Pur continuando ad essere importante ragionare su cosa sia la fotografia oggi, occorrerebbe, però, anche domandarsi cosa essa possa essere ed a cosa possa ambire. Sono domande coraggiose queste ultime perché implicano di guardare oltre quelle che ci si è abituati a dare per certezze. La fotografia come medium estendibile dimostra che al suo autore, Mauro Zanchi, tale coraggio non manca.


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

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Il reale delle/nelle immagini. L’evento visivo nel mutante rapporto tra visione e realtà https://www.carmillaonline.com/2021/06/16/il-reale-delle-nelle-immagini-levento-visivo-nel-mutante-rapporto-tra-visione-e-realta/ Wed, 16 Jun 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66750 di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi a qualche specificità mediale o allo statuto di alcuni tipi di immagine ma di estendere il campo di interesse all’intero spettro degli eventi visivi focalizzandosi magari sulle strategie con cui la vita quotidiana viene messa in immagine.

È di fronte a quella che già sul finire dello scorso millennio si presentava come una vera e propria proliferazione inarrestabile del visivo, alla consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti di cui si disponeva per comprendere e governare la trasformazione in atto e all’urgenza di creare nuove tattiche focalizzate sul visuale come luogo in cui si creano e dibattono i significati, che si è sviluppata la visual culture. Tra gli esponenti di spicco nell’ambito di tale approccio figura Nicholas Mirzoeff di cui recentemente è stato riproposto in italiano, dopo alcune precedenti edizioni, la sua celebre Introduzione alla cultura visuale (Meltemi, 2021) stesa allo scadere del vecchio millennio.

«La nostra vita ha luogo sullo schermo», sostiene Mirzoeff, la quotidianità è vissuta sotto la sorveglianza di telecamere, i ricordi sono affidati a strumenti di cattura delle immagini, il lavoro e il tempo libero – ammesso si tratti ancora di due ambiti distinguibili – sono imperniati sui media visivi, mai l’esperienza umana è stata «più visuale e visualizzata» di ora. Questo è il contesto già percepibile sul finire del Novecento. «In questo turbinio di immagini, vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa» (p. 41). Sono parole di Mirzoeff anche se sembrano uscite da Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, film che, in ampio anticipo rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), ricorrendo ad una marcata instabilità enunciativa, si proponeva come film-riflessione sulle potenzialità e sulle aberrazioni insite nel desiderio di consumo tecnologico [su Carmilla].

La prima parte di Introduzione alla cultura visuale spiega come la logica formale Settecentesca, con qualche anticipazione nel secolo precedente e prolungamento nei primi decenni del successivo, abbia aperto la strada alla logica dialettica dell’immagine nell’epoca moderna, a sua volta messa poi in discussione dall’avvento dell’immagine virtuale nell’ultimo scorcio del Novecento.

L’immagine tradizionale obbediva a regole proprie, che erano indipendenti dalla realtà esterna. Il sistema prospettico, ad esempio, si basa sull’osservatore che esamina l’immagine da un unico punto di vista, usando soltanto un occhio. Nessuno effettivamente fa questo, ma l’immagine risulta coerente al suo interno, e perciò credibile. Mentre la pretesa della prospettiva di rappresentare la realtà perde terreno, il film e la fotografia creano un rapporto nuovo, diretto con la realtà, così da farci accettare la “verità” di quello che vediamo nell’immagine. […] La prospettiva cercava di rendere il mondo comprensibile per quella figura che si trovava nel punto specifico da cui era stata tracciata la prospettiva stessa. Le fotografie offrivano una mappa visuale del mondo molto più democratica. Oggi, l’immagine fotografica o filmica non indica più la realtà, perché tutti sanno che può essere manipolata dai computer senza che nessuno se ne accorga ((p. 51).

La virtualità dell’immagine contemporanea sembra invece produrre una crisi del visuale:

il postmodernismo segna un’era in cui le immagini visive, e la visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive, hanno subito un’accelerazione così drastica che la circolazione globale dell’immagine è diventata fine a se stessa, svolgendosi a grande velocità nella Rete. Il concetto di immagine-mondo non è più in grado di analizzare questa situazione mutata e in via di mutamento. La straordinaria proliferazione di immagini non può essere racchiusa in un’unica immagine per essere osservata dall’intellettuale. La visual culture, in questo senso, è la crisi dell’overload informativo e visivo nella vita quotidiana e cerca di trovare il modo in cui lavorare all’interno di questa nuova realtà (virtuale). […] la visual culture esplorerà le ambivalenze, gli interstizi e le aeree di resistenza, nella vita quotidiana postmoderna, dal punto di vista del consumatore (p. 54).

Mirzoeff si proporne pertanto contribuire alla ricostruzione delle modalità con cui la visualità ha finito per assumere centralità nella vita moderna. Allo studioso non interessa però andare alla ricerca delle “origini” della visualità moderna nel passato; il suo obiettivo è piuttosto quello di giungere a «una reinterpretazione strategica della storia dei moderni media visivi concepita collettivamente, piuttosto che frammentata in unità disciplinari come cinema, televisione, arte e video» (p. 59). Non è lo specifico mezzo ad interessare la visual culture, quanto piuttosto l’evento visivo, cioè l’interazione tra il segnale visivo, la tecnologia che origina e supporta quel segnale, e l’osservatore.

Nel corso della trattazione Mirzoeff nota come l’esperienza del sublime, del piacere nel dolore derivante dal tentativo fallimentare dell’immaginazione di rappresentare l’irrappresentabile, si adatti alla visualizzazione inarrestabile e ubiqua postmoderna intenzionata a catturare l’intera esistenza compresa quella che ancora sfugge al visibile, conducendo così, come sottolinea Giancarlo Grossi nell’introduzione, la visione tanto al suo apogeo quanto alla sua crisi. A proposito dei processi di visualizzazione, Mirzoeff individua tre paradigmi: tradizionale, moderno e postmoderno.

Il primo si fonderebbe sulla prospettiva rinascimentale, «un sistema di organizzazione percettiva dello spazio coerente in sé stesso ma slegato tanto dalla realtà quanto dall’effettivo funzionamento fisiologico della visione umana» (p. 14). Il secondo andrebbe a coincidere con l’avvento della fotografia e del cinema, sistemi in grado di carpire e registrare gli eventi del passato per poi presentarli come attuali mentre l’avvenuta “presenza” dell’evento funge da causa e da referente delle loro immagini. Con l’avvento del digitale la relazione dell’immagine con il reale si farebbe invece decisamente problematica potendo l’immagine essere “costruita” prescindendo da enti esterni. In tale statuto della visione, scrive Grossi nella prefazione, «a essere espulsa è la stessa possibilità del sublime: i dati non possono più infatti sottrarsi alla visualizzazione e, al contempo, l’eccesso di immagini rende sempre più intricata una comprensione immediata dell’evento » (p. 15).

Il voluminoso libro, a riprova di come Mirzoeff affronti complessivamente l’evento visivo, è suddiviso in tre parti distinte seppure per certi versi intrecciate: la prima, di estremo interesse, è dedicata alla “visualità” e qua vengono passate in rassegna le specificità della cultura visuale incentrata sulla prospettiva rinascimentale, dunque dell’epoca cine-fotografica e, infine, della nascente epopea del virtuale (la sezione più bisognosa di aggiornamenti). La seconda parte, dedicata alla “cultura”, presenta una serie di acute riflessioni relative a produzioni audiovisive su questioni di ordine transculturale e identitario. L’ultima parte è invece dedicata alla visual culture all’interno del rapporto “Globale/Locale” a partire dal “caso Diana” che ha a lungo infestato i media audiovisivi inglesi ed internazionali.

La visual culture proposta da Mirzoeff rispondeva a un’urgenza tattica: quella di ritrovare il senso delle immagini in un contesto culturale dominato da una visualizzazione tanto imperante quanto paralizzante. È questa stessa impostazione a riconoscere come alla mutevolezza di paradigmi, contesti, tecnologie e rappresentazioni debba corrispondere, di necessità, una continua rimodulazione degli strumenti interpretativi dell’evento visivo. Vent’anni dopo, in un orizzonte radicalmente mutato, rimanere fedeli al metodo di Mirzoeff significa comprendere quali siano i paradigmi di visualizzazione dominanti oggi e quali le tattiche più efficaci per renderne conto (p. 15).

Così scrive Giancarlo Grossi nella prefazione al volume. Tante, davvero tante, cose sono cambiate da quando è stato steso il testo: nel frattempo la cultura visuale ha subito la sorprendente portata omologante della globalizzazione, si è data un’accelerazione nel processo di convergenza mediale forse inaspettata un paio di decenni fa, la serialità televisiva e le sue modalità narrative si sono sviluppate secondo modalità diverse da quelle indagate dall’autore, i social media hanno proiettato la vita sociale degli individui sempre più atomizzati all’interno di uno schermo popolato da “immagini-ambiente” che separano e connettono con il mondo, l’interattività dell’immagine attorno a cui si imperniava il ragionamento sulla realtà virtuale a fine anni Novanta ha nel frattempo lasciato il posto al concetto di immersività.

Alla luce del “progetto tattico” di Mirzoeff di «creare nuovi strumenti di alfabetizzazione visiva per gestire strategie di visualizzazione» (p. 19) viene da interrogarsi, alla luce della repentinità dei mutamenti, circa la reale possibilità di fornire in tempo utile strumenti di lettura critica del visuale prima che tutto cambi nuovamente. Torna allora alla mente l’efficace paragone proposto dallo studioso Andrea Rabbito [su Carmilla] tra la situazione dello spettatore al cospetto delle “nuove immagini” e quella di un surfista costretto contemporaneamente a concentrarsi per mantenere l’equilibrio e ad assecondare le onde. In effetti si è in una situazione in cui l’eccessiva attenzione all’analisi critica delle immagini rischia di compromettere il necessario lasciarsi trasportare da esse al fine di trarne godimento ma l’assecondarne il flusso comporta il rischio di accettare passivamente la nuova cultura visuale. Se tentare di “guardare da fuori” l’attuale sistema visuale è impraticabile, resta da trovare il modo per esserne al contempo parte di esso, godendo del godibile, e contro, nel contrastare quanto occorre contrastare. Insomma, nel domandarsi “Che fare?”, a maggior ragione ora, occorre contemplare anche il visuale.


Il reale delle/nelle immagini – serie completa 

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Il reale delle/nelle immagini. Splendori e miserie del vedere contemporaneo… e una copertina che proprio non si guarda https://www.carmillaonline.com/2019/09/02/il-reale-delle-nelle-immagini-splendori-e-miserie-del-vedere-contemporaneo-e-una-copertina-che-proprio-non-si-guarda/ Mon, 02 Sep 2019 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54336 di Gioacchino Toni

Mark Cousins è conosciuto per la realizzazione di due monumentali opere sul cinema: The Story of Film: An Odyssey (2011), quindici ore di documentario in altrettanti episodi, e La storia del cinema (Utet, 2017), volume di oltre cinquecento pagine. Più recentemente Cousin ha presentato al Festival di Cannes The Eyes of Orson Welles (2018) e il libro Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018). In quest’ultima prova editoriale l’autore nord-irlandese passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi della storia visiva riflettendo sulle modalità con cui il modo di guardare è mutato nel corso dei secoli e sui [...]]]> di Gioacchino Toni

Mark Cousins è conosciuto per la realizzazione di due monumentali opere sul cinema: The Story of Film: An Odyssey (2011), quindici ore di documentario in altrettanti episodi, e La storia del cinema (Utet, 2017), volume di oltre cinquecento pagine. Più recentemente Cousin ha presentato al Festival di Cannes The Eyes of Orson Welles (2018) e il libro Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018). In quest’ultima prova editoriale l’autore nord-irlandese passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi della storia visiva riflettendo sulle modalità con cui il modo di guardare è mutato nel corso dei secoli e sui motivi per cui ciò è accaduto. L’atto del guardare è indagato dallo studioso sia ragionando su alcuni momenti visivi dalla sua storia personale, sia attraverso le tappe che nel corso dei secoli hanno condotto all’attuale modalità di guardare. Lungo un percorso che si sofferma sulla questione del potere dello sguardo e delle immagini nella prima modernità del Cinque e Seicento e sul ruolo della visione nel mondo di Versailles e nell’epoca illuminista, Cousin giunge a ragionare sul diffondersi della fotografia e del cinema per poi arrivare ai nostri giorni.

L’analisi dello sguardo novecentesco si apre con la celebre immagine che mostra una mano armata di rasoio che si appresta a lacerare l’occhio di una donna tratta da Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. La scena in cui, attraverso un montaggio alternato, si passa dall’occhio femminile alla lacerazione del bulbo oculare di un vitello morto, viene efficacemente scelta da Cousin come «metafora del violento accrescersi del volume delle immagini osservabili in quegli anni». La diffusione di apparecchi fotografici leggeri e relativamente economici che si ha in apertura di Novecento inaugura una crescita esponenziale delle immagini disponibili che raggiungerà numeri incredibili ai nostri giorni. E se in apertura del XX secolo «lo tsunami delle immagini era più simile a un’invasione dell’occhio piuttosto che a una fuoriuscita da esso», sostiene Cousin, ben presto «le persone comuni, quelle che gran parte della storia dell’umanità erano state esclusivamente consumatrici visive, iniziarono a produrre immagini». L’inizio del Novecento presenta anche altri cambiamenti importanti nella storia dello sguardo; nella narrazione proposta da Cousins l’atto del vedere si incontra con i ragionamenti di Albert Einstein su spazio e tempo, con le particolari fotografie di Arthur Eddinghton, con gli studi sui colori e la luce di Niels Bohr, con le ricerche sulla visione microscopica e atomica, fino a giungere all’accresciuta importanza della visione negli ambiti politici e sociali nel XX secolo.

Una parte del volume è dedicata alle pratiche di sorveglianza visiva che vantano una lunga storia. Lo studioso ricorda il millenario ricorso a nicchie di osservazione nei palazzi del potere, l’istituzione di agenzie e apparati di controllo della popolazione nella Francia della Rivoluzione, il controllo della corrispondenze nel Regno Unito negli anni Quaranta dell’Ottocento, la schedatura fotografica delle suffragette inglesi negli anni Dieci del secolo successivo, le censure delle lettere dal fronte nel corso dei due grandi conflitti mondiali, la diffusione delle riprese a circuito chiuso negli anni Sessanta e Settanta e via dicendo. Se la visione votata al controllo ha una lunga storia, resta il fatto che negli ultimi decenni questa ha raggiunto livelli prima impensabili; se per gli Stati Uniti si parla di una media di una videocamera di sorveglianza ogni dieci abitanti, a ciò si devono aggiungere i sistemi di localizzazione satellitare, le mappature fotografiche disponibili in internet.

Nella parte finale del volume, l’autore, oltre a denunciare i pericoli insiti nell’ipertrofia visiva contemporanea, intende però evitare il catastrofismo mettendone in evidenza anche aspetti positivi.

Forse guardiamo troppe cose, questo tipo di sguardo sta sostituendo altri generi di esperienze vitali, più naturali o capaci di arricchirci? Le nuove scoperte riguardanti la neuroplasticità sembrerebbero indicare che chi ha usato gli smartphone a partire dalla preadolescenza e che, grazie alla fibra ottica e ai satelliti, ha una sensazione più limitata dell’altrove, stia subendo dei mutamenti celebrali. Se ciò fosse vere si tratterebbe di una notizia preoccupante, forse, ma probabilmente è troppo presto per fare valutazioni del genere e gli interessati dovrebbero cercare di non abbandonarsi a millenarie fobie legate allo sguardo. Sì, c’è un’inondazione in corso; sì, vediamo nei modi più svariati, come mai prima d’ora, ma si tratta di un cambiamento anche tipologico? Il vedere così tante cose minaccia le nostre coscienze o le innalza a un nuovo livello?

Storia dello sguardo non ha il rigore di un saggio vero e proprio sull’argomento; si tratta piuttosto di un affascinante racconto sulla visione che, nonostante la mole, si legge tutto d’un fiato e che non manca di fornire acute suggestioni che invitano all’approfondimento.

Un’ultima annotazione a proposito dell’insolita copertina dell’edizione italiana dotata di occhi da pupazzo mobili e in rilievo: ecco, verrebbe da dire che questa copertina proprio non si guarda. E se il “fastidio” provato nell’osservare la copertina fosse generato non tanto dal suo aspetto kitsch, ma dal sentirci guardati da essa? Torna allora alla memoria la vicenda del celebre dipinto  Colazione sull’erba (1863) di Manet respinto dalla giuria del Salon non tanto per la presenza di un nudo contemporaneo (privo del consueto filtro mitologico), quanto piuttosto per l’ostentata fuoriuscita dalle consuetudini pittoriche;  pare persino essere il quadro a osservare, indispettito, lo spettatore. Alla critica dell’epoca era così stata sfacciatamente tolta l’esclusiva dello sguardo indagatore. Ecco allora che gli occhi kitsch con cui l’edizione italiana del libro di Cousin ci osserva sembrano volerci ricordare che proprio noi che, attraverso le pagine del libro, ci apprestiamo ad indagare la storia dello sguardo, siamo a nostra volta (sempre) osservati. Quei banali occhi da pupazzo ci svelano allora la mise en abyme che si cela dietro l’angolo (dell’occhio).

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Guerrevisioni. L’eredità delle immagini delle guerre mondiali https://www.carmillaonline.com/2018/10/22/guerrevisioni-leredita-delle-immagini-delle-guerre-mondiali/ Mon, 22 Oct 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47905 di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione tra immagini di guerra e memoria relativa al confitto, l’ultimo.

Pierandrea Amato, nel suo intervento “Dov’è il nemico? Il paradigma della Grande guerra”, riflette su come la guerra possa essere negata tanto dalla mancanza di immagini che ne diano testimonianza, quanto da un eccesso di rappresentazione che finisce con il sottrarle i suoi caratteri specifici e perturbanti. A volte è lo stesso nemico ad essere fatto scomparire; se si pensa al conflitto irakeno del 1991, le immagini televisive non hanno mostrato che uno spettacolo luminoso notturno costituito da traccianti verdastri. «Tutto ciò ha una conseguenza ontologica ed estetica straordinaria che porta a compimento un processo esploso circa un secolo fa; la relazione tra la guerra e le immagini sancisce l’epilogo di un fenomeno registrato da Walter Benjamin: l’eclissi dell’esperienza per l’uomo contemporaneo. Di fronte all’orrore della guerra, rimaniamo attoniti spettatori di un evento cui non facciamo alcuna esperienza (neppure, in fondo, visiva; meno che mai verbale, psicologica, affettiva). Nella vicenda della Prima guerra mondiale Benjamin riesce a estrarre un carattere essenziale dell’età contemporanea: l’ordinaria esperienza dell’impossibile. La prima guerra totale del Novecento, cioè, si colloca oltre la misura del concepibile, determinando la definizione di assi concettuali in grado di fornire un senso all’insensato in cui, evidentemente, le prerogative del logos sono ampiamente sottomesse ad altre costellazioni concettuali» (pp. 23-24).

«In Benjamin la guerra è il centro di gravità di un’operazione che distilla la sua violenza mediante l’adozione di una serie di filtri estetici in grado di rimuovere la profondità del suo orrore. Questa operazione è reazionaria non soltanto perché si riferisce a categorie ampiamente corrose dalla guerra industriale – eroismo, coraggio, ecc. – e quindi si preoccupa di rendere torbido il valore del massacro della Grande guerra (il riferimento diretto di Benjamin) ma più essenzialmente perché fa della guerra un evento estetico» (p. 28). Dunque, sostiene Amato, rifacendosi al ragionamento del filosofo tedesco, qualsiasi guerra contemporanea, caratterizzata com’è da una notevole sublimazione iconica, potrebbe essere intesa strutturalmente un avvenimento fascista per il suo «rimuovere gli umori della guerra: cadaveri, dolore, traumi permanenti. Celerebbero una matrice fascista i conflitti armati contemporanei, se analizzati secondo il caleidoscopio benjaminiano, perché impongono una forma d’estetizzazione della violenza militare il cui destino è sviare dalla sua esperienza effettiva sollecitando, invece, la sua rappresentazione spettacolare. […] La condizione della guerra contemporanea è la perdita di un’esperienza visiva in grado di strapparci da ciò che normalmente vediamo; di produrre uno scollamento tra noi è le nostre esperienze. Ma proprio questa eclissi dell’esperienza ci consegna immancabilmente al cuore dell’esperienza – o meglio: non esperienza – della Grande guerra» (pp. 28-29).

Raffaele Scolari, nel suo “Kurt Lewin e la mutazione dell’immagine dei territori di guerra”, prende invece in esame Paesaggio di guerra (1917) dello studioso tedesco ragionando attorno alla mutevolezza e alla complessità dei legami tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica. Nella parte finale del suo intervento Scolari si sofferma sull’immagine della guerra come narrazione. «La latente ubiquità e la progressiva invisibilizzazione dei dispositivi impiegati rendono obsolete le nozioni di teatro bellico, di fronte, di retrovia eccetera. Terra, acqua e cielo non configurano più un territorio verso cui avanzare, bensì […] un corpo in cui sono introdotte sonde aventi lo scopo di osservarlo dall’interno per poi eventualmente disabilitarne talune funzioni. Non diversamente dalle immagini fornite per esempio dalla tomografia computerizzata, che per essere comprese richiedono particolari competenze disciplinari, quelle sulla scorta delle quali agiscono i combattenti o, com’è meglio chiamarli, gli operatori bellici delle guerre contemporanee sono elaborati digitali. Propriamente non sono immagini, nel senso che non narrano la storia di eventi in corso, bensì grafici, visualizzazioni di insiemi complessi di dati, ossia riduzioni di complessità che consentono di operare in tempi estremamente stretti» (p. 89).

In un contesto come quello contemporaneo in cui le operazioni belliche vengono sempre più raccontate in maniera addomesticata dai reportage giornalistici, quando non direttamente messe in scena dagli apparati militari, converrebbe concedere scarsa credibilità a tali narrazioni, ma, sostiene Scolari, nonostante tutto, «continuano a circolare immagini potenzialmente capaci di “porci dentro” l’evento e il luogo della guerra. Sono lampi nell’oscurità prodotta [dal] processo generale di invisibilizzazione […]. In quanto tali, riprendendo un concetto chiave delle teorizzazioni di Benjamin, sono “immagini dialettiche”, le quali però non si contrappongono alle “immagini arcaiche”, bensì a quelle prodotte e poste in circolazione da un complesso di dispositivi appunto invisibilizzanti» (p. 90).

Nel saggio di Adolfo Mignemi, “La fotografia e la memoria. Osservazioni sulla violenza nelle immagini e sulla violenza delle immagini”, lo studioso, a partire dall’analisi di diverse fotografie, riflette sulla narrazione della violenza e sulla durezza della sua rappresentazione. «Ciò che lega la fotografia alla memoria è la reciproca interazione che consente, da un lato, di riconoscere le situazioni ed i contesti che strutturano l’immagine, dall’altro di trasformare la narrazione proposta in una esperienza verosimile» (p. 94).

Visto che ogni conflitto si differenzia dai precedenti ed elabora una propria immagine della guerra, l’autore si sofferma in particolare su alcuni casi emblematici: il primo esempio di immagine-rappresentazione di caduti in combattimento che ritrae una delle fosse comuni di Melegnano realizzate dopo la battaglia dell’8 giugno 1859; le raccolte da Paolo Valera del 1912 relative alla repressione in Libia delle resistenze all’occupazione italiana come primo utilizzo di fotografie di denuncia di crimini di guerra; il filmato comparso sul web nel gennaio del 2012 realizzato da alcuni militari americani mentre infieriscono sui cadaveri dei nemici; il video girato e diffuso in internet dall’Isis relativo alla decapitazione del giornalista americano James Wright Foley ad al-Raqqua nell’agosto del 2014.

Il saggio si sofferma anche sul fatto che in numerose pubblicazioni edite nel corso del Primo conflitto mondiale i caduti vengono mostrati con immagini che li ritraggono in abiti borghesi e non in divisa. «Che cosa può aver indotto le famiglie a consegnare alla memoria pubblica questo tipo di ritratti? È l’assenza di una foto in divisa militare tra le immagini conservate a casa? È la volontà di confermare il proprio ricordo della persona cara fissando la memoria visiva alle condizioni di vita normale, precedente la guerra?» (p. 99). Oltre a tali possibili motivazioni, secondo lo studioso, vi sarebbero parecchi elementi che rendono possibile ipotizzare anche un cosciente atto di contrarietà alla guerra.

«Nell’ambito di una riflessione sulla memoria visiva dei caduti è molto interessante soffermarsi sui ricordini di lutto familiari intesi come espressione del percorso di elaborazione del lutto. In generale possiamo affermare che, a partire dalla prima guerra mondiale, progressivamente la retorica patriottica si impossessa della memoria e l’immagine diviene l’elemento costitutivo principale delle rappresentazioni. Successivamente la simbolica istituzionale prende a impossessarsi di tutto: compaiono i simboli politici al posto delle tradizionali simbologie del sacrificio, del dolore, della consacrazione alla Volontà superiore. Progressivamente, in conseguenza anche della ritualizzazione della politica autoritaria, la rappresentazione del soprannaturale lascia il posto all’immagine della Nazione, arbitra unica delle sorti dei cittadini e soggetto pienamente legittimato all’esercizio della violenza collettiva. È in questo contesto che la contrarietà alla guerra si manifesta in innumerevoli forme» (p. 99).

Una riflessione viene riservata dall’autore alla diffusione di immagini dai teatri di guerra da parte di militari: se è pur vero che oggi grazie agli smartphone è facile realizzare e diffondere immagini, dunque disporre di documentazione circa episodi di violenza nei teatri di guerra, Mignemi sottolinea come, in molti casi, le fotografie e i filmati testimonianti episodi particolarmente violenti non vengano realizzati dai militari per denunciare i fatti ma per diffondere una “immagine-ricordo” compiaciuta del loro essere combattenti.

Alle immagini si è fatto ricorso, sin dall’avvio del Secondo conflitto mondiale, anche per la loro capacità di rappresentare e proporre violenza: tra le prime pubblicazioni che ricorrono a tale uso delle fotografie nel saggio viene citato il libro prodotto ufficialmente dal governo tedesco, dopo l’annessione della Polonia, sulle atrocità commesse dai polacchi nei confronti delle minoranze tedesche.

Venendo invece agli interventi militari italiani novecenteschi, di questi esiste, ad esempio, un’ampia documentazione visiva delle guerre di aggressione in territorio balcanico a partire dal 1940, che «ben rappresenta il ripetersi del progetto imperiale fascista di conquista e dominazione del Mediterraneo» ma, denuncia lo studioso, ancora oggi, in Italia, la ricerca storica sembra non riuscire a scalfire «l’opinione assolutoria diffusa nella mentalità comune circa il ruolo di aggressore del nostro Paese» (p. 107).

Un caso su cui si sofferma il saggio riguarda invece alcune immagini che testimoniano le infami modalità con cui l’Italia ha partecipato all’Operazione Ibis in Somalia; dalle foto dei nemici incappucciati e con mani e piedi legati dietro la schiena con una corda intorno al collo, a quelle del prigioniero denudato e sottoposto a scariche elettriche, fino all’episodio dello stupro con razzo di segnalazione di una donna somala effettuato dai militari italiani nel novembre 1993 ad un posto di blocco tra Mogadiscio e Balad. Di tutte queste immagini non si parla più, così come è sceso il silenzio su quella e altre operazioni militari tricolori. Si tratta di un oblio sicuramente utile sia a evitare, nuovamente, al Paese di fare i conti con le proprie responsabilità, che a non intralciare la costruzione del capro espiatorio del momento: il migrante che spinge alle porte di casa.


Serie “Guerrevisioni

 

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Il reale delle/nelle immagini. Spettacolo e irrealismo della società reale https://www.carmillaonline.com/2017/10/01/39984/ Sat, 30 Sep 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39984 di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre [...]]]> di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre più spesso la realtà riprodurre la finzione [su Carmilla]. Se da una parte il reale ama replicare il finzionale, è vero anche che spesso quest’ultimo tende, e forse proprio per questo, a fare del primo il suo tratto distintivo

generando effetti visivi o letterari di contenuto dentro contenuto, come il romanzo dentro al film o viceversa, citazionismi religiosi o mitologici raffigurati o “girati” dentro una scena che con le allusioni non hanno nulla in comune. La mise en abyme dà vita a un doppio, come nel caso dello specchio, condividendo con questo l’artificio o la stregoneria che gli consente un simile effetto. La mise en abyme fa di ciò che ha originato un medium, un ingresso da attraversare, investigare e forse anche da riempire, poiché è proprio lì che si cela l’essenza di un’opera. La creazione di un’entità (persona o oggetto) come doppione di un’entità primaria possiede un’elevata somiglianza a tal punto da far cadere in stato confusionale chi osserva o legge; eppure, nonostante la considerevole attendibilità, questa risulta evanescente, intangibile e parzialmente confutabile, poiché l’accesso dentro l’abisso è collocato all’infinito. Conseguentemente, la mise en abyme produce una trascrizione che riverbera quel principio auratico custodito nell’opera originale. Un’ombra senza tratto distintivo alcuno, poiché calco di un’autentica natura (p. 91).

Cutrona ricorda come a partire dalla tragedia greca il termine spettacolo implichi l’atto del guardare qualcosa o qualcuno da parte di un pubblico, dunque si tratta di un’esperienza antropica dipendente inizialmente da riti religiosi, poi caratterizzata dal legarsi del mito del dramma al racconto. Lungo tale percorso la storia dello spettacolo ha finito con l’intrecciarsi fortemente con quella dei media dando vita ad un rapporto contraddittorio.

Il fascino delle rappresentazioni ha contribuito a modificare la percezione ed i valori dell’uomo, tanto che lo stesso capitale si è sempre più smaterializzato «mediante un’evoluzione da merce a immagine e da immagine a merce […] È lo Zeitgeist della nostra epoca, è proprio da lì, che tutto inizia e finisce, non c’è altra forma di creazione di un hic et nunc, se non quella di un continuo set cinematografico, che si tratti degli studios di larga fama piuttosto che, quelli di un talk show […] di casa nostra. Le regole non cambiano, il gioco ha sempre un solo fine: mimare la vita» (p. 12). Inutile, sembrerebbe, provare a resistere o scontrarsi sul terreno dello spettacolo in quanto quest’ultimo pare in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria.

All’interno di un capitalismo votato all’immateriale, ogni oggetto conta in quanto merce ed a contare è la sua forma simbolica. Se il valore di un bene, oltre che dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, dipende sempre più dalla condivisione che l’immagine-merce e merce-immagine riescono ad ottenere, allora, suggerisce Cutrona, «più forte è il lancio dell’immagine-merce più visibile e condivisibile è la merce-immagine, pertanto si tratta dell’odierno valore di scambio, il potere della circolazione che conta sull’astrazione. Lo spettacolo in tutte le sue forme è attualmente il titolare della produzione, l’unica risorsa che si fa immagine della società capitalistica avanzata» (p. 12). Sarebbe dunque nello spettacolo che risiede il vero motore dell’irrealismo della società reale, visto che sempre più spesso il reale tende a richiamare o duplicare la finzione-spettacolo rendendo sempre più indistinguibili i due mondi.

Guy Debord indica come caratteristiche di quella che definisce società dello spettacolo integrato (sintesi di spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) «il rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (pp. 14-15) e, suggerisce Cutrona, «Il rinnovamento tecnologico, l’eterno presente e il falso indiscutibile, sono le proprietà del mondo postmoderno» (p. 15). Essendo entrati in un’epoca in cui l’individuo tende ad avere un contatto con la realtà soltanto attraverso le immagini – si pensi, ad esempio, come la ripresa effettuata con lo smartphone rimpiazzi l’osservazione diretta dei luoghi attraversati – lo spettacolo oggi sembra rappresentare

la struttura scheletrica dell’odierna società dei consumi, sorretta da un rapporto sociale tra individui, a sua volta mediato da immagini. Se il bene principale è l’immagine, il consumatore contemporaneo è lo spettatore, il proletariato a cui si riferiva K. Marx si è evoluto nella classe dei famelici spettatori di fantasmagoria, certamente più consapevoli di un tempo. Curiosità e zelo determinano l’approccio a sperimentare nuove dinamiche e modalità di fruizione che, in questo punto culturale idealizzano l’audiovisivo come fondamento del dialogo collettivo, linfa vitale dell’l’imago-sfera (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti), popolata da binari di ogni paese (p. 15).

Se in generale, rispetto al passato, è comunque sicuramente cresciuta la coscienza critica degli spettatori nelle modalità di fruire la realtà e le sue rappresentazioni, vale la pena soffermarsi sui tentativi di resistenza e di conflittualità più consapevoli ed a tal proposito Cutrona passa in rassegna alcune proposte della Psicogeografia, nella sua messa in discussione del luogo, e del fenomeno Lettrista, anticipatore di alcune linee di forza proprie dell’Internazionale Situazionista.

La Deriva Lettrista implica un modo di intendere libero finalmente da ogni pregiudizio, un’osservazione attenta dello spazio ma anche degli avvenimenti che ci circondano, capacità questa, di sottolineare il valore in ogni dettaglio. Qualunque spazio, una città, un paesaggio, smette di essere agli occhi di un Lettrista un appezzamento di terra, ma un’area contenente svariati codici dettati da un’ideologia dominante, visualizzarli costituisce la prima finalità. Una critica radicale per azzerare la società della merce e rendere l’uomo libero.
Analoga pratica è la Deriva Situazionista, ancora una volta la liberazione dai dispositivi ambientali percepiti come dispotici. Un volontario smarrimento tra il vagare e il cercare senza meta e scopo; il senso di questo sbigottimento, è aprire la mente verso nuovi, inattesi e magari anche, estranianti aspetti della realtà. Una sorta di training sensoriale che consente di avvertire nuove intuizioni, percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti si relazionano (pp. 23-24).

Arriviamo così al détournement situazionista, pratica che

mira a far deviare chi lo pratica da certi alienanti e dispotici meccanismi culturali, specialmente se legati alla comunicazione di massa, recepiti in forma acritica […]. Il détournement può essere visto come una deriva che procede, però, da un’idea di critica politica o culturale finendo col modificare oggetti estetici già dati (testi, immagini, suoni, ecc.) […] Una pratica combinatoria che, trova un senso inaspettato per “dirottare” il principale intento di quello specifico codice comunicativo. Testi o immagini risultano estranei, inattesi e portatori di una nuova direzione di significato che originariamente non avevano. Il détournement è definibile come un particolare caso di Deriva attivato sul fronte storico-culturale e mediatico della società dello spettacolo (p. 24).

Da tempo Jean Baudrillard insiste nel segnalare come la società contemporanea sia ormai talmente alienata da farsi manifestazione di illusione (le merci), in cui lo spettatore finisce con l’essere un lavoratore a sua insaputa ed i mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione, hanno contribuito enormemente a tale trasformazione.

Nel suo saggio, Cutrona sottolinea giustamente come ben da prima dell’avvento della cultura di massa, eventi riguardanti la collettività si erano manifestati tanto nell’antichità, quanto in età medievale e, agli albori della modernità, nel periodo rinascimentale ma, sostiene lo studioso, oggi «l’uomo e i suoi sentimenti, sono ormai ridotti a merce in codici e algoritmi» (p. 25), dunque questi utenti-spettatori vengono costantemente monitorati ed analizzati per vendere loro insieme al prodotto «anche un pezzo di ideologia racchiusa in esso» (p. 25).

Venendo al meccanismo della mise en abyme, ovvero alla questione specifica del volume di Cutrona, secondo Andrè Gide in un componimento si trova la coincidenza «tra il narratore (costruzione letteraria e testuale) con il narratario (il personaggio che compare nel testo come eventuale ed ipotetico destinatario di ciò che il narratore enuncia, il lettore reale, può identificarsi nel personaggio che “legge” fino a coinciderci)» (pp. 27-28); siamo dunque di fronte ad un’esperienza riflessiva che attraverso un procedimento d’identificazione astratta conduce ad un ragionamento. «Una duplicazione interna all’autore, dapprima, che dà vita ad una forma d’arte, che vive una vita propria, come una realtà autonoma, libera ed indipendente. Racchiude in se stessa, in modo univoco, l’opera dentro l’opera. Un soggetto sdoppiato, già connaturato nel proprio sé, decide di creare un oggetto, un’estensione del proprio sé, mediante idee o congetture, più o meno astratte, che seguono un cammino proprio, in un destino temporalmente sconosciuto» (p. 28).

Se la narrazione è un modo di organizzare la realtà, sostiene Cutrona, allora opere come i romanzi ed i film sono da intendersi come delle istruzioni utili per creare un processo immaginativo ed il «meccanismo narrativo che vi è dietro ad una delle forme scelte, ha a che fare con la nostra percezione della realtà. In questo processo, una realtà si trova entro un’altra realtà, la prima, è caratterizzata da precise coordinate: la porzione del suolo di mondo che stiamo occupando, la seconda, è quella che immaginiamo mediante stimolazione, ora illusione, ora realtà» (p. 34). Probabilmente è il linguaggio audiovisivo ad offrire le possibilità più complesse di quella mise en abyme capace di rivoluzionare la percezione, «potenziando la prospettiva di visione, mediante una registrazione del reale, caustica per gli occhi dello spettatore e urtante per la sua sensibilità, creando non a caso, il suo artificio con precisione millimetrica, provocando una vertigine fra illusione e realtà» (p. 47).

A questo punto nel saggio ci si occupa di opere pittoriche, letterarie e cinematografiche a partire da alcuni dipinti di Jan van Eyck e Diego Velázquez a rappresentanza delle tante opere che hanno fatto ricorso alle proprietà di duplicazione proprie dello specchio inserito nella scena o del quadro nel quadro. Ed è proprio nella pittura fiamminga del XV secolo che può essere facilmente rintracciato, suggerisce Cutrona, il principio creativo della mise en abyme. Si pensi ad esempio al celebre ritratto de I coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, dipinto che ad ogni scansione visiva rivela nuovi particolari e nuove tracce da indagare, per non parlare poi della presenza dello specchio, elemento chiave della mise en abyme, «che raddoppia l’ambiente almeno in due dimensioni, mostrando le spalle dei protagonisti, e non solo» (p. 30). Nel corso del XVII secolo Diego Velázquez è soprattutto attraverso il meccanismo del dipinto nel dipinto, del mettere un’immagine all’interno di un’altra, che costruisce la mise en abyme; si pensi a produzioni come Las Meninas (1656), Le Filatrici (1657) e Cristo in casa di Marta e Maria (1620).

In ambito letterario la tecnica della mise en abyme è indagata da Cutrona in opere come Questo non è un racconto (1772) di Denis Diderot, romanzo breve caratterizzato dal meccanismo del racconto nel racconto, L’idolo delle Cicladi (1965) di Julio Cortázar, che narra le vicende di tre archeologi alle prese con un manufatto dai poteri magici e della raccolta di racconti di genere fantastico Finzioni (1944) di Jorge Luis Borges. Di quest’ultima raccolta Cutrona indaga i racconti in cui si palesa la mise en abyme più esplicitamente: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (1940), ove l’immaginazione è «il solo ed unico medium che riflette una realtà, dentro una realtà, che non esiste materialmente ma idealmente» (p. 36), La Biblioteca di Babele (1941), in cui il gioco della «ripetizione, o ri-presentificazione della realtà si manifesta in un “collocato all’infinito”, da qui: en abyme» (p. 36), e Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), racconto ove libri e labirinti «offrono al lettore continue e infinite possibilità: di creazione, proiezione e duplicazione della realtà» (p. 36). Questi scritti di Borges, sostiene Cutrona, rappresentano una dimostrazione di come siano infinite «le possibilità, i livelli, le strutture, che danno vita ad un ordine: finito e infinito, reale o virtuale, scritto, dipinto o rappresentato, che fonda radici su un caos apparente ed ermetico» (p. 37).

Per quanto riguarda la produzione cinematografica il riflesso allo specchio rappresenta la mise en abyme per eccellenza e tale gioco di riflessi può offrire allo spettatore parecchi suggerimenti circa i protagonisti; dal riflesso allo specchio è possibile cogliere la loro vanità o il disgusto che provano per se stessi, il volere identificarsi nel riflesso o il timore provato nei suoi confronti.

Nel saggio vengono affrontati diversi film a partire da Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye, ove «il doppio, possiede una consistenza autonoma e diviene un doppio persecutorio per il giovane studente. Si tratta della fuoriuscita di una parte del sé, e indica forse, l’esistenza di una dimensione inaccessibile» (p. 40).
In Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) di Rouben Mamoulian, lo specchio svolge un ruolo importante nel gioco di riflessi, duplicazioni ed identificazioni di Jekyll/Hyde ed in Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, Cutrona si sofferma sulla celebre inquadratura in cui, sul finire del film, la solitudine di Charles Foster Keane viene suggerita attraverso un gioco di riflessi infiniti ottenuti dal riflettersi del protagonista su uno specchio posto di fronte ad un altro specchio.
In Fino all’ultimo respiro (À Bout de souflle, 1960) di Jean-Luc Godard, non mancano giochi di sguardi e riflessi tra i protagonisti davanti allo specchio e per quanto riguarda Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, lo studioso si sofferma inevitabilmente sul celebre monologo allo specchio del protagonista interpretato da Rober De Niro.
Per quanto riguarda Femme Fatale (2002) di Brian De Palma, l’analisi fa riferimento all’inquadratura costruita sul film nel film in cui vediamo la protagonista intenta a guardare alla tv La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder.
In Secret Window (2004) di David Koepp, il protagonista, in preda al suo alterego, si trova riflesso “in maniera surreale” allo specchio come nel dipinto La riproduzione vietata, (1937) di René Magritte ed in Harry Potter e i doni della morte (Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1, 2, 2010) di David Yates, lo studioso fa riferimento tanto alla suddivisione dell’anima del signore oscuro Lord Voldemort in varie parti che al meccanismo generale proprio dell’intero ciclo Harry Potter in cui è possibile «riscoprire nuove interpretazioni come un gioco che cambia le sue regole di continuo, anche a distanza di anni; soffermandosi, i livelli di finzionalità espletati nella saga non lasciano traccia di alcun artificio, piuttosto, richiamano l’attenzione in un percorso rocambolesco tra realtà e finzione» (p. 45).
Infine, un doveroso esempio di cinema d’animazione conduce Cutrona ad affrontare Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, film in cui «lo specchio non riproduce solamente la realtà, ma la altera, la manipola» (p. 45).

La mise en abyme, però, sostiene Cutrona, oltre che come un artificio, una mistificazione del reale, dovrebbe essere intesa come estensione del pensiero, come strumento utile per indagare «una porzione di tempo, spazio, privo di fondo e temporalità» (p. 92). Per certi versi la mise en abyme può essere paragonata ad un sogno che «attinge dal reale ma lo ricrea in uno spazio mobile, vicino ma distante al contempo, lasciando un’impronta senza alone alcuno» (p. 92).

All’interno dell’attuale epoca caratterizzata dall’ipertrofia visiva, l’individuo-voyeur tende a credere a – e sentirsi rappresentato da – tutto ciò che passa davanti ai suoi occhi come si trattasse di verità indiscutibile. Meglio sarebbe, sostiene Cutrona, «tenere ben presente i punti di vista critici dei Lettristi prima e Situazionisti dopo, i quali, teorizzavano una certa libertà da ogni dispositivo percepito come dispotico e controllato, annullando di fatto, il pensiero umano; come ha sostenuto del resto anche Baudrillard, affermando che il soggetto non esiste, e al suo posto invece vi è un sistema capitalistico avanzato nel quale è inevitabile rispecchiarsi» (pp. 92-93).

Ciò che fa del «manovratore di emozioni la divinità di una società dello spettacolo fatiscente andrebbe criticamente contrastata», suggerisce lo studioso, in quanto «si limita esclusivamente a mimare la vita, inseguendo l’arte per il gusto dell’arte, piuttosto che provare interagire con essa, al fine di impreziosirla, mediante un osmotico processo di parole e immagini» (p. 93). È a partire da tale ragionamento che si analizzano I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1983) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991) di Peter Greenaway. La prima opera, strutturata su complesse stratificazioni narrative, «ha instillato l’idea che la mise en abyme non enfatizza esclusivamente la percezione visiva, ma giustifica in un certo qual modo, la propria esistenza per il solo fatto di essere portatrice del frammento di un originale» (p. 93). Il secondo lavoro di Greenaway preso in esame, invece, secondo lo studioso dimostra come il cinema possa ricorrere ad artifici «per dimostrare che un testo non è mai soltanto un testo, bensì, l’inizio di un percorso che produce effetti nella mente dello spettatore. Un viaggio ipertestuale che si serve continuamente di mise en abyme per tracciare l’esistenza di un legame tra la ripresentificazione di un contenuto e la stimolazione di un processo immaginativo appena iniziato, omaggiando l’estetica che ha sempre garantito un senso alla struttura diegetica rappresentata» (p. 93).

I film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), diretto da Spike Jonze e scenggiato da Charlie Kaufman, e Synecdoche, New York (id., 2013) scritto e diretto da Charlie Kaufman, rappresentano un esempio di come le trovate narrative della sceneggiatura siano traducibili in racconto audiovisivo. «È evidente la sintesi che la mise en abyme o più precisamente in questo caso la metalessi, risulti utile a sintetizzare le silhouette psicologiche di un personaggio, e quindi la sistematica coincidenza tra autore, regista, sceneggiatore, attore protagonista. Ben distante da ogni rigore logico, la sostituzione di un’istanza narrativa con un’altra comporta una forte tematizzazione di ruoli e figure nel quadro-film» (pp. 93-94).

Il metalinguaggio al quale si perviene attraverso l’opera nell’opera – il teatro, il romanzo o il dipinto all’interno di un audiovisivo – mostra che un film non è semplicemente una serie di fotogrammi e, soprattutto, come bene esplicitato da Synecdoche, New York di Kaufman, che risulta impossibile rappresentare il reale a causa del suo essere in continuo divenire. Dunque, la mise en abyme deve essere intesa «come un’entità mutaforma che rende possibile il trasferimento di una proprietà in un’altra, plasmando continuamente struttura (dalla pittura alla sceneggiatura sino al film e alla videoarte) non compromettendo mai, quel principio auratico racchiuso in un’opera» (p. 94).

Consapevole di come i nuovi media abbiano rivoluzionato le modalità percettive dell’individuo, Cutrona, nella parte finale del libro, si sofferma anche sul computer game  The Sims (1999) sviluppato da Will Wright, mostrando «le potenzialità di una realtà riprodotta su scala, selezionando dall’interno storie di tutti i giorni, che si intrattengono col reale mediante relazioni […] Giocare a The Sims consegna all’utente o spettatore, una visione corredata di illustrazioni mediante l’uso di una Gestalt che si serve di un’identificazione unitaria» (p. 95). Dunque, il volume, oltre a concentrarsi sulla «mise en abyme come modello di coincidenza, sovrapposizione o ripresentificazione di storie tra personaggi come avviene nella metalessi» (p. 10), si occupa anche del ritratto del reale visto da un particolare angolo di prospettiva e visione: «il metagaming, grado evoluto ed espanso di percezione, sperimentazione e comprensione» (p. 10). In questo ultimo caso lo studioso si concentra su The Sims, gioco che deve il suo successo alla particolare capacità di trasporre il proprio sé in una dimensione altra ricca di aspirazioni e sogni. «Una sessione di gioco può rappresentare un modo per fronteggiare i problemi del reale, transitando dentro la propria vita non solo come spettatore, mediante un percorso virtuale e interpersonale» (p. 81).

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