via Fracchia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fronte del porto: storia e memoria dell’Autonomia operaia ligure https://www.carmillaonline.com/2021/04/14/fronte-del-porto-storia-e-memoria-dellautonomia-operaia-ligure/ Wed, 14 Apr 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65750 di Sandro Moiso

Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, vol. VII, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 336, 20,00 euro

«Il fenomeno eversivo ha sempre trovato in Genova un «humus» particolarmente fertile: non è necessario, infatti, risalire al periodo risorgimentale (quando le maggiori città italiane insorgevano ripetutamente contro l’aggressione delle milizie straniere, che appoggiavano i dispotici governi locali, abbracciando senza riserve la politica unitaria dell’unico Stato veramente italiano e cioè il Regno di Sardegna; e Genova, invece, insorgeva contro [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, vol. VII, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 336, 20,00 euro

«Il fenomeno eversivo ha sempre trovato in Genova un «humus» particolarmente fertile: non è necessario, infatti, risalire al periodo risorgimentale (quando le maggiori città italiane insorgevano ripetutamente contro l’aggressione delle milizie straniere, che appoggiavano i dispotici governi locali, abbracciando senza riserve la politica unitaria dell’unico Stato veramente italiano e cioè il Regno di Sardegna; e Genova, invece, insorgeva contro quest’ultimo costringendolo ad una dura repressione) per trovare esempi di cruente sommosse contro i pubblici poteri attraverso episodi di guerriglia urbana organizzata.
È sicuramente il caso di quanto successe il 14 luglio 1948, quando alla notizia dell’attentato al segretario del Partito comunista, on. Palmiro Togliatti, contrariamente a quanto si andava verificando in altre città […] a Genova scoppiò una vera e propria insurrezione generale contro i poteri locali dello Stato e contro una formula di Governo che solo pochi mesi prima, al termine delle elezioni politiche del 1948, aveva ricevuto i suffragi della stragrande maggioranza degli elettori[…].
Analoga situazione si andò profilando alla fine del giugno 1960, quando una protesta anche legittima contro l’autorizzazione a celebrare in Genova – Medaglia d’oro della Resistenza – il congresso del M.S.I., si trasformò ben presto in un tentativo di insurrezione contro l’autorità del governo.
I fatti del 1960, comunque, non devono essere interpretati in chiave di mera contestazione, anche se violenta, del congresso del M.S.I., ma – probabilmente – quale primo sintomo di quel malessere che avrebbe qualche anno dopo travagliato tutta la sinistra rivoluzionaria, delusa della nuova impostazione ideologica dei partiti di quella storica, ormai attratti dalla politica delle «convergenze parallele» che sarebbe poi sfociata nel «centro sinistra» e, più tardi ancora, nel «compromesso storico» con l’ingresso del P.C.I. nella maggioranza di Governo.
Resta il fatto, comunque, che episodi del genere ebbero come diretta conseguenza:
–– l’assuefazione a considerare l’autorità legittima e democratica dello Stato, perdente in partenza
–– il grave rischio di una latente potenzialità criminosa;
–– la possibilità di strumentalizzazione per fini eversivi di una piazza che è facile ad esserlo»1.

A parlare così, come avrà già visto chi avesse consultato la nota a piè di pagina, non è un sociologo o un giornalista bensì il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia effettuata l’8 luglio 1980.
Se certe parole e considerazioni sulla bocca del gestore dell’azione stragista di Stato nei confronti dei militanti delle BR sorpresi nel “covo” di via Fracchia il 17 maggio del 1979 possono sembrare oggi ridicole se non offensive, è altresì certo che, come ho già sostenuto a proposito dello sviluppo di altre esperienze di lotta, la geografia politica e psicologica e la memoria storica dei territori contano non poco nel determinarne la combattività e resistenza dei loro abitanti. Sia in positivo che in negativo.

Il volume appena uscito per DeriveApprodi sulla storia dell’Autonomia ligure costituisce la prima parte di una ricerca divisa in due parti/volumi e si proietta oltre i primi anni Ottanta, periodo che stabiliva tutto sommato la deadline dei volumi precedenti dedicati agli “Autonomi” dalla stessa casa editrice, per arrivare fino al 2001 e alla “macelleria messicana” messa in atto dallo Stato italiano e dalle sue forze del dis/ordine nelle strade di Genova occupata dal G8 e successivamente nei locali della scuola Diaz.

La grossolana e superficiale ricostruzione del generale buonanima dimenticava più di un fattore tra quelli che si erano riversati nella rabbia e nella combattività genovese e ligure. Per esempio la formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari in cui, insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava sempre il fatto che l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Ma, poiché nella Storia le cose non sono mai semplici o scontate, il testo (che nel primo volume raccoglie una ventina di testimonianze, memorie e ricostruzioni di singoli aspetti oppure di esperienze collettive), sottolinea come la storia antifascista della città e della regione e la forte presenza del PCI tra le fila della classe operaia, soprattutto della sua “aristocrazia”, impedì all’esperienza dell’Autonomia locale di esprimere la stessa radicalità che si era andata manifestando in altre città e regioni .

Ad analizzare la contraddizione tra disponibilità diffusa alla lotta e i limiti che la tradizione revisionista e antifascista ponevano al suo sviluppo sono in particolare l’intervista ad Emilio Quadrelli2 e la memoria “giovanile” di Nico Gallo3 contenute nel volume. L’insorgenza proletaria espressa in maniera potenziale e, talvolta, nei fatti finiva così, a partire dal piano teorico, col non trovare un’espressione adeguata poiché come afferma Quadrelli nell’intervista citata:

Genova è la città che più di altre si oppone sostanzialmente al XX Congresso e lo fa rimarcando una retorica, quella della Resistenza tradita, che diventerà il principale punto di riferimento e l’ordine discorsivo dominante di tutti coloro che inizieranno a porsi alla sinistra del Pci. Tutto ciò che ha ruotato intorno a Giovan Battista Lazagna oalla 22 Ottobre è ascrivibile a questo. Lo sguardo di chi si oppone al Pci, almeno nella sua grande maggioranza, è rivolto al passato piuttosto che al futuro. Non che il futuro a Genova non esista, ma questo futuro non trova, se non in minima parte, una sua grammaticae finirà con l’essere sempre confinato dentro un lessico, sicuramente più radicale, le cui coordinate non riescono però a rompere con il passato. Diciamo che sul piano della scrittura la sintassi non si modifica.
Prendiamo il 30 giugno 1960. Lì, sicuramente, nella pratica e nella materialità delle cose ci sono elementi non secondari di rottura, ma questi elementi rimangono in potenza e non trovano una qualche sistematizzazione teorica e organizzativa. Il giugno 1960 non è piazza Statuto, questo mi sembra essere il nodo della questione e anche il motivo per cui Genova rimarrà, rispetto all’Autonomia, sostanzialmente estranea. Nel giugno 1960 non mancano sicuramente aspetti similari a piazza Statuto, soprattutto in rifermento alla composizione di classe ma, e qui si situa l’enorme differenza tra i fatti di Genova e quelli di Torino, dal primo emergerà centrale e come memoria l’antifascismo radicale e militante, dalla seconda l’anticapitalismo radicale e militante.

Potrebbe sembrare impietosa e, almeno in parte immeritata, l’analisi appena fatta, ma rivela un aspetto che, in misura diversa, aveva finito col limitare tutta l’esperienza della Sinistra extra-parlamentare italiana pre-Autonomia e che troppo spesso finì col manifestarsi anche nei ranghi liguri di quest’ultima, nonostante la varietà delle esperienze, e purtroppo ancora in una parte significativa dell’antagonismo attuale. Finendo col costituire una sorta di proustiana madeleine democratica e antifascista, destinata a fuorviare e paralizzare qualsiasi iniziativa di classe. Passata, presente e (speriamo di no) futura.
Ma, come affermano i curatori del volume, nell’Introduzione:

Rileggere le vicende della seconda metà degli anni Settanta oggi, alla luce dell’eredità che le idee e le gesta di una minoranza ribelle e comunista hanno lasciato negli stessi compagni e compagne che vi presero parte e nei movimenti nuovi e contemporanei, rappresenta una doppia sfida: al rischio del feticismo da una parte, all’abitudine alla rimozione dall’altra. Oggi è tempo di bilanci critici, non di memoir, di rivendicazioni postume o di continuità nostalgica. Non lo è nemmeno di ricerca equivoca e ipocrita dell’oblio. Ma questa è anche una sfida che si alimenta del presente; che cosa sono i Movimenti oggi ci spiega cosa siano stati quelli del passato (quali i loro passaggi obbligati e quali le opzioni mancate).
Il fatto che l’Autonomia operaia negli anni Settanta sia stata a Genova e in Liguria, rispetto ad altre aree in Italia, una vicenda minore (meglio: che ha fatto parlar meno di sé rispetto ad altre) non costituisce un buon motivo per non scriverne. Da un lato ci sono abbondanti ragioni che spiegano perché, nonostante la storica centralità, economica e industriale, della città e della regione, e nonostante la ricchezza culturale espressasi localmente almeno fino alla fine degli anni Sessanta, una prassi innovativa come quella dell’operaismo prima e dell’Autonomia operaia poi si sia schiantata contro il muro della composizione di classe locale e della sua rappresentanza politica. Dall’altro un Movimento così ricco nei suoi momenti culminanti (il Settantasette romano e bolognese) e così persistente nel tempo e radicale nelle analisi, è proprio nelle situazioni apparentemente più povere o meno clamorose che può meglio essere studiato, perché è lì che si presenta in modo più addensato ed essenziale. Ed è lì che l’arretratezza del contesto può mostrare in anticipo i segni del suo superamento4.

Per fare questo i due curatori hanno fatto proprio una scelta corale del racconto di tutta quella esperienza poiché, come affermano ancora nell’Introduzione a proposito della metodologia utilizzata:

L’Autonomia è un personaggio collettivo che partecipa alla vicenda assieme e attraverso i suoi protagonisti. Ognuno/a delle compagne e dei compagni che hanno accettato di scrivere – qualcuno/a per la prima volta – ha condotto il racconto in soggettiva. Il lavoro dei curatori è consistito nell’induzione di un processo di
ricomposizione molecolare. Quel Movimento, finito in un cono d’ombra storico, era un mosaico di istanze e voci distinte che assumeva la diversità come un elemento di ricchezza, perché la forza del comune denominatore era tale da consentire di espandere la diversità delle opzioni al di là di ogni limite, senza tuttavia snaturarsi e, fino al 1978, evitando sovradeterminazioni di una parte sul tutto; la multiformità dei contributi che presentiamo crediamo che diano conto di tutto ciò.
La ricostruzione di trent’anni di storia dei movimenti a Genova e in Liguria è declinata dal punto di vista dell’Autonomia operaia, che è uno sguardo di parte che non ha mai inteso essere neutro o storicamente obiettivo. È la prima ricostruzione narrata in prevalenza dai protagonisti e testimoni diretti senza i filtri all’opera nelle uniche fonti di informazione finora disponibili, i resoconti usciti dai tribunali, dalle questure e dalle redazioni dei giornali5.

La lettura del volume appena pubblicato ci permette pertanto di ri/leggere dall’interno e in contro luce un’esperienza collettiva che finisce, proprio per la sua intrinseca contraddittorietà, col rivelarsi più interessante di altre, proprio a causa delle sue debolezza e sconfitte perché, come ricorda Sandro Mezzadra al termine di questo primo volume con le parole scritte da Rosa Luxemburg all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista a Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»6.


  1. L’indole eversiva dei genovesi. L’audizione di Carlo Alberto Dalla Chiesa in Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, Vol.VII. Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 69-70  

  2. L’altra Autonomia operaia. Intervista a Emilio Quadrelli di Roberto Demontis e Giorgio Moroni in R. Demontis – G. Moroni (a cura di) Gli autonomi vol. VII, op. cit., pp. 235-249  

  3. Nico Gallo, Periferie, autonomie, librerie e cortei in R. Demontis – G. Moroni (a cura di), op. cit., pp. 250-260  

  4. Introduzione, op. cit., pp. 6-7  

  5. Ibidem, pp. 7-8  

  6. R. Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in Scritti scelti, Einaudi, Torino 1975, p. 680 cit. da S. Mezzadra, Postfazione con prologo in op. cit., p. 333  

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Noir, falsi noir, Maigret e Genova https://www.carmillaonline.com/2018/01/25/noir-maigret-genova/ Thu, 25 Jan 2018 22:22:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43054 di Filippo Casaccia

Mario Paternostro, Il sangue delle rondini, Il Melangolo 2016, pp. 315, € 18,00

Un affermato giornalista riceve delle lettere e delle fotografie dal fratello scomparso quarant’anni prima, accusato di essere un terrorista di estrema sinistra. Una sparizione avvenuta nei giorni del sequestro Moro, in una Genova sconvolta da attentati, rapine e un massacro di un covo brigatista. Il nastro della memoria si deve riavvolgere e mentre emergono fatti inquietanti, testimonianze e ricordi rimossi, l’onda di fango dell’ennesima alluvione sembra sommergere tutto: il sangue, le complicità, i segreti di una città [...]]]> di Filippo Casaccia

Mario Paternostro, Il sangue delle rondini, Il Melangolo 2016, pp. 315, € 18,00

Un affermato giornalista riceve delle lettere e delle fotografie dal fratello scomparso quarant’anni prima, accusato di essere un terrorista di estrema sinistra. Una sparizione avvenuta nei giorni del sequestro Moro, in una Genova sconvolta da attentati, rapine e un massacro di un covo brigatista. Il nastro della memoria si deve riavvolgere e mentre emergono fatti inquietanti, testimonianze e ricordi rimossi, l’onda di fango dell’ennesima alluvione sembra sommergere tutto: il sangue, le complicità, i segreti di una città chiusa in se stessa, gelosa dei suoi segreti irripetibili.
Su questa vicenda indaga il commissario Ferruccio Falsopepe, burbero pugliese di Ceglie Messapica trapiantato a Genova e solido come un ulivo secolare. Ma più della nostalgia di casa è forte la curiosità verso una città che si svela poco a poco, come il carattere di chi la abita.
Nel romanzo, trasfigurati, troviamo il gruppo XXII Ottobre e l’imprendibile colonna BR genovese, l’irruzione sanguinosa in via Fracchia e i delitti del terrorismo, i professori universitari fiancheggiatori e il flirt ideologico dei figli della città alta. Ci sono tutti i punti di vista: lo spaesamento, la condanna, l’adesione sincera all’eversione come l’interesse a sfruttare il terrorismo per fini diversi.
Falsopepe è un flâneur disincantato, stanco di riparare i torti della vita, quasi dubbioso del suo ruolo e alleato di pochi fidati. Si muove tra apparati dello Stato torbidi, vecchi cronisti, uomini dei Servizi Segreti, avvocati melliflui e la nomenclatura cittadina e statale che nasconde verità indicibili sotto il tappeto del perbenismo o della ragion di Stato. Arriverà mai, veramente, a una soluzione?
Questo magnifico Il sangue delle rondini è il quarto capitolo delle inchieste del commissario e arriva dopo Troppe buone ragioni – primo assaggio alla Chabrol dell’efferatezza conservatrice del capoluogo ligure –, Le povere signore Gallardo – escursione nella lotta partigiana in Ossola e non solo – e Besame mucho – rievocazione affettuosa della Dolce Vita genovese alla Gigi Rizzi e della sua deriva.
Paternostro usa le armi del giallo per raccontarci una borghesia compromessa e colpevole ma anche una Genova popolare e autentica, quella degli artisti del mugugno, dei montanari che vivono in riva al mare e che con ironia scabra e malanimo accolgono i turisti sorpresi.
Su un fondale di bellezza realmente cinematografica ci scappa sempre qualche morto, anche più d’uno, ma all’autore, giornalista di vaglia già vice direttore del Secolo XIX e oggi direttore editoriale dell’emittente Primocanale, più che la risoluzione dei casi sembra interessare l’intreccio umano di cui Falsopepe è testimone. Un intreccio narrato secondo la classica tradizione del giallo ma con un’amarezza e una disillusione che hanno portato molti a parlare di noir.
Apro una parentesi enorme: sarà per motivi di marketing, per pigrizia recensoria o per comodità espositiva sugli scaffali delle librerie ma da alcuni anni qualunque poliziesco viene definito noir. L’etichetta porta indubbiamente bene in termini commerciali e nel panorama della narrativa italiana ogni città del Belpaese sembra avere un investigatore che la città la racconta, magari soffermandosi sulla qualità dei cibi (come faceva il Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán, e non è un caso che il nostro Falsopepe condivida certe passioni gastronomiche).
Bene: il noir non dovrebbe essere rassicurante, non dovrebbe compiacerci col racconto di poliziotti un po’ birichini ma in fondo romantici, magari attaccati alla bottiglia al suono di jazz notturno. Il noir dovrebbe lasciarci inquietudine, ne dovremmo uscire con le ossa rotte noi e i protagonisti, perché come ci hanno insegnato Thompson, Ellroy, Izzo o Manchette, non c’è redenzione possibile, mai. E invece ecco nelle librerie italiane un fiorire, uno sbocciare, in alcuni casi un’epidemia, di ispettori, commissari e avvocati delle cause perse. Guardiani della legge con comodi rimpianti sinistroidi e, se delinquenti, Robin Hood socialdemocratici, consolatori e compiacenti col lettore.
Ecco: Mario Paternostro non scrive noir italiani scoloriti e grigiastri. No, non cerca scorciatoie né ammiccamenti falso ribelli e nemmeno prova a maneggiare i cliché del genere. Lui è modernissimo nel rifarsi ai classici e scrive polizieschi nel solco di Simenon: più che dedurre da riscontri materiali, come Maigret, Falsopepe parte da un’investigazione istintuale delle motivazioni, dei desideri, dei rimorsi, delle frustrazioni, degli egoismi. E una città come Genova sembra la palestra ideale per esercitare questo acume.
Però, attenzione, questo narratore apparentemente tranquillizzante è uno dei più sovversivi della nostra scena letteraria – al di là di ogni definizione di genere – perché, da giornalista decano del quotidiano che tutta Genova segue, da narratore finissimo e super partes della politica cittadina e comunque espressione di un atteggiamento moderato – dicevo – è realmente sovversivo perché descrive una città marcescente sotto la coltre del conformismo. E la vende proprio a quelle classi sociali inguaribili che racconta.
Paternostro è sovversivo perché non lo dichiara, non lo esibisce. Lo riserva alla sua penna sciolta che intinge nell’acido con cui verga ritratti minuziosi e credibili, vivisezionando il corpo malato della borghesia. E lo fa con una spietata precisione che convive a fianco della pietas, come riesce solo a un vero narratore della commedia umana.

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Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

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