videocamera – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Archive 81: Podcast lovecraftiani e Found Footage apocrifi. https://www.carmillaonline.com/2022/04/25/archive-81-podcast-lovecraftiani-e-foud-footage-apocrifi-2/ Sun, 24 Apr 2022 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71478 di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller [...]]]> di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller soprannaturali in circolazione per la natura originalmente metalinguistica della sua trama.

Per cominciare non deriva dall’adattamento di un libro, un fumetto o un videogame ma da un omonimo podcast: una forma di espressione massmediale che utilizzando le possibilità date dall’agilità del web come evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico, si è imposta dopo il boom di massa del true crime statunitense Serial del 2014, come nuova frontiera dello story telling. Un esempio nostrano è Veleno di Pablo Trincia, podcast divenuto in seguito libro e serie tv di successo. Il podcast originario Archive 81 è invece la docuserie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Sollinger, due podcaster indipendenti in caccia di casi irrisolti e fenomeni inspiegabili.

La storia – non direttamente tratta da alcuna di quelle del podcast – racconta dell’archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), restauratore di nastri, cassette e pellicole per il Museo delle Immagini in Movimento, un orfano reduce da un esaurimento nervoso la cui famiglia, tranne il cane, è scomparsa in un incendio, che accetta l’incarico di restaurare una collezione di videocassette VHS danneggiate in un altro incendio nel 1994, utili per motivi processuali. Chi lo ingaggia è una strana e irrintracciabile società gestita da un misterioso imprenditore miliardario, Virgil Davenport (Martin Donovan), che gli offre la spropositata cifra di 100mila dollari. Il lavoro si svolgerà in un luogo isolato in mezzo ai boschi in un’enorme casa fuori New York, perché le cassette non vanno assolutamente spostate né portate in giro. Ovviamente scoprirà presto che la residenza di proprietà della multinazionale di Davenport, per quanto confortevole, è piuttosto inquietante: il cellulare lì prende poco, non c’è internet e, soprattutto, la casa sembra nascondere più di un segreto. Le cassette che Dan pazientemente visiona e restaura costituiscono la tesi di laurea filmata della documentarista laureanda in studi umanistici Melody Pendras (Dina Shihabi) che nel 1994 ha preso alloggio nel condominio Visser, nell’East Village di New York, per intervistarne gli inquilini e tracciare una specie di descrizione filmata di un ecosistema urbano in miniatura. Come Dan scoprirà presto l’edificio distrutto nell’incendio da cui le cassette sono state recuperate è proprio il condominio Visser: c’è un filo che collega quel rogo al suo datore di lavoro e, soprattutto, quel filo collega anche Melody a lui.

A questo punto interrompiamo il riassunto dicendo solo che la progressiva immersione di Dan nel found footage, lo introdurrà ad un mondo di culti apocalittici, entità demoniache aliene e orrore cosmico in pieno stile Lovecraft, sviluppato però attraverso due diversi piani temporali che si intrecciano: non semplicemente collegando due trame separate – procedimento tipico del flashback – ma lungo un’unica linea narrativa che si biforca e si flette come un nastro di Moebius.

Una New York sinistra che molto ricorda figurativamente quella del polanskiano Rosemary’s Baby è solo apparentemente lo scenario di un mockumentary sulla scia di quelli degli anni ’90 e 2000, dopo il successo di The Blair Witch Project, quando l’horror si dibatteva tra la narrazione tradizionale in terza persona, e la simulazione della realtà in soggettiva. Archive 81 si avvale di un passaggio fluido dall’una all’altra: la soggettiva della videocamera di Melody, con la sua qualità sgranata da video analogico anni ’90, è la soglia del tempo, il campo il cui controcampo, divenuto esterno e oggettivo, ci porta nel passato. Da principio il risultato è spiazzante. Lo spettatore pensa di trovarsi di fronte a un racconto sviluppato su un’unica linea temporale in cui Dan visiona i nastri di Melody, e invece viene risucchiato su una seconda linea temporale di fronte alla “vera” Melody. Due tempi diversi su un’unica linea narrativa. La videocassetta è un viaggio nel tempo: cifra stilistica e messaggio teorico e metatestuale che si alimenta dell’ambiguità e polisemia del proprio oggetto. In sostanza un superamento e una negazione del found footage: scavalcando il discorso filmico costruito sui materiali audiovisivi recuperati, sui ritagli e gli scarti veicolo della visione, se ne disconosce la funzione veritativa.

Il found footage visionato da Dan si trasforma quindi in girato classico, e lunghi tratti narrativi restano nel passato, a seguire gli eventi nell’edificio Visser prima dell’incendio. Permane il possibile equivoco tra ciò che Dan ha potuto scoprire dalle cassette e ciò che invece lo spettatore conosce solo grazie al punto di vista di Melody: non tutto quel che l’uomo apprende viene oggettivamente registrato dalla ragazza (che filma spesso, ma non sempre).

La narrazione resta comunque strettamente legata agli elementi multimediali che determinano la trama: videotape, schermi, videocamere di sorveglianza, fotografie, perfino il rumore bianco che accompagna intere sequenze, non sono solo elementi atmosferici e stilistici ma parti costituenti dell’intreccio. La tecnologia è il portale del “soprannaturale”, delle “forze estranee”, dell’”oltre” (si pensi non solo al filone mockumentary derivato dal già citato The Blair Witch Project, ma anche a The Ring e affini): filmati difettosi e sgranati finiscono sugli schermi di ultima generazione di Dan; il “recupero” dell’archivista mediatico è il punto di unione dei mondi: i dagherrotipi della fotografia spiritica vittoriana diventano gli occhi elettronici delle telecamere di sorveglianza, a conquistarsi grazie al progresso tecnologico, sempre maggiori frammenti di invisibile.

Anche l’operazione nostalgia di Netflix – il cui culmine è Stranger Things – con l’occhieggiare al cinema degli anni 80/90, è contemporaneamente affermata e negata da Archive 81. Non a caso la storyline di Dan è ambientata ai giorni nostri, mentre quella di Melody a metà anni Novanta, in stretta relazione alle rispettive tecnologie disponibili: in senso più o meno metaforico il terrore viene dal passato, le pratiche stregonesche, i culti innominabili, sono fantasmi di arcaismi rimossi, specchi del terrore di un ritorno al passato, a pratiche primitive, rituali, in altre parole analogiche. Invece di evocare facili nostalgie e mistificazioni feticistiche, Archive 81 utilizza il vintage per “demonizzarlo”. Se ambivalente è il rapporto col tempo e la tecnologia, ambivalente è anche l’entità (para-lovecraftiana) chiamata Kaelego che da questi elementi riemerge: un dio e un demone a un tempo, dal cui culto si sono originate due diverse sette in lotta tra loro, entrambe pericolose nonostante le linee di pensiero in contrapposizione. Metafore fantastiche delle diverse possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire gli effetti delle infestazioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull’impatto con cui la metamorfosi mediatica – ancora in atto nella nostra società – abbia cambiato drasticamente e continui a modificare le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale.

L’aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, è l’approccio postmoderno alla narrazione, allusivo, multistratificato, metalinguistico e intertestuale. Un meccanismo che mescola una lettura “presente” (guardare ciò che dice/mostra la serie) a un’azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), l’archivio del titolo diventa inclusione del passato nel presente, diventa quindi anche archivio di citazioni cinematografiche e letterarie, più o meno esplicite, sparse lungo il corso dei vari episodi: un catalogo di film fantastici, Shining, The Night of the Living Dead, Rosemary’s Baby, Solaris, i film a cui Dan è appassionato, il podcast presentato dall’amico Mark che ripropone gli audioracconti e i libri di fantascienza degli anni Cinquanta, fino alla passione di Melody per il cartone animato Brisby e il segreto dei Nimh, famoso soprattutto negli Stati Uniti, e le insistite panoramiche sulle librerie dei personaggi occupate principalmente dai libri di Stephen King.

Alcuni critici hanno rinfacciato alla serie una certa lentezza nella prima parte. In realtà i lunghi dettagli sulle manipolazioni delle cassette in VHS per il restauro sapientemente operato da Dan, rispecchiano quel feticismo – materico in questo caso – per le tecnologie del passato di cui già si è detto: un elemento importante che costituisce proprio il fascino e la particolarità dello show. A mio parere è proprio tutta la prima parte la più affascinante, anche per questi tempi dilatati e inusuali (in certi momenti fanno quasi pensare ad una versione più pulp di David Lynch). E’, nel caso, la parte finale che rientra su tempi tecnici e binari narrativi assai più canonici. Se le domande iniziali sono inquietanti, le risposte finali rimandano alla comfort zone abituale del pubblico di horror, l’enigma perde di fascino e forza e persino il leitmotiv delle videocassette da restaurare diventa sempre più marginale. La storyline del passato di Melody, da un certo punto in poi, predomina sul presente, sbilanciando il racconto e interrompendo quella dialettica cronologica e narrativa che costituiva l’originalità della serie.

Arrivati all’ultimo episodio, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, siamo ormai sbalzati, con i due protagonisti ora riuniti, nel passato dell’incendio: smarriti nell’ennesimo loop temporale, aspettiamo la seconda stagione augurandoci che riprenda più gli aspetti atipici che quelli classici di questa, complessivamente notevole, prima stagione.

 

 

 

 

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Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

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