Val Susa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 4 https://www.carmillaonline.com/2022/10/20/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-4/ Thu, 20 Oct 2022 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73974 di Emilio Quadrelli

Dal quartiere operaio al ghetto

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti delle classi sociali subalterne, nel nostro Paese, abbiamo assistito a qualcosa che, pur con tutte le tare del caso, mostra non poche affinità con il dibattito politico e culturale sedimentatosi intorno alla “questione immigrazione”. Proprio a quel periodo storico risale il dibattito intorno alle “subculture metropolitane” come punk, ultras ecc. che ha tenuto banco per buona parte degli anni Ottanta e Novanta. Anche in quel caso, come verso la “questione immigrazione”, abbiamo assistito al [...]]]> di Emilio Quadrelli

Dal quartiere operaio al ghetto

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti delle classi sociali subalterne, nel nostro Paese, abbiamo assistito a qualcosa che, pur con tutte le tare del caso, mostra non poche affinità con il dibattito politico e culturale sedimentatosi intorno alla “questione immigrazione”. Proprio a quel periodo storico risale il dibattito intorno alle “subculture metropolitane” come punk, ultras ecc. che ha tenuto banco per buona parte degli anni Ottanta e Novanta. Anche in quel caso, come verso la “questione immigrazione”, abbiamo assistito al sedimentarsi di un discorso di “destra” e uno di “sinistra”. La “destra”, nei confronti di queste culture, mostrava un’avversione pressoché totale ascrivendole senza mezzi termini all’ambito della devianza se non addirittura della criminalità tout court. La “sinistra”, al contrario, pur relegandole ai piani infimi dei mondi culturali ne riconosceva non solo la legittimità ma le innalzava a espressioni compiute ed esaustive dei mondi subalterni. Riconoscendo, in sostanza, il loro essere innocuo, poiché culture decisamente impolitiche (punk e ultras ben difficilmente possono divenire “una dottrina per l’azione” politica), ne faceva l’orizzonte unico e possibile dei settori sociali proletari e subalterni. Da queste nessun assalto al cielo avrebbe potuto realisticamente prendere forma ma, tutto al più, la massificazione di queste pratiche e coevi “stili di vita” avrebbe messo in forma la proliferazione di “riserve indiane” entro le quali, dentro confini ben delimitati, potevano essere circoscritte tutte o gran parte delle tensioni politiche e sociali.

Sotto l’attento e vigile controllo del potere statuale non solo non dovevano essere stigmatizzati ma favoriti, incentivati e promossi quell’insieme di spazi geografici e sociali all’interno dei quali, i subalterni, potevano dare vita a forme di autoreclusione ancorché contrabbandati come “spazi liberati”. Spazi autoreferenziali, contraddistinti da una logica “separatista” e autoescludente che è stato il leit motiv in gran parte prevalente dell’esperienza di quell’aggregazione sociale e culturale maggiormente nota come pratica dei Centri sociali. Si tratta di qualcosa che non nasce per caso ma affonda le sue radici nella sconfitta operaia e proletaria consumatasi, dopo un ventennio di offensiva, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Un passaggio che interrompe bruscamente tutta la continuità della storia operaia e proletaria e, con essa, la possibilità concreta, da parte di queste, di portare l’assalto al cielo e farsi classe dominante. Sullo sfondo di ciò, ovviamente, non vi era alcuna subcultura metropolitana bensì una teoria politica, il marxismo, il cui tratto universale non ha certo bisogno di essere argomentato. Questa l’arma dei subalterni. La nascita prima e la legittimazione poi delle “subculture metropolitane” assolve a un’esigenza strategica da parte delle classi dominanti: trasformare le gerarchie sociali, che possono essere in qualunque momento ribaltate, in gerarchie culturali le quali, proprio perché frutto di universalismo quella borghese e di particolarismo e localismo quella dei subalterni, non possono diventare oggetto di alcuna negoziazione.

Perché una classe possa aspirare ad assumere una dimensione storica occorre che la sua filosofia della storia sia in grado di competere e superare, in primis sul piano teoretico, il punto più alto raggiunto dal nemico di classe. Occorre, cioè, che la sua praxis sia armata e diretta da una teoria politica in grado di leggere e anticipare i processi storici. Nessuna classe può aspirare a farsi classe dominante senza una scienza teorico/politica in grado di superare i limiti storici (politici e concettuali) delle vecchie classi dominanti. Questo era ed è il marxismo. Ma se questa scienza di classe viene rimossa dagli orizzonti delle classi sociali subalterne e sostituita con innocue “culture metropolitane” molte cose ne conseguono. Se il proletariato è teoricamente confinato entro i perimetri delle “subculture metropolitane” ogni rapporto e relazione conflittuale tra l’esercizio del potere politico e i subalterni viene a decadere. Difficile pensare che una classe forgiatasi su creste variopinte, colla da sniffare, concerti più o meno assordanti o, per altro verso, prigioniera di rituali e simbolismi calcistici possa ipotizzare di spezzare la macchina statuale del potere imperialista e sostituirla con una macchina politica e militare poggiante sulla dittatura rivoluzionaria degli operai e dei subalterni. Mentre, nel marxismo, questi “immaginari” e questi problemi occupavano la centralità del dibattito teorico, politico e culturale all’interno dei mondi delle “subculture metropolitane” tutto ciò, nella migliore delle ipotesi, è semplice fantascienza. Il corollario di tutto ciò è persino ovvio: ai padroni l’esercizio del potere politico, economico e militare e tutta la Cultura che a tale scopo necessita, ai subalterni il balocco degli “stili di vita” e poco più. Le gerarchie culturali non fanno altro che rendere eterni i rapporti sociali esistenti poiché, attraverso le “subculture metropolitane”, il proletariato non sarà mai in grado di impossessarsi degli strumenti “culturali” necessari agli esercizi del potere. Vi potranno essere rivolte, riot, come in effetti accade ma non rivoluzioni. In questo modo alla fatidica domanda: è una rivolta? Nessuno avrà più l’incubo di sentirsi rispondere: no sire, è una rivoluzione!

A conti fatti le retoriche multiculturali e quelle inerenti alle “subculture metropolitane” assolvono a un unico obiettivo: relegare nell’ambito dell’impolitico proletari e subalterni. A quel punto la loro esistenza non può che assolutizzarsi all’interno della dimensione propria del privato ma, se quella diventa l’alfa e l’omega dei subalterni, nei loro confronti e della loro riottosità vanno agite non operazioni militari bensì poliziesche. Molti conti, allora, cominciano a tornare. L’apparente ossimoro che la dicitura operazione di polizia in sostituzione di operazione militare assume contorni ben più decifrabili. Detto ciò occorre svelare il senso “concreto” e materiale che è all’origine di questo passaggio.

Tutto questo, infatti, è ben distante dall’appartenere al “cielo della geopolitica” come se, in fondo, le ricadute della messa in forma della guerra fossero qualcosa che poco o nulla hanno a che vedere con quanto accade all’interno della sfera economica e sociale. In realtà il nesso tra forma guerra e formazione economica e sociale è qualcosa di inscindibile poiché, il “politico”, del quale la forma guerra ne rappresenta la sintesi più cristallina, determina ogni ambito e aspetto della vita economica e sociale. Facciamo un passo indietro. Torniamo a Marx e alla sua nota asserzione: A parità di diritti, vince la forza. Marx si riferisce al conflitto tra proletariato e borghesia il quale, sotto il profilo giuridico/formale, è posto su un piano di assoluta eguaglianza governata dalle leggi della domanda e dell’offerta. Certo, in tale asserzione, vi è una sottile ironia poiché, l’eguaglianza tra proletariato e borghesia, è puramente formale e ben poco sostanziale. Gli apparati che la borghesia è in grado di mobilitare contro il proletariato riducono a un involucro pressoché vuoto la tanto decantata eguaglianza giuridico/formale borghese. Tutto ciò è indubbio ma, ed è quanto ci preme evidenziare, formalmente la borghesia riconosce il proletariato come classe legittima. Il proletariato può essere deriso, ingannato e turlupinato attraverso la farsa giuridica ma non è svalutato. C’è un qualche rapporto tra la relazione in cui si dà il rapporto tra proletariato e borghesia e l’ordine discorsivo in cui è posta, in quel contesto, la forma guerra? Evidentemente sì. La cornice teorico/politica in cui la guerra è posta, nel momento in cui Marx scrive Il capitale, è esattamente quella che presuppone l’esistenza di entità statuali legittime che si affrontano militarmente come grandezze assolutamente commensurabili.

La guerra, e la sua messa in forma, presuppone un antagonista il quale, è tale, in virtù dell’essere eguale a noi. La guerra, allora, è possibile solo su un piano di completa e totale reciprocità. In tale ottica, allora, il nemico è assolutamente uccidibile ma mai svalutabile. Tra lui e noi non esiste alcun scarto antropologico. La sua esistenza può essere, attraverso l’esercizio della guerra, posta seriamente in discussione ma mai essere oggetto di delegittimazione. Tutto ciò, ovviamente, per quanto concerne la forma guerra all’interno del cosiddetto mondo civile. Le guerre contro popoli e realtà territoriali estranee alla forma statuale europea non soggiacciono a tali retoriche. Le guerre coloniali, proprio in virtù del rapporto asimmetrico tra “civiltà statuale”, nel senso assunta da questa nel mondo europeo, e “mondi pre – statuali” presuppongono una forma guerra ascritta a tutt’altro tipo di cornice. Ma è solo la forma guerra a cambiare oppure, più realisticamente, il modo in cui si combatte non è altro che lo specchio di un modello di governo della popolazione e della forza lavoro? Esattamente qua sembra porsi il nocciolo della questione.

Siamo partiti dal Val Susa per evidenziare come, dentro la fase imperialista contemporanea, gran parte degli ordini discorsivi del passato siano stati bellamente accantonati. Abbiamo iniziato un viaggio dentro il mondo attuale evitando scientemente di cadere nella trappola propria delle retoriche repressive. Il capitalismo non è interessato, se non come extrema ratio, alla repressione bensì alla produzione. Ciò a cui mira il capitalismo è una forza lavoro completamente depotenziata come classe e posta nell’impossibilità di resistere. Perché ciò sia possibile non bastano le baionette le quali, spesso e volentieri, finiscono con l’ottenere dei risultati opposti a quelli desiderati, bensì un modello politico che emargini completamente il proletariato dalla scena pubblica. Ciò è esattamente quanto accaduto, attraverso un processo a cascata, con la fine del cosiddetto bipolarismo e l’imporsi della fase imperialista globale. Si è trattato di un passaggio che ha modificato non semplicemente gli assetti geopolitici e geostrategici, lasciando pressoché immutata la base strutturale su cui tali assetti poggiavano, ma ha ridefinito complessivamente il rapporto tra le classi dando vita a una formazione economica e sociale radicalmente diversa da quella conosciuta a partire dall’immediato secondo dopo guerra. L’aspetto centrale di tale passaggio è stata la messa in mora dell’esistenza del proletariato in quanto classe politicamente legittima, la sua marginalizzazione e conseguentemente la delegittimazione di ogni sua forma di rappresentanza politica.

Ma qual è il senso di questa trasformazione? A cosa rimanda un passaggio così radicale? Abbiamo visto come la forma guerra non sia altro che la sintesi di una determinata forma politica la quale, a sua volta, non fa altro che incarnare una particolare formazione economica e sociale. Non dobbiamo infatti considerare il modo di produzione capitalista nella sua genericità ma osservato nella sua dimensione “concreta”. Certo il plusvalore era e rimane l’arcano del modo di produzione capitalista ma, il modo in cui questo viene estratto, rimanda esattamente a quella specificità propria di una determinata formazione economica e sociale.

Nel corso del suo secolare dominio, il modo di produzione capitalista, ha assunto tratti e forme diverse. Dall’inferno di Manchester al Welfare State il modo in cui il plusvalore è stato estratto dal lavoro salariato non ha certo mostrato lo stesso volto. Volta per volta, questo volto, è stato determinato sia dai rapporti di forza tra le classi, sia dall’organizzazione internazionale della divisione del lavoro, sia dagli aspetti “concreti” e “particolari” assunti da una determinata fase del modo di produzione capitalista. Non esiste il “cielo”, ovvero l’astrazione del modo di produzione capitalista, bensì solo e unicamente la “terra” ossia la sua determinazione storica e concreta. Se, ed è sicuramente un fatto, la forma salario tende a universalizzarsi il modo in cui questa si articola concretamente nelle diverse aree economiche assume tratti che sono sempre il frutto di una particolarità politica. Le fasi imperialiste che ci hanno preceduti poggiavano per intero su una rigida divisione che presupponeva una divisione del mondo all’interno di confini certi e oggettivamente non valicabili.

Oggi, contrariamente a quanto accaduto per un’intera arcata storica, la condizione di marginale diventa tutta interna al lavoro salariato. Se, nel passato, la condizione di marginale era tipica di coloro i quali erano estranei al ciclo produttivo oggi l’essere marginali coincide esattamente con quella del lavoratore salariato. Ciò che sembra essere saltata è quella condizione di parità di diritti giuridico/formali che aveva tenuto a battesimo la nascita del capitalismo il quale, nel momento in cui si trova nella necessità di sciogliere i vincoli feudali e i legami comunitari ai quali questi rimandano, brandisce come un’arma la retorica dell’individualismo giuridico/formale. A venir meno è la lunga stagione della legittimità della rappresentanza politica delle masse salariate e subalterne. Una rappresentanza che, almeno sino al 1989, è stata la posta in palio per eccellenza delle stesse forze politiche borghesi mentre oggi, tra Stato e popolazione, sembra essersi prodotta una scissione che rompe per intero quel legame, pur segnato da una pesante conflittualità, che lo aveva caratterizzato per un intero ciclo storico. Se, in passato, per le classi dominanti il consenso dei subalterni diventava la posta in palio per eccellenza oggi assistiamo a qualcosa di esattamente rovesciato: lo Stato, giorno dopo giorno, estromette dal suo orizzonte la presenza delle masse. Tanto per un’intera arcata storica lo Stato si era “socializzato” quanto, nel presente, torna ad assumere i tratti puri dell’apparato politico emancipandosi da ogni funzione sociale. È all’interno di tale scenario che, allora, la condizione del proletariato immigrato funziona come cartina tornasole del mondo contemporaneo e diventa il paradigma intorno al quale, in tendenza, si rimodella per intero la condizione proletaria. La figura e la condizione del migrante, infatti, più che rimandare a una condizione particolare e in fondo transitoria dei nostri mondi ha assunto una valenza generale poiché si è estesa, e continua a estendersi, a tutti coloro che precipitano nella condizione poco appetibile della “massa senza volto”.

(fine quarta parte – continua)

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Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel presente, parlare di guerra significa, per prima cosa,cogliere il nesso tra guerra esterna e guerra interna. Questa la principale differenza rispetto al passato quando la prima cosa di cui si preoccupavano gli stati era la più completa pacificazione interna e la ricerca di una sostanziale adesione della popolazione alle logiche di guerra. Oggi, al contrario, guerra interna e guerra esterna sono continuamente intrecciate e gli stati tendono a combattere senza alcuna preoccupazione su entrambi i fronti. In passato, non per caso,si è sempre parlato di “nazione in guerra” mentre, nel presente è lo stato e non la nazione a essere in guerra. Ciò implica, di fatto, una radicale frattura tra stato e nazione, dove con nazione si intende popolazione, e il delinearsi di un fronte, per quanto di gradi e intensità diversi, che vede guerra eterna e guerra interna come un continuum. Partiamo, pertanto, da quest’ultima poiché è proprio lì che è possibile cogliere come il paradigma della guerra si sia modificato. A differenza del passato il “fronte interno” riveste un ruolo non meno importante di quello esterno per cui una disamina su questo appare estremamente necessaria ma non dilunghiamoci ed entriamo subito nel merito delle cose.

La notizia è di qualche tempo addietro ed passata pressoché inosservata. Una parte dei militari impegnati tra le montagne dell’Afghanistan è stata spostata in Val Susa con compiti pressoché analoghi: la pacificazione del territorio. Un’operazione intorno alla quale è opportuno ragionare poiché, attraverso un dato empirico, è possibile cogliere per intero un paradigma politico. Tutto ciò, ovviamente, non è frutto di una improvvisazione né, tanto meno, l’effetto di una decisione estemporanea priva di razionalità e progettualità bensì il naturale e ovvio approdo di una linea di condotta che affonda le sue radici dentro l’insieme delle trasformazioni che hanno caratterizzato il “politico” nella fase imperialista globale e dei modi in cui, la tendenza alla guerra, o almeno un suo aspetto, prende concretamente forma nel mondo contemporaneo. I tratti di tale tendenza appare sensato investigare poiché, la loro decifrazione, sono in grado di raccontare con non poca esattezza la cornice entro la quale siamo immessi.

Notoriamente, a partire dal post ’89, il nemico in quanto entità politica legittima, almeno nell’utopia coltivata nei mondi occidentali, è scomparso. Da quel momento in poi contendenti di pari grado e dignità hanno cessato di esistere. Repentinamente abbiamo assistito alla messa in circolo di un ordine discorsivo il cui cuore strategico era esattamente rappresentato dalla svalutazione del nemico e, pertanto, della sua dimensione politica. Un passaggio intorno al quale è bene interrogarsi poiché è proprio l’analisi di tale trasformazione a consentirci di entrare per intero negli arcani del presente. Parlare del modo in cui la guerra, o almeno un suo aspetto non secondario, è messa in forma ha ben poco di specialistico così come, per altro verso, non denota una particolare propensione verso le cose militari ma, al contrario, significa entrare direttamente nelle prosaiche cose di tutti i giorni poiché la guerra, in quanto sintesi massima del “politico”, non può che informare e governare per intero tutti gli ambiti di una formazione economica e sociale. Il modo in cui la guerra è pensata, organizzata, pianificata e condotta indica esattamente il tipo di società entro cui siamo immessi.

Della sequela di guerre che hanno preso l’avvio dal 1991 in poi si è perso persino il conto. Queste, indipendentemente dalla loro particolarità e specificità, erano unite da un comune elemento: la dimensione impolitica dell’avversario di turno. Non per caso la stessa parola guerra, dal 1991 in poi, non è più stata pronunciata se non accompagnata da un qualche aggettivo. Nasce proprio in quel contesto la dicitura di guerra umanitaria mentre il termine guerra tout court comincia a essere bandito dal lessico comune. Perché? Per quale motivo, a un certo punto, non è più possibile parlare di guerra? Per quale motivo, il termine guerra senza aggettivi, crea non pochi imbarazzi? Perché le varie coalizioni statuali che, volta per volta, hanno dato il la a una qualche operazione bellica si sono sentite in dovere, di fatto, di scongiurare la guerra proprio mentre davano fuoco alle polveri? A un primo sguardo, tutto ciò, potrebbe sembrare la semplice reiterazione di un modus operandi che, nelle vicende storiche, è stato più volte utilizzato. In ciò i nazisti sono stati autentici maestri.

L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia sono state operazioni di guerra diversamente nominate. In quei contesti, però, a delinearsi non era un modello teorico/concettuale ma la più prosaica esigenza di occupare nazioni e territori facendo in modo che, agli occhi delle compiacenti e impaurite democrazie imperialiste europee, la legalità internazionale non risultasse sovvertita più di tanto. Questione contingente dettata dal più cinico dei tatticismi senza alcun altro tipo di rimando. Uno scenario, pertanto, del tutto diverso da quello inaugurato a partire dalla Prima guerra del Golfo.
Nessun tatticismo, nessun problema di ordine legale è stato posto alla base del “nuovo corso” in cui la forma guerra ha iniziato a essere ascritta bensì un modello teorico concettuale ex novo del quale è opportuno coglierne il senso.

Per quanto strano possa apparire, e con buona pace dei pacifisti, se c’è qualcosa che non è mai uguale a se stessa è la guerra. La guerra non è, come gli stolti solitamente immaginano, pensano e proclamano, l’elemento irrazionale che sovverte l’ordinato e razionale mondo della pace bensì il massimo della razionalità, storicamente determinata, che una forma politica “concreta” è in grado di mettere in campo. Guerra e pace sono, e non potrebbe essere altrimenti, comprese nella medesima forma politica la quale non può darsi, pena la sua estinzione, escludendo uno dei suoi poli. In altre parole ogni “forma guerra” non può che essere già compresa nella sua “forma pace”. La guerra, quindi, non presenta alcuna invarianza come se, questo, fosse un mondo astorico e avulso dalla formazione economica e sociale perché di questa, invece, ne è la massima espressione. Non esiste la guerra ma le guerre le quali sono sempre il frutto di formazioni politiche storicamente determinate. A decidere della e sulla guerra sono classi storiche concrete, espressioni di determinati rapporti di forza e di potere e, soprattutto, di una determinata base strutturale.

La Prima guerra mondiale è stata qualcosa di assolutamente incommensurabile rispetto alla guerra franco/prussiana così come, il Secondo conflitto mondiale, è stato ben diverso dal Primo. E questo, per essere chiari, non tanto per le obiettive trasformazioni che scienza e tecnica hanno apportato al modo di combattere ma per la differenza dei sistemi politici ed economici che facevano da sfondo al conflitto. Nessun “dominio della tecnica” è in grado di sovvertire le ragioni politiche della guerra così come, l’irrompere prepotente della “battaglia dei materiali”, non è altro che il modo in cui, un determinato sviluppo delle forze produttive, determina “concretamente” la forma guerra. Non vi è mai stata una guerra bella, onorevole e cavalleresca bensì una guerra che poggiava per intero sulle possibilità che una base strutturale le consentiva di porre in campo. Ogni fase storica ha il suo modello bellico e questo va compreso e analizzato.

Non è possibile, pertanto, comprendere la forma guerra contemporanea se non si affronta la questione della fase imperialista globale che ne rappresenta il cuore politico. Difficile, infatti, spiegare la presenza dei militari in val Susa se non si comprende il modo in cui, la fase imperialista globale, ha ridefinito l’idea stessa di confine, di Stato e il rapporto di questi con le popolazioni interne a questi perimetri. Allo stesso modo, senza comprendere che cosa è mutato nel rapporto tra stato e popolazione nelle nostre società, diventa di difficile comprensione la presenza ormai abituale dei militari in servizio di ordine pubblico nelle nostre città. Non si possono decifrare i volti di Marte se non si comprende di quali trasformazioni questi ne sono gli effetti. Ricorrere alla facile, e buona per tutte le stagioni, categoria della repressione è un modo per spiegare tutto e non spiegare nulla. Così come la guerra è sempre l’effetto di una condizione storicamente determinata, la repressione è sempre il frutto di un modello politico “concreto” e il risultato di rapporti di forza “concreti”. Per quanto possa essere in qualche modo vero che: “I Governi cambiano, le polizie restano”, i modelli polizieschi, al pari della guerra, non sono astorici bensì il frutto maturo di una determinata formazione economica e sociale.

La compenetrazione di polizia e militare, perché di ciò stiamo parlando, non è un semplice fatto repressivo ma un passaggio strategico nella messa in forma della guerra. Ciò ha ricadute a trecentosessanta gradi su tutta la formazione economica e sociale. Capirne il senso è qualcosa di più di un vezzo intellettuale. Decifrarne il portato e il significato significa, almeno sul piano della teoria e dell’analisi politica, fare già un passo dentro la guerra, la sua forma, le sue dinamiche. Sicuramente non è tutto, ma certamente è qualcosa.

Quanto accade in Val Susa, e in forma apparentemente più mesta si è manifestato poco tempo addietro attraverso l’impiego dei militari in servizi di ordine pubblico nelle metropoli, rappresenta esattamente il rimpatrio di un modello bellico la cui genealogia è possibile rintracciare nel momento stesso in cui, il crollo del “Blocco sovietico” e il dispiegarsi della fase imperialista globale, hanno inaugurato non solo un nuovo modo di combattere ma, ed è questo il punto che proveremo ad argomentare, hanno declinato la forma guerra all’interno di un paradigma nuovo e distante da quello ampiamente conosciuto in quelle che, ormai, possiamo definire come fasi classiche dell’imperialismo. Fasi sicuramente non del tutto identiche e omogenee tra loro ma assai più simili e affini rispetto alle rotture prodotte dalla fase imperialista globale. Il senso di queste rotture, delle quali la forma guerra ne incarna l’aspetto più puro e cristallino, segnano e modellano per intero la formazione economica e sociale contemporanea. Ciò è quanto è necessario comprendere.

Poche righe sopra abbiamo parlato di compenetrazione di poliziesco e militare come aspetto centrale assunto nel mondo contemporaneo dalla forma guerra. Non ci stiamo inventando nulla poiché, proprio una delle diciture in cui le operazioni belliche odierne sono state ascritte, sono denominate operazioni di polizia internazionale. Se guerra umanitaria è termine non solo ambiguo ma indeterminato e indistinto operazione di polizia internazionale ha sicuramente il merito di essere chiara ed esplicita poiché consente di comprendere appieno il modo in cui, dentro la fase imperialista globale, il conflitto è stato, prima agito, poi concettualizzato.

Classicamente, polizia ed esercito, rimandano a due mondi ben distinti tra loro. Non è certo un caso che, nelle classiche guerre tra entità statuali, quando un Paese veniva occupato le forze di polizia autoctone rimanevano al loro posto. La polizia continuava a occuparsi di crimini comuni i quali, grosso modo, rimangono identici sotto tutte le latitudini. Il nemico, proprio in quanto nemico pubblico, poteva e doveva essere combattuto solo da forze militari regolari. Un qualche problema, sotto tale profilo, è stato rappresentato dalla figura del partigiano rispetto alla quale, il riconoscimento di nemico pubblico, è stato oggetto di non poche resistenze. Aspetto importante, sul quale torneremo, ma che per il momento poniamo tra parentesi.

Ciò che vogliamo evidenziare è il fatto che, nelle guerre che ci hanno preceduto, la compenetrazione di poliziesco e militare non è mai stata presa in considerazione. La polizia, in sostanza, non era deputata ad altro che alla messa in sicurezza di colui o coloro i quali, proprio in virtù dei loro comportamenti, non potevano andare oltre, rispetto alla società, alla figura del nemico privato. Un nemico che, per definizione, non è assolutamente e legittimamente fisicamente eliminabile. Ciò è facilmente dimostrabile. Un soldato nemico placidamente addormentato sotto una pianta può essere tranquillamente fatto fuori, da chi porta una divisa di altro colore, senza che la cosa susciti o possa suscitare una qualche forma di riprovazione. Il fatto stesso di indossare una divisa nemica lo espone a un pericolo mortale. Per meritarsi la morte, il soldato, non deve compiere una qualche azione riprovevole. La sua stessa esistenza, sotto quelle vesti, gli procura la concreta possibilità di essere ucciso. Allo stesso modo il soldato che cogliendo di sorpresa uno o più militi nemici arricchisce di un certo numero di tacche il suo fucile mitragliatore oltre a non essere passibile di incriminazione può aspirare a una qualche menzione al valore. Del tutto diverso si mostra lo scenario quando si entra alle prese con un nemico privato.

Le “regole di ingaggio”, nel contesto, cambiano completamente. Legalmente nessun poliziotto è autorizzato a eliminare un bandito. Solo nel caso in cui, il bandito, metta a repentaglio la vita del poliziotto o di qualche altro la sua uccisione diventa possibile altrimenti, poiché la sua esistenza rimane rigidamente ascritta nell’ambito del privato, nessuno è autorizzato a estirparne la vita. Del resto la stessa linea di condotta del nemico privato si modella esattamente dentro questa cornice. Nessun fuorilegge, infatti, attacca apertamente le forze di polizia ma, per lo più, tende a starne alla larga. Da ciò ne consegue che esercito e polizia rimandano a mondi e procedure assai diversi tra loro tanto che trasformare la guerra in operazione di polizia internazionale appare, sotto il profilo concettuale, un’operazione più che ardita impossibile a meno che non intervenga qualcosa che sovverta per intero la cornice entro cui la guerra è pensata e agita. La messa in forma della guerra contemporanea ha segnato esattamente questo passaggio. Ciò è quanto è necessario investigare.

(fine prima parte – continua)

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Cronaca dettagliata di un Movimento pluridecennale https://www.carmillaonline.com/2018/08/16/cronaca-dettagliata-di-un-movimento-pluridecennale/ Wed, 15 Aug 2018 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47751 di Sandro Moiso

Mario Cavargna, NO TAV Cronaca di una battaglia ambientale lunga oltre 25 anni , Volume I 1990-2008, edizioni INTRA MOENIA 2016, pp. 320, € 11,50 e Volume II 2009-2018, INTRA MOENIA 2018, pp. 416, € 12,50

Torna ad un genere antico Mario Cavargna, la cronaca, per raccontarci con tenacia e amore del dettaglio la storia del Movimento No Tav valsusino, dalle sue origini fino ad oggi. L’opera, costituita da due volumi usciti a due anni di distanza l’uno dall’altro, narra con estrema precisione e attenzione ai particolari sia lo [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Cavargna, NO TAV Cronaca di una battaglia ambientale lunga oltre 25 anni , Volume I 1990-2008, edizioni INTRA MOENIA 2016, pp. 320, € 11,50 e Volume II 2009-2018, INTRA MOENIA 2018, pp. 416, € 12,50

Torna ad un genere antico Mario Cavargna, la cronaca, per raccontarci con tenacia e amore del dettaglio la storia del Movimento No Tav valsusino, dalle sue origini fino ad oggi.
L’opera, costituita da due volumi usciti a due anni di distanza l’uno dall’altro, narra con estrema precisione e attenzione ai particolari sia lo sviluppo e lo svolgimento della lotte contro il mostro ad Alta Voracità che il disordine programmatico, le menzogne mediatiche e il decisionismo politico-finanziario che hanno accompagnato e spesso blindato le iniziative, le ipotesi, i progetti di coloro che invece intendevano realizzare l’opera.

Per fare ciò l’autore, che è master di valutazione di impatto ambientale al Politecnico di Torino e di Losanna e presidente della Pro Natura del Piemonte oltre che militante No Tav, ha fatto riferimento a circa 13.000 articoli pubblicati nel corso degli anni dai giornali locali “LaValsusa” e “Luna Nuova” e, a livello nazionale, dal quotidiano “La Stampa” perché, come afferma l’autore

“utilizzare sistematicamente altre fonti avrebbe reso troppo lungo il racconto. Ma la linea editoriale tenuta da «La Stampa» e «La Repubblica», che pubblicano entrambe una edizione dedicata a Torino e alla sua provincia, è identica e rappresentativa di quella tenuta da tutti gli altri grandi quotidiani e dall’informazione televisiva. Per spiegare i motivi di questa unanimità e delle differenze tra la verità raccontata dai media e quella rilevata da chi abita l’area interessata, bisogna considerare l’intreccio finanziario che si svolge nelle zone profonde di tutti i rami della società e che si alimenta anche degli enormi investimenti dedicati alle grani opere”.1

Allo stesso tempo, però, l’opera monumentale di Cavarga si nutre di testimonianze e documenti espressi da coloro che a tale intreccio finanziario, devastante per gli interessi delle comunità locali e per l’ambiente più in generale, si oppongono ormai da più di un quarto di secolo.
Così mentre da un lato risulterà visibile, in ogni dettaglio, il balletto di menzogne ed interessi innominabili che da sempre, e ancor oggi, accompagnano l’idea della realizzazione del mostro, dall’altra risulteranno decise ed irreprensibili, sia sul piano sociale che su quello tecnico-scientifico, le ragioni di un movimento che a tali buffonesche, onnivaghe e costosissime proposte si è sempre, lasciatemelo dire almeno per una volta, eroicamente opposto.

Un movimento cresciuto in forza, numero dei partecipanti e determinazione nel corso di tutti gli anni raccontati dal cronista valligiano, mentre sempre di più sono appassite le ragioni opposte. Sia che queste fossero difese da presunti imprenditori, rappresentanti governativi e istituzionali di ogni genere e colore, sindacalisti andati in pensione con indennitài di valore superiore a quello dello “stipendio” del Presidente degli Stati Uniti, voltagabbana, pennivendoli e rappresentanti delle Coop e delle mafie “vicine” e lontane.

Un’opera che ogni militante interessato a ripercorrere organicamente e con precisione la storia della Valle e del movimento a cui hanno saputo dare vita le comunità che la abitano e la caratterizzano dovrebbe avere in casa, anche soltanto per consultazione, accompagnata, oltre tutto, da un vasto repertorio iconografico ricco di significati quanto l’ordinatissimo testo.
Conclusa, nel secondo volume, da una Appendice che elenca puntigliosamente le 150 ragioni contro la Torino-Lione che è anche stata edita e distribuita sotto forma di opuscolo a sé stante, giunto ormai alla sua terza edizione.2


  1. Mario Cavargna, NO TAV Cronaca di una battaglia, Premessa pag.5  

  2. Una grande opera inutile. Nuove 150 ragioni contro la Torino-Lione. Brevi considerazioni tecniche sul progetto, Aprile 2018  

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Il dovere di non collaborare https://www.carmillaonline.com/2017/05/06/dovere-non-collaborare/ Fri, 05 May 2017 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37782 di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in [...]]]> di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in particolare, Bianca Guidetti Serra che era mia madre. Mi riferisco soprattutto alla famiglia Gobetti con cui sono cresciuto e che considero la mia seconda famiglia “storica”. Bobbio, Antonicelli, Galante Garrone come anche Giorgio Agosti, Massimo Mila e tanti altri sono state presenze costanti nell’ambiente partigiano in cui mi sono formato, persone che, senza neanche accorgermene, ho ammirato e amato perché erano un tutt’uno con la mia famiglia, di fatto una famiglia “estesa”.

Da loro ho saputo e capito precocemente cos’erano stati il fascismo e la Resistenza, da loro ho assorbito anche indirettamente idee, principi, ragionamenti, comportamenti. Quanto io sia stato capace di interpretarli non so dirlo, ma so che un libro come questo, pur nella sua ardita impostazione, ne celebra in qualche misura pensiero e azione. E ci fa sentire la loro mancanza come figure-guida da prendere a esempio e riferimento nella confusione dominante dell’oggi, sempre più difficile da interpretare e da vivere con coerenza.

Dico ardita impostazione per l’intento di stabilire, a partire dal solido retroterra teorico di Piero Gobetti e di Bobbio, un collegamento omogeneo tra partigiani combattenti, partigiani-intellettuali e importanti teorici della nonviolenza come Capitini, Dolci, don Milani, Caffi, Guido Calogero. Se un filo diretto ideale appare innegabile sul tema dell’ antifascismo e del generico anti-autoritarismo riesce tuttavia difficile pensare uniti nello stesso afflato per esempio un Paolo Gobetti e un Pasolini, che pure furono contemporanei. Questo paradosso, poiché è tale, ve lo assicuro, suggerirebbe piuttosto due piani separati magari parzialmente sovrapposti su cui distribuire i prescelti invece che su una linea di continuità che Polito, da antifascista-intellettuale-nonviolento, sembra indicare sin dal sottotitolo

Per il profano il primo punto di distinzione non può essere che la valutazione sulle scelte: combattere o non collaborare. Ebbero o avrebbero potuto avere lo stesso peso nello stesso contesto storico in funzione della vittoria? Certamente il combattere e il non collaborare furono complementari ma senza la scelta della lotta armata l’esito sarebbe stato lo stesso? Persino Capitini che scelse di non combattere per dissenso sul metodo, sembra dire di no ammettendo a posteriori “l’idea assolutamente immatura” e dichiarandosi sconfitto non ovviamente sul piano morale, ma sul piano pratico, per non aver saputo costruire una forza di gruppi nonviolenti.

Un secondo elemento cruciale, inevitabile per una postuma discussione sulla consistenza delle scelte è la politica, nella sua magmatica complessità, che purtuttavia si assunse il compito di organizzare e dirigere la lotta armata. Gli storici sanno quanto travagliato fu il processo che portò all’unificazione della condotta della guerra di Liberazione nel Corpo Volontari della Libertà e alla formazione del Cln. Quale contributo diede o avrebbe potuto dare a tale processo l’idealismo nonviolento?
Come conciliare due piani teorici di pari dignità quando sugli enunciati irrompono la politica e “il male” che, nelle sue versioni religiosa e laica, esiste e opera nel mondo, tra gli umani? Un male che si chiama Potere con le pulsioni e le articolazioni che esso sa creare.

Non è certo mio compito né è mia capacità sviscerare la quantità di argomenti e la ricchezza di spunti di dibattito che Polito, tramite i suoi protagonisti, solleva. Mi sento di dire che le motivazioni delle due scuole, dei due tavoli teorici sono talvolta sovrapponibili: il “Fare ugualmente il possibile” di Capitini è simile al “Anche le piccole cose servono” di Bianca Guidetti Serra come anche il peso da entrambi attribuiti alla prevalenza dei “principi da non perdere” (quante volte mi sono sentito dire “E’ una questione di principio”! anche su cose che reputavo “piccole”. Io sbuffavo, poi si rideva), cosa che valeva più che mai per gli azionisti, ma l’impressione è che la differenza stia nella pratica e negli obiettivi. Una pratica che per i nonviolenti trae prevalentemente ispirazione dal sentire religioso e si propone di “formare l’uomo” in funzione democratica e anti-autoritaria mentre per i partigiani si basa sul realismo, sul contingente, anche sulla ribellione morale, ma in fin dei conti sullo scopo di battere il fascismo per creare una nazione diversa, per un progetto collettivo. Si sente la mancanza tra i nonviolenti di una significativa analisi della società, delle classi, degli interessi di classe.

Non che i ponti tra le due anime non ci siano: Guido Calogero è il “filosofo del dialogo” che sostiene “la volontà di difendere i diritti quando siano minacciati” e secondo il quale “la nonviolenza non può mai erigersi ad assoluta regola di condotta”; anche per Andrea Caffi la violenza delle rivoluzioni liberatrici ha una funzione positiva perché “esse sono il risultato della convergenza fra le aspirazioni maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società” salvo poi mettere in guardia dalla convergenza della “violenza rivoluzionaria” sul binario della “violenza reazionaria”; e Lorenzo Milani pur conducendo una critica serrata della guerra sostiene che l’unica “guerra giusta” è stata la guerra partigiana, ma intanto con la sua critica del sistema politico “vecchio e anchilosato” contribuisce (suo malgrado?) ad alimentare la ribellione studentesca degli anni 1968-69.

Non è dato conoscere il pensiero di un Paolo Gobetti o di un Giorgio Agosti sulle scelte o sul contributo dei nonviolenti nei momenti decisivi, ma possiamo fare riferimento alle parole di Ada Gobetti che pure si offre al dibattito con Capitini fin dal 1947, e per la quale la parola “pace” deve probabilmente venire interpretata nell’accezione delle posizioni comuniste in contrapposizione alla politica atlantica dei suoi anni, che non può che concludere che “non sempre alla violenza si può rispondere con la nonviolenza”.

Polito mette poi sul piatto della discussione la morale, l’umanità dei partigiani combattenti, la loro fondamentale riluttanza alla violenza gratuita: tutti quelli rivisitati hanno lasciato in qualche forma la testimonianza della loro diversità morale rispetto alla controparte senza però abdicare alla dura necessità di uccidere. E senza cedere d’altra parte alla seduzione delle armi anche per le generazioni future: il Giolitti (Antonio), comandante partigiano, nel febbraio 1945 si preoccupava già della prossima generazione e suggeriva di “rifare l’educazione dei giovani… a partire dai bambini tenendoli al riparo dai giocattoli e dalle immagini di guerra”. Non fu dunque un caso che da piccolo mi siano state sempre negate armi-giocattolo.

Anche Bobbio interviene sul tema violenza/nonviolenza e illustra nitidamente i limiti della nonviolenza che “rischia di rendere un servizio ai violenti…Il paradosso della nonviolenza è che incoraggia la violenza dei violenti…il rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente”.

E nella dialettica delle argomentazioni si recupera l’importanza della discussione sull’apatia, sull’indifferenza, questioni che oggi più che mai sono sotto gli occhi di tutti coloro che fanno qualche tipo di attività politica o sociale. L’apatia dei tanti prima e dopo l’8 settembre a cui fece in qualche misura da contrasto la non collaborazione di altrettanti. Fu già Piero Gobetti a parlarne da quel piccolo punto di osservazione che era la redazione del suo giornale: “Non può essere morale chi è indifferente…L’apatia è negazione di umanità, abbassamento di se stessi, assenza di idealità”. L’apatia è il nemico del prima e del dopo perché si coniuga con la desistenza della memoria, intesa come “oblio dei valori, della coscienza, della ragione”, rimarcata da Calamandrei, e da Ada Gobetti che la associa alle facili abitudini, agli interessi di parte, ai pregiudizi.

Il passo più ardito in tutto questo contesto è la collocazione della figura di Pasolini. Polito lo definisce esponente di una resistenza intellettuale e gli attribuisce di fatto uguale dignità agli altri protagonisti del libro. Impresa ardua a mio avviso perché si incaglia nelle tante contraddizioni del personaggio: “antropologicamente comunista “ o “reazionario”, “critico inesorabile del tecno-fascismo” o solo “anti-autoritario” o “incollocabile” o “rappresentante ostinato della singolarità” cioè forse solo anticonformista. Io, che non l’ho mai studiato a fondo, lo ricordo come un populista ante litteram nel suo schierarsi con i poliziotti “figli del popolo” e contro il popolo di studenti e operai bastonati dai “figli del popolo” nei primi anni della rivolta anti-sistema; lo ricordo come un intellettuale confuso che lancia strali in ogni direzione in anni in cui l’anticonformismo gli regalava lo spazio per farlo.

L’intervista riportata da Polito ne è involontariamente evidenza. Sfido molti anche con più lauree a cogliervi un chiaro senso. Difficile metterlo in equilibrata relazione con partigiani combattenti, con esponenti della nonviolenza militante, con Bobbio e Gobetti.
E con i loro insegnamenti che da tempi non sospetti riescono a parlarci dell’oggi. Sentite questi: “In ogni regime totalitario il parlamento è in realtà un ‘teatro dei burattini’, come un burattinaio il governo tira i fili e le marionette hanno solo il compito di battere le mani” (Massimo Mila); “Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco” (Piero Gobetti) e i mali della politica da cui Bobbio ci metteva in guardia sin dal 1985: “la questione morale, il potere invisibile, il prevalere della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica…l’occupazione del potere da parte dei partiti…”.

Paradossalmente, dopo lunghe stagioni di storia italiana del dopoguerra segnate da contrasti politici e violenze (ascrivibili in prevalente misura allo Stato e al Potere), l’attualità sembra segnalare una propensione per le forme di lotta nonviolente, ma l’utilizzo diffuso che ne fa la protesta popolare (dalla Val Susa al Nord Dakota) ne tradisce l’insufficienza a conseguire gli obiettivi, la subordinazione a stati di debolezza e denuncia la militarizzazione delle società cosiddette democratiche. A maggior ragione, sembra riduttivo il Capitini che dice “Resistere significa non accettare il mondo cosi com’è”. Forse un po’ poco per il mondo che stiamo vivendo.
Se è vero che i libri sono cibo per i pensieri, questo lavoro di Polito offre ampia materia di riflessione sulle forme di opposizione in relazione alle fasi politiche e agli imperativi individuali che le determinano. Il titolo poco “commerciale” ne denuncia la destinazione a un pubblico di lettori che non frequentano il salotto televisivo di Paola Perego, ma c’è da augurarsi che quelli in grado di affrontare argomenti di qualche peso siano ancora un buon numero.

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Segnali di Fumo: Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav / di Wu Ming 1 https://www.carmillaonline.com/2016/11/01/segnali-fumo-un-viaggio-non-promettiamo-breve-venticinque-anni-lotte-no-tav-wu-ming-1/ Mon, 31 Oct 2016 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34276 wm1_viaggio_no_tav_cover_zerocalcaredi Nicola Gobbi e Simone Scaffidi

Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi, 2016, pp. 650, € 21.00.

È uscito ieri il nuovo libro di Wu Ming 1, un viaggio dentro il movimento No Tav che non poteva essere breve, sia perché 25 anni di lotte richiedono dignità, precisione e rispetto, sia perché lo spirito continua e non sembra intenzionato ad arrestarsi. Per chi conosce il percorso di Wu Ming sa già che – nonostante la mole – non [...]]]> wm1_viaggio_no_tav_cover_zerocalcaredi Nicola Gobbi e Simone Scaffidi

Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi, 2016, pp. 650, € 21.00.

È uscito ieri il nuovo libro di Wu Ming 1, un viaggio dentro il movimento No Tav che non poteva essere breve, sia perché 25 anni di lotte richiedono dignità, precisione e rispetto, sia perché lo spirito continua e non sembra intenzionato ad arrestarsi. Per chi conosce il percorso di Wu Ming sa già che – nonostante la mole – non si tratta di un mappozzo teorico ed evenemenziale, e neppure di un romanzo o un’inchiesta tradizionale. Leggetelo e forse non sarà essenziale capire cos’èIn considerazione dei temi trattati e dello spessore del libro, le parole intorno a quest’opera cadranno giù pesanti, alcune precipiteranno rapide e interessate, altre puntuali e meditate. Prevenendo la valanga abbiamo deciso di mettere su un buon disco, tuffarci nelle matite e provare a far parlare i disegni. Ne è uscito fuori l’adattamento a fumetti di “Un viaggio che non promettiamo breve”, che vi proponiamo di seguito.

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Nuova Rivista Letteraria n. 3 – Utopie/Distopie https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/nuova-rivista-letteraria-n-3-utopiedistopie/ Mon, 27 Jun 2016 22:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30882 Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata [...]]]> Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata Luca Gavagna) al cristianesimo di base in Nicaragua; dalla resistenza delle donne maya ixil all’utopia autoritaria dei militari in Guatemala alle libere repubbliche No Tav della Val Susa; dall’anarchia tra Benevento e Campobasso di fine ‘800 alla  Colombia di Eduar Lanchero; dal municipalismo libertario dei curdi a Scientology e alle altre sette religiose nate dalle utopie naufragate dei movimenti di lotta. E poi ancora potrete l’utopia che alimenta la fantascienza, l’architettura, il cinema, la letteratura, la medicina, la follia, l’adolescenza, l’idea di una vita eterna e quella di spremere acqua dal vento. Qua sotto potete leggere un piccolo estratto per ogni singolo articolo che compone il volume].

Editoriale / Utopia.. pia… pia… – Giuseppe Ciarallo
Ma l’utopia è davvero qualcosa di irrealizzabile, e gli utopisti dei folli visionari, o quella di affibbiare l’etichetta di “utopico” è la maniera più comoda e veloce per liquidare un progetto che non si ha voglia, la capacità e il coraggio di realizzare? Perché se è innegabile che molte esperienze utopiche siano naufragate, è altrettanto vero che di utopia sono venate molte situazioni che invece esistono e strenuamente resistono opponendosi a una realtà che sempre più chiaramente mostra il proprio volto distopico.

Le immagini / L’utopia abitabile di Mondeggi – Silvia Albertazzi
Torna alla mente, di fronte a queste immagini, quanto Roland Barthes ebbe a scrivere sulle foto di paesaggi: che devono essere abitabili e non visitabili. Qui, Mondeggi, in effetti, non appare come un luogo per turisti, da visitare per poi passare oltre: tanto gli esterni quanto gli interni di Gavagna suscitano, piuttosto, la voglia di vivere in quei luoghi, fosse pure per un attimo.

letteraria_3dNicaragua / Gesù nella guerriglia – L’utopia del cristianesimo di base – Agostino Giordano
Nell’immaginario collettivo dei cosiddetti «cristiani del dissenso», non solo sudamericani ma anche europei e italiani in particolare, l’esperienza sandinista ha rappresentato senza dubbio un riflettore molto illuminante del percorso di lotta politica convergente con le istanze del marxismo-leninismo.

Colombia / Nel fango, l’oro dei passi – Paolo Vachino
Eduar Lanchero, non un personaggio di fantasia ma un uomo, un filosofo, un paladino dei diritti umani, un rivoluzionario, nato e vissuto in Colombia, le cui intuizioni, le sue letture del conflitto colombiano, la sua proposta di creare un modello alternativo alla violenza e allo sfruttamento, hanno scritto una pagina molto importante della Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Anarchia / Il paese di Utopia? A metà strada tra Benevento e Campobasso – Giuseppe Ciarallo
La folla era entusiasta e le parole di Cafiero conquistarono persino il parroco il quale, nella foga del momento, pare che inneggiò alla rivoluzione sociale, paragonò il Vangelo al socialismo e definì gli internazionalisti, apostoli della parola di Cristo. Nel paese di Gallo, gli anarchici ripeterono l’azione e anche qui vennero accolti come liberatori.

No Tav / Le «libere repubbliche» no tav della Val di susa – Wu Ming 1
Un movimento è rivoluzionario se converte i riferimenti agli spazi in un linguaggio e una prassi che liberano i tempi. Nella frase «resteremo qui finché vorremo», l’elemento più importante non è il «qui» – una piazza, una scuola occupata, un prato, una casa sull’albero – ma il «finché vorremo». È la rottura del tempo a dare senso allo spazio.

Fantascienza / Essere rivoluzione per abbandonare l’utopia. Una questione di fantascienza? – Alberto Sebastiani
Il capitalismo e le società su esso fondate non possono avere (ma soprattutto non vogliono) alternative, e il gruppo di Attentato all’utopia decide di debellare il “virus”: distruggere ogni traccia di questa società. Il quinto principio (2009) si fonda sul medesimo concetto di omologazione totale violenta. Il capitalismo realizzato (la sua utopia) presenta nell’ultimo romanzo di Catani una casta di ricchi abitanti della tecnologicamente avanzatissima città Diaspar (anagramma incompleto di “Paradiso”), isolata e nascosta al resto del mondo, il Mondo B, in cui le persone comuni sono rese sostanzialmente schiave del tricolon “produci, consuma, crepa”.

Lunga vita / Vivere a lungo, vivere male: utopia della longevità e liberismo – Wolf Bukowski
Ognuno desidera una lunga vita, ma quando questo desiderio è fatto proprio da un potere oppressivo assume una dimensione politica costitutivamente reazionaria. La vita lunga viene giocata contro la vita dignitosa, esattamente come la vita eterna promessa dalle religioni è posta come alternativa a una vita piena qui e ora, ed è ostacolo alla lotta per una vita emancipata su questa terra. E non è un caso che oggi, quando il socialismo sembra uscire dalla storia (anche se in verità, vecchia talpa!, sta scavando sottoterra), riprendano fiato l’illusione escatologica e i crudeli progetti divini.

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Brazil / Il realismo dell’impossibile – Silvia Albertazzi
Sono moltissimi i film e i romanzi che raccontano di comunità immaginarie create da personaggi in fuga da realtà di oppressione, distruzione o morte: nella maggior parte dei casi, gli sforzi di questi pionieri dell’impossibile sono destinati a infrangersi contro le perversioni del reale; quasi sempre, le comunità utopiche nate dalla migrazione ai confini della realtà (e oltre) si danno leggi, norme, governanti che presto trasformano il sogno in incubo. Non è un caso, infatti, che in narrativa il numero delle distopie superi di gran lunga quello delle utopie, a suggerire come l’umanità sia incapace, persino nel mondo fantastico, di realizzare dal basso una comunità perfetta.

Architettura / Arte, architettura e geografia utopica. Nel bene e nel male – Cristina Muccioli
Il trionfo della disciplina si celebra sulle ceneri di una precedente, grandiosa utopia di origine proto rinascimentale, quando a Filippo Brunelleschi venne richiesto di progettare in Firenze un palazzo in grado di ospitare e soccorrere, crescere ed educare gli individui più fragili, più deboli, indifesi e improduttivi della società: i bambini abbandonati. Così nacque a partire dal 1419 lo Spedale degli Innocenti, nome comune diventato poi cognome per molti che testimoniano di questa discendenza da salvati. Fu il primo brefotrofio d’Europa, progettato per accogliere, tutelare e proteggere, non per controllare e inibire, o per meglio dirla con Foucault, per sorvegliare e punire.

Medicina / Restare umani – l’ultima utopia della medicina moderna – Franco Foschi
La storia della medicina è stracolma di utopisti e visionari. Tra quelli che preferisco, perché proveniente dai miei ambienti di lavoro della sala parto e delle neonatologie, il dottor Semmelweiss, così ben raccontato da quella detestabile e ambigua persona, medico dei poveri e gran scrittore, di Céline: Semmelweiss coltivò il sogno realistico di vivere in un ambiente privo di infezioni – e come molti utopisti realisti venne sbeffeggiato, allontanato, perseguitato, e morì solo e pazzo.

Febbre / Le radici del cielo – l’utopia visionaria di Gary – Massimo Vaggi
Non è dunque un caso che adori tra gli altri anche Romain Gary, e che consideri Le radici del cielo non solo e non tanto – come è stato affermato – il primo vero romanzo ecologista, ma un grandissimo romanzo visionario, un paradigma dell’utopia estrema.

letteraria_3Orto dei tu’rat / Un progetto ambientale che pratica l’utopia dell’oasi spremendo acqua dal vento – Milena Magnani
L’immagine di un’utopia che si persegue nel piccolo, tra gli interstizi di sassi che resistono, quella di cui si fa esperienza incontrando il progetto ambientale Orto dei Tu’rat, un paesaggio di pietra e vento che sfida l’inarrestabile avanzata del deserto. Un progetto nato in Salento, che è una delle aree europee indicate dalle ultime ricerche sull’ambiente come quella a maggior rischio di desertificazione, zona in cui i fenomeni di erosione e salinizzazione dei suoli stanno mostrando da tempo il loro aggressivo aspetto di non ritorno.

Libri per ragazzi / Senza famiglia: liberi adolescenti in libero stato – Sergio Rotino
C’è un desiderio che tutti gli adolescenti – anche noi, quando stavamo attraversando tale “tappa evolutiva” – hanno in qualche modo vagheggiato. Almeno, tutti gli adolescenti prima dell’avvento dei Social, prima dell’arrivo di quello che appare un meraviglioso (ma anche pericoloso perché ancora da testare) subsistema di democrazia diffusa, basata sull’elettronica di consumo. Il desiderio è, in pratica, quello di vivere in un mondo dove gli adulti non esistano. Spariti, come per incanto, per qualche misterioso motivo. Spariti e basta.

I matti / La città dei matti e l’utopia della realtà – Alberto Prunetti
Liberare i pazzi è stata un’utopia che si è realizzata. Che tanti psichiatri radicali hanno reso possibile. Un’utopia della realtà, per citare Franco Basaglia, un’utopia che poi deve fare i conti con una realtà che non ha più nulla di utopico, con un senso comune che è sempre più recintato dai paletti del conformismo. Insomma, aperti i manicomi, bisogna adesso ricominciare da capo: liberare le città, i quartieri, i condomini, perché il disagio psichico è diffuso quanto la tristezza e la paura.

Kurdistan / Società senza stato – Marco Rovelli
Mexmur è stata la prima città dove si è sperimentato il confederalismo democratico, che è la proposta politica lanciata da Ocalan dopo il suo arresto, e che adesso viene realizzata su più larga scala nel Rojava, il Kurdistan siriano. Una svolta teorica considerevole, quella del Pkk: da essere un partito, come tanti nati negli anni Settanta, di stampo marxista-leninista, che aveva al suo centro la richiesta di uno Stato-nazione curdo, a una teoria e a una pratica libertarie, mutuate in gran parte dai libri di Murray Bookchin, uno dei massimi pensatori anarchici del Novecento, e dalla sua teoria del “municipalismo libertario”.

letteraria_3cIsis / Dove non c’è futuro: distopia e stato islamico – Lorenzo Declich
Può essere utile, per capire questo punto, osservare che lo Stato Islamico ha riviste in lingue diverse – inglese, francese, turco, arabo – ognuna con contenuti specifici, diretti insomma a una certa comunità linguistica o nazionale (lo vedremo meglio più avanti). Pescando invece fra le varie pubblicazioni digitali troviamo testi “strategici” dedicati ai diversi contesti. Lo Stato Islamico, in “Occidente”, vede un futuro – e qui torniamo a “La Haine” – in cui dai “lupi solitari” si passa a “gang musulmane” che, fra le altre cose, “si infiltrano in altre gang”. Ecco qua. Con questa valigetta degli attrezzi parliamo di una “visione” dello Stato Islamico che – viste le premesse – non potrebbe essere altro che distopica, perché invita all’azione e alla partecipazione chi un’utopia non ce l’ha e un futuro non lo vede, chi si pone il problema di vivere “da protagonista” e/o in maniera più o meno eroica un presente senza vie d’uscita.

Sette religiose / Linguaggio utopistico e manipolazione – Giuliano Santoro
Dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in poi sappiamo che l’efficacia di ogni controrivoluzione è data dalla sua capacità di sussumere, inglobare, pervertire le istanze prodotte dalla rivoluzione. Il linguaggio del fascismo prova costantemente a impadronirsi di parole provenienti da sinistra. La grammatica neoliberista, da Reagan a Zuckerberg, è intrisa di utopie libertarie e retoriche partecipative. La sconfitta di un ciclo di lotte, il suo momentaneo esaurimento, producono sempre lo sfondamento della reazione nel campo delle narrazioni rivoluzionarie.

Mondeggi Bene Comune / Immagina, rievoca, viaggia nel tempo, veloce come il pensiero – Adriano Masci
Mondeggi, per Alessio e Duccio, non è solo un laboratorio, è invece, a tutti gli effetti, una realtà, un modello di risoluzione o comunque di risposta alla marginalità, al disagio periferico, alla disoccupazione, quando le istituzioni non cambiano nulla o aggravano le cose. In questo senso c’è uno scavalcamento del “rifiuto del lavoro” che imperversa negli anni dell’orda d’oro, ’68-’77, quando il lavoro non manca ma è sfruttamento disumano e rifiutarsi, disobbedire, sabotare, è giusto. Ora invece il lavoro è qualcosa da rifondare, perché è succube dell’algoritmo finanziario, sfrutta attraverso la flessibilità contrattuale, inibisce tramite la precarietà pervasiva, e la lotta passa attraverso l’immaginario pratico di un modello altro, che è possibile. Non senza rischiare, certo, non senza oltrepassare la legalità quando questa non coincide affatto con la giustizia sociale.

Guatemala / L’utopia nella voce – Simone Scaffidi
Ti vedi tu, ragazzo? In questo momento, fra me e te, chi ha il monopolio della parola? Forse tu non mi denuncerai ma di sicuro tradirai la mia voce con le tue mille traduzioni. Io già mi sto sforzando di parlarti in castigliano, in una lingua che non è la mia, tu dal castigliano trascriverai le mie parole nella tua lingua… e della mia di lingua che cosa rimarrà?
Il tuo monopolio. E qualche briciola del mio mais.
Per quanto tu ti possa sforzare di raccogliere le nostre testimonianze rimani un pelle di latte con il pene, e un pelle di latte con il pene può solo abbozzarlo il cammino di noi donne indigene.

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