Vasco Pratolini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La “malinconia senza rimedio” di Valerio Zurlini https://www.carmillaonline.com/2024/05/06/la-malinconia-senza-rimedio-di-valerio-zurlini/ Mon, 06 May 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82459 di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto [...]]]> di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto degli eroi dei noir francesi), rivolge alla sua allieva Vanina (Sonia Petrova). Una “malinconia senza rimedio” è anche quella che, al pari della ragazza, prova il professore, è quella che promana da ogni singola inquadratura del film, ambientato in una livida Rimini invernale, fatta di gelide albe e tramonti, di giorni di pioggia che rintoccano nella quotidiana tristezza della provincia, di notti passate a bere e a giocare a carte, di mare in tempesta e di vento incessante, di strade alberate piene di foglie cadute. E, grazie al recente saggio di Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio, che proprio dalla battuta di Delon trae il titolo, adesso sappiamo che è anche quella di Valerio Zurlini, regista del film. Un grande autore per lungo tempo ingiustamente dimenticato, ‘riabilitato’ e riscoperto, se così si può dire, soltanto molti anni dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1982. Grazie al lavoro della studiosa, riusciamo infatti a scoprire molti lati della vita e dell’attività artistica di Zurlini poco noti al grande pubblico, non da ultime le delusioni e le malinconie derivate dall’impossibilità di realizzare diversi progetti, dal vedere sfumare all’improvviso dei film che erano sul punto di essere realizzati e che avrebbero potuto facilmente essere dei capolavori. Quando l’arte si inzacchera nel fango dell’economia, dei tornaconti delle produzioni e dell’universo aziendalistico della macchina-cinema (spietato oggi come negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta), le stesse realizzazioni artistiche spesso si bloccano perché sono lontane dai compromessi e dai favoritismi. Zurlini è stato un cineasta libero come pochi: come sostiene anche Fioroni, se un progetto, frutto o meno di un compromesso, non gli andava a genio, era impossibile farglielo realizzare.

Eppure, insieme a molti progetti non realizzati a causa di forza maggiore, il regista bolognese ci ha lasciato diversi capolavori. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “trilogia della Romagna” o “trilogia adriatica”, composta da tre film girati sulla riviera romagnola – Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961) e, appunto, La prima notte di quiete (1972) – alla quale Fioroni dedica largo spazio. L’ambientazione adriatica, secondo la studiosa, “più che un elemento decorativo facilmente identificabile, è un paesaggio dell’anima, una metafora della condizione umana”. Infatti, “Zurlini è il cineasta dei paesaggi come stati d’animo, ossia in tutti i suoi film l’ambientazione è sempre lo specchio della realtà interiore dei personaggi”. Sembra che la riviera adriatica, più che quella tirrenica, trasudi di malinconia: siamo lontani, in effetti, dall’atmosfera scanzonata della Castiglioncello de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Si tratta di un paesaggio forse più ‘nordico’ e glaciale rispetto all’altro versante, che ha molto da dire anche nei momenti di fine estate o, addirittura, invernali, dalle toccanti descrizioni della spiaggia in settembre, quando il mare comincia a ingrossarsi e a cambiare colore, che incontriamo ne Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani (1958) fino alle malinconiche tonalità con le quali Pier Vittorio Tondelli lo descrive nell’articolo Fuori stagione (1985), appartenente alla raccolta Rimini come Hollywood e dedicato alla riviera in inverno, quando emerge la “vita segreta delle cose e degli oggetti”. Né bisogna dimenticare che lo stesso Zurlini, come leggiamo nel saggio, d’inverno amava ritirarsi in un albergo di Riccione a lavorare e a scrivere in solitario, assaporando di quel mondo i suoi aspetti più malinconici.

In tutti i film della trilogia (l’unico ambientato in estate è, ça va sans dire, Estate violenta) si narrano amori impossibili portati avanti da personaggi maschili che ridisegnano una nuova concezione di eroe: “un uomo trasognato, sensibile, vicino all’universo femminile con cui vuole entrare in contatto profondo, e ineluttabilmente destinato al fallimento”. La malinconia appare perciò come “un rifiuto consapevole del machismo e di una virilità grossolana, che sfocia in una rappresentazione queer cioè non normativa né tantomeno canonica della mascolinità”. Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), in Estate violenta, si innamora di Roberta (Eleonora Rossi Drago), ma sarà un amore impossibile a causa dei disastri della guerra e delle convenzioni sociali come impossibili saranno anche quelli che vedono coinvolti Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) ne La ragazza con la valigia e i già ricordati Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete.

Nel libro di Federica Fioroni incontriamo però un’accurata analisi anche degli altri film di Zurlini, vale a dire Le ragazze di San Frediano (1955), Cronaca familiare (1962), entrambi tratti da romanzi di Vasco Pratolini, Le soldatesse (1965), Seduto alla sua destra (1968), Il deserto dei Tartari (1976), dal romanzo di Dino Buzzati. Sono film, tra l’altro, come Cronaca familiare in special modo, intrisi di fitti rimandi all’arte pittorica: di essa, Zurlini era un esperto ed un appassionato e allora, nel lungometraggio tratto da Pratolini, la fotografia si arricchisce di rimandi all’opera di Ottone Rosai come La prima notte di quiete ci offre un “momento di sospensione diegetica” (allo stesso modo di Nostalghia di Tarkovskij) dedicato alle inquadrature della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca. Anche ne Il deserto dei Tartari la macchina da presa indugia spesso sui quadri appesi alle pareti instaurando altri momenti di pittura diegetica. Quest’ultima è presente altresì in Estate violenta, nel momento in cui Carlo e Roberta, nella casa del primo, ballano volteggiando vicino a un quadro di Carlo Carrà, Atleti in riposo (1935) e ad “un affresco che rappresenta la famiglia alla maniera di Picasso”.

È necessario ricordare che, oltre che da una bella prefazione di Marco Bertozzi, il libro è corredato da una interessante intervista a Francesco Zurlini, figlio di Valerio, il quale ci rivela – insieme ad altri episodi e aneddoti della vita del padre – che il cappotto cammello indossato da Delon ne La prima notte di quiete era del regista ed è stato successivamente indossato a lungo anche dal figlio Francesco. Come già accennato, il saggio, oltre che un rigoroso percorso di analisi attraverso l’opera del regista bolognese, è anche un prezioso e discreto avvicinamento al travaglio esistenziale dell’autore e, al pari dei film realizzati, vengono passati sotto setaccio anche i diversi ‘sogni infranti’ di Zurlini, cioè i progetti non realizzati. Se ne possono ricordare alcuni: un film su Arthur Rimbaud; un’opera dal titolo La zattera della Medusa, in cui il rimando al celebre dipinto di Géricault doveva tratteggiare metaforicamente l’esistenza di un gruppo di intellettuali americani che aveva ritrovato a Roma una “zattera di salvezza”; un altro film dal titolo Verso Damasco, incentrato su un’inchiesta sulla morte di Cristo realizzata da Saulo di Tarso (poi San Paolo), un progetto che sarà ripreso da Damiano Damiani nel 1986 con L’inchiesta.

Scopriamo perciò come i film di Zurlini rappresentino tante tappe autobiografiche del suo personale tormento, “un oscuro fardello che lo accompagna fin dalla sua nascita, una macchia di nera malinconia che si allarga sempre di più fino a inghiottire lo splendore di una vita destinata al successo, processo di cui lui stesso è lucidamente consapevole”. Ecco perché quella “malinconia senza rimedio” da cui siamo partiti – e da cui il saggio di Fioroni trae il titolo – non è soltanto quella di Vanina, o di Daniele, o degli altri personaggi zurliniani. Essa appare radicata nel profondo del suo cinema, nelle scelte artistiche ed estetiche, e trova il suo corrispettivo più riuscito nel paesaggio di Rimini e della riviera adriatica in inverno. Come Vanina, i personaggi zurliniani (e probabilmente lo stesso autore), immersi nella solitudine degli inverni sul mare, per esprimere la loro malinconia potrebbero usare anacronisticamente le parole de Il mare d’inverno, la canzone di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone portata al successo da Loredana Bertè nel 1983, un anno dopo la morte di Zurlini: “Mare mare / qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare, mare / qui non viene mai nessuno a farci compagnia”.

]]>
Fresco come la rabbia, è amore alla Gkn https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/fresco-come-la-rabbia-e-amore-alla-gkn/ Sun, 18 Feb 2024 23:05:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81241 di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna [...]]]> di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna ha in eredità dalla madre un cassettone forato da una pallottola indiana, e in un momento forte della storia bacia il foro. La Valle della luna e Il tallone di ferro erano fra le letture della Resistenza, ma adesso sono fuori moda; e pensare che in un racconto di Vasco Pratolini, fra partigiani che parlano di libri, uno fa: «Il tallone di ferro è la Divina Commedia, e che scherziamo?».

Pane, vino e zucchero, in questo libro: il ricordo dei sapori, degli odori. La vita contadina prima dell’industrializzazione. Pane, vino e zucchero è una madeleine dei poveri, come l’odore delle stanze abbandonate, dei fazzoletti piegati nei cassetti, delle lenzuola. Ai partiti della sinistra novecentesca, però, non piaceva l’introspezione. Realismo, ci vuole. Che poi, è un modo per dire che l’anima ce l’hanno solo i padroni e che i proletari hanno i muscoli. Al padrone piace, questo proletario senza l’anima. Ma solo coi muscoli, si progetta poco.

Una delle cose più forti, nell’esperienza della Gkn, è il programma di reindustrializzazione dal basso. Agata se ne accorge. Viene dal mondo contadino, dal campo, però è figlia di operaio e fa l’impiegata; Agata capisce che la salvezza della Gkn è nella modernità. La tecnologia non si ferma, l’idea di piccole patrie arcaiche è assurda e se fosse vera sarebbe autarchia e fascismo. Agata si apre alla vita dopo le manifestazioni, gli scioperi, la vertenza in tribunale, e soprattutto con la fase dei contatti allargati, della socialità diffusa: giuristi, ingegneri, economisti, e poi associazioni e studenti. Un mondo ha pugnalato la Gkn; quindi gli operai, la cittadinanza, il lavoro intellettuale vogliono cambiare quel mondo. Lei si tuffa nella lotta e s’innamora: «Un altro mondo possibile. Non uno slogan utopico, ma realtà cruda, fatta di pelle, sudore, sangue, nervi, orgoglio, storia, visione». E intelligenza, perché stare dalla parte del popolo vuol dire organizzazione.

Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto. Come in amore. Quello di Agata e Lorenzo è alla Gkn. Lorenzo viene dal Sud ed è andato al Nord. La fabbrica dei sogni non lo dice subito, ma quel Nord è Firenze, perché c’è sempre un altro Nord sopra un Sud, e oggi si dice Nord globale e Sud globale, aree senza più neanche confini fisici. E qui ci sono altre prospettive: incrociate, sovrapposte, cioè reali e irrisolte. A Firenze, prima della Gkn, Lorenzo lavora in una fabbrica di borse, nella stanza delle donne. Si accorge che il padrone mette le mani addosso alle operaie, ma anche che la moglie fa finta di niente perché la ditta rende e il marito la porta in vacanza. È un’altra violenza, di genere, ma resta classista.

Sul rapporto fra economia e ambiente la battaglia della Gkn vuole spezzare i pregiudizi. Per questo, dopo una manifestazione Agata sente un vento «fresco come la rabbia giovane, forte come la lotta operaia». La devastazione del territorio va insieme alla distruzione del lavoro, ma dopo che l’individualismo portato dall’ordine borghese ha tolto ai lavoratori i punti di riferimento, li ha resi soli anche nel privato. Adesso sappiamo, però, che per la difesa dell’ambiente c’è chi si ribella. Li accusano di colpire i beni culturali, ma invece colpiscono le loro immagini: gettano colori innocui o sudiciume, ma non sulle opere d’arte, sui vetri che le proteggono. Un mese fa, per esempio, al Louvre hanno versato zuppa sul vetro della Gioconda, e subito il personale di sorveglianza ha isolato tutta l’area con pannelli scuri: l’importante è nascondere, abbuiare l’immagine. Una curiosa simmetria. Colpiscono l’immagine, non i beni. Gli speculatori, invece, svuotano i beni per appropriarsi del valore d’immagine, per mettere le mani su apparenze o rendite di posizione. Così uno stabilimento può diventare sede di tutt’altro, essere stravolto da una ristrutturazione, mutare in location.

L’immagine, certo, ma come? Il libro non si rifiuta di guardare, anzi. Ha una presa quasi cinematografica e si potrebbe farne un girato, magari con un montaggio sincopato, espressionista. La finestra apre sui campi, si vedono cose a occhi chiusi, dalla fabbrica si vedono il centro commerciale, il cinema eccetera. Agata e Lorenzo quando si incrociano si vedono e non si vedono, ma è lui che la accompagna a guardare dentro la fabbrica; gli sguardi dicono i desideri e li nascondono. È lui, a guardare Firenze dalla torre di San Niccolò, coi compagni lassù. Ed è lei, guardandosi nelle vetrate della Gkn, a vedersi bella perché ha fatto l’impensabile: ha parlato in assemblea, che è proprio il momento in cui tutti ti guardano, e se hai qualche problema a esporti, c’è da morire. Come c’è da tremare, a rivolgersi a Lorenzo per parlargli. Guardare una città, guardarsi, guardare dritto chi si ama, essere guardati. Col rovescio oscuro: la città vetrina, Firenze turistificio, la donna oggetto, la donna guardata male o ignorata se non corrisponde al canone estetico.

E sotto lo sguardo? Sotto c’è la pancia. A Lorenzo, quando lavora in mezzo alle donne, arrivano in pancia le risate delle ragazze. Agata crede di avere troppa pancia. Lorenzo da bambino ha preso un pugno in pancia, da grande il licenziamento è un colpo alla pancia. Qualcosa di profondamente fisico. Fa pensare al nesso evidente fra comportamento alimentare e rapporti sociali: l’oppressione produce alienazione e frustrazione direttamente sui corpi. Forse anche quel detto attribuito a Maria Antonietta – il popolo non ha pane, che mangi brioche – , vero o falso, ha sottotesti da decifrare, a proposito di carnalità nelle relazioni di potere. In Toscana si dice «corpo pieno non crede al digiuno». Insomma, la questione del cibo ci parla direttamente – alla pancia, direi – ed è una tappa obbligata della socialità. E Agata coglie presto una grossa vittoria, alla Gkn, proprio a tavola: riesce a mangiare davanti a lui, mentre di solito voleva mangiare sola.

La narrazione spariglia i capitoli con scritti in seconda persona e con «sogni». Non ci credo, però, che siano sogni. A meno che l’autrice scriva quando dorme; e non dico di più per non sciupare la lettura, che altrimenti non fa pro. Invece propongo una riflessione. Nel secondo Novecento c’erano intellettuali che si chiedevano fra loro: come giustifichi la tua latitanza dalla fabbrica? La domanda adesso ha senso soltanto se alla fabbrica si aggiungono l’allevamento intensivo, l’ufficio, il motorino dei fattorini schiavi dell’algoritmo eccetera. Però sarebbe troppo prevedibile chiedersi come si pone, chi fa narrativa, rispetto alla produzione: nel mondo iperconnesso siamo tutti latitanti e tutti troppo presenti.

La forma narrativa incuriosisce, si presta a implicazioni. La Gkn è una struttura produttiva e può svegliare gli appetiti degli speculatori, specialmente immobiliari. Si sente una somiglianza con gli usi predatori della cultura. Una certa narrativa in circolazione, in Italia, è fatta di scheletri di qualcosa, ossami di morto riconvertiti in centri commerciali, dove ognuno ha la sua vetrina, si mette in posa e dà in cambio l’anima. La fabbrica dei sogni fa il contrario: con una storia d’amore inseparabile dal lavoro, Agata l’anima se la riprende. In più è messa in chiaro una parte del lavoro di scrittura, come se si permettesse a chi legge di cercare qualcosa sul tavolo di chi scrive.

Per la Gkn ha importanza il rapporto con le persone del luogo, con la storia locale, col tessuto umano profondo. È un caso, che questa lotta sia in Toscana? Il dubbio è un terreno minato. Qualsiasi prodotto, basta scriverci sopra «Toscana» e vende di più. La Toscana è stata un perno della civiltà ma sta diventando tristemente un marchio caricaturale. La Toscana fu in prima fila nel fascismo e nell’antifascismo. Toscani furono Michele Della Maggiora, primo fucilato dal tribunale speciale fascista, ed eroi antifascisti assassinati dallo squadrismo, come Spartaco Lavagnini; ma anche il più fanatico dei fascisti giustiziati a Dongo, Alessandro Pavolini, fu toscano, come la sua amante Doris Duranti, diva del regime. Toscani furono il vescovo fascista di San Miniato, Ugo Giubbi, e il priore di Barbiana Lorenzo Milani, che in questo libro si affaccia, e sia benvenuto. Insomma, dico il territorio, che poi non vuol dire nulla; meglio, dico le persone, lo spiritaccio, come quello della nonna di Agata, che ride anche da morta.

Qualcosa mi riguarda. Per dare corpo a una produzione che sia al servizio della società ci vogliono anche i giuristi, e io sono un giurista. Ora, giuristi che si opposero al fascismo ce ne furono, con casi eroici come Giacomo Matteotti. Fra loro c’è Silvio Trentin: è talmente bravo che fa l’assistente universitario già prima della laurea; si sposa, ha davanti un carrierone e una vita comoda; arriva il fascismo: lui lascia la carriera e va all’estero con la giovane famiglia, a fare il contadino e il manovale. Lieto fine?

Cammina, cammina e càmmina… – come si dice fra i toschi – arriviamo al 1992: uno dei figli di Trentin, nato nell’esilio, che si chiama Bruno ed è giurista anche lui, firma gli «accordi di luglio», pietra miliare della disfatta del salario, cominciata molti anni prima. È la rivincita del capitale. Il babbo di Agata dà le dimissioni dalla Cgil e scrive proprio a Bruno Trentin: «Cancellare la scala mobile significa consegnarci di nuovo alla povertà, al ricatto dello stipendio che non basta mai, significa dover dire ai miei figli che tutto quello che ho insegnato loro non esiste più». Allora. Più la produzione è condizionata dalla tecnologia, più ci vogliono regole; ma vatti a fidare di chi quelle regole le scrive, le cambia, le applica, le invoca.

La Gkn ha bisogno dei giuristi, ma il punto resta: cos’hanno da dire gli scrittori a proposito del lavoro intellettuale applicato, quando chi lavora in fabbrica, negli uffici, nella logistica ha bisogno di contratti, organizzazione, garanzie. Il libro non è sui giuristi, ma nessuno è estraneo a questa storia. E poi, via: se la Repubblica è fondata sul lavoro, è sul lavoro che tutti devono misurarsi. A volte il confronto funziona proprio nelle realtà più vivaci ed esposte: a Roma, dieci anni fa, il Teatro Valle occupato è stato un laboratorio, oltre che di spettacolo e politica, anche di diritto, specialmente sui beni comuni. E anche lì si sono incrociate vite, esperienze. Che si fa?

Come si legge in questa storia d’amore e di molto altro, stavolta c’è di mezzo una fabbrica che «illumina la vita e crea speranza».

 

]]>
Sport e dintorni – Calcio e letteratura in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/sport-e-dintorni-calcio-e-letteratura-in-italia/ Thu, 13 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48612 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, romanzi, racconti e poesie, biografie e autobiografie, saggi di varia natura dedicati al calcio.
Grazie ad una minuziosa e rigorosa ricerca – a partire dalla raccolta di una vastissima gamma di documenti, padroneggiati con notevole competenza – Giuntini riesce pienamente nell’intento di fornire una mappatura ragionata delle relazioni tra dimensione letteraria e fenomeno calcistico che si inserisce nella storia socio-culturale del calcio italiano ovvero della disciplina sportiva che più di ogni altra cattura quotidianamente l’attenzione di milioni di persone.
Oltre a fornire molteplici spunti interpretativi, il saggio si segnala per la qualità della scrittura e per il solido impianto storico di un percorso che si snoda da fine Ottocento ai giorni nostri.

Il volume si apre con un capitolo sui primi manuali e regolamenti, mutuati principalmente dall’Inghilterra, che contribuiscono ad uniformare una pratica calcistica ancora disomogenea e con regole confuse. Nel contempo il football debutta sulle pagine della pubblicistica sportiva nella quale si distinguono testate come “La Gazzetta dello Sport” e il “Guerin Sportivo”. Inizialmente marginale rispetto ad altre discipline, il calcio conquista progressivamente uno spazio nei periodici, mentre nascono le prime riviste specializzate e fogli espressione di alcuni club calcistici.
Il panorama giornalistico si arricchisce anche grazie a due voci critiche: il “Corriere dello Sport Libero” – organo della Unione Libera Italiana del Calcio, sorta nel 1917 in alternativa alla FIGC con l’intento di diffondere il calcio tra le classi popolari – e “Sport e proletariato”, settimanale legato all’area socialista massimalista uscito nel 1923 e subito soppresso dal fascismo.
Giuntini segnala inoltre un episodio poco noto accaduto nel clima del “biennio rosso”. Nell’ottobre del 1920 le maestranze del “Guerin sportivo” occupano per alcuni giorni la sede torinese della rivista e danno alle stampe un’edizione autogestita nella quale denunciano l’autoritarismo del direttore e si propongono di dare al periodico un orientamento di classe. L’evento – unico nella storia della stampa sportiva italiana – si inscrive nel superamento dell’originario “antisportismo” socialista, in un contesto che vede la nascita di un associazionismo sportivo di classe promosso a Milano dai “terzinternazionalisti” vicini a Giacinto Menotti Serrati e a Torino dal gruppo de “L’Ordine Nuovo”. In questo quadro Giuntini dedica alcune pagine alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo.

Una parte rilevante della ricerca riguarda il periodo fascista, sul versante giornalistico e letterario.
Giuntini si sofferma inizialmente sul ruolo di Lando Ferretti e Leandro Arpinati – due personalità di primo piano del fascismo nonché dirigenti dello sport nazionale – nel dare impulso alla carta stampata sportiva e inquadrarla secondo le direttive del regime per la costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Durante il fascismo il giornalismo sportivo cresce dal punto di vista quantitativo con una moltiplicazione delle testate, sempre più “calcistizzate”, e la copertura degli eventi sportivi da parte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio e cinema). Tra i giornalisti che contribuiscono alla trasformazione della scrittura sportiva Giuntini indica in particolare due direttori de “La Gazzetta dello Sport”: Emilio Colombo, a cui si deve la nascita dello “sport epico”, e Bruno Roghi che fa scuola con il suo stile retorico ed enfatico e con il ricorso a metafore di matrice bellica funzionali all’esaltazione dei successi agonistici della nazione “guerriera e sportiva”.

La ricostruzione di Giuntini spazia poi da Massimo Bontempelli, lo scrittore che esalta il «vitalismo tipicamente fascista insito nella modernità dello sport», alle prove di scrittura sportiva di Alessandro Pavolini, uno dei principali «gerarchi-letterati del “calcio e moschetto”», da La prima antologia degli scrittori sportivi (1934) che comprende tra l’altro le Cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, alla narrativa sul calcio nella quale si distingue Novantesimo minuto (1932) di Francesco Ciampitti, «il primo autentico romanzo calcistico italiano», capace di uscire dai canoni dominanti del romanzo sportivo fascista. Nel corso del Ventennio questo genere conosce una notevole fortuna – esemplificata ad esempio da La squadra di stoppa (1941) di Emilio De Martino, un best-seller della letteratura italiana per l’infanzia – anche grazie alle vittorie internazionali conseguite dagli “azzurri” di Vittorio Pozzo e all’attenzione del fascismo per il calcio.

Negli anni della dittatura non mancano posizioni critiche nei confronti dello sport di regime. Antonino Pino Ballotta in Tifo sportivo e i suoi effetti sottolinea «l’esasperata sportivizzazione promossa dal fascismo»; Cesare Zavattini smitizza «la tronfia retorica staraciana dello sport in “camicia nera”» attraverso alcune pagine del suo I poveri sono matti; su “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli denuncia il fanatismo sportivo alimentato dalla dittatura e Carlo Levi interviene con una serie di articoli che rappresentano «un autentico J’accuse nei confronti della politica sportiva fascista».

Venendo al dopoguerra, il saggio analizza il ritrovato interesse per il calcio da parte di scrittori e poeti che se ne erano allontanati, disgustati dalla strumentalizzazione fascista dello sport.
Mentre Italo Calvino scrive di sport su “l’Unità” e Alfonso Gatto e Vasco Pratolini celebrano con i loro scritti «il rito domenicale della partita», «la unica vera “religione laica” degli italiani del secondo dopoguerra», negli anni Cinquanta Gianni Brera – il “Gadda spiegato al popolo” secondo Umberto Eco – si afferma come protagonista di una lunga stagione del giornalismo e della letteratura sportiva. Giuntini analizza puntualmente i passaggi che portano Brera verso la costruzione di un linguaggio straordinariamente originale. La sua scrittura «affabulatoria, gigionesca e straripante» è frutto di «un esercizio di inventività “parolibera” infinito, in un codice linguistico “onomaturgico” impregnato di metafore e neologismi entrati nel parlato comune»: da “centrocampista” a “goleador”, da “incornare” a “libero”, da “melina” a “palla-gol”, da “pretattica” a “rifinitura”, da “Bonimba” (Roberto Bonisegna) al “Barone” (Franco Causio).

In pieno “miracolo economico” esce un importante romanzo di Salvatore Bruno (L’allenatore, 1963), mentre lo juventino Mario Soldati e l’interista Vittorio Sereni fanno filtrare in alcune opere la loro passione per il calcio. Un amore che traspare anche nella narrativa di Luciano Bianciardi chiamato nei primi anni Settanta, alle soglie della morte, da Gianni Brera a collaborare al “Guerin Sportivo” e di Oreste Del Buono, incarnazione dello “scrittore-tifoso” che trova nel tifo una fonte di ispirazione per un capitolo del suo romanzo I peggiori anni della nostra vita (1971).
Tra i grandi intellettuali italiani è poi Pier Paolo Pasolini – tifoso del Bologna, appassionato praticante e attento osservatore del calcio – a scrivere pagine preziose sullo sport e in particolare sul pallone spingendosi fino a tentare una lettura semiologica del fenomeno calcistico con i suoi “elzeviristi”» (Gianni Rivera e Sandro Mazzola) e i suoi poeti e prosatori “realisti” (Giacomo Bulgarelli e Gigi Riva).

Di sport scrive anche Giovanni Arpino cimentandosi in un’attività giornalistica che lo porta tra l’altro a seguire per “La Stampa” diverse edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio. Sarà l’ingloriosa eliminazione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 ad ispirare il suo Azzurro tenebra (1977) – secondo Giuntini «il più importante romanzo, tra il reportage e il pamphlet, di questo scorcio di anni» – nel quale si esprime «una forte requisitoria contro la decadenza materiale e umana del football italiano».
Una denuncia che è al centro di Calci e sputi e colpi di testa (1978) di Paolo Sollier, militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia operaia, uno dei calciatori più “politicamente scorretti” nella ridotta schiera degli “irregolari” del calcio, tra i quali si possono annoverare il calciatore-poeta Enzo Vendrame e Carlo Petrini con i suoi libri, pubblicati vent’anni dopo, su un football sempre più ossessionato da una ricerca esasperata del risultato e condizionato dal doping, dalle scommesse clandestine e dalle partite truccate.

Tra gli anni Ottanta e Novanta un profluvio di titoli e un impoverimento linguistico segnano «la mediatizzazione selvaggia vissuta dal calcio sempre più malato di “biscardismo” e di quel gigantismo sfrenato inaugurato con gli sprechi di “Italia ‘90” e proseguito con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e l’invasione delle pay-tv di Rupert Murdoch». L’antidoto al “biscardismo” è affidato alla penna di autori che tentano l’impresa «quasi folle e utopica di frenarne, con una buona letteratura, la grave decadenza umana e morale».
Ecco allora Dov’è la vittoria? Cronaca e cronache dei Mondiali di Spagna (1982) del dantista Vittorio Sermonti che avverte precocemente gli effetti nefasti della deriva biscardiana e qualche anno dopo, ai tempi del mondiale italiano degli affari e delle speculazioni e della craxiana “Milano da bere”, Il calciatore di Marco Weiss, un romanzo di formazione a sfondo calcistico, e Finale di partita, raccolta di scritti alla quale partecipano autori del calibro di Dario Bellezza, Gianni Celati, Franco Fortini, Cesare Garboli, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Antonio Tabucchi e molti altri.

Tra i tanti autori e titoli citati e commentati da Giuntini nel capitolo sulla scrittura come risposta culturale al “biscardismo” e sulle tendenze più recenti della letteratura a tema calcistico, spiccano per valore letterario e impegno civile La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli, una storia del calcio in versi; alcune poesie di Loi, Giudici, Sanguineti e Roversi; Manlio Cancogni sulle tracce dell’”eretico” Zeman con il suo Il Mister, che Giuntini valuta come uno dei tre romanzi da ricordare nella storia della letteratura italiana sul calcio insieme a Novantesimo Minuto di Ciampitti e Azzurro tenebra di Arpino; Il portiere e lo straniero di Daniele Santi, un’opera tra storia e romanzo intorno alla figura dell’intellettuale-portiere Albert Camus; La farfalla granata, il libro di Nando Dalla Chiesa su Gigi Meroni. E ancora Edmondo Berselli che in Il più mancino dei tiri propone attraverso il calcio una rivisitazione politica, sociale e di costume dell’Italia e delle sue contraddizioni irrisolte, i romanzi sul calcio e i sentimenti di Roberto Perrone, Rembò di Davide Enia, Addio al calcio di Magrelli, Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo, la produzione sportivo-letteraria di Darwin Pastorin e le esperienze di scrittura sul calcio al femminile.

Oltre ad offrire una panoramica sulla ripresa degli studi storici sul calcio e sulle opere sociologiche e letterarie dedicate al tifo ultrà, in chiusura del volume Giuntini dedica due capitoli ad una sintetica rassegna sul calcio nel cinema e nel teatro, suggerendo altri spunti di riflessione e indicazioni per ulteriori approfondimenti.
Utile è anche la bibliografia posta in appendice al volume, mentre è discutibile la scelta editoriale di non avvalersi di un apparato di note, uno strumento che sarebbe stato prezioso per i lettori interessati a risalire puntualmente dalle numerose citazioni alle loro fonti. Un limite che comunque non inficia il notevole valore di una ricerca che rappresenta uno dei più importanti contributi recenti agli studi storici sullo sport.

]]>