Valentina Re – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginari seriali. Game of Thrones. Una mappa per immaginare mondi https://www.carmillaonline.com/2017/04/21/37490/ Thu, 20 Apr 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37490 di Gioacchino Toni

game_of_thrones_battle_bastardsSara Martin – Valentina Re (a cura di), Game of Thrones. Una mappa per immaginare mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 136, € 14,00

L’interminabile Game of Thrones prodotto dalla HBO rappresenta uno dei casi esemplari di come la serialità televisiva contemporanea tenda, ormai da qualche tempo, a produrre opere complesse che si aprono ad una miriade di linee interpretative.

Il volume qua preso in esame si presenta «come un’introduzione (una mappa) al mondo (o ai mondi) della serie, che trova nel tema della complessità spaziale e narrativa (e [...]]]> di Gioacchino Toni

game_of_thrones_battle_bastardsSara Martin – Valentina Re (a cura di), Game of Thrones. Una mappa per immaginare mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 136, € 14,00

L’interminabile Game of Thrones prodotto dalla HBO rappresenta uno dei casi esemplari di come la serialità televisiva contemporanea tenda, ormai da qualche tempo, a produrre opere complesse che si aprono ad una miriade di linee interpretative.

Il volume qua preso in esame si presenta «come un’introduzione (una mappa) al mondo (o ai mondi) della serie, che trova nel tema della complessità spaziale e narrativa (e della sua gestione) il filo rosso lungo il quale si dispongono i saggi raccolti» (p. 10).

Su Carmilla ci siamo già occupati delle ricerche in ambito audiovisivo effettuate dalle due curatrici di questo volume. Relativamente a Sara Martin abbiamo affrontato il volume da lei curato La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo (2014), opera in cui la serialità televisiva viene indagata nel suo rapportarsi con le trasformazioni della società contemporanea. Di Valentina Re abbiamo invece analizzato il saggio da lei steso insieme ad Alessandro Cinquegrani, L’innesto (2014), ove vengono passati in rassegna diversi film usciti attorno all’ultimo decennio del Novecento che problematizzano il senso della realtà e la sempre più difficile distinzione tra reale e finzionale propria della contemporaneità.

In questo libro, Game of Thrones, le due curatrici raccolgono interventi di studiosi e studiose utili alla comprensione dell’incredibile successo di un fenomeno transmediale in cui si intrecciano letteratura, produzione televisiva, web, videogames…

Valentina Bonaccorsi, nel suo Le cronache del ghiaccio e del fuoco: elementi storici e suggestioni letterarie”, analizza la serie creata da George Martin alla ricerca, appunto, di riferimenti storici e letterari. Sono indubbie le suggestioni medievali che caratterizzano la creazione martiniana; lo spettatore viene catapultato di fronte ad un mondo che, pur senza richiamare esplicitamente episodi storici, tutto sommato non viene percepito come totalmente sconosciuto.

Se non è difficile, ad esempio, scorgere nelle vicende che toccano gli Stark ed i Lannister richiami alla Guerra delle Due Rose che ha visto confrontarsi gli York ed i Lancaster nella seconda metà del XV secolo, la studiosa evidenzia le numerose suggestioni derivate dalla storia scozzese e, più in generale, sottolinea come la saga insista parecchio sull’importanza della genealogia, elemento al centro di molte vicende storiche che hanno attraversato il lungo medioevo.

Bonaccorsi dedica una parte importante della sua analisi anche alla questione climatica; nelle Cronache le stagioni vengono presentate dalla durata imprecisata e di un’alternanza variabile. «Durante il periodo medievale, si registra un inusuale picco di temperature relativamente miti, ricordato come “ottimo climatico medievale”, che coinvolse sostanzialmente le regioni dell’Atlantico settentrionale e del nord America in un periodo di tempo di circa mezzo millennio, dal IX al XIV secolo. Al termine del periodo caldo medievale, iniziò una brusca fase di raffreddamento che coinvolse tutto l’emisfero settentrionale e provocò un forte abbassamento delle temperature con conseguente avanzamento dei ghiacciai: la cosiddetta “piccola era glaciale”, registrata tra la metà del XIV e la metà del XIX secolo» (pp. 23-24).

Risulta pertanto chiaro il parallelismo con quanto viene narrato già nel primo libro della serie a proposito dell’arrivo del lungo inverno. D’altra parte “Winter is coming” è il motto di Casa Stark e questo, oltre a ricordare i rischi della stagione invernale che si approssima, secondo la studiosa, intende sottolineare anche come tutto sia ciclicamente destinato a capovolgersi. Bonaccorsi individua un parallelo tra il motto “Winter is coming” e la locuzione latina “Sic transit gloria mundi”, derivata  dall’Imitatio Christi, “O quam cito transit gloria mundi”, per ricordare la transitorietà delle cose terrene. L’idea del capovolgimento la si ritrova anche in un celebre monologo di Edoardo IV, nel Riccardo III shakespeariano: “Now is the winter of our discontent / Made glorious summer by this sun of York”.

Tali capovolgimenti della sorte, continua Bonaccorsi, «portano alla memoria un altro elemento fondamentale della visione del mondo medievale: la Ruota della Fortuna» (p. 25). Non sono pochi i personaggi creati da Martin soggetti a capovolgimenti della Fortuna. «Un altro approccio alla “caduta” e alla morte emerge nell’espressione latina “memento mori”, mutuata dalla frase che, nell’antica Roma, veniva proferita ai generali in trionfo di ritorno nell’Urbe: “Respice post te. Hominem te memento” […] Il concetto esplicitato dal “memento mori” è molto vicino a quello della Ruota della Fortuna, anche se quest’ultima presuppone un movimento costante di ascesa e declino, mentre il primo ricorda un progressivo movimento lineare verso l’inevitabile fine. Anche l’opera martiniana ha un suo corrispettivo del latino “memento mori”, il valyriano “Valar Morghulis” – “Tutti gli uomini devono morire” – intorno al quale ruota la storia di Arya Stark dal primo incontro con Jaquen H’ghar fino al suo addestramento presso la Casa del Bianco e del Nero a Braavos» (p. 26).

Westeros viene presentato geograficamente diviso in un Nord, dalla forma simile alla Gran Bretagna, e in un Sud, dalle fattezze che ricordano l’Irlanda capovolta. Analizzando dal punto di vista geo-politico la divisione in sette regni indipendenti non è difficile vedervi un riferimento ai sette nuovi regni autonomi scaturiti dalla fine dell’Impero romano d’Occidente con la deposizione di Romolo Augusto e la Barriera di ghiaccio che separa i Sette regni dalle Terre selvagge abitate dai Bruti non può non ricordare il Vallo di Adriano realizzato per separare i Romani dai barbari del Nord. «Come i Bruti vivevano raggruppati in clan, tribù e villaggi non uniti sotto un unico potere centrale, così gli abitanti delle zone a nord del Vallo risiedevano in piccoli villaggi o accampamenti temporanei» (p. 29).

Interessanti risultano anche le analogie individuate dalla studiosa tra l’amministrazione della giustizia per Iudicium Dei, per giudizio ordalico, presente nelle Cronache ed il sistema ordalico tipico delle popolazioni germaniche, poi diffusosi nel resto d’Europa alla caduta dell’Impero romano, che assegna all’intervento divino il compito di dirimere i contenziosi. In tale sistema non di rado l’esito scaturisce da prove a cui vengono sottoposti i contendenti al cospetto di un giudice vigile circa il corretto svolgimento dell’ordalia e tutto ciò ha evidenti affinità con quanto si ritrova nelle Cronache.

narrazioni-seriali-martin-game-thronesStefano Baschiera, inGame of Thrones e l’impatto sul territorio”, si sofferma invece sul rapporto tra la produzione di questa runaway production televisiva e le località in cui sono state effettuate le riprese. La serie è una produzione statunitense con base nel Regno Unito e girata in una quarantina di diverse location europee e del bacino del Mediterraneo (Islanda, Marocco, Malta, Croazia, Spagna…). L’impatto più evidente sul territorio si è dato in terra nordirlandese ricalcando, per certi versi, il caso di The Lord of the Rings (Il signore degli anelli, 2001-2003) di Peter Jackson con la Nuova Zelanda. Sebbene risulti difficile calcolare esattamente l’impatto sul turismo per le località ove sono stati girati episodi o scene importanti della serie, di certo non può dirsi di poco conto.

Per farsi invece un’idea dell’impatto di Game of Thrones sul territorio basti pensare che la sequenza dello scontro nell’episodio “The Battle of Bastards” (ep. 9 / VI stagione) «è stata girata su 31 acri di proprietà privata con l’aggiunta di neve artificiale, ha impiegato 600 membri della crew, 500 comparse, 70 cavalli per un totale di venticinque giorni di riprese. Venti settimane di preparazione sono state necessarie prima di girare questa sequenza e hanno coinvolto, tra le altre cose, un intervento anticipato sui pascoli, per alterare la crescita dell’erba e modificare così i segni dell’impiego agricolo dell’area. Questo esempio mostra molto bene non solo l’entità della produzione, ma anche le abilità acquisite nel corso degli anni dal dipartimento delle location e la centralità della panificazione annuale della serie, che consente tipi di operazione sul territorio altrimenti impensabili» (p. 40).

Sara Casoli, nel suo “L’anomalia emotiva di Game of Thrones: coinvolgimento del pubblico e design della narrazione”, si sofferma sulla costruzione del coinvolgimento emotivo e dell’affezione del pubblico nei confronti della serie televisiva attraverso una particolare architettura delle informazioni. L’intervento analizza i dispositivi testuali e formali adottati da quello che è «un ambiente narrativo aperto, espandibile ma in equilibrio e resiliente, in cui personaggi e pubblico coabitano e cooperano in interazione dinamica e reciproca» (pp. 45-46).

Le modalità con cui il testo audiovisivo riesce a determinare particolari stati emotivi negli spettatori sono sia di natura formale che narrativa. Alle risposte emotive del pubblico concorrerebbero un’atmosfera affettiva diffusa omogeneamente lungo tutta la serie ed alcuni acuti emotivi localizzati e fugaci. L’interconnessione di tali modalità andrebbe a creare quell’architettura d’insieme in grado di determinare un tipo particolare di suspense in cui lo spettatore capisce che è previsto un evento ma non ha idea di quale esso sia e quali personaggi vengono coinvolti. Si determinerebbe così, secondo Casoli, un clima di ansia e diffidenza a cui lo spettatore si abitua in attesa dell’arrivo dei picchi emotivi.

Solitamente lo spettatore tende ad allinearsi con alcuni personaggi-protagonisti assumendone il punto di vista morale ed etico, stabilendo con loro un legame empatico ma in Games of Thrones tutto ciò deve fare i conti con l’alto numero di “personaggi paritari” e con la difficoltà di stabilire una condivisione morale con essi. L’architettura della serie deve pertanto saper evitare un eccesso di informazioni procedendo in maniera armonica, mantenendo elementi di continuità ed evitando eccessive capacità previsionali da parte dello spettatore. La studiosa ricostruisce coma l’architettura di Games of Thrones sia sapientemente programmata affinché i meccanismi testuali possano generare stati emotivi tali da mantenere il pubblico all’interno dell’universo diegetico a lungo e profondamente.

L’intervento di Sara Martin, “Gli abiti di Game of Thrones: mappe che svelano i personaggi”, analizza l’aspetto narrativo dei costumi nella serie televisiva, la loro incidenza «nella determinazione dei personaggi e del racconto, nella resa dei sentimenti e delle emozioni che in essi circolano» (p. 63).

La studiosa ricostruisce come i costumi della serie, realizzati con una cura davvero maniacale, abbiano anche un’importante funzione narrativa; «per esempio, che i costumi di Daenerys Targaryen, man mano che la saga avanza, vanno a ricoprirsi di pieghe sempre più piccole che mimano le scaglie dei draghi […] la battaglia per il dominio tra Lannister e Stark si manifesta lungo tutto l’abito da sposa di Sansa, dove meta-lupi ricamati lottano e vengono alla fine battuti dal leone, che troneggia sinistro sulla nuca» (p. 65).

Martin sottolinea anche come nei principali personaggi femminili della serie i costumi, oltre a sottolineare il ruolo sociale di chi li indossa, riflettano l’evoluzione del loro stato psicologico ed a tal proposito vengono prese in esame le caratteristiche e l’evoluzione dei costumi e dei personaggi femminili di Daenerys, Cersei e Sansa.

Nicola Stefani, in “Gli storyboard di Game of Thrones, analizzala il «passaggio dello storyboard da oggetto effimero di produzione a contenuto offerto ai fruitori del web» (p. 78) all’interno della strategia di marketing e promozione attuata dalla HBO. Nell’era della “cultura convergente”, così come delineata da H. Jenkins, diviene possibile che gli storyboard finiscano per essere collocati in nuovi contesti mediali assumendo nuove funzioni. «Le potenzialità di interazione della piattaforma digitale permettono agli utenti del blog di approfondire in prima persona i processi di visualizzazione della propria serie preferita, nel contesto della maggiore ricettività dei nuovi media che ha dato luogo a ciò che è stata definita participatory culture» (p. 83).

Elisa Poli nel suo contributo, “Le città visibili di Game of Thrones, si sofferma sulla rappresentazione dei Sette Regni offerta dalla serie televisiva. «La carta geografica di Game of Thrones è una visione che ci avvicina a un mondo verosimile ma fantastico, dettagliato ma, al contempo, sfuggente. Le città di questa mappa, i suoi territori, così come le storie che vi si svolgono, compaiono poco per volta, pezzo per pezzo, come in un mosaico ingannevole che sembra costruito dalla mente di un Borges post-moderno. La mappa è il primo sguardo rivolto ai Sette Regni, ci rivela in un tempo velocissimo dove si svolgeranno le vicende di un episodio ma, anche, quali luoghi permangono attivi, seppur silenti, all’interno di questa complessa storia di re, eroi e demoni. Per tale motivo, dedicare l’incipit di ogni racconto alla rappresentazione cartografica è un paradosso di forte impatto, perché alla dovuta precisione della descrizione di un mondo si lega la volontaria omissione di un destino: sappiamo dove si svolgeranno i fatti di cui, però, non conosciamo ancora la trama» (p. 89).

Poli passa in rassegna gli spazi che ci vengono presentati dalla serie televisiva dal punto di vista architettonico. Vengono analizzate le quattro roccaforti a partire dalla lugubre architettura di Castel Black, a ridosso della Barriera presidiata dai Guardiani della Notte, passando poi alla fortezza di casa Arryn, The Eyrie (Nido dell’Aquila), mostrata nel suo aspetto impenetrabile che viene svelato un poco alla volta nel corso delle stagioni, fino al castello di Riverrun, che riprende il celebre Château de Chenonceau, per poi giungere alle cinque scogliere dell’arcipelago delle Iron Islands che danno forma alle architetture dello scabro edifico di Pyke dei Grayjoy che pare richiamare le forme del tipico castello scozzese. Successivamente la studiosa analizza le città di mare di Braavos, Meereen, Qurth e le località in rovina Harrenhal e Valyria segnalando i rimandi che queste palesano nei confronti di città e luoghi che già fanno parte dell’immaginario dello spettatore.

Il volume si conclude con il contributo di Marta Boni e Valentina Re, “Here be Dragons: la mappa come soglia, racconto, creazione”, che analizza la particolare mappa fornita dalla sigla, variabile di puntata in puntata, che invita lo spettatore a scoprire l’evoluzione del mondo di Game of Thrones. Durante i titoli di testa i diversi elementi che compongono i territori di Westeros e di Essos, prima mostrati dall’alto, acquistano tridimensionalità trasformandosi in antichi automi all’interno di una sorta di astrolabio che mostra immagini passate e future svelando il mondo della serie un poco per volta nel corso delle diverse sigle che aprono le puntate.

Secondo le studiose la mappa si presenta come «un territorio di negoziazione tra lo spazio del mondo immaginario, il tempo del racconto, e il tempo degli spettatori. Elemento paratestuale, zona di confine, essa non è da leggersi (soltanto) come uno strumento utile all’orientamento dei fruitori, ma come un trampolino per l’immersione in un’esperienza di costruzione di un mondo (tipica della cultura mediale contemporanea)» (p. 106). Dunque la mappa che compone la sigla appare allo spettatore come un vero e proprio percorso visivo che crea il mondo entro il quale si svolgono le vicende narrate.

game_of_throne_map_090Boni e Re sottolineano come sin dai primi anni Novanta molte serie televisive abbiano presentato mondi complessi e come ciò abbia obbligato gli spettatori a fare i conti con tale complessità. «Ciò accade proprio perché i racconti televisivi seriali sono ormai capaci di svilupparsi al di là del singolo episodio e, spesso, proliferano al di là del singolo media, come negli esempi di transmedia storytelling, ancora una volta descrivibili in termini di spazio o di accumulo di azioni in temporalità diverse» (p. 113). Dunque le mappe vengono in soccorso allo spettatore al fine di aiutarlo visivamente a mantenere sotto controllo una complessità altrimenti inestricabile ed al tempo stesso contribuiscono alla costruzione di senso.

La mappa offre una corrispondenza semiotica tra le immagini e lo spazio rappresentato ed in ciò si differenzia dalla condivisione orale o scritta di conoscenze ma la mappa, quando finisce in rete, può anche circolare come elemento autonomo volto ad arricchire l’esperienza del pubblico. «Costruire una rappresentazione astratta di un mondo non è infatti soltanto un modo di rivelare un sapere sul mondo, ma è anche, e soprattutto, un modo di costruire tale sapere. I processi di mappatura fanno parte della costituzione del processo seriale» (p. 114).

Le studiose dimostrano come la mappa-sigla che caratterizza le diverse puntate, nel suo essere al contempo tanto una mappa-descrizione quanto una mappa-racconto, porti ad una serie di opposizioni: visibile/non-visibile, lontano/vicino ecc.

La dialettica che, ad esempio, si viene a creare tra ciò che è visibile e ciò che non è visibile «può dare luogo, da un episodio all’altro, a differenti soluzioni e differenti percorsi, nel senso che possono variare, da episodio a episodio, le singole aree della mappa che vengono “scoperte”, sorvolate e “attivate”» (p. 117). Dunque il rapporto tra visibile e non visibile proposto dalla sigla tende ad orientare la lettura e l’interpretazione.

Per analizzare la dialettica tra lontano e vicino proposta dalla sigla, Boni e Re riprendono Umberto Eco quando, a proposito dei Promessi sposi manzoniani, parla di una discesa dall’alto geografico ad un basso topografico ed, in Game of Thrones, sostengono le due studiose, è ravvisabile anche un movimento dalla profondità alla lateralità: «quando passiamo dalla visione perpendicolare alla visione laterale di Approdo del Re o, ancora più marcatamente, quando passiamo dal plongée al contre-plongée – come nell’improvvisa rivelazione dell’albero-diga di Grande Inverno, che ci pare di poter osservare stando proprio ai suoi piedi. Tali slittamenti dall’alto geografico al basso topografico, fino a una prospettiva laterale (o dal basso), che ben traduce una posizione che da vicina tende a farsi interna al mondo finzionale, instaurano peraltro una stretta relazione con la gestione del sapere narrativo all’interno del racconto seriale, e dei romanzi in particolare. In effetti, la questione del “chi sa” viene efficacemente resa, attraverso la mappa dinamica, come un problema legato al “chi vede”, e si configura come tensione verso un’assenza di focalizzazione (il sapere onnisciente che corrisponde alla “bird’s-eye view”) che si realizza tuttavia grazie alla sintesi di tanti punti di vista “interni” (che corrispondono alle prospettive più ravvicinate), in un regime di focalizzazione interna variabile» (p. 119).

Nel romanzo i capitoli si distinguono in base allo sguardo del personaggio con cui ci vengono offerti gli eventi mentre nella serie televisiva il punto di vista scopico o spaziale, suggerito dalla sigla-mappa, ha la meglio su quello cognitivo. «Mappe e titoli di testa, in effetti, sono attraversati da un’identica tensione, quella tra leggere (la legenda nelle mappe, le menzioni verbali dei credits nei titoli di testa) e vedere (la rappresentazione grafica nella mappa, la componente grafica e visuale nei titoli). Ma nei titoli, com’è noto, il leggere e il vedere si posizionano su due diversi ordini di discorso, il primo legato alla dimensione fattuale della produzione (leggere i credits), il secondo legato alla dimensione finzionale del racconto (vedere le prime immagini diegetiche, oppure immagini non direttamente “prelevate” dalla diegesi ma con uno spiccato valore metadiegetico, di commento al mondo della storia). La situazione, nel caso della sequenza dei titoli di Game of Thrones, si complica ulteriormente, dando luogo a regimi ibridi che obbligano lo spettatore ad assumere posizionamenti ambivalenti o a muoversi con agilità tra diversi ruoli – da “lettore dei titoli di testa” a “lettore di finzione” e “spettatore di finzione”» (p. 120).

Boni e Re insistono sulla forza e sull’impatto della mappa-sigla variabile e dinamica della serie; «la potenza e la vitalità di questa genesi sembrano associati al prevalere, sulla funzione di rappresentare un mondo e fornire strumenti di orientamento, della funzione di installare un mondo, mostrando e mettendo in scena (letteralmente) un’attività di world-building (gli elementi architettonici che “crescono” e si animano) che presenta una fortissima componente seduttiva» (p. 123). Tale mappa, come detto, è una mappa evolutiva, ma «che, più che fornire strumenti di orientamento allo spettatore, reclama ulteriori strumenti di orientamento per essere ben compresa nel suo complesso funzionamento» (p. 124). Sulla sua funzione di orientamento sembra prevalere il suo ruolo di ausilio alla costruzione di mondi a cui necessariamente concorrono gli spettatori che si trovano, sul web,  non solo ad essere connessi al mondo presentato dalla serie televisiva, ma anche a connettersi ed interagire tra di loro; al world-building si aggiungerebbero dunque pratiche di community-building dal basso.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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