Ventotene – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 C’era una volta l’America di Georges Simenon https://www.carmillaonline.com/2023/12/20/cera-una-volta-lamerica-di-simenon/ Wed, 20 Dec 2023 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80422 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante l’occupazione aveva realizzato e distribuito nove film tratti dai suoi romanzi.

Con la moglie Tigy e il figlio Marc, per conoscere meglio il paese dove pensa di iniziare una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di migliaia di chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, sono la gente e «i piccoli particolari della quotidianità ».

Così, colui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l’allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud e scoprirà che proprio nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che … tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell’uomo».

Detto ciò si potrebbe affermare che lo sguardo di Simenon, di solito sempre così attento al dissidio permanente tra realtà vissuta e immagine che della stessa vorrebbe dare il perbenismo borghese, si sia appannato di fronte all’American Way of Life. Uno sguardo in cui difficilmente entrano le differenze sociali legate alla linea del colore e altre disparità economiche e politiche della Land of the Free.

Anzi, all’interno del reportage appena pubblicato da Adelphi nel volume 797 della «Piccola Biblioteca», l’autore sembra decisamente propendere per l’opposto, ad esempio là dove afferma che le casette degli afro-americani, da lui osservate in qualche sobborgo del Sud, susciterebbero l’invidia di qualsiasi operaio francese. Ma per comprendere queste “sviste”, queste “anomalie” nel discorso di Simenon sulla realtà in cui stava cercando di inserirsi occorre, come è sempre doveroso, contestualizzarlo.

Nel 2020, sempre per le edizioni Adelphi e nella stessa collana con il numero 758, era uscita una raccolta di reportage dello stesso Simenon che raccontavano i viaggi dello stesso in un’Europa già cupa e in cui si respirava già aria di guerra sia a centro che nelle periferie orientali1. Un’Europa per certi versi somigliante, soprattutto nei fattori politici di divisione che correvano lungo le sue frontiere, in particolare a Est e Nord-est, a quella odierna. Un’Europa caratterizzata dai piccoli egoismi nazionalistici e da una miseria crescente tra le classi medie e meno abbienti.

E’ un quadro triste e meschino quello che viene dipinto in quelle pagine, in particolar modo nel reportage che ha ispirato il titolo del volumetto2. Meschineria che attraversa sia la mente degli abitanti delle regioni visitate che quella dei governi locali oppure delle potenze europee maggiori. Una meschinità senza altra visione che quella del revanscismo nazionalista, di tutti contro tutti e di ogni singolo paese rispetto a quello più vicino, che oltre a preparare il terreno per il futuro macello imperialista scatenatosi a partire dal 1939, in qualche modo spiega la visone dell’unità “politica” europea che, nel confino di Ventotene, avrebbero avuto Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 come proposta per un “manifesto un’Europa libera e unita”. Poi tradita nella sua concreta realizzazione dalla scelta di unificare l’Europa più dal punto di vista finanziario che politico.

Ma anche l’esplorazione della novella patria del socialismo in un solo paese3, vista attraverso le difficoltà burocratiche opposte ad ogni passo dello scrittore, o di qualsiasi altro visitatore nella terra dei soviet già stalinizzata, oppure l’ossessione governativa per il controllo e della lunga mano della Ghepeù o, ancora, della miseria diffusa e visibilissima non aiuta Simenon a dipingere un quadro meno fosco o più speranzoso per il futuro dell’Europa o del mondo. Quadro che non viene affatto migliorato dalla visita che lo scrittore compie a Prinkipo, isola del Mar di Marmara nelle vicinanze di Istanbul o Costantinopoli, per intervistare un isolato e, tutto sommato, aristocratico Trockij, già esiliato dal paese che aveva contribuito a “rivoluzionare” soltanto qualche anno prima4.

Tra questi “tristi” viaggi e il dossier americano scorrono una dozzina d’anni quasi tutti, però, segnati, prima, dalla guerra civile in Spagna e successivamente dalla vera e propria guerra mondiale, in cui la Francia, per non parlar del Belgio di cui Simenon era originario, perde del tutto la sua centralità e miserabile grandeur; ed ecco allora delinearsi come sia stato possibile che, così come fu per molti nel secondo dopoguerra occidentale, che anche per un occhio fino come quello dell’implacabile osservatore del male di vivere delle classi borghesi e piccolo borghesi, gli Stati Uniti, al colmo della loro potenza post-bellica, potessero illudere il visitatore di essere arrivato in una specie di nuovo e più felice mondo, apparentemente molto diverso dal quadro di rovine economiche, politiche, morali e sociali che caratterizzavano l’Europa del secondo dopoguerra5. Però la ragione non risiede soltanto in questo. Infatti, come scrive Ena Marchi nel saggio in coda al reportage simenoniano:

Sono anni che l’America attrae Simenon; e già prima dello scoppio del conflitto era stato tentato di trasferirvisi. Sicché, all’arrivo a New York, il 5 ottobre 1945, dopo dodici giorni di navigazione, prova, così racconta nelle Memorie intime, «una soddisfazione profonda …come quando alla fine si arriva a casa e ci si rilassa con voluttà. E anche una sorta di allegria»: allo stesso modo in cui, ventitré anni prima, era sbarcato alla Gare du Nord deciso a conquistare Parigi, infatti, lo scrittore intende non soltanto iniziare una nuova vita, ma soprattutto ingaggiare, lancia in resta, la sua «battaglia americana». E questo significa, tanto per cominciare: acquisire, grazie ai romanzi e al cinema, quella notorietà che oltreoceano ancora gli sfugge – e, ancor più importante: guadagnare un sacco di soldi6.

Simenon rimarrà negli States per dieci anni e non conseguirà tutti i risultati sperati, soprattutto con Hollywood, ma tra le cause dei suoi diversi spostamenti da una parte del continente, prima del definitivo ritorno in Europa, ci sarà soprattutto l’intima irrequietezza che l’ha accompagnato per tutta la vita. Come ci ricorda ancora l’autrice della postfazione, attraverso le parole dello stesso Simenon.

«Ho passato la vita a viaggiare, a traslocare, a cambiare contesto, abitudini (tranne quelle che hanno a che fare con il mio lavoro). Eppure non esco volentieri dal mio guscio». Era così a Lakeville, a Carmel, a Tucson, in Florida. «Mi scavo una tana, mi ci sistemo con i miei e non ho nessuna voglia di uscirne fino al giorno in cui, senza sapere perché, non mi sento più a casa e riparto con tutta la mia famiglia per ricominciare altrove». Ma qual è la ragione di questa irrequietezza, di questo bisogno di cambiare aria?| «Il fatto che il reale non dura a lungo, per esempio? Intendo dire il tempo nel quale consideri come reali, importanti, personali, certe pareti, certi mobili, il colore delle tende, la strada che va in città… Sì, dev’essere qualcosa del genere, dal momento che ogni volta che trasloco mi libero del mobilio e della maggior parte degli oggetti per ripartire praticamente da zero. Ricominciare ogni volta la vita da zero!»7.

In realtà c’è in quell’irrequietezza l’inconsapevole coscienza del fatto che non esiste davvero un luogo o un paese “ideale” in cui vivere tutta una vita. Lo si avverte già nel primo (1946) e più lungo dei tre reportage americani contenuti nell’America in automobile, che proprio da quello prende il titolo. Quando l’autore giudica sinteticamente la capitale di quello che dovrebbe essere il nuovo paese in cui vivere per il resto della vita.

Tutto è così armonioso, così ricco, così signorile da darvi l’impressione che ogni mattina qualcuno passi l’aspirapolvere nell’intera città. Stesso discorso per gli abitanti. Non sono uomini come voi e me. Né gli americani né gli stranieri che risiedono lì. Sono tutti funzionari. Ahimè, a loro probabilmente non piacerà questa parola! Diciamo che sono i nuovi re, la nuova aristocrazia, quella delle persone che occupano un posto più o meno rilevante in una delegazione o in un office. Gli uni sollecitano risorse da distribuire in patria, gli altri distribuiscono risorse o valutano se farlo, ma in fondo è lo stesso. Sono persone che vivono in un mondo a parte, che si ritrovano nelle stesse ambasciate, agli stessi ricevimenti, negli stessi ristoranti, insieme alle mogli, e che poi di notte riappaiono nei night dei dintorni in compagnia delle dattilografe. [In] questa piccola società in cui ognuno dirige qualcosa e in cui i problemi umani vengono considerati solo dal punto di vista delle statistiche […] avrete l’impressione di leggere la Vita segreta della Corte di Francia. Washington è una grande capitale e al tempo stesso una cittadina di provincia in cui si sa tutto di tutti. Anzi, non è neanche una città: è la Corte. Una Corte democratica, il cui onnipotente presidente abita in una casa bianca non molto più grande delle altre, con intorno un parco circondato da inferriate. Ma pur sempre una Corte, dove il nuovo cappello della moglie dell’ambasciatore tal dei tali diventa il centro della conversazione e dove ogni occasione è buona per ostentare i propri gioielli. L’aspetto esteriore? Ricorda un po’ certi angoli di Neuilly. È bella e noiosa da morire (« barbosa al massimo », come dice la mia segretaria canadese). È l’unico posto negli Stati Uniti in cui si trovano ancora uomini che paiono figurini e riescono, non si sa come, a restare impeccabili dalla mattina alla sera8.

La noia, come sempre, sembra costituire alla fine il minimo comune denominatore delle partenze improvvise, degli amori fugaci, dei tradimenti coniugali e delle mai soddisfatte esigenze sessuali e affettive di Simenon. Anche in America, dove giungerà quando i rapporti tra lui e la prima moglie Tigy sono ormai ridotti alla pacifica convivenza, anche se rimangono uniti per amore del figlio, e dove Simenon, cercando una nuova segretaria, conosce Denyse Ouimet, che diverrà la sua seconda moglie e la madre di altri tre figli.

Una storia che verrà raccontata dallo stesso Simenon in quella che sembra costituire la sua ultima opera e, allo stesso tempo, la sua personalissima autobiografia “adulta”, scritta a Losanna tra il febbraio e il novembre del 1980 e pubblicata nell’ottobre dell’anno successivo: Memorie intime9. Memorie in cui l’esperienza americana occupa 400 pagine sulle 1030 dedicate all’intera vita dell’autore, dal suo trasferimento da Liegi a Parigi, intorno agli anni Venti del XX secolo fino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978.

Scritto apparentemente per commemorare la figlia, in realtà costituisce un tentativo di Simenon per placare il dolore e i sensi di colpa e in questo modo dà vita, rivolgendosi direttamente al primo figlio Marc preso a testimone, a una sorta di grande affresco, in appendice al quale l’autore ha voluto aggiungere tutti gli scritti della figlia suicida, come omaggio alla stessa. Vittima prima e addolorata dell’irrequietezza paterna.

Da quella irrequietezza e da quella esperienza in America nasceranno alcuni dei romanzi più conosciuti di Simenon come La morte di Belle, Il ranch della giumenta perduta, Luci nella notte, Il fondo della bottiglia, L’orologiaio di Everton, Maigret va dal coroner e l’ambientazione della seconda parte di Delitto impunito. Tutti segnati, come sempre dal male di vivere e infinitamente distanti da quella “innocente” visione del nuovo mondo e della sua vitalità che sembrano caratterizzare gran parte del reportage appena pubblicato in Italia.

Viaggio che lo aveva condotto prima in Florida e in Texas, poi successivamente in California e infine nel Connecticut, dove a Lakeville avrebbe trascorso gli ultimi anni prima di ripartire definitivamente per l’Europa il 19 marzo 1955. Durante queste diverse tappe erano nati i figli, John e Marie-Jo. di Simenon e Denyse Ouimet, della quale parla, nelle Memorie intime, senza mai pronunciare il suo vero nome, in sostituzione del quale utilizza l’iniziale D.

Pierre Assouline, uno dei suoi maggior biografi, ha affermato:

Separare l’uomo Georges dallo scrittore Simenon sarebbe assurdo almeno quanto cercare di separare il contenuto dalla forma: sarebbe altrettanto assurdo non considerare i testi di Simenon come documenti di riferimento, col pretesto che la sua opera, poiché presumibilmente immune al Tempo e alla Storia, sia altrettanto refrattaria alla biografia. L’intero vissuto di Simenon riaffiora nei suoi lavori, per quanto trasfigurato e trasposto. Senza il dono inspiegabile dell’assimilazione, l’alchimista Simenon non avrebbe potuto trasformare il piombo della vita di Georges nell’oro della finzione letteraria10.

E su questa base è possibile concludere che L’America in automobile, diventa un viatico straordinario per comprendere le delusioni successive dell’autore, l’amarezza e l’irrequietezza che ne accompagnarono la vita e la scrittura fino a quel colpo di pistola al cuore con cui la figlia Marie-Jo avrebbe posto fine alla propria vita, a soli venticinque anni, nel 1978.

«Save me Daddy – I’m dying – I’m nothing more, I don’t see my place – I’m lost in the space, the silence of death. Forget my tears but please, believe in my smile, when I was your little girl, many years ago. Be happy for me – Remember my Love, even if it was crazy. That’s for what I’ve lived and for what I die now» (Marie-Jo Simenon, 1978)


  1. Si tratta di Georges Simenon, Europa 33, dove 33 sta per 1933  

  2. G. Simenon, Europa 33 ora in G. Simenon, op. cit, pp, 11-126.  

  3. G. Simenon, Popoli che hanno fame (1934) in G. Simenon op.cit., pp 188-370.  

  4. G. Simenon, Una visita a Trockij (1933) in op.cit., pp. 163-187.  

  5. In merito alla miseria e alla devastazione, anche morale, che caratterizzarono l’Europa dopo la seconda guerra mondiale può essere utile la lettura di K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, Roma-Bari 2013 oppure, per l’Italia meridionale, N. Lewis, Napoli ‘44, Edizioni Adelphi, 1993 o, ancora, in forma romanzata, C. Malaparte, La pelle (prima edizione 1949) , Adelphi 2010.  

  6. E. Marchi, Il viaggiatore incantato in G. Simenon, L’America in automobile, cit,, p. 153.  

  7. E. Marchi, op.cit., pp. 154-155  

  8. G. Simenon, L’America in automobile, cit., pp. 84-85.  

  9. G. Simenon, Memorie intime. Seguite dal “Libro di Marie-Jo”, Adelphi Edizioni, Milano 2003  

  10. P. Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Casa editrice Odoya, Bologna 2014, p. 11.  

]]>
Ventotene fantastica e antifascista https://www.carmillaonline.com/2019/05/09/ventotene-fantastica-e-antifascista/ Wed, 08 May 2019 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52485 di Luca Cangianti

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, pp. 334, € 18,50.

Da Jules Verne a Lost, ogni isola è sempre un’isola misteriosa. Ventotene durante il Ventennio fascista non fa eccezione. Il regime vi confina i suoi oppositori per separarli dalla società: sono centinaia e hanno a disposizione solo settecento metri per camminare, sono autorizzati a passeggiare al massimo in gruppi di tre, dormono in padiglioni freddi e scrostati, non possono entrare nei negozi del paese e gli è vietato perfino dipingere paesaggi dal vivo. I confinati [...]]]> di Luca Cangianti

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, pp. 334, € 18,50.

Da Jules Verne a Lost, ogni isola è sempre un’isola misteriosa. Ventotene durante il Ventennio fascista non fa eccezione. Il regime vi confina i suoi oppositori per separarli dalla società: sono centinaia e hanno a disposizione solo settecento metri per camminare, sono autorizzati a passeggiare al massimo in gruppi di tre, dormono in padiglioni freddi e scrostati, non possono entrare nei negozi del paese e gli è vietato perfino dipingere paesaggi dal vivo. I confinati sono divisi in “tribù” politiche: comunisti, anarchici, socialisti e “giellisti”, i militanti della formazione liberalsocialista Giustizia e Libertà. Ognuna di queste ha la sua mensa, i comunisti hanno perfino una biblioteca segreta con i classici del marxismo camuffati da copertine ingannevoli e nascosti in botole e fondi di armadio. Ci sono le dispute politiche che dividono, mentre le angherie della milizia fascista e l’attesa della corrispondenza uniscono. È questo il mondo narrativo della Macchina del vento, l’ultimo romanzo solista di Wu Ming 1.

L’arrivo di Giacomo, un giovane fisico, e un libro di fantascienza dello scrittore inglese H. G. Wells sottraggono la comunità antifascista alla routine malinconica, costringendola a confrontarsi con strani fenomeni quali l’orologio civico che sbaglia sempre ora e il disorientamento di certi uccelli migratori. Forse le teorie di Giacomo sono solo frutto di un trauma, in fondo nell’isola ogni confinato ha la sua fissazione. Come le fantasticherie di Erminio, l’io narrante che rivive a occhi aperti i temi di una tesi di laurea sul mito greco mai scritta, trasformando Poseidone e Ares in divinità fasciste alle quali si contrappongono Hermes e Atena. Oppure Giacomo potrebbe aver ragione e allora Ventotene sarebbe un vascello fantastico con a bordo «le menti migliori dell’antifascismo». Si potrebbe fuggire dalla dittatura, cambiare il corso degli eventi, evitare i lutti e le catastrofi della guerra.
Il romanzo è attraversato da un lungo appello di nomi tra i quali figurano: Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. Wu Ming 1 li fa rivivere tutti attraverso le discussioni appassionate di chi sentiva di aver il potere e il dovere di costruire la società del futuro. Fra tutti si staglia la figura del socialista Sandro Pertini, quasi un portavoce dell’intera comunità, costantemente concentrato sul mantenimento della dignità e sulla preparazione alla futura lotta.

L’attenta documentazione storica è consegnata al lettore da una vivace narrazione affabulatoria dove il dialogo dei personaggi si avvale degli accenti regionali e della lingua segreta dei confinati, alternando passaggi ironicamente classicheggianti ad aperture poetiche e visionarie. Come Proletkult, La macchina del vento è un libro che attraversa i generi della fantascienza, del fantastico, dello storico, della fiction e della non fiction. Nel famoso saggio Una guerra civile1 Claudio Pavone affrontò storiograficamente le motivazioni, le aspirazioni e le speranze della Resistenza. Con pari potenza esplicativa, ma in ambito narrativo, Wu Ming 1 ci fa rivivere narrativamente la moralità della lotta partigiana.


  1. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 2010. 

]]>
Storie di confino e prigionia: da Ventotene a Renicci https://www.carmillaonline.com/2018/08/21/storie-di-confino-e-prigionia-da-ventotene-a-renicci/ Mon, 20 Aug 2018 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48111 di Armando Lancellotti

Paolo Pasi, Antifascisti senza patria, elèuthera editrice, Milano, 2018, pp.215, € 16.00

Sono storie di “sovversivi”, di rivoluzionari, di uomini e donne che combatterono per un ideale – forse un’utopia – che misero in gioco completamente le loro esistenze per lottare contro il fascismo, per resistere alla dittatura, per difendere l’idea libertaria e l’anarchia. Di questo, di loro parla e racconta il libro di Paolo Pasi, che segue le vicende dei confinati politici antifascisti di Ventotene e in particolare di quelli che subirono il trattamento peggiore e più discriminante: gli [...]]]> di Armando Lancellotti

Paolo Pasi, Antifascisti senza patria, elèuthera editrice, Milano, 2018, pp.215, € 16.00

Sono storie di “sovversivi”, di rivoluzionari, di uomini e donne che combatterono per un ideale – forse un’utopia – che misero in gioco completamente le loro esistenze per lottare contro il fascismo, per resistere alla dittatura, per difendere l’idea libertaria e l’anarchia. Di questo, di loro parla e racconta il libro di Paolo Pasi, che segue le vicende dei confinati politici antifascisti di Ventotene e in particolare di quelli che subirono il trattamento peggiore e più discriminante: gli anarchici, che nei caotici e cruciali quarantacinque giorni che intercorsero tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 non vennero liberati dalle autorità badogliane che reggevano il Paese, ma furono trasferiti nel terribile Campo 97 di Renicci di Anghiari, presso Arezzo, uno dei “campi del Duce”, cioè uno dei tanti lager fascisti italiani, dei quali – al di là della ristretta cerchia dei ricercatori e degli specialisti – ancora troppo poco l’opinione pubblica è informata e consapevole.

E come già rilevato più volte su Carmilla [123], non si tratta certo di una ignoranza casuale, di una smemoratezza accidentale, bensì di un vuoto di memoria collettivo voluto, creato e consolidato nel corso dei decenni che ci separano da un passato – il ventennio fascista, la dittatura, le sue guerre, le sue persecuzioni, i suoi crimini – talvolta obliato, talaltra edulcorato. Alla ricostruzione e alla conservazione della memoria storica dà il suo contributo Antifascisti senza patria, che attraverso trentuno brevi capitoli rievoca le vite di lotta ed impegno politici dei tanti confinati anarchici di Ventotone, il secondo gruppo per consistenza numerica dopo i comunisti ed il più temuto dai fascisti prima e dai badogliani poi, ammesso che sia corretto, in questo caso, considerare come una cesura o una svolta il passaggio attraverso il 25 luglio.

In realtà proprio il trattamento riservato agli anarchici detenuti o confinati, che a differenza degli altri gruppi politici antifascisti e degli stessi comunisti vennero trattenuti al confino o deportati in campi di internamento anche dopo la prima caduta di Mussolini, mette in evidenza quale fosse nelle intenzioni del re e di Badoglio la linea politica da tenere per governare l’Italia. Quella – in buona sostanza – di un “fascismo senza Mussolini”, stretto attorno alla corona e all’esercito, che si espresse in un governo che sciolse il PNF e la Milizia, che abrogò il Tribunale speciale, ma che faticò a riconoscere le libertà politiche e a confrontarsi col Comitato delle opposizioni (poi CLN), che non abolì le infami Leggi razziali del ’38, che si affrettò il 26 luglio ad emanare la famigerata Circolare Roatta, per forma e contenuto un concentrato di fascismo, che ordinava a militari e forze dell’ordine di procedere in formazione di combattimento e di aprire il fuoco a distanza contro chiunque fosse considerato causa di perturbamento dell’ordine pubblico, come se si trattasse di truppe nemiche.

Una sostanziale continuità politica col recentissimo passato prossimo fascista, di cui il sovrano e Badoglio erano stati completamente corresponsabili e a cui poi si aggiunse la rinascita dalle proprie ceneri e in forma repubblicana del fascismo, dopo l’armistizio dell’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso il 12 dello stesso mese, che avviò il Paese verso quella guerra civile che si sarebbe conclusa solo nell’aprile di due anni dopo. Una situazione che rischiò di trasformarsi in una trappola mortale per gli antifascisti anarchici – ancora internati o confinati mentre i tedeschi prendevano possesso del territorio italiano e si costituiva la Repubblica di Salò – e per i prigionieri stranieri, che stavano subendo la stessa sorte, quella del diniego della doverosa liberazione immediata. Si trattava principalmente di slavi – sloveni, croati, serbi – ma anche greci, albanesi, macedoni, insomma i popoli che avevano conosciuto e subito l’aggressione, le violenze e la protervia conseguenti alle velleità di grandezza imperiale dell’Italia fascista.

È sullo sfondo di questi così cruciali e terribili momenti ed eventi della storia italiana dell’estate 1943 che Paolo Pasi racconta le storie dei tanti antifascisti italiani e stranieri di cui ha pazientemente raccolto informazioni, testimonianze, notizie, documenti d’archivio, resoconti, talvolta ricchi e copiosi e talvolta scarni o lacunosi, assumendo una posizione ed un punto di vista intermedi tra quelli dello storico e del narratore, del ricercatore e dello scrittore e adottando un genere di scrittura che si potrebbe definire “saggio romanzato”. Scelta di scrittura analoga a quella compiuta recentemente da Cecco Bellosi nel suo Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018 [su Carmilla].
Con la sistematicità rigorosa e l’attenzione per i documenti proprie dello storico, Pasi tratteggia il profilo e ricostruisce le biografie politiche dei suoi “personaggi” e con la prosa appassionata e coinvolgente del narratore mette in scena le loro storie; ne immagina i pensieri, le discussioni e i dialoghi; ne descrive gli stati emotivi, le speranze, le delusioni e gli scoramenti; ricostruisce e descrive il contesto del confino di Ventotene, della reclusione a Renicci o a Fraschette d’Alatri, presso Frosinone.

Nelle pagine di Antifascisti senza patria, prendono vita e si animano i volti, le idee e le passioni politiche dei tanti confinati di Ventotene, alcuni dei quali destinati a diventare protagonisti della vita politica Italiana degli anni successivi, come Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Umberto Terracini, Giuseppe di Vittorio. Altri invece, meno noti, non ricevettero analoghi riconoscimenti politici nella nuova Italia repubblicana, nonostante la non minore tenacia con cui si opposero alla dittatura e al fascismo. Ed è proprio a loro, a questi antifascisti per lo più disconosciuti e dimenticati dal loro Paese, che il lavoro di Pasi è dedicato: sono gli anarchici come il triestino Umberto Tommasini, il piacentino Emilio Canzi, il reggiano Enrico Zambonini, i romagnoli di Santarcangelo Mario, Carlo e Ferruccio Girolimetti, il siracusano Alfonso Failla, la napoletana Emilia Buonacosa e tanti altri, provenienti da ogni parte d’Italia, ma tutti accomunati dalla condivisione dell’ideale libertario, che li guidò nell’impegno politico, nelle lotte operaie e nell’opposizione allo Stato, alla dittatura e al fascismo, che li condusse in Spagna, in Catalogna, a combattere contro il franchismo e dove dovettero subire l’attacco «di un esercito che avrebbe dovuto combattere i fascisti e che invece ha spento il sogno libertario» (p. 50): gli stalinisti. Quei «comunisti “ortodossi” capaci perfino di isolare con spietata determinazione uno di loro, Terracini, colpevole di aver espresso un’opinione fuori linea» (pp. 50-51) e coi quali a Ventotene dovettero convivere, in quelle variegate galassie dell’antifascismo che furono i luoghi di confino, dove a stretto contatto si ritrovarono liberali, giellisti, socialisti, comunisti e anarchici.

Quando alla fine di settembre 1943 arrivò la notizia della caduta di Mussolini, l’isola di Ventotene e i suoi “ospiti forzati” furono scossi da entusiasmo, nuove speranze, inquietudine, ma al contempo da incertezza e timore per un futuro, un destino di cui i confinati non erano ancora padroni. Immediatamente ebbe inizio la negoziazione con le autorità militari dell’isola per ottenere migliori condizioni di trattamento, in attesa della più celere possibile liberazione di tutti i detenuti. Nel corso del successivo mese di agosto questo accadde per liberali, giellisti, socialisti ed infine per i comunisti, ma non per gli anarchici, non per gli stranieri. Il trasferimento a Renicci o in altri campi fece da preludio ad un altro momento storico decisivo tanto per l’Italia quanto per gli antifascisti ancora non rimessi in libertà dal governo Badoglio: l’armistizio, l’arrivo della Wehrmacht, la divisione del Paese in due Italie in lotta tra loro.

Nelle convulse giornate successive all’8 settembre, mentre il Paese, lasciato a se stesso dal governo e dal sovrano, sbandava e precipitava nel caos, gli anarchici di Renicci e di altri campi, con tempistiche e modalità differenti, furono finalmente rimessi in libertà. Alcuni intrapresero la via insicura del ritorno a casa, altri quella altrettanto pericolosa della aggregazione ai primi nuclei della Resistenza che andavano formandosi; tutti seguitarono la lotta politica contro il fascismo; moltissimi divennero partigiani; alcuni morirono ed altri sopravvissero alla guerra per continuare la militanza e l’impegno politici per anarchia in un’Italia molto diversa da quella che avevano immaginato, sperato e per la quale avevano combattuto.

Nel conclusivo trentunesimo capitolo – Titoli di coda – Pasi passa in rassegna le vicende politiche successive al 1943 e al 1945 di molti degli ex confinati anarchici di Ventotene e in una carrellata, emotivamente coinvolgente, chiama a raccolta dinanzi a sé e al lettore questi ribelli senza patria per portare a conclusione la narrazione delle loro vite sovversive, di cui qui si riportano alcuni esempi.

«Enrico Zambonini, arrestato ad Arezzo durante il trasferimento da Ventotene, uscì dal carcere nel dicembre del 1943 dopo un bombardamento sulla città. Tornato a casa dalla sorella Marianna, a Secchio di Villa Minozzo, prese subito contatti con la resistenza nell’Appennino reggiano, ma poche ore prima di unirsi ai partigiani venne fermato dai fascisti, portato a Reggio Emilia e fucilato insieme al parroco del paese, don Pasquino Borghi. Davanti al plotone d’esecuzione Zambonini gridò “viva l’anarchia” prima di soccombere ai proiettili. Le sue ossa vennero disperse, la sua memoria, pur viva, tramandata a fatica e quasi ignorata dalle istituzioni. Solo molti anni dopo la guerra, gli anarchici reggiani fecero affiggere a Villa Minozzo una lapide che ancora oggi ne ricorda la militanza antifascista e il prezzo pagato». (pp.202-203)

«Dopo l’uscita da Renicci, Failla aveva raggiunto i familiari a Lucca e si era in breve tempo unito alla resistenza in Toscana. Nel secondo dopoguerra divenne una delle figure di spicco dell’anarchismo italiano, attivo nella vita politica e sociale fino al 1972. Morì nel gennaio del 1986, lasciano il testimone della sua memoria alla moglie, alle due figlie e ai suoi compagni di Carrara». (p. 201)

«Umberto Tommasini seguì le sorti della guerra insieme alla sorella e al nipote sfollati sull’Appennino emiliano, fornendo appoggio e aiuti alla popolazione locale. Al termine del conflitto tornò a Trieste, dove proseguì il suo impegno di anarchico attraverso la fondazione del gruppo Germinal e la testimonianza attiva contro i totalitarismi, che lo rese popolare tra i giovani libertari negli della contestazione. Autore di un’autobiografia che ripercorre la sua vicenda umana e politica, raccontò anche i fatti di Ventotene e Renicci. Una militanza che durò fino al 1980, anno della sua morte». (pp. 201-201)

]]>
Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

]]>