Vincenzo Ruggiero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 In ricordo di Vincenzo Ruggiero https://www.carmillaonline.com/2024/02/04/in-ricordo-di-vincenzo-ruggiero/ Sun, 04 Feb 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81078 di Gioacchino Toni

In occasione della recente scomparsa di Vincenzo Ruggiero è doveroso tributargli un ricordo su “Carmilla online”. Chi scrive ha conosciuto e frequentato Vincenzo a Londra nei primi anni Novanta mantenendo nel tempo con lui un rapporto di amicizia. Signorile nei modi come, a volte, soltanto chi è di origini sottoproletarie sa essere, Vincenzo amava intrattenersi con le persone più diverse e farle incontrare tra loro. Frequentarlo significava imbattersi in intellettuali radicali così come in devianti dalla retta via refrattari ad accettare il presente e il futuro loro riservato da questo mondo, oppure in artisti, attori o musicisti fuori [...]]]> di Gioacchino Toni

In occasione della recente scomparsa di Vincenzo Ruggiero è doveroso tributargli un ricordo su “Carmilla online”. Chi scrive ha conosciuto e frequentato Vincenzo a Londra nei primi anni Novanta mantenendo nel tempo con lui un rapporto di amicizia. Signorile nei modi come, a volte, soltanto chi è di origini sottoproletarie sa essere, Vincenzo amava intrattenersi con le persone più diverse e farle incontrare tra loro. Frequentarlo significava imbattersi in intellettuali radicali così come in devianti dalla retta via refrattari ad accettare il presente e il futuro loro riservato da questo mondo, oppure in artisti, attori o musicisti fuori moda per scelta o condannati ad esserlo o, ancora, in chi si trovava, a distanza di tempo, a dover fare i conti con un passato turbolento. A cena con lui facilmente tutta questa umanità si mescolava tra le nuvole di fumo delle sue, tante, Nazionali o Gauloises rigorosamente senza filtro. Da lui si imparava soprattutto a infrangere i pregiudizi ed a guardare le cose e le persone da altri punti di vista rispetto a quelli spacciati come unici dal buonsenso comune e dagli accademici accomodanti e riappacificati con il mondo.

Vincenzo Ruggiero rientra sicuramente tra gli studiosi di spicco della sociologia e della criminologia critica contemporanea. A lui si devono imprescindibili studi sulle devianze e sugli aspetti criminali del potere. Autore di una produzione saggistica davvero sterminata, basti osservare l’elenco dei suoi principali lavori riportati dal sito della Middlesex University di Londra ove, oltre a dirigere il Crime and Conflict Research Centre, ha insegnato Sociologia occupandosi in particolare di sistemi penali, violenza politica, movimenti sociali, crimine, conflitto e controllo.

In Vincenzo è difficile distinguere l’intervento accademico da quello militante. Egli è stato tra gli animatori di “Senza Galere” e di “Controinformazione”, insieme ad Ermanno Gallo, ed occuparsi di carcere e carcerazione – non solo politica – su posizioni abolizioniste non è mai stato facile in questo paese. A ricordarlo è lui stesso in un intervento in cui rendeva omaggio allo scomparso Primo Morioni: «Occuparsi di carcere negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo era come pronunciare una sorta di auto-denuncia; il carcere veniva considerato il luogo per eccellenza nel quale la “sovversione” doveva essere annientata, ma simultaneamente il luogo dove la stessa sovversione poteva divulgarsi. I comitati per la difesa dei detenuti politici venivano presi di mira dagli inquirenti e dai mass media in quanto “agenti esterni e interni” della lotta armata, organismi di trasmissione del dissenso e della rivolta tra militanti in custodia e complici o simpatizzanti in libertà». Così Vincenzo ha elencato ciò che secondo lui (e il sodale Primo) costituiva e costituisce l’universo carcerario:

il carcere è una fabbrica che produce criminalità, una sorta di scuola di avviamento al lavoro extra-legale; il carcere non è rivolto ai detenuti, ma a coloro che esigono continue rassicurazioni in merito all’esemplarità della propria condotta; il carcere è il tributo pagato da chi non riesce a dimostrare che la sua condotta è meno dannosa di quella di coloro che lo condannano; il carcere non è altro che un periodo di riposo violento, una forma di cassa integrazione degradante e non pagata, per chi viene espulso dal ciclo dell’economia criminale in quanto “esuberante”; il carcere, in periodi e sistemi di piena occupazione, seleziona forza lavoro coatta, alla quale affida le mansioni più avvilenti e faticose; è carcere produttivo (si vedano i gulag sovietici); il carcere, in periodi di esuberanza di lavoro, assume funzione distruttiva, deve eliminare il surplus di energie disposte ad occuparsi: è carcere improduttivo che sa soltanto annientare; il carcere, quando inflitto ai minori, è una forma di nonnismo sociale erogato a chi deve “pagare” per diventare come la maggioranza degli adulti; il carcere, quando inflitto alle donne, è un avvertimento affinché non diventino come gli uomini; il carcere, quando inflitto agli stranieri, è un monito rivolto a tutte le persone socialmente vulnerabili: non crediate di poter commettere reati senza possedere status, protettori, alleati e complici nel mondo ufficiale; il carcere traduce in sofferenza la nozione volgare di scambio e commercio: il creditore si appropria del corpo e della mente del debitore, che è incapace di farsi commerciante; il carcere non intende risocializzare, ma soltanto vendicarsi, producendo handicap psico-fisici; il carcere serve ad abbassare le aspettative sociali di chi lo subisce: una volta in libertà, gli ex detenuti accetteranno qualsiasi occupazione e retribuzione; il carcere è l’estensione del mercato del lavoro sommerso, destinato a chi si trova suo malgrado in una “porta girevole” che lo conduce periodicamente dal lavoro mal retribuito al lavoro semi-legittimo, da qui al lavoro extra-legale e, appunto, alla detenzione; il carcere, in quanto crea opportunità di lavoro, è un contributo, una tassa, estorta da chi altrimenti sfuggirebbe al computo fiscale; il carcere eroga servizi in condizione coercitiva a chi quei servizi non ha ricevuto in libertà; il carcere è un deposito di esseri umani, un concentrato di problemi creati da chi non è in grado di risolverli; il carcere è parte dell’industria della sicurezza, troppo remunerativa per concepirne l’abolizione1.

Su “Carmilla online” è stato dato spazio  diverse volte alle analisi da lui prodotte, a partire dal suo articolo I rifugiati politici italiani in Francia, concepito originariamente per un pubblico non italiano, per una rivista di sociologia critica del diritto2 circolante nelle maggiori università del mondo,  tradotto e pubblicato in italiano sulla rivista “Vis-à-vis. Quaderni per l’autonomia di classe” nel 1994 e riproposto da “Carmilla online” nel 20043. Si tratta di un pezzo riguardante l’enormità della situazione dei rifugiati politici in Francia nota in questo paese soprattutto tra i meno giovani militanti della sinistra e pressoché sconosciuta all’estero. L’intenzione dell’autore è stata perciò quella di documentare una storia e denunciare una condizione di cui pochi erano a conoscenza.

Di seguito si riprendono, in ordine meramente cronologico, gli scritti che su “Carmilla online” si sono occupati di alcuni dei suoi tanti libri.

Dopo una serie di conferenze e articoli in cui Ruggiero ha fatto ricorso a testi letterari e artistici al fine di spiegare determinati concetti sociologici, e dopo aver guardato alle stampe di Giovan Battista Piranesi, alle sue “prigioni della mente”, per spiegare l’essenza immateriale del carcere contemporaneo, e ad alcuni scritti di Daniel Defoe per ragionare sulla differenza tra “affari appropriati” e “affari non appropriati” e sulla “legittimità morale” degli affari, lo studioso ha deciso di selezionare alcuni classici della letteratura per ragionare sulle principali questioni concernenti criminalità e controllo sociale, nella convinzione che l’immaginazione letteraria possa davvero fornire contenuti essenziali all’argomentazione razionale.

È da tale convincimento che nasce Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura (Il Saggiatore, 2005), originale testo in cui alcuni classici della letteratura – di Fëdor Dostoevskij, Albert Camus, Miguel de Cervantes, John Gay, Bertold Brecht, Charles Baudelaire, Jack London, Émile Zola, James Baldwin, Richard Wright, Herman Melville, Thomas Mann, Mark Twain, Victor Hugo, Octave Mirbeau e Alessandro Manzoni – vengono letti sociologicamente, con la convinzione che la finzione possa essere più importante della sociologia, in quanto «la finzione possiede la parola e la parola conquista le idee»4.

Nel volume La violenza politica (Laterza, 2006) l’autore si è invece soffermato sul rapporto tra violenza istituzionale (dall’alto) e violenza anti-istituzionale (dal basso) partendo dagli strumenti concettuali della criminologia, polemizzando con le omissioni di comodo di numerosi studiosi a proposito della “violenza politica”. Ad essere qua affrontate sono le diverse varianti di violenza istituzionale ed anti-istituzionale e le teorie e le definizioni specifiche delle diverse epoche5.

All’inizio del 2023, intervenendo sullo sciopero della fame portato avanti dall’anarchico Alfredo Cospito condannato a forme di reclusione disumane, proprio per non limitare la questione alla sproporzione tra la pena ed i reati di cui era stato accusato ed a denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti, a chi scrive è sembrato utile invitare a una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei riprendendo il volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011) recensito su “Carmilla online” una decina di anni prima6.

Nel passare in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni, Vincenzo non si è limitato a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma ha voluto occuparsi della questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo. Il pensiero abolizionista a cui ha inteso rifarsi emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena.

Con Perché i potenti delinquono (Feltrinelli, 2015) Vincenzo ha voluto introdurre all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, la tendenza dei potenti ad arrogarsi il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.

L’approccio proposto da Vincenzo ha voluto capovolgere l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, ha sostenuto lo studioso, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. In questo testo, forte del suo approccio legato alla criminologia critica o radicale in cui ci si interessa più del danno sociale che non della definizione ufficiale di criminalità, Vincenzo non si è limitato a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma ha voluto prestare attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. In coda alla recensione di questo volume pubblicata su “Carmilla online” il 28 ottobre 2015, l’autore ha risposto anche ad alcune domande che gli sono state sottoposte a proposito di tali questioni7.

Le riflessioni proposte da Vincenzo nel libro Violenza politica. Visioni e immaginari (DeriveApprodi, 2021) aiutano a comprendere meglio le dinamiche di alcune forme di rivolta urbana, che ormai da tempo si susseguo su scala internazionale e caratterizzate, al di là dell’elemento scatenante – che può essere l’ennesimo episodio di violenza poliziesca nelle periferie delle grandi città, una pratica di gentrificazione selvaggia nelle metropoli o di distruzione dell’ambiente ecc. – da una logica economica che non esita a soffocare ed eliminare tutto ciò che rallenta il suo cammino. Secondo l’autore, l’analisi della violenza – condotta attraverso prospettive derivate dalla criminologia, dalla teoria sociale, dalle scienze politiche, dalla critica del diritto, dalla letteratura e, più in generale, dalle opere di finzione –, può contribuire a spiegare la formazione e la distribuzione sociale del potere nel corso del tempo. Nell’analizzare la violenza sistemica e istituzionale, i comportamenti delle folle, i tumulti, le sommosse e le rivolte, il terrorismo e la guerra, lo studioso scorge nella violenza politica, oltre che l’origine di alcuni dei pericoli che attraversano la contemporaneità, un potenziale di emancipazione e liberazione8.


  1. Vincenzo Ruggiero, Perché la pena?, in Archivio Primo Moroni, pubblicato originariamente sulla rivista “Come”, 2007.  

  2. “Crime, Law and Social Change”, Vol. 19, n. 1, 1993  

  3. Vincenzo Ruggiero, I rifugiati politici italiani in Francia, in “Carmilla online”, 10 Marzo 2004.  

  4. Vincenzo Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, Milano 2005. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Devianza e letteratura 1/2, in “Carmilla online”, 24 dicembre 2006 e Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Devianza e letteratura 2/2, in “Carmilla online”, 26 dicembre 2006.  

  5. Vincenzo Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Il sogno di Prometeo e l’ignobile carneficina. Un inno agli antieroi, in “Carmilla online”, 14 Settembre 2006.  

  6. Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2011. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena, in “Carmilla online”, 6 gennaio 2012.  

  7. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Roma 2015. Gioacchino Toni, L’essenza criminale del potere. V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Recensione e intervista all’autore, in “Carmilla-online”, 28 ottobre 2015.  

  8. Vincenzo Ruggiero, Violenza politica. Visioni e immaginari, DeriveApprodi, Roma 2021. Gioacchino Toni, Leggere le rivolte metropolitane, in “Carmilla online”, 16 febbraio 2021.  

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La contro-idea abolizionista https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/la-contro-idea-abolizionista/ Sun, 01 Jan 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75292 di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, [...]]]> di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, perennemente in preda a beceri istinti forcaioli, nonostante la cortina di silenzio  eretta attorno a tale incredibile vicenda abbia di fatto negato ai più anche semplicemente di conoscere sufficientemente gli eventi, nonostnte tutto le espressioni di solidarietà nei confonti del detenuto non mancano.

Soffermarsi sulla palese sproporzione tra i reati di cui si parla e la pena a cui è sottoposto Cospito può e deve essere un punto di partenza non solo per denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti e quanto siano disumane le modalità di dentezione e la condanna senza fine pena che toccano lui come altri reclusi, ma anche per aprire una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei.

A tal proposito può essere di qualche utilità riportare una recensione pubblicata su “Carmilla” ormai una decina di anni fa (06/01/2012) relativa al volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011).

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Il testo passa in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni. L’autore non si limita a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma affronta la questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo.

Il pensiero abolizionista emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena. Una coraggiosa, radicale e controcorrente riflessione su tali questioni può essere salutata come una boccata di ossigeno per un cervello che, ultimamente, pare davvero, in questo paese, essersi accontentato di un’ora d’aria al giorno.

Il saggio inizia con l’analizzare il pensiero abolizionista a partire dal rigetto della netta distinzione tra bene e male. L’abolizionismo non resta, però, insensibile a tale distinzione ma evita di ordinare gerarchicamente i valori in quanto ciò richiederebbe una parità di vantaggi da parte di chi li adotta; gli atti illegittimi non risultano per forza di cose ingiusti se non sono derivati da una libera scelta. Sviluppando la riflessione amorale di Spinoza, in cui bene e male sono da intendersi come concetti relativi, l’abolizionismo sostiene che la probabilità che le azioni compiute vengano classificate o meno come criminali dipende dalle opportunità sociali.

Il sistema della giustizia criminale tende a sottrarre i conflitti alle parti direttamente coinvolte e a separare l’individuo dal contesto ove il fatto si è dato. L’intervento istituzionale nelle situazioni problematiche tende a cancellare un’etica di responsabilità condivisa in favore di una responsabilità individuale, determinando così una sorta di monopolio istituzionale circa il potere di punire o meno.

La legislazione criminale si presenta come espressione di un conflitto e, in un contesto in cui vige una sostanziale ineguaglianza, sono le componenti dotate di maggior potere a criminalizzare le condotte di chi ne detiene meno. I detentori del potere delegano l’applicazione della legge criminale a organizzazioni professionali che finiscono con l’incidere profondamente sulla percezione del crimine e sulle forme da attuare per combatterlo. La legislazione criminale determina una costruzione di realtà: il soggetto in causa viene separato dal contesto in cui ha agito e viene a forza inserito all’interno di una gamma di eventi e condotte limitata.

A proposito della questione carceraria vengono passati in rassegna dall’autore le riflessioni di diversi studiosi. In Kant la punizione è un imperativo categorico; i crimini rendono gli autori proprietà dello Stato e la detenzione non è intesa come strumento riabilitativo. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è invece il reo ad avere il diritto di essere punito e la punizione non deve per forza avere utilità ma deve essere intesa come affermazione della giustizia, come annullamento del male. La punizione rende onore ai rei considerandoli esseri razionali.

Marx, diversamente, intende la pena come uno strumento a cui ricorre la società per difendersi da chi mette a repentaglio le condizioni stesse che ne tramandano l’esistenza.

Durkheim ritiene che un atto umano non provoca sgomento nella società perché è criminale, ma viene inteso criminale proprio perché provoca sgomento. Visto che in Durkheim la pena vale come messaggio rivolto all’intera società, Ruggiero sottolinea come in tale approccio essa finisca per rafforzare il senso di superiorità etica di chi la infligge, rispondendo ad un bisogno di vendetta retributiva. Il progressivo declino del principio di responsabilità collettiva, base delle società antiche, ha determinato la centralità del carcere nel sistema penale contemporaneo.

La logica conseguenzialista si presenta in forme diverse difficilmente distinguibili: misura comunicativa simbolica (espressione di disapprovazione), misura deterrente, misura di incapacitazione (rendere innocui i rei), misura riabilitativa (mira al miglioramento morale e materiale delle vite dei rei).

Con riferimento alla funzione del carcere è possibile confrontare gli approcci istituzionali e quelli materiali. I primi enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo. La punizione si rifà ad un’idea di vendetta o retribuzione. I corpi devono essere distrutti. Negli approcci materiali, invece, si enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. La punizione è intesa come strumento regolativo: i corpi devono produrre.

Secondo le analisi di Rusche e Kirchheimer i sistemi penali tendono ad adeguarsi ai rapporti produttivi del momento: durante i periodi di crisi economica si abbassano i salari e peggiorano le condizioni della popolazione carceraria in quanto parte della forza lavoro eccedente, mentre nei periodi di espansione economica, ove vi è carenza di forza lavoro, le condizioni della popolazione carceraria migliorano.

In Foucault il carcere è l’emblema della società disciplinare moderna, egli vede nella pena un dispositivo disciplinare che tocca ogni aspetto dell’individualità ma nei periodi emergenza il regime carcerario si fa distruttivo per annientare i sui nemici. Occorre però considerare i rapporti tra punizione e sfera economica tenendo conto del controllo penale e sociale fuori dal carcere. Tenendo presente che la forma più incisiva di controllo sociale si esprime attraverso il rapporto salariale, Ruggiero indica nelle “zone carcerarie sociali” quelle aree ove le attività illegali si intrecciano con quelle marginali e con il lavoro precario. Tali zone subiscono una gradualità di forme di controllo e di punizione,

le funzioni di deterrenza individuale e generale della pena non sono dirette esclusivamente verso i recidivi o i criminali irriformabili, ma in generale contro la popolazione esclusa (…) occorre enfatizzare che la funzione materiale o educativa della pena, in queste aree, non smette di operare. I marginali, i lavoratori occasionali, i piccoli extra-legali e gli sconfitti in genere, che si muovono tra legalità ed illegalità, vengono “educati” a rimanere e sopravvivere nelle loro aree di esclusione, come nei secoli scorsi i loro omologhi venivano educati alla disciplina industriale. La disciplina imposta attraverso la pena mira ad abbassare le loro aspettative sociali (…) ai reclusi verrà riconosciuta completa riabilitazione quando accetteranno di rimanere nel loro specifico settore della forza lavoro e quando, implicitamente, rifiuteranno di evadere dalle zone carcerarie sociali loro assegnate. La forza lavoro “criminale” e la adiacente forza lavoro precaria costituiscono il deposito della popolazione carceraria, la riserva umana dalla quale attingere (pp. 98-99).

Diversi studiosi smontano l’idea del carcere riabilitativo visto che gli effetti carcerari in termini di prevenzione della recidiva risultano davvero trascurabili. La detenzione pare, piuttosto, peggiorare la condotta visto che i detenuti hanno la tendenza ad interiorizzare quei valori e quelle regole che regolano la vita di un ambiente violento come il carcere; da qua discende l’idea del carcere come scuola del crimine. La stessa convinzione che il valore deterrente della detenzione sia rivolto alla popolazione nel suo complesso appare davvero traballante, visto che il valore deterrente pare agire soltanto su chi non ne ha bisogno. Inoltre, in tale logica, l’obiettivo dissuasivo nei confronti dell’intera popolazione verrebbe paradossalmente raggiunto anche nel caso di condanna di innocenti; anche punendo individui a caso, prescindendo dalle loro responsabilità penali, l’intera comunità potrebbe venire dissuasa dal commettere reati.

La presunzione contemporanea che ci si sia indirizzati verso un pena umanizzata, più mite, dovrebbe fondarsi sulla misurazione della differenza tra la condizione di “normalità” dell’esistenza e quella indotta dal sistema coercitivo. Da questo punto di vista il sistema carcerario tendenzialmente interviene sugli strati più svantaggiati della popolazione ed ammesso vi sia stato un miglioramento delle condizioni di vita anche dei livelli più bassi di esistenza a livello europeo, le condizioni carcerarie non sembrerebbero essere affatto progredite di pari passo.

I criminologi critici tendono poi a svalutare la teoria retributiva:

in una società che incoraggia all’individualismo, all’egoismo e all’ingordigia, la teoria retributiva invoca la punizione di chi appare autonomo anche se, in realtà, è perdente, in quanto, vista la sua condizione sociale, è spesso vittima dell’ingordigia degli altri (…) Chi viola le norme si presenta come un concorrente sleale, che si avvantaggia degli svantaggi degli altri, e questo rende la punizione moralmente accettabile (…) Ma come può una società radicalmente ineguale affermare che lo status quo crea benefici per tutti? (pp. 110-111).

Appare evidente come abitualmente si sia dato un fenomeno di pendolarismo tra “zona carceraria sociale” e carcere. A tale proposito sarebbe auspicabile un drastico cambiamento in cui allo svilupparsi di forme di “economia associativa” alternative al mercato del lavoro ufficiale possano funzionare forme di giustizia partecipativa.

Nella trattazione di Ruggiero vengono approfonditi gli approcci di Louk Hulsman, Thomas Mathiesen e Nils Christie, che rappresentano alcune tra le figure più importanti del pensiero abolizionista. L’olandese Hulsman, a partire dalle esperienze personali, deriva dalla dottrina cristiana alcuni dei tratti fondamentali che, intrecciati soprattutto con aspetti della teologia della liberazione, formano il suo pensiero anti-criminologico. In particolare lo studioso rifiuta il sistema della giustizia criminale che riduce i problemi sociali in colpevolezza individuale. Il giudizio individuale nega gli aspetti comunitari del crimine così come, nell’ambito religioso, la confessione privata nega gli aspetti comunitari del peccato.

Il norvegese Mathiesen fonda buona parte della sua analisi sullo studio dei rapporti di forza in continua evoluzione all’interno della società e sulle forme di contropotere dal basso che si scontrano incessantemente con il potere. Nonostante l’eterogeneità delle fonti da cui trae spunto, l’intera analisi dello studioso si fonda su una nozione di conflitto che conduce all’azione, conflitto inteso però «non come espressione di rapporti sociali inalterabili, ma come manifestazione di energie per il mutamento» (p. 179). Una convinzione importante sviluppata da Mathiesen riguarda la critica alle metodologie di ricerca sociologica definite “neutrali” od “oggettive”. Nel rifiuto di una netta distinzione tra ricercatori e soggetti esaminati «L’azione è implicita nel metodo adottato, e gli “oggetti” della ricerca sono i soggetti principali non solo della ricerca medesima che li riguarda, ma anche dell’azione. La critica radicale di Mathiesen (…) traduce costantemente conoscenza sul conflitto in prassi collettiva per coloro che lo producono» (pp. 179-180).

Lo studioso norvegese Christie ha evidenti punti di contatto in particolare con le argomentazioni del libertario russo di Pietr Kropotkin; in entrambi i casi si ritiene che la proliferazione delle leggi finisca per ridurre la possibilità di controllo collettivo producendo una sorta di circolo vizioso in cui le leggi finiscono col creare ansia ed insicurezza a cui poi si finisce col risponde con nuove leggi. Inoltre, la proliferazione delle leggi avrebbe nell’ignoranza diffusa un fattore di moltiplicazione. Nel pensiero anarchico la legge viene percepita come una vera e propria forma di rapina perpetuante la dominazione dei potenti sul resto della comunità e la punizione finisce col creare la propria immagine nelle persone alle quali viene inflitta creando così essa stessa la criminalità.

Una parte del saggio di Ruggiero viene dedicata al dibattito sulla giustizia ripartiva. Nell’approccio abolizionista si rifiuta l’idea che sia un’organizzazione statale ad avere il monopolio della definizione delle condotte criminali. Per gli abolizionisti il crimine dovrebbe essere intesto come una “disputa partecipativa” ove tutti gli attori implicate negli eventi, rei compresi, dovrebbero farsi carico direttamente della discussione finalizzata a risolvere in qualche modo il contenzioso che ha sue specificità e non può essere analizzato applicandovi meccanicamente formule preconfezionate dettate da qualche, supposta, analogia.

Il metodo partecipativo permette di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche che si intendono affrontare. È sull’onda di tali ragionamenti che lo studioso Herman Bianchi ha sviluppato il concetto di “giurisdizione partecipativa” ove il reo viene inteso come debitore tenuto ad assumersi la responsabilità umana dei propri atti partecipando attivamente alla ricerca di una riparazione; debito e responsabilità sostituirebbero così i concetti di colpa e colpevolezza. Nell’idea di Bianchi, però, le pratiche di restituzione e riparazione non mirano, come in Durkheim, a ristabilire le condizioni precedenti l’atto ma, piuttosto, hanno come finalità quella di promuovere rapporti solidali tra gli individui, dunque, a modificare le condizioni ante-crimine. Il contenzioso, in altre parole, diventerebbe un’occasione per costruire dialogo e rapporti più profondi tra i membri di una comunità.

Concludendo, in un periodo in cui si invoca il carcere per i potenti ma le celle scoppiano di poveri cristi, il tintinnare delle manette pare essere un suono gradito a tanti ed il buttar via la chiave della cella torna, ancora una volta, a essere uno slogan con cui conquistare consenso, il pensiero abolizionista getta una nuova luce sul delitto, sulla legge e sulla pena, questioni su cui da troppo si evita di riflettere.

Recensione pubblicata originariamente su“Carmilla” il 6 gennaio 2012


Libri di Vincenzo Ruggiero di cui ci si è occupati su “Carmilla”:

Scritti di Vincenzo Ruggiero su “Carmilla”:

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Leggere le rivolte metropolitane https://www.carmillaonline.com/2021/02/16/leggere-le-rivolte-metropolitane/ Tue, 16 Feb 2021 22:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64931 di Gioacchino Toni

La messa in discussione, quando non direttamente la rimozione, dei diritti e delle conquiste sociali derivati da precedenti stagioni di lotta, la demolizione sistematica delle comunità, l’imposizione di un’esistenza sempre più precaria, lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente naturale ed urbano, la sempre più marcata concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, l’impoverimento crescente della classe lavoratrice e lo sgretolamento progressivo della classe media, l’implosione delle forme democratiche tradizionali e della loro narrazione, hanno sempre più frequentemente messo settori sempre più allargati di popolazione di fronte al [...]]]> di Gioacchino Toni

La messa in discussione, quando non direttamente la rimozione, dei diritti e delle conquiste sociali derivati da precedenti stagioni di lotta, la demolizione sistematica delle comunità, l’imposizione di un’esistenza sempre più precaria, lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente naturale ed urbano, la sempre più marcata concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, l’impoverimento crescente della classe lavoratrice e lo sgretolamento progressivo della classe media, l’implosione delle forme democratiche tradizionali e della loro narrazione, hanno sempre più frequentemente messo settori sempre più allargati di popolazione di fronte al mero arbitrio del potere che ormai si rapporta con chi intralcia i suoi interessi esclusivamente attraverso l’esercizio della forza.

Molte delle proteste e delle lotte che si sono dispiegate negli ultimi tempi, al di là dell’elemento scatenante – che può essere l’ennesimo episodio di violenza poliziesca nelle periferie delle grandi città o un fenomeno di gentrificazione selvaggia nelle metropoli o di distruzione dell’ambiente ecc. – sembrano scaturire da un generale apriorismo economicista che non esita a soffocare ed eliminare tutto ciò che rallenta il suo cammino. Diversi episodi recenti di protesta sembrano essersi dati con una certa spontaneità, senza avere alle spalle una pianificazione vera e propria né un progetto di trasformazione ben preciso.

Come si è scritto nel volume dedicato alle crescenti forme di “guerra civile” che sembrano contraddistinguere l’epoca attuale e a venire, in uscita per Il Galeone Editore1, in un contesto segnato da una crescente proletarizzazione delle classe media e dalla diffusione di un proletariato marginale, appare limitativo guardare ai conflitti concentrandosi quasi esclusivamente sulla classe operaia tradizionale.

Se molte delle esplosioni conflittuali che si susseguono e si accavallano da qualche tempo da un lato palesano l’effettiva disgregazione di classe, dall’altro lasciano intravedere un reticolo di caratteristiche e iniziative dal basso che potrebbero costituire le fondamenta di una futura ripresa dell’antagonismo all’interno di fratture sociali che potrebbe dar luogo a inediti percorsi di iniziativa anticapitalista.

Al fine di comprendere meglio le dinamiche di alcune forme di rivolta urbana, che ormai da tempo si susseguo su scala internazionale, può essere utile ricorrere al recente volume di Vincenzo Ruggiero, Violenza politica. Visioni e immaginari (DeriveApprodi 2021) facendo riferimento in particolare al capitolo Folla e violenza di gruppo.

Secondo l’autore, l’analisi della violenza – condotta attraverso prospettive derivate dalla criminologia, dalla teoria sociale, dalle scienze politiche, dalla critica del diritto, dalla letteratura e, più in generale, dalle opere di finzione –, può contribuire a spiegare la formazione e la distribuzione sociali del potere nel corso del tempo. Nell’analizzare la violenza sistemica e istituzionale, i comportamenti delle folle, i tumulti, le sommosse e le rivolte, il terrorismo e la guerra, Ruggiero scorge nella violenza politica, oltre all’origine di alcuni dei pericoli che attraversano la contemporaneità, un potenziale di emancipazione e liberazione.

In alcuni momenti la mobilitazione collettiva, nel suo dar luogo a una nuova forma di comunione, permette la prefigurazione di un ordine sociale diverso rispetto a quello esistente. È possibile guardare all’effervescenza collettiva in una varietà di modalità che vanno dalla benevolenza all’avversione, con stati d’animo che variano dalla paura alla speranza. Si possono leggere i disordini con gli occhi di chi ritene le folle incapaci di produrre intelligenza, dunque di governare se stesse e la società. I criminologi positivisti, ad esempio, hanno visto nei combattenti della Comune di Parigi dei «criminali atavistici» in balia di una violenza irrazionale, mentre, da un’angolatura opposta, c’è invece chi ha colto nei comunardi il limite di essere stati fin troppo onesti e non sufficientemente criminali nei confronti del potere economico, e chi ha visto nel presentarsi sulla scena politica della folla un embrione di forma assembleare già di per sé significativa indipendentemente dalle richieste formulate.

Guardando razionalmente al ruolo della folla nella storia e ai motivi materiali che hanno dato il via alle rivolte, queste ultime possono essere lette come azioni propositive condotte da parte di chi intende migliorare la propria condizione di vita in un intrecciarsi di elementi derivati dall’esperienza storica e maturati durante l’azione stessa.

Guardando alle rivolte popolari occorre considerare tanto i fattori precipitanti che il malessere diffuso.

Le divisioni storicamente radicate danno origine a conflitti che sono cronici, legati ad esempio all’appartenenza a una classe sociale, un gruppo etnico o un credo religioso. Le rivolte, per questo motivo, diventano manifestazioni endemiche della vita sociale, anche se non producono necessariamente cambiamento. Le esplosioni collettive avvengono comunque con regolarità, si raggruppano nel tempo e nello spazio, e coinvolgono precisi gruppi sociali. Aggrediscono il terreno delle regole e quello dei valori, che mirano a proteggere, modificare o creare dal nulla. L’ostilità, tuttavia, può anche emergere dalle divisioni prodotte dagli stessi movimenti sociali, che separano la società in campi opposti e permettono a ognuno di attribuire all’altro la responsabilità per il proprio malessere. I valori si diffondono e i movimenti sociali si rafforzano soprattutto se sono disponibili dei canali comunicativi che preparano all’azione attraverso modalità informali o tramite la propaganda e l’agitazione organizzata. Il potere delle immagini e delle convinzioni è cruciale, come lo è l’efficacia della macchina comunicativa utilizzata. La presenza di “quadri dirigenti” è significativa, anche se queste figure un po’ tradizionali vengono spesso sostituite da reti ben funzionanti di attivisti. (pp. 53-54)

Il disagio e la rabbia delle folle possono esprimersi tanto attraverso azioni pacifiche quanto ricorrendo a devastazioni e saccheggi. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta alcuni indirizzi della criminologia hanno affrontato le rivolte a partire dalla convinzione che in ogni comportamento illegittimo sia individuabile un nocciolo politico; le violenze di massa esprimono bisogni politici e suscitano risposte a loro volta di natura politica. Nella violenza dell’azione collettiva è, inoltre, possibile vedere una pratica di autodifesa in risposta alle intimidazioni e alla violenza delle forze dell’ordine.

Nell’ambito della criminologia critica le rivolte tendono ad essere lette come atti prepolitici determinati dall’ingiustizia sociale. Altrettanto prepolitica sarebbe «la cultura consumistica rivelata dai saccheggi e dalla mancanza di strategie per il cambiamento che li denota. In questo caso, sebbene istigate dalla polizia, le rivolte vengono ritenute espressioni collettive di disperazione e nichilismo» (p. 54).

La rivolta di massa può anche essere vista come luogo di mutamento politico agito da chi non trova rappresentanza in ambito istituzionale. Ed è in strada che la folla agisce in nome di una causa o un’ingiustizia a cui desidera sia posto rimedio, così come è sempre in strada che si confronta con l’autorità statale.

In questa formulazione, lo scontro violento appare come prodotto secondario della lotta politica per il potere, mentre il rapporto tra folla e polizia definisce il profilo dello specifico contesto. L’azione collettiva, in questo modo, si adatta alle caratteristiche situazionali, mentre la scelta violenta dipende dai valori espressi, dall’autocontrollo, ma anche dalle dinamiche che si stabiliscono nelle interazioni tra gli attori coinvolti. (p. 55)

Al fine di verificare tale formulazione, Ruggiero passa in rassegna alcuni esempi di rivolte europee e statunitensi: Parigi 2005, Londra 2011 e da Ferguson a Minneapois 2020.

Tra ottobre e novembre 2005 la Francia è attraversata da una serie di rivolte scoppiate in seguito alla morte di tre giovani fulminati mentre tentavano di fuggire dalla polizia. La facilità con cui le rivolte dilagano facilmente, spiega Ruggiero, deriva, al di là dell’episodio scatenante, dall’accumularsi di episodi di brutalità poliziesca che colpiscono i sobborghi abitati soprattutto da migranti. Dopo alcuni giorni di disordini da parte di quella che l’allora Ministro degli Interni Sarkozy, con palesi connotati razzisti, definisce «feccia», si chiede ai prefetti di rispedire al proprio paese d’origine gli arrestati nonostante il loro essere in possesso del permesso di residenza in Francia e un inasprimento delle norme relative l’immigrazione. Gli agenti coinvolti nella morte dei tre giovani che ha dato il via agli episodi di ribellione vengono assolti dai tribunali francesi.

Nel novembre del 2011 a scatenare una rivolta condotta con incendi e saccheggi, dapprima a Londra, poi, grazie soprattutto ai social media, in diverse altre città inglesi, è l’uccisione da parte della polizia di un giovane nel quartiere di Tottenham. Il dibattito seguito agli episodi violenti si è concentrato sui problemi sociali, sui conflitti tra gruppi etnici e sul razzismo istituzionale dando luogo ad una serie di letture che vanno dal guardare alla condotta delle folle come espressione di «guasto morale collettivo» alla sottolineatura di come nei saccheggi non sia presente alcun elemento politico. Altre letture, pur condannando i saccheggi in quanto considerati atti di consumismo, preferiscono sottolineare come l’insistenza su tale aspetto finisca per celare il carattere espressivo e politico della violenza.

Nel 2014 è l’uccisione di un diciottenne afroamericano a Ferguson, Missouri, un sobborgo di Saint Louis, ad innescare le proteste di piazza a cui le autorità rispondono con reparti antisommossa e coprifuoco e, nuovamente con l’assoluzione degli uomini in divisa. Se la violenza poliziesca nei confronti degli afroamericani è un tratto permanente della storia statunitense, da qualche tempo gli episodi di brutalità ricevono però inedita attenzione e risonanza. Le proteste che si sono succedute sembrano avere modificato la percezione degli americani del razzismo radicato nelle loro istituzioni.

Ovviamente le recenti ribellioni di massa che hanno assunto carattere violento possono essere lette in diversi modi. In linea con la tradizione della criminologia critica gli insorti possono essere visti come attori prepolitici che necessitano di rappresentanti ufficiali e di una linea operativa, oppure è possibile vedere nel ricorso alla forza da parte della folla esempi di democrazia diretta, di autodifesa ecc. Certo è, sottolinea Ruggiero, che l’azione trasmette inquietudine e lo fa soprattutto quando a muoversi sono giovani esclusi in cui si ravvisa una certa «propensione al crimine». A preoccupare è «la loro apparente indolenza, la loro assenza dai mercati, la loro povertà relativa», queste appaiono come condizioni che possono spingerli alla rivolta.

Perennemente inattivi, alcuni individui e gruppi non posseggono i tratti rassicuranti del consumatore. Fare compere ha ormai raggiunto un valore non soltanto politico ma metafisico, poiché gli acquisti ci permettono di disegnare una sorta di mappa sociale e di stabilire, a volte inconsciamente, una gerarchia di identità e valori. Lo spazio del consumo, per altro, deve essere protetto e le cancellate devono essere visibili, mentre gli estranei vanno sfrattati. Tra questi ultimi, vi sono anche coloro che […] costituiscono una semplice minaccia estetica, tutte quelle minoranze che senza volerlo comunicano un senso di pericolo alla maggioranza che consuma, e che deve consumare senza essere disturbata. Non è un caso che la rigenerazione di centri urbani nel Regno Unito consista nella svendita degli spazi pubblici a chi li trasforma in spazi per il consumo, dove le catene dei dettaglianti non tollerano la presenza degli indolenti e dei poveri. Né stupisce che sia stato introdotto il delitto di “comportamento antisociale”, secondo cui i soggetti non desiderati vengono banditi da certi luoghi così come la sporcizia viene rimossa dalle strade. (p. 61)

Esclusi dal mercato e dall’agibilità dello spazio della strada, storicamente luogo di cambiamenti sociali per eccellenza, ai gruppi marginali è richiesto di

esprimere una sensibilità sociale che viene loro costantemente negata. Insomma, le percezioni della folla sono intimamente connesse alla paura del danno che può procurare agli esseri umani e alle cose, ma quello che principalmente si teme sono le conseguenze potenziali dello spaventoso aumento dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza alle quali la folla reagisce. (p. 62).

È possibile distinguere tra aggressività benevole e malevole; si fa riferimento al primo caso quando l’aggressività della folla è leggibile come risposta difensiva in reazione a soprusi, umiliazioni, ingiustizie o in reazione ad una limitazione della libertà.

Nel difendere interessi vitali, le folle mostrano di essere assertive e si rivelano in grado di perseguire obiettivi senza esitazione, dubbio o paura. La paura, al contrario, scaturisce dalle minacce di chi cerca di controllarle con la violenza, causando risposte aggressive o fuga. Quest’ultima rimane una scelta, quando rimane spazio per “salvare la faccia” ma, quando tale spazio viene annullato, la dignità viene obbligata a esprimersi attraverso modalità diverse. (p. 63)

Divenire aggressivi è una risposta efficace per liberarsi dell’estremo disagio che la paura comporta.

Innescata dalla polizia o dai dimostranti, questa violenza è di segno difensivo, come paradossalmente lo sono i saccheggi, spesso interpretati da chi li compie come difesa del proprio diritto al consumo. Non sono difensive né benevole, invece, le risposte istituzionali, che mettono in pratica un’ostilità nei confronti dei dimostranti maturata ben prima che questi diventino tali (p. 63)

Visto che i potenti possono vedere nella folla una minaccia ai loro interessi (privilegi), anche la loro violenza potrebbe per certi versi essere considerata di tipo difensivo. Allo stesso modo, continua Ruggiero, anche la folla può manifestare condotte «malevole» a partire dai rapporti che stabiliscono con altre forze sociali organizzate.

«Il potere sociale e l’attitudine al rischio delle classi privilegiate sono variabili centrali che determinano la loro criminalità. Queste classi abitano dei mondi generativi che si ispirano a valori antisociali come: concorrenza spietata, un senso di arroganza e un’etica del “dovuto”». (p. 63) Tali attori tendono a considerare legittimo il ricorso alla forza per difendere i propri interessi da chi osa metterli in discussione.

Affermare che la folla agisce con propositi politici, puntualizza Ruggiero, non significa sostenere che si è in presenza di un progetto politico. E se la folla può ignorare o promuovere uno specifico movimento sociale, questo ultimo ha invece bisogno della folla più di quanto questa ne abbia di lui. Nell’unirsi alle folle i movimenti sociali possono «presentarsi come portatori dei valori espressi nelle strade e incorporarli in un programma provvisorio ma organico» (p. 64).

Nel caso un movimento sociale operi nella sfera istituzionale, esso dispone di canali di comunicazione con le agenzie ufficiali e decisionali. In questo caso i nuovi reclutati e gli stessi attori più violenti apprenderanno la logica della contrattazione del movimento di cui fanno parte. I movimenti sociali non istituzionali tentano invece di assimilare a sé i soggetti più propensi all’azione diretta e meno inclini alla negoziazione. Le “avanguardie” di questi movimenti tenteranno di dare una finalità e un’organizzazione alla forza spontanea e disorganizzata delle folle, oltre che una crescente radicalità.

Da questo punto di vista, le forze esterne “soccorrono” le folle violente e le guidano in azioni più accortamente programmate. Allo stesso tempo, i gruppi politici violenti penseranno di godere di un mandato collettivo nell’uso della forza, e le daranno continuità, inscrivendo la violenza disorganizzata tipica delle folle in un progetto strategico di cui sono portatori. La violenza dei gruppi organizzati, allora, almeno nella razionalizzazione dei suoi membri, diventa un prolungamento della violenza delle folle che li legittima e implicitamente li sostiene. La violenza delle folle, tuttavia, può anche ricoprire un’altra funzione, ad esempio il rafforzamento dei sentimenti di conformismo tra coloro che la condannano. Questo accade quando la richiesta di criminalizzare le folle e i gruppi e i movimenti loro alleati si fa più insistente. Di conseguenza, lo spazio per l’azione collettiva si riduce e gli sconfitti cercheranno di individuare nuove procedure per raggiungere i propri obiettivi. (p. 65)

Quando le mobilitazioni dei gruppi sociali non riescono ad ottenere soddisfazione il meccanismo di criminalizzazione finisce per dividere il gruppo tra chi è disposto ad arrendersi alla sconfitta e chi è intenzionato ad una condotta più radicale passando da atti di violenza spontanea ad una programmata e strategica.

Questa traiettoria non viene determinata dalle carenze o dall’inefficacia delle istituzioni, ma dal tipo di interazioni che prevalgono tra le autorità e il dissenso. In altre parole, le agenzie del controllo sociale, nel rispondere alle esplosioni di ostilità, ne determinano l’ampiezza e la profondità. La repressione generalizzata, ad esempio, convince alcuni gruppi che i mezzi pacifici producono scarsi risultati. Fosse solo questione di forza, ogni forma di sfida all’autorità, probabilmente, potrebbe essere neutralizzata, vista la gigantesca disparità del volume di fuoco a disposizione delle forze in campo. La repressione, tuttavia, non neutralizza, ma distilla, seleziona: quando la folla, attraverso l’uso della violenza, non raggiunge alcun obiettivo, i gruppi sociali che la compongono adottano altre modalità d’azione. (pp. 65-66)


L’immagine di apertura è tratta dal film Les Misérables (2019) di Ladj Ly


  1. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021. Scritti di: Raffaele Sciortino – Alessandro Peregalli e Susanna DeGuio – Fabrizio Lorusso – Sara Montinaro – Fabio Ciabatti – Giovanni Iozzoli – Marta Lotto – Enzo Names e Nicolò Molinari – Stefano Portelli – Elena Papadia – Emilio Quadrelli – Jack Orlando – Sandro Moiso – Gioacchino Toni. 

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L’essenza criminale del potere. V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Recensione e intervista all’autore https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/ Wed, 28 Oct 2015 22:30:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26071 di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di [...]]]> di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, i potenti si arrogano il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.
L’approccio proposto da Ruggiero capovolge l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. Inoltre, prima di entrare nel merito del lavoro proposto da Ruggiero, occorre sottolineare che, nell’ambito della tradizione della criminologia critica o radicale, alla quale appartiene l’autore, non ci si limita a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma si presta attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. La criminologia radicale, pertanto, si interessa più al danno sociale che non alla definizione ufficiale di criminalità.

A proposito dei soggetti identificati come potenti dalla trattazione, Ruggiero ricorda come le definizioni di potere non siano mai del tutto definite o incontestabili ed in diversi casi, nel momento in cui si commette un crimine, si esercita un atto di potere nei confronti delle vittime di turno indipendentemente dal fatto che le vittime siano “socialmente, economicamente e politicamente” più potenti del criminale. Occorre pertanto chiarire a quali attori ci si riferisce in questo testo quando si parla di potenti. “Molti dei responsabili di violenza domestica, di rapina o di crimini di natura razzista, dopo le loro scorribande, torneranno con ogni probabilità al loro status di persone prive di potere che li caratterizza nelle altre interazioni sociali. I comportamenti criminali esaminati nelle pagine seguenti”, sottolinea l’autore nell’Introduzione, “sono propri di attori il cui potere costituisce una risorsa disponibile anche in altri contesti e per altre iniziative, attori che, dopo aver utilizzato il proprio potere per commettere crimini, possono facilmente tornare nelle altre sfere della loro esistenza e continuare a esercitarlo”. I crimini di cui si occupa il saggio sono quelli che “hanno come autori apparati statali, grandi imprese, istituzioni finanziarie e altre organizzazioni similmente potenti; insomma tutti quegli autori di reato che posseggono risorse materiali e simboliche di gran lunga superiori a quelle possedute dalle loro vittime”.
Man mano che il saggio amplia i punti di osservazione sulla questione del crimine dei potenti si delinea un quadro che pare portare alla conclusione che “lo studio del rapporto tra potere e criminalità consiste nello studio della coincidenza tra i due”. Ruggiero, capitolo dopo capitolo, descrive il potere come “entità diffusa, una sorta di infezione pandemica che si occulta, viola le sue stesse leggi, sprigiona violenza, promuove emulazione e, allo stesso tempo, neutralizza chi vorrebbe opporvisi”.

interestinpeopleDopo aver passato in rassegna le diverse letture proposte dalla criminologia, a partire da Edwin Sutherland, circa le modalità con cui vengono letti i crimini dei potenti, l’autore giunge alla conclusione di come tale disciplina, soprattutto a proposito di questo tipo di crimine e per quelle vaste zone grigie ove risulta difficile distinguere nettamente legale ed illegale, non risulti in grado di darne una lettura esaustiva, da qui la necessità di esplorare altri terreni di analisi che possono venire in aiuto nell’esaminare il fenomeno.
Ad esempio, il concetto di “deprivazione relativa” non riesce a spiegare la criminalità dei potenti, visto che, in tal caso, i rei godono solitamente di “abbondanza relativa”. Non è possibile spiegare tale criminalità nemmeno ricorrendo all’incapacità dei soggetti in questione di stabilire legami sociali significativi. Allo stesso modo non si può associare la criminalità a condizioni economiche disagiate e/o all’inefficacia dello stato sociale, visto che la criminalità dei potenti gode sia di condizioni socioeconomiche privilegiate che di importanti contribuiti statali attraverso esenzioni tributarie e tolleranza all’evasione fiscale. In generale, molte teorie sia della criminologia classica che critica, risultano incapaci di spiegare il crimine dei potenti in quanto, in buona parte, costruite per spiegare la criminalità dei deboli.
Le teorie sociali permettono interpretazioni alternative a quelle della criminologia. Da esse si può derivare l’idea che le violazioni dei potenti delle regole a cui ufficialmente dichiarano lealtà, grazie ai successi ottenuti, possono stimolare comportamenti imitativi. Il crimine di potenti, secondo la teoria sociale classica, ha come obiettivo quello di perpetuare ed accumulare i privilegi di chi ne è autore e teme in un loro futuro ridimensionamento. L’autore pone l’accento proprio sul fatto che la criminalità dei potenti, oltre che dalle “dinamiche oggettive” dei liberi mercati, deriva anche dalla paura del futuro, dalle previsioni circa le condizioni economiche e politiche che si avranno un domani. Ciò porta Ruggiero a concludere che il tipo di criminalità di cui si sta parlando “deriva dal rapporto ossessivo che i gruppi e gli individui potenti stabiliscono con il proprio futuro, è una forma di accumulazione di un potere già ampiamente posseduto ispirata dalla paura che eventi futuri possano minacciarne il godimento”.

Nel saggio si esamina come la legge interpretata da alcuni come “tutela contro il potere”, possa essere letta come “strumento per la sua costante accumulazione”. L’autore passa in rassegna l’approccio di Kelsen volto a separare moralità e teoria della giustizia, segnalando come da un lato la sua teoria preveda il “potenziamento dei sistemi costituzionali che fanno della legalità una guida al comportamento di tutti”, dall’altro lato tale impostazione teorica “risulta vulnerabile nei confronti delle democrazie moderne, le quali mostrano illegittimità fisiologica nella miriade di norme create che contraddicono i principi costituzionali che pure dovrebbero ispirarle. Questa disgiunzione, continua Ruggiero, “è il risultato del potere acquisito da organismi ‘extra’ e ‘sovra’ statali, come i gruppi economici e finanziari, che regolarmente evadono il controllo giuridico”. In maniera opposta le “teorie dualiste” individuano nell’autorità dello stato un a priori rispetto al diritto, pertanto ritengono che lo stato debba poter agire senza autorizzazione giuridica quando non addirittura al di fuori delle norme, al di fuori dello stato di diritto.
Viene analizzata anche la tradizione marxista che vede nei potenti degli sfruttatori, dunque criminali per definizione. Nell’ambito di tale approccio Ruggiero si sofferma sul fatto che in Marx è presente tanto la denuncia del crimine dell’accumulazione primitiva quanto l’elogio del progresso: “La nascita della grande proprietà, la distruzione dei diritti consuetudinari e la privatizzazione delle terre (…) contengono un nucleo criminale che ha comunque caratteristiche evolutive e modernizzatrici”. Quando Marx analizza la distruzione dell’economia indiana tradizionale, individua nell’invasione inglese la causa di una futura rivoluzione sociale. La criminalità dei potenti può essere pertanto ritenuta una “componente naturale dei rapporti tra le classi e, in secondo luogo, il seme del progresso e della formazione di una classe destinata a rovesciare e abbattere il sistema costituito dai ‘criminali’”. Le vittime dei crimini dei potenti diventano, pertanto, martiri inconsapevoli della “futura rivoluzione sociale”. In tal modo i crimini relativi all’accumulazione primitiva divengono parte della “logica dello sfruttamento e della crescita economica”.
Il pensiero politico può venire in aiuto per comprendere la criminalità dei potenti, diverse impostazioni classiche individuano nel potere politico le radici del comportamento criminale. La criminalità dei potenti parrebbe, secondo diverse teorie, essere prodotta dalla natura implicitamente deviante del potere politico. A tal proposito Ruggiero passa in rassegna Aristotele, Agostino, Spinoza, Hobbes, Rousseau, Montaigne, Pascal, Vico, Montesquieu, Hume, Tocqueville, Smith, Kant, Hegel, Marx, Foucault e Luhmann. Successivamente, nel saggio, viene elaborata anche una critica del pensiero economico al fine di individuare alcune categorie in grado di affrontare il crimine di potenti. Anche l’etica sembra offrire buoni strumenti per affrontare la questione; la giustificazione della condotta adottata dai criminali potenti può derivare da un’interpretazione selettiva del pensiero filosofico occidentale. “Questo processo interpretativo si nutre del proposito di espandere le opportunità sociali dei potenti, di ampliare le occasioni per delinquere e di rendere accettabili i reati commessi ai loro pari e alla società in generale”.

banksy-lies-politicsParticolarmente interessante è il contributo all’analisi dei crimini dei potenti offerto, nell’ultimo capitolo, dall’analisi della Comédie Humaine di Honoré de Balzac, che ha nel denaro e nel potere i suoi principali protagonisti. In Balzac, sostiene l’autore, i gruppi sociali sono nettamente distinti e rappresentati, ciascuno di essi, da un personaggio che si presenta come condensato del gruppo. I personaggi balzachiani, continua Ruggiero, sono avidi ed ambiscono, in un’epoca in cui al “naturale istinto accaparratore” si aggiunge il “sogno dell’accumulazione”, ricorrendo ad ogni mezzo necessario, al possesso di tutto ciò che è commerciabile, compreso il potere.
Monsieur Grandet, ad esempio, si arricchisce dapprima grazie alla frammentazioni dei terreni sottratti agli aristocratici dalla Rivoluzione, poi dalla vendita di vino all’esercito Repubblicano, “quando impara che il denaro genera se stesso”, fino a diventare sindaco, seguendo la logica del disprezzo degli avversari che incontra sulla sua strada, considerati colpevoli, in fin dei conti, della loro incapacità di non farsi sopraffare.
Nel saggio si segnala anche come in Balzac siano riscontrabili tracce di una criminologia di “ispirazione fisiognomica”, come ad esempio quando dalla forma del naso e dai tratti del viso lo scrittore deduce segni della cattiveria e dell’egoismo del personaggio. Il grande scrittore francese si concentra su ladri “che non rubano per bisogno” ma per avidità e trattandosi di ladri su ampia scala, questi tendono a suscitare rispetto ed a godere di “complicità non richiesta”. Il potente, indipendentemente dai mezzi che utilizza, può sempre tornare utile e la sua disonestà tende ad essere fruita come disonestà potenzialmente in grado d trasformarsi in benessere comune. In altre parole, al potente si è più disposti a perdonare i crimini perché si spera di poter ricavare qualcosa dai suoi privilegi, mentre al piccolo ladro si tende a non perdonare nulla perché non detiene privilegi da cui ricavare qualcosa.
In Balzac, sostiene Ruggiero, “potere e criminalità si fondono in una monomania, in un’ossessione per gli appetiti intensi”, dunque, indipendentemente dallo scopo, i grandi ladri balzachiani si adoperano con “entusiasmo incondizionato” al suo raggiungimento. Nelle opere del francese l’avidità e le pratiche illecite toccano ogni classe sociale e ad essere condannato dallo scrittore, di tendenze politiche conservatrici, è “lo spettacolo di gruppi di rango elevato e infimo che si uniscono in un’alleanza simbolica avente come fulcro il denaro”. Nella società francese che si va formando a quelle date, il denaro rappresenta da un lato una “fonte di divisione e conflitto per l’individualismo che generano, dall’altro lato una forza che circola nell’organismo sociale amalgamando settori della società altrimenti contrapposti. Comprare e vendere, sfruttare e rubare, coinvolgono tutti, dall’alto al basso della struttura sociale”. La società descritta da Balzac vede i diversi gruppi sociali interconnessi, in cui ogni rango cerca di scalare le gerarchie sociali attraverso uno spirito rampante. In un mondo in cui la differenza tra lecito ed illecito appare davvero blanda, le diverse classi sociali più che lottare tra loro sembrano “impegnate nell’imitazione reciproca”. In tale contesto la figura che più di ogni altra, secondo Ruggiero, rappresenta l’apoteosi del “potere come crimine” è quella di Vautrin. In lui si condensano l’inganno, l’avidità, l’efficienza, l’imprenditorialità e la rispettabilità. Lo vediamo vestire l’abito talare, alloggiare presso la pensione di madame Vauquer e nella pièce teatrale a lui intitolata. La figura a cui si è ispirato Balzac è quella del criminologo Vidocq che da ex galeotto diventa fondatore della Sûreté, combattente nell’esercito francese contro gli austriaci, poi disertore, di nuovo nell’esercito sotto falso nome, poi, una volta costretto ad abbandonare l’uniforme, lo troviamo vivere di truffe fino a diventare informatore della polizia in carcere. Rispettato dai malviventi, ha successo come detective privato fino ad entrare a far parte della Préfecture de Police. “Questo criminologo criminale non potrebbe personificare più adeguatamente l’idea balzachiana di potere”.
Nei racconti dello scrittore francese, continua Ruggiero, nessuno sembra opporsi all’esercizio del potere anche quando questo è subito; “Balzac quindi non esamina tanto la dominazione quanto l’egemonia, una forma di preminenza culturale che attrae e coopta gli altri anziché respingerli. Il potere (…) trasforma la dipendenza in accettazione”.

Visto che i potenti hanno “ridotto le capacità degli esclusi di narrare e articolare le loro esperienze di ingiustizia”, Ruggiero conclude invitando tutti a contribuire a quel processo di riconoscimento degli esclusi come “soggetti meritevoli di stima, credibilità e soggettività”.


INTERVISTA

  • Il tuo ultimo saggio, Perché i potenti delinquono, edito da Feltrinelli, si occupa dei crimini dei potenti. Come definiresti, brevemente, i potenti di cui parli nel testo?

Nelle democrazie liberali si tende a parlare di libertà come se questa fosse sempre e comunque equivalente per tutti gli individui e tutte le categorie sociali mentre, in realtà, mi sembra si possa dire che esistono gradi differenti di libertà. I diversi individui hanno a disposizione una gamma di scelte variabile ed una relativa capacità di precisione nel prevedere l’esito di tali scelte, dunque una diversa possibilità di controllo sugli effetti. Il potente a cui mi riferisco è pertanto colui che ha una grande gamma di scelte e può prevederne con una certa precisione l’esito, spesso evitando di farle apparire come criminali.

 

  • Lo studio alla base di questo saggio deriva da una sorta di insoddisfazione per come la criminologia critica, o radicale, approccio a cui comunque ti rifai, affronta la questione del crimine dei potenti. L’analisi offerta dalla criminologia appare incapace di cogliere tutti gli aspetti ed i motivi del crimine da parte dei potenti, dunque la necessità di affiancarle suggerimenti derivati da altri ambiti culturali. Non è una novità questo tuo debordare i confini della disciplina criminologica. Si possono ricordare le tue analisi delle stampe di Giovan Battista Piranesi, le sue “prigioni della mente”, per spiegare l’essenza immateriale del carcere contemporaneo, oppure il tuo aver affrontato alcuni scritti di Daniel Defoe per ragionare sulla differenza tra “affari appropriati” e “affari non appropriati” e sulla “legittimità morale” degli affari o, ancora, in Crimini dell’immaginazione [recensione su Carmilla 1/22/2], hai affrontato la letteratura classica nella convinzione che la finzione possa essere più importante della sociologia nel ragionare su criminalità e controllo sociale. Tra i campi del sapere attraversati in questo saggio non manca, ancora una volta, la letteratura ed, in particolare, nell’ultimo capitolo, passi in rassegna la Comédie Humaine di Honoré de Balzac. Puoi ricostruire, in sintesi, le escursioni extra criminologia presenti in questo tuo volume appena uscito?

Ho scelto diversi campi del sapere che possono offrire spunti circa i motivi del commettere crimini da parte dei potenti. Nella criminologia la motivazione viene spesso ricercata nella convizione che in una società ultra-competitiva si è affermata l’idea che l’importnte è vincere indipendentemetne dal rispetto delle regole. Altri approcci suggeriscono che i potenti, al pari di tutti gli altri criminali, hanno una carenza di autocontrollo, oppure, le teorie dell’apprendimento insistono sulla necessità di imparare a commettere un crimine ed a convivere con la propria criminalità ricorrendo a giustificazioni. Tutto ciò è insufficiente a spiegare la questione del perché i potenti delinquono, dunque ho indagato altri ambiti del sapere.
Nell’ambito della teoria sociale ho rintracciato, ad esempio, l’idea dell’emulazione dei potenti. Più le loro gesta vengono esibite, più si prestano all’emulazione, tanto che sono portato ad affermare che più che all’occultamento ed alla coercizione, i potenti mirano all’emulazione. Altra idea importante riguarda la paura del futuro; l’accumulazione delle ricchezze risponderebbe al timore che prima o poi queste potrebbero essere contestate ed i privilegi ridotti. Ad esempio, i governanti che sono consapevoli di perdere le prossime elezioni si adoperano per assegnare tutti i luoghi di potere al proprio entourage al fine di limitare la futura perdita di potere.
Dalla filosofia del diritto parto dal dialogo tra Platone e Trasimaco per poi passare in rassegna i contributi di diversi pensatori, in particolare Hannah Arendt, giungendo alla conclusione che i potenti hanno la capacità da una parte di adottare le idee di Platone circa l’universalità delle leggi e dall’altra parte di rifarsi, in quanto potenti, a quanto esposto da Trasimaco utilizzando così, in entrambi i casi, la giurisprudenza a proprio favore. Spinoza, ad esempio, rintraccia i motivi della condotta criminale nell’imperfezione umana, una giustificazione a cui possono ricorrere molti corrotti, mentre Hobbes sostiene che qualsiasi episodio di criminalità dei potenti è accettabile in quanto evita dei mali peggiori, evita ad esempio una situazione di anomia in cui tutti sono nemici di tutti. Successivamente analizzo posizioni più critiche, come quelle di Montaigne, Vico e Pascal che suggeriscono come il male sia insito nel potere politico in forma di crimine e di violenza, mentre con Hume e Tocqueville si torna, per certi versi, al discorso che si faceva prima a proposito dell’emulazione, cioè che i comportamenti degli usurpatori generano ammirazione. I potenti che delinquono, pertanto, hanno dalla loro parte una serie di teorie che possono servire loro come giustificazione.
Anche dalla scienza economica si possono ricavare molti spunti interessanti per la nostra analisi. Innanzitutto il principio di utilità che richiede, nel voler proteggere un bene, di non spendere più del valore del bene stesso. Il ladro per praticare il principio di utilità deve dimostrare che ciò che ha rubato è ora più utile socialmente rispetto a quando quel bene apparteneva al proprietario precedente. Ad esempio, l’imprenditore che ruba soldi allo stato può rivendicare  il merito di investire quei soldi in maniera migliore creando occupazione. Inoltre, anche il costo dell’investigazione, della condanna e della punizione deve corrispondere al valore della persona che ne è oggetto: può risultare troppo costoso investigare, condannare e punire i potenti. Secondo tale logica, inoltre, il potente in carcere non può continuare a produrre valore per l’intera società a differenza di un povero disgraziato che, invece, può tranquillamente essere mantenuto in prigione perché tanto, al di fuori di essa, non produrrebbe nulla.
Soprattutto per quell’ambito grigio in cui si fatica a definire legittima od illegittima, legale o criminale una condotta di un potente, più che alle scienze che si vogliono precise occorre andare a cercare contributi altrove, come ad esempio nella letteratura. L’osservazione del rapporto tra gli eventi e le narrazioni può dare buoni spunti di analisi. Riprendendo Aristotele quando, nel suo confrontare lo storico ed il poeta, sostiene che mentre il primo racconta ciò che presumibilmente è successo, il secondo narra ciò che può accadere, mi sento di poter affermare che, per certi versi, se la storia ci trasmette degli eventi particolari, la narrativa può darci a vedere delle verità più generali. A tal proposito concludo il saggio analizzando alcuni lavori di Balzac ove emerge come il potere e la criminalità siano la medesima cosa e la figura più leggendaria che si trova in uno dei suoi romanzi è quella ispirata a Vidocq, un criminologo che è anche criminale.


Scritti di Vincenzo Ruggiero pubblicati su Carmilla:

Condannati alla normalità. I rifugiati politici italiani in Francia (pubblicato originariamente in lingua inglese su “Crime, Law and Social Change”, Vol. 19, N. 1, 1993 ed in lingua italiana su “vis-à-vis” N. 2, 1994)

Testi di Vincenzo Ruggiero recensiti su Carmilla:

Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, 2011

Vincenzo Ruggiero: Il sogno di Prometeo e l’ignobile carneficina. Un inno agli antieroi – V. Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 1/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 2/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

 

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