URSS – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 20 Dec 2024 21:00:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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Il battaglione partigiano russo d’assalto https://www.carmillaonline.com/2024/10/06/il-battaglione-partigiano-russo-dassalto/ Sun, 06 Oct 2024 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84763 di Nico Maccentelli

Vladimir Pereladov, Il battaglione russo d’assalto, Anteo Edizioni, pag. 80 € 15,00

In onore e memoria delle vittime di Monte Sole nell’80° dall’eccidio nazifascista di Marzabotto.

In tempi di ostracismo e discriminazioni verso i russi in Europa e in Italia, di voti bipartisan al Parlamento Europeo che equiparano il comunismo al nazifascismo, di rilettura falsificante della storia a uso e consumo della guerra che USA UE e NATO stanno conducendo per mezzo degli ucronazi in Ucraina, questo piccolo libello è una boccata d’ossigeno storico e anche politico. E che restituisce all’Armata Rossa sovietica e ai [...]]]> di Nico Maccentelli

Vladimir Pereladov, Il battaglione russo d’assalto, Anteo Edizioni, pag. 80 € 15,00

In onore e memoria delle vittime di Monte Sole nell’80° dall’eccidio nazifascista di Marzabotto.

In tempi di ostracismo e discriminazioni verso i russi in Europa e in Italia, di voti bipartisan al Parlamento Europeo che equiparano il comunismo al nazifascismo, di rilettura falsificante della storia a uso e consumo della guerra che USA UE e NATO stanno conducendo per mezzo degli ucronazi in Ucraina, questo piccolo libello è una boccata d’ossigeno storico e anche politico. E che restituisce all’Armata Rossa sovietica e ai suoi combattenti nei fronti europei, il ruolo centrale che ha avuto nella vittoria contro il nazifascismo nella Seconda Guerra Mondiale del secolo scorso.

In particolare il libro ripercorre le tappe, con dati e spiegazione dei vari eventi il ruolo che i sovietici, spesso prigionieri scappati dalla schiavitù del duro lavoro per la costruzione di trincee e firtificazioni, per conto della Wermacht di Hitler, hanno avuto nel liberare l’italia, operando nelle formazioni partigiane (anche con unità proprie) del Comitato di Liberazione Nazionale.

L’autore, Vladimir Pereladov scrisse questo libro molti anni fa e in Italia uscì per le Edizioni della Squilla già nel 1975. Ciò che però lo rende ancora più utile è il saggio introduttivo di Giambattista Cadoppi, che ripercorre quei fatti con una scrupolosa metodologia storiografica. Pereladov rappresenta una testimonianza importante: prigioniero dei tedeschi e utilizzato insieme a tanti altri russi nella realizzazione delle fortificazioni della Linea Gotica, lungo l’Appennino emiliano, riuscì a fuggire e a unirsi alle formazioni partigiane operanti nelle montagne del modenese.

Nel marzo del 1944, Pereladov fu alla testa di un reparto partigiano in cui militavano in prevalenza sovietici che successivamente si organizzò nel Battaglione russo da cui prende il titolo dell’opera. Rilevante fu la sua attività nella costituzione e nella difesa della Repubblica patigiana di Montefiorino (1), che oggi non lo si sa, fu un’esperienza di gestione comunitaria popolare secondo gli ideali del socialismo e della democrazia di popolo, alla quale aderirono tutte le forze antifasciste. Persino le cattoliche Fiamme Verdi(2), molte delle quali futuri elementi della Democrazia Cristiana ebbero parole di elogio verso i partigiani russi.

Vladimir Pereladov

Ma le azioni e le operazioni di guerriglia nel teatro italiano, in cui si distinsero i partigiani sovietici, furono numerose. Si calcolo che furono 5-6 mila i combattenti russi che parteciparono alla Liberazione dell’Italia. Nel libro si parla della determinazione di questi uomini negli attacchi al grido di “hurrà Stalin” che spesso metteva terrore (3) tra le fila di militari tedeschi già demotivati da un andamento della guerra non certo favorevole ai nazifascisti E qualcuno potrebbe commentare ritenendo questa ricostruzione come frutto di un’esaltazione retorica più dettata dall’ideologia, che dai fatti per come sono realmente accaduti. Ma non dobbiamo dimenticare un “dettaglio” non da poco al di là di ogni ideologia da una parte e dell’altra: che nei combattenti partigiani sovietici operanti in Italia e altrove, era ben chiaro ciò che stava accadendo da qualche anno nelle terre sovietiche alle proprie popolazioni. L’Operazione Barbarossa e tutta la conduzione della guerra sul fronte orientale, fu una storia di eccidi efferati sui civili, di massacri di massa perpetrati dai militari nazisti tedeschi e dai loro kapò, come in Ucraina come l’organizzazione nazionalista di Stepan Bandera e i corpi SS ucraini, repsonsabili di migliaia di assassinii di massa tra ebrei, polacchi, russi e ucraini stessi per tutta l’occupazione nazista.

Con la prefazione di Cadoppi, il libro è ricco di analisi storiche sulle scelte politiche fatte dal fronte alleato, a cui lascio ai lettori farsi un’opinione. Quello che mi interessa sottolineare è che stiamo vivendo un momento storico segnato da una volontà di guerra e di mantenimento di una supremazia declinante nel mondo e nel processo al multipolarismo, da parte di un ‘Occidente che nei secoli ha solo portato sfruttamento, schiavitù e predazione attraverso il razzismo colonialista. Non posso non rilevare l’arroganza suprematista di dirigenti o ex tali dell’UE nel definire giardino fiorito i paesi dell’UE e giungla il resto del mondo (4): ci sono forti assonanze tra questa visione razzista e suprematista e la visione hitleriana verso altri popoli, tra cui gli slavi, considerati dai nazisti come subumani. E che dire dell’etno-nazionalismo sionista (definizione appropriata data da Moni Ovadia) verso il Popolo Palestinese, che considera le popolazioni arabe alla stessa stregua di chi aveva i baffetti 80 anni fa? Tutto nel nome di “popolo eletto” e di una “terra promessa” (ma quante volte dio gliela promette?) che configura una “grande Israele nelle loro stesso monete. Che, detto per inciso nulla ha che vedere con l’ebraismo e che milioni di ebrei anche di stretta osservanza religiosa non sono per nulla d’accordo con il sionismo genocida e della pulizia etnica e dell’esaltazione terrena.

Partigiani della Brigata Stella Rossa di cui fece parte anche l’ufficiale sovietico Karaton che, dopo i giorni di accanita resistenza sul Monte Caprara sopra Marzabotto, nei giorni della strage di Monte Sole, passò nelle fila della 63ma Brigata Garibaldi “Bolero”,trovando poi la morte a Casteldebole, alle porte di Bologna, per mano nazista.

Riportare elementi di verità storica all’attezione dell’opinione pubblica è importante e vitale per un futuro di giustizia sociale, democrazia popolare vera, pace e cooperazione tra i popoli. E visto che la storia la fanno i popoli e non semplicemente le loro classi dirigenti, nel rileggere queste pagine non si tratta di esaltare esperienze fallimentari del passato a cui una gran parte della sinistra radicale è purtroppo ancora legata in modo fideistico, e direi religioso, per un’incapacità poco o nulla marxista di elaborare percorsi di liberazione dallo sfruttamento capitalistico che partano da “un’analisi concreta della situazione concreta” (per dirla come la disse Lenin). Ma si tratta di capire, per esempio, che in un’Europa dove 27 milioni di cittadini sovietici sono morti per sconfiggere il nazifascismo e che il tributo più grande in militari caduti in combattimenti o sterminati nei campi di concentramento nazisti, l’ha dato l’Armata Rossa, non si può prescindere da questo fatto storico tragico, ma anche straordinario, che ha dato vita nella Liberazione e poi nel prosieguo del sistema socialista sovietico a lotte di liberazione antimperialista nel Terzo e Quarto Mondo e, di contrappeso geopolitico, persino a quelle Costituzioni e a quel welfare nell’Occidente capitalistico che per decenni hanno espresso la forza materiale delle classi popolari, dei loro partiti e dei sindacati, nonostante la lunga riorganizzazione della bestia imperialista sotto altre bandiere. E quindi non si può prescindere, piaccia o meno, dalla funzione progressiva e di contrasto all’imperialismo nel pianeta che ha avuto l’URSS durante e nel dopoguerra.

Tre partigiani sovietici della Divisione Modena: il primo e secondo da sinistra e l’ultimo a destra

Capire questo significa comprendere anche cosa è accaduto dopo e la lunga preparazione delle élite finanziarie imperialiste che ha portato alla fine di queste democrazie borghesi, al loro svuotamento lasciandone un vacuo involucro. E quindi al ritorno di un’era di guerra nei mutati scenari mondiali. La comprensione dei fatti storici del passato deve servire a questo, senza che le sacrosante esaltazioni nostalgiche offuschino la realtà presente e i compiti che ci aspettano. E con la determinazione di proseguire la lotta in nuovo contesto geopolitico e sociale.

Questo libro è un piccolo ma utile tassello di verità.

 

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NOTE

1. Il battaglione partigiano russo d’assalto, pag. 16

2. Ibidem, pag. 19

3. Ibidem, pag. 18 e 19

4. Faccio rispondere a questi euroburocrati una ragazza adolescente che vive a Lugansk:

“Salve signor Borrell,
mi chiamo Faina Savenkova, sono un’adolescente di Lugansk, città che l’Ucraina bombarda con armi fornite dai paesi occidentali e dall’Unione Europea. Mi trovo sul Viale degli Angeli a Lugansk. Ogni giorno il numero dei bambini uccisi aumenta grazie a Lei, signor Borrell. Mi dica, signor Borrell, questi nomi qui incisi Le dicono qualcosa? Penso che per Lei non siano nemmeno una statistica, ma solo nomi che non Le dicono nulla. Tuttavia, per i loro genitori sono un dolore eterno. Questi bambini non vedranno mai i loro cari e la colpa è Sua e dell’Unione Europea, signor Borrell. Sapete bene che l’Europa non sopravviverà alla Terza Guerra mondiale, ma con le vostre forniture di armi e pompose parole sullo scontro con la Russia, voi state provocando una grande guerra. Non provate dispiacere per i russi, o per gli ucraini che muoiono a migliaia, o per gli europei. Quando questa guerra fratricida finirà, i politici occidentali che hanno scatenato e sostenuto questo massacro saranno certamente puniti. L’Ucraina non è una vittima, ma l’organizzatrice di un conflitto, a cui partecipa la NATO. Vivendo nel mio natìo Donbass da 10 anni sotto i bombardamenti ucraini, ho il diritto di dire a Lei personalmente che anche Lei è responsabile di ciò che sta accadendo. Spero tanto che in Europa capiscano che non ci saranno vincitori in una guerra nucleare”.

 

 

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/21/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-3/ Mon, 21 Aug 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78014 di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra [...]]]> di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra le labbra, dichiara con voce indignata di chiamarsi Emil Goldfus e protesta contro la violazione dei suoi diritti costituzionali. Pensa (strano pensiero) che da allora in poi dovrà tenere d’occhio Orlov lo Svedese. «Un agente segreto», dirà più tardi al suo avvocato, «si prepara a questo momento per tutta la vita».

«Goldfus», cinque giorni dopo l’arresto, rivela di chiamarsi Rudof Ivanovič Abel, colonnello dei servizi segreti sovietici. Dichiara d’essere stato personalmente istruito da Vjačeslav Michajlovič Molotov (che Stalin chiamava familiarmente «deretano di piombo») durante un’ultima cena al Cremlino, nel 1948, la sera prima di lasciare Mosca per New York. In quanto Abel, agente sovietico confesso, sarà scambiato anni dopo col pilota americano Gary Powers, abbattuto nei cieli dell’Urss durante una ricognizione aerea. Ma il fatto è che Abel non è affatto Abel. È Willy Fischer, nato in Inghilterra nel 1902 da un rivoluzionario di professione bolscevico, nello spionaggio sovietico praticamente fin da bambino.

Il vero Abel è morto l’anno prima a Mosca. Entrambi maestri di guerra segreta, lui e Fischer erano sempre stati inseparabili, come Gianni e Pinotto. Lo racconta Kirtill Chenkin in un memorabile libro di memorie, Il cacciatore capovolto. Il caso Abel, Adelphi 1982, dove spiega che Fischer assume l’identità di Abel, il suo vecchio compagno, per lanciare un segnale alla centrale moscovita: la copertura regge, non sto collaborando, la missione continua.

«Elemento antisovietico», transfuga in Israele dai primi settanta, Chenkin è amico e ammiratore di Fischer, che insieme a Rudolf Abel era stato suo istruttore alla scuola di spionaggio durante la seconda guerra mondiale, quando il Kgb lo aveva reclutato. «Willy», scrive, «mi aveva insegnato a guardare la realtà in modo che ne risalti il lato nascosto. Quando tu hai afferrato l’essenza d’un disegno criptico, non puoi fare a meno di vedere – in mezzo ai rami, o tra le corna d’un cervo – il cacciatore capovolto, non poi tanto abilmente nascosto». Chenkin, che vuole lasciare la scuola di spionaggio perché non gli piace il clima, chiese consiglio a Fischer e questi gli dice, scuotendo la testa, che «una volta spie, si è spie fino alla morte. Ma un ragazzo sveglio», aggiunge poi sottovoce, «può sempre mostrare, volendo, la propria assoluta inettitudine al servizio segreto».

Mangiata la foglia, Chenkin comincia a infastidire i superiori con proposte bislacche. Suggerisce d’istituire strette di mano segrete per riconoscersi tra agenti sul campo. Telefona ai colleghi per informarsi se la ricezione dei messaggi in codice è stata abbastanza chiara. Finché un bel giorno non gli dicono che per il momento la sua collaborazione non è necessaria (non ci richiami, richiamiamo noi). Fischer, insomma, era nel suo mestiere un’autorità indiscussa.

E veniamo allo Svedese, che al momento dell’arresto occupa tutti i pensieri del «colonnello». Aleksandr Michajlovič Orlov, altrimenti detto «lo Svedese» oppure «Nikolskij», è un vecchio bolscevico, capo dello spionaggio sovietico in Europa fino al 1938, epoca di purghe sanguinose, quando declina l’invito di tornare a Mosca da Parigi per conferire con i grandi capi e s’invola dalla capitale francese dopo aver svuotato la cassaforte dell’ufficio. Ormai da vent’anni Orlov vive negli Stati Uniti, vezzeggiato dalla CIA, per conto della quale istruisce le reclute sui metodi e le magie del Kgb. Orlov e Fischer sono vecchi amici.

Perché lo Svedese non smaschera il falso Abel rivelando che il suo vero nome è Fisher? E Willy, ulteriore mistero, che cosa sta esattamente spiando a New York? Segreti atomici americani non ce ne sono mai stati, non per i russi, ai quali fior di scienziati occidentali passano sottobanco tutte le informazioni utili. Ma nessuno di questi informatori, neppure Ethel e Julius Rosemberg, finiti sulla sedia elettrica per spionaggio atomico, passa attraverso la rete di Fischer. Altra stranezza: i Rosenberg morirono sempre negando d’essere spie, mentre lui lo ammise subito, senza essere per questo trattato da traditore e anzi guadagnandosi uno sproposito di medaglie al suo ritorno in Urss, dopo lo scambio con Gary Powers sul «ponte delle spie» di Berlino.

Come fu scoperto? Fu tradito da un maramaldissimo: il tenente colonnello «Heihannen», tra i migliori elementi del Kgb, braccio destro di Willy a Brooklyn. Strana spia, questo Heihannen. Gli agenti segreti praticano l’arte dell’invisibilità affinchè nessuno li noti, mentre lui è sempre ubriaco, picchia la moglie in pubblico, litiga con i vicini di casa, ruba, insulta i poliziotti e si fa arrestare. Una spia che non ha niente da spiare, un disertore da decenni al servizio della Cia che lo può smascherare ma non lo fa, un braccio destro che fa di tutto per farsi notare. Che storia è? Chenkin non ha dubbi: da qualche parte, in questo disegno, c’è un cacciatore capovolto. È possibile, secondo Chelkin, che una falsa rete di spie sia stata offerta a Cia e Fbi per coprire la rete vera, rimasta ignota. È possibile, certo, ma non si saprà mai.

Willy, dice ancora Chenkin, era un fan di Dashiell Hammett, l’autore del Falcone maltese, comunista ed ex detective dell’Agenzia Pinkerton. Negli anni quaranta, alla scuola di spionaggio, Fisher amava raccontare ai suoi allievi la parabola hammettiana di quell’uomo che abbandona tutto per farsi una nuova vita, stanco della moglie chiacchierona e dei figli urlanti, dell’automobile da quattro soldi, del lavoro malpagato e della squalllida villetta di periferia dove abita ormai da troppo tempo, finché non viene ripescato anni dopo alla guida di un’automobile scassata, diretto a una squallida villetta di periferia, dove lo aspettano una moglie chiacchierona e un paio di figli urlanti (vedi Dashiell Hammett, Continental Op. Tutti i racconti, Mondadori 2021). Era la copertura perfetta, il perfetto cacciatore capovolto.

Willy è un Eroe dell’Unione Sovietica quando muore di tumore nel 1971. Istruttore fino all’ultimo del Kgb, il suo migliore amico è il giovane Chenkin, un dissidente. Crede nel socialismo come in una catastrofe inevitabile, dice Chenkin. Ma non molla, e continua a spiare. «Il radioso futuro si è definitivamente rovesciato in notte dei tempi? Che ci vuoi fare? Il mestiere è mestiere».

Bruno Maksimovic Pontecorvo

Fisico delle particelle e storico della scienza, Frank Close ha scritto libri sull’antimateria, sull’epopea della fisica moderna fino alla scoperta del Bosone di Higgs e sulla caccia al neutrino. Proprio il neutrino è la particella a lungo sfuggente di cui segue la pista, tra gli altri, anche il fisico italiano Bruno Pontecorvo, uno dei «ragazzi di Via Panisperna», più tardi noto nella sua seconda patria, l’Urss, come «Bruno Maksimovič Pontekorvo».

Pontecorvo (ma anche un po’ Pontekorvo, il cittadino sovietico membro del Pcus) è l’idolo di Close, che in Vita divisa (Einaudi, 2016) ne racconta la biografia politica e scientifica. Due i Pontecorvo, come due erano anche i Fuchs: il fisico teorico e il comunista. Come scienziato, Pontecorvo fu certamente ammirevole, un pioniere della fisica sperimentale, uno studioso brillante e originale, ma come uomo del suo tempo, devoto per (quasi) tutta la vita alla più grottesca ideologia del secolo breve, fu un disastro.

Nel 1950 fugge con moglie e figli piccoli in Urss, dove per anni non gli è consentito neppure di scrivere ai suoi fratelli (tra cui Gillo, il regista di film comunisti) e ai suoi genitori; dove non lo lasciano mai nemmeno avvicinarsi a un acceleratore di particelle; dove gli tocca vivere per una vita intera in una città che non può lasciare nemmeno per fare un giro a Mosca o a Leningrado; dove non riceve mai una visita dagli scienziati suoi vicini di casa e dove due poliziotti lo scortano ogni giorno da casa al lavoro e dal lavoro a casa.

Intorno alla città segreta e ultrasorvegliata in cui vive da galeotto di lusso, i lavori pesanti sono affidati a prigionieri, gente vestita di stracci, la testa rasata, tutti magri come acciughe, puro Gulag, e «Pontekorvo» pensa che siano lavoratori volontari, giusto un po’ male in arnese (be’, dice di pensarlo, anche se naturalmente non sono pensieri degni del suo QI). Miriam Mafai, nel 1982, intervista lo scienziato ormai ottantenne per un libro-intervista nostalgico e sospiroso; quando Close, molti anni dopo, chiede alla giornalista italiana perché Pontecorvo, secondo lei, ha lasciato la libera Inghilterra per trasferirsi all’inferno, lei risponde con tipica (e ridicola) alterigia togliattiana che «ci sono cose che puoi capire solo se sei comunista».

Pontecorvo aveva un’altra risposta (stavolta degna del suo QI): «Sono stato un cretino». È quel che dice dopo la caduta del comunismo, un’era geologica troppo tardi, «parlando con un giornalista inglese», a beneficio del quale «giudica con franchezza e senza mezzi termini le sue convinzioni del passato». Dice anche di più: «Per molti anni ho creduto che il comunismo fosse una scienza; mi accorgo ora che non è una scienza, ma una religione».

È Kim Philby, a mettere in allarme Pontecorvo, lo scienziato, e Pontekorvo, l’agente segreto, dopo che altre spie atomiche sono state smascherate dall’FBI e una pista di briciole di pane porta fino a lui. Pontecorvo, a quel punto, può soltanto fuggire in Urss, dove da perfetto trinariciuto porta con sé anche i tre figli bambini e una moglie che soffre di crisi depressive. A organizzare la fuga è Emilio Sereni, cugino dello scienziato e pezzo grosso del Partito comunista italiano. Pontekorvo crede nei Processi di Mosca, nel materialismo storico e dialettico; crede persino nel complotto dei medici ebrei (col quale Stalin si gingilla prima di morire). Pontekorvo si beve tutto, ogni sciocchezza, ogni superstizione. È il secolo breve. Alegher.

H.A.R. Philby, in arte «Kim»

Sua moglie, Eleanor Philby: «Lo ricordo come un marito affettuoso, intelligente e sentimentale. Credo che possegga ancora qualcuna di queste qualità. Ha tradito molte persone, me tra le altre. Non gli piace la musica pop, ma qualche tempo fa gli ho spedito un disco dei Beatles, Help».
 
«Non sono un patito dello spionaggio. Della vita di Kim Philby conosco solo i dati basilari. Non ho mai letto una sua biografia, in inglese o in russo, né prevedo che ne leggerò mai una. Tra le alternative che si offrono a un essere umano egli scelse la più aberrante: tradire un gruppo di persone a favore d’un altro», scrive il poeta russo Iosif Brodskij in Un cimelio, un saggio memorabile che trovate in Profilo di Clio, Adelphi 2003.
 
Lui stesso, Philby, fatuo e snob, nella sua autobiografia: «Come, perché e quando sono diventato membro del servizio segreto sovietico è una questione che riguarda solo me e i miei compagni. Dirò solo che, quando mi venne fatta questa proposta, non esitai. Non si discute l’offerta di far parte d’una forza d’élite».
 
Gelido, dopo aver dedicato i suoi libri migliori (perdoniamogli i peggiori, e sono stati tanti) allo studio d’una sorta di metafisica del tradimento, John le Carré si chiedeva, nel 1968, «come passerà Philby il resto dei suoi giorni? Bevendo? Aspettando l’olocausto dell’Inghilterra? Oggi si trincera in una sdegnosa solitudine. Tra dieci anni fermerà i turisti inglesi per le strade di Mosca. Immaginate quell’occhio lacrimoso e quella voce arrochita dal whisky, quel suo charme insinuante. “L’Inghilterra è un paese fascista” dirà. “non potevo non farlo”».

«Ma siamo proprio sicuri che lo fece?» si chiede il logico statunitense Daniel C. Dennett. Figlio del residente Cia a Beirut negli anni cinquanta, studioso degli stati di coscienza, padre della teoria dei «memi», Dennett spiega che «quando Philby si presentò a Mosca per la prima volta, egli era (apparentemente) sospettato dal Kgb d’essere un infiltrato britannico – un triplo agente, se preferite. Per anni è circolata una storia nei circoli dell’intelligence, che sosteneva questa tesi. L’idea è che quando il SIS “esonerò” Philby nel 1951, fu trovato un modo brillante di sistemare il delicato problema della fiducia. “Congratulazioni, Kim, vecchio mio. Abbiamo sempre saputo che eri leale. E come prossimo incarico vogliamo che tu finga di rassegnare le dimissioni dal SIS e che ti trasferisca a Beirut, dove la tua copertura sarà quella di giornalista in esilio”. […] Una volta che il SIS ebbe dato a Philby questo nuovo incarico, le sue preoccupazioni svanirono. Non aveva nessuna importanza se Kim fosse davvero un patriota britannico leale che fingeva d’essere un agente scontento o se fosse veramente un agente sovietico leale che fingeva d’essere un agente britannico leale. Si sarebbe comportato nello stesso modo in entrambi i casi; le sue attività sarebbero state interpretabili e prevedibili da entrambe le prospettive intenzionali speculari».
 
«La smania di presentare Andropov [generalissimo, ex capo del Kgb] come un occidentale in tutto e per tutto non conosce limiti», scrive Kirill Chenkin nel suo pamphlet del 1983 su Jurij Vladimirovič Andropov, che all’epoca era appena salito sul trono di tutte le Russie. «I dettagli più pittoreschi che finora si conoscono sulla vita e le abitudini del nuovo Segretario Generale del Pcus li ha forniti alla stampa, per la maggior parte, un giovane diplomatico sovietico passato in Occidente nel luglio del 1971, Vladimir Sacharov.

Nel 1971 Sacharov aveva appena 26 anni. Qualche mese fa, tredici anni dopo la sua fuga all’ovest, Sacharov, in una intervista a Penthouse, ha aggiunto un altro particolare piccante al ritratto di Andropov. Pare, sostiene Sacharov, che Andropov sia debitore del suo successo, in gran parte, a Kim Philby, ex collaboratore dei servizi di spionaggio inglesi e, per più di vent’anni, spia sovietica, fuggito via Beirut in Urss nel 1963. Stando a Sacharov, Philby, divenuto uno stretto collaboratore di Andropov, avrebbe trasformato il Kgb da una “banda di straccioni” in una organizzazione di altissima efficienza copiata esattamente sull’Intelligence Service britannico.

Il nocciolo della storia, ahimè, è un altro. È difficile, forse, trovare un servizio di spionaggio e controspionaggio che sia stato tanto infiltrato, per decenni, da agenti sovietici come quello britannico. Lo stesso Philby occupava un posto di rilievo nel MI5. E persino il capo da anni dell’intero controspionaggio inglese, sir Roger Hollis, sembra sia stato un agente sovietico, anche se le accuse non furono mai provate. Su sir Roger rimane qualche incertezza. Ma per altri collaboratori dei servizi inglesi, e tutti di rango piuttosto alto, come George Blake, Maclean, Anthony Blunt, i fatti addebitati loro sono stati confermati e ammessi. Eppure tutti si facevano fare gli abiti a Londra. In che senso allora avrebbe potuto prestare i lumi della sua esperienza un Kim Philby alla riorganizzazione del Kgb? Non è chiaro. Sbaglio, o lavorava anche lui per l’organizzazione quand’era ancora una “banda di straccioni”?».

«[Il lavoro di Graham Greene] si svolge a stretto contatto con Kim Philby», scrive Paolo Bertinetti nella cronologia in apertura di Romanzi 1936-1955, il primo volume delle opere di Greene. Con Philby «si instaura un rapporto di reciproca stima durato tutta la vita (negli anni Ottanta Greene s’incontrerà ancora con Philby in Urss). […] Nel maggio 1944, poco dopo una promozione accordata a Philby, che a sua volta gli offriva una promozione, Greene dà le dimissioni dal servizio, per trasferirsi presso un altro organismo, in qualche modo sempre connesso con l’intelligence, che si occupa di propaganda. Perché Greene si sia dimesso in un momento cruciale della guerra, poco prima dello sbarco in Normandia, rimane misterioso e le sue spiegazioni per nulla convincenti, benché sia stata avanzata l’ipotesi che Greene avesse avuto il sospetto che Philby facesse il doppio gioco e che questo fosse il motivo delle dimissioni».

(Fine)

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Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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Il Pci tra storia orale e riflessioni anti-agiografiche https://www.carmillaonline.com/2023/02/26/il-pci-tra-storia-orale-e-riflessioni-anti-agiografiche/ Sun, 26 Feb 2023 22:55:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76262 di Marco Gabbas

 Introduzione

Questo articolo ha l’obiettivo di presentare alcuni spunti di storia orale sul Pci e di collegarli ad alcune riflessioni più ampie sulla storia e l’eredità di un partito che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia d’Italia. In realtà la storia dei due intervistati, che sono stati attivi nel Pci in una cittadina del Sud Italia, è più lunga, perché va a toccare parzialmente anche le esperienze politiche che si possono definire post-Pci, e che arrivarono sino agli anni 2000. Le due interviste fatte a questi ex militanti sono [...]]]> di Marco Gabbas

 Introduzione

Questo articolo ha l’obiettivo di presentare alcuni spunti di storia orale sul Pci e di collegarli ad alcune riflessioni più ampie sulla storia e l’eredità di un partito che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia d’Italia. In realtà la storia dei due intervistati, che sono stati attivi nel Pci in una cittadina del Sud Italia, è più lunga, perché va a toccare parzialmente anche le esperienze politiche che si possono definire post-Pci, e che arrivarono sino agli anni 2000. Le due interviste fatte a questi ex militanti sono di particolare interesse anche per la diversa classe sociale di appartenenza degli intervistati. Mentre Donato era un medico benestante, Giacomo, figlio di un artigiano, ha svolto sempre la professione di impiegato (entrambi i nomi sono di fantasia). Questo articolo, però, ha anche un obiettivo più ambizioso. Le due interviste, infatti, vogliono essere un punto di partenza per fare un ragionamento più ampio sulla parabola del Partito comunista italiano, il cui centenario è caduto solo un paio di anni fa.

L’approccio è di tipo critico. Purtroppo, sembra che il centenario sia stata più occasione di condanne moraleggianti o di agiografie acritiche che di seri ragionamenti critici (in linea, bisogna dirlo, coll’andazzo generale che persiste al di là di specifiche ricorrenze) [1].  Dato che questo articolo parte dalla storia orale, è bene dire due parole di introduzione in materia. La storia orale è nata negli Stati uniti come modo per registrare la storia dei senza storia, per esempio di persone subalterne e analfabete che non avevano modo di lasciare traccia di sé. Un esempio dei primi studi di storia orale sono stati quelli sugli ex schiavi neri, o sugli ultimi pionieri. La storia orale si è in seguito diffusa anche in Italia, dove vanta ormai una lunga tradizione e studiosi noti e tradotti anche all’estero. Più in generale, la storia orale è spesso usata per raccontare la vita di particolari gruppi politici, sociali o etnici. Un esempio classico è la storia orale fatta intervistando i militanti di partiti e sindacati, gli immigrati in un dato paese, ecc. ecc. Naturalmente, proponendosi come una narrazione dal basso, la storia orale vuole spesso proporre una realtà alternativa a quella dominante. Da cui la particolare attenzione rivolta alla fonte orale, alla sua narrazione e ai suoi punti di vista.

Questo approccio soggettivo, però, può anche avere il rovescio della medaglia. Talvolta, c’è la tendenza di fare storia orale solo sui gruppi o le comunità di cui si fa parte o verso le quali si prova simpatia. Qui c’è un rischio: la storia orale non può trasformarsi in mera agiografia, senza alcun approccio critico? La questione è complessa, e non può essere certo esaurita in queste pagine. In breve, penso che per essere più preziosa, la storia orale non può sottrarsi ad alcune regole base della Storia in generale. Alcune di queste regole fondamentali sono l’attenzione e l’approccio critico verso qualunque fonte scritta o orale che sia, e il confronto continuo con altre fonti. Anche se la Storia non può pretendere di raggiungere una Verità unica e incontrovertibile, ci si può avvicinare il più possibile solo con il confronto tra fonti diverse, e più sono meglio è. Come qualcuno ha giustamente notato, la storia orale fornisce spesso una “verità psicologica” molto utile per capire perché certe persone la pensano in un certo modo [2]. In altre parole, la storia orale non sempre e non necessariamente fornisce dei fatti completamente veritieri. Il compito di chi analizza la fonte orale è quello di confrontarla con altre fonti (anche scritte) per separare il grano dal loglio, il fatto oggettivo e incontrovertibile dalla sua interpretazione personale (per es., il fatto che il Pci si sia dissolto nel 1991 è un fatto oggettivo; diverse interpretazioni personali ci diranno se ciò sia stato un bene o un male, perché è successo, ecc.).

Fare questo è indice di serietà e di un approccio sanamente critico. Non significa assolutamente, contrariamente a quanto pensa qualcuno, non valorizzare o non rispettare la fonte orale (questo viene talvolta sostenuto ricorrendo a delle citazioni semplicistiche di Marc Bloch) [3]. Si è ritenuto opportuno fare queste precisazioni introduttive perché, in ultima analisi, ogni storia è una storia del presente. Questo vale, nel suo piccolo, anche per questo articolo, che infatti contiene nelle conclusioni delle considerazioni sull’eredità di un piccolo pezzo di storia del Pci; azzardando altresì l’ipotesi che anche un piccolo caso-studio come questo può essere un elemento utile per portare a delle conclusioni più generali.

«Sembrava una così brava persona!»

Tessera del PCI

Donato, oggi un ultraottantenne, si ricorda di essere entrato nel Pci dopo aver maturato dei «convincimenti sindacali, che poi son diventati anche espressione di scelte politiche». In un certo senso, Donato ci racconta di un rapporto tra sindacalismo e politica partitica che alcuni ritengono morto o mai esistito (la c.d. “cinghia di trasmissione”, secondo qualcuno). È interessante che l’intervista con Donato, però, ha ben presto iniziato ad assumere un tono comico, dato che i ricordi sono andati al suo «mondo del lavoro che era in quel momento completamente controllato, in mano ai democristiani. Quelli che con sfregio chiamavamo i democristiani. Anche se, li dovessi valutare oggi, li valuterei molto meglio che non i forzisti cosiddetti, eh! Cioè un Brunetta non c’era allora» [4]. Quindi, l’attività politica di Donato (caso poi, se ci si pensa, non tanto strano) è iniziata non per, ma contro. Donato ricorda alcuni di quelli che lui chiama i «vecchi democristiani» locali e la differenza con alcuni democristiani giovani che, pur essendo tenuti in spregio dai «vecchi», erano introdotti nella DC con un metodo molto particolare che si potrebbe definire di cooptazione, anche se Donato preferisce esprimersi in dialetto. Letteralmente, queste persone venivano “raccolte”: «Però come si raccoglie l’immondezza, capito?». In un certo senso, Donato ricorda tra lo scandalizzato e il comico la lottizzazione politica tipica dell’era democristiana tragicamente criticata nel film di Elio Petri Todo modo (1976). «Eri […] il buonissimo datore di lavoro che ti preoccupavi del benessere della popolazione, panem et circenses […] Loro diventavano o funzionari o direttori di qualche ente mutualistico, no?». In una canzone comico-satirica composta sui democristiani locali, Donato aveva così riassunto questi comportamenti: «Al popolo diamo le caramelle da succhiare, nel mentre questi fanno […] i loro comodi».

Tra le risate, Donato fa l’esempio di un personaggio locale («senza arte né parte», «una persona che difficilmente potevi collocare nella specie umana […] un sottoprodotto») che la DC locale avrebbe voluto cooptare in un ente. Per ottenere il posto, però, «doveva superare un tema di italiano. E allora i democristiani vecchi […] l’avevano aiutato dicendogli il titolo del tema […] “Parlami di un animale domestico”». Il quale tema il candidato avrebbe svolto parlando… «del leone»! «E questo faceva ridere – continua Donato – lo dicevano dappertutto. Era una cosa continua». Donato ricorda altresì che la DC locale spesso pubblicizzava un proprio candidato con un curriculum “creativo” («pieno di cagate»), come quello di un personaggio che «era diventato, l’avevano fatto venire qui come direttore di un ente in sostanza… di cui non conosceva» nemmeno «l’indirizzo […] Poi con potere decisionale su altri».

Donato ricorda che la sua decisione di candidarsi col Pci provocò delle reazioni nell’ospedale dove lavorava: «Quando è venuto fuori il fatto che io mi fossi candidato con i comunisti, eh, è successo mezzo finimondo. Mezzo finimondo… Per quello che poteva essere in ospedale. Le suore: “Ma guarda quel dottor […]! Sembrava una così brava persona”. E si svegliavano con me che ero comunista». Per aggiungere ancora comicità alla Storia, il succitato personaggio del tema di italiano, ignaro dell’impegno preso da Donato, gli aveva proposto di candidarsi con la DC in un comune della provincia. Donato ricorda che la proposta di candidarsi col Pci a consigliere comunale gli venne fatta in un giorno di festa da due persone, benché lui prima non si fosse mai occupato di politica: «Io gli avevo detto: ma scusate, perché venite a propormi? E perché sappiamo, conosciamo le tue idee». Si riferivano, appunto, all’attivismo sindacale di Donato: «Io fino ad allora di politica vera e propria non mi ero interessato. Mi interessavo di sindacato […] E facendo il sindacato dovevi prendere anche delle posizioni, e quando le prendevi, erano sempre posizioni contrarie ai democristiani. Se non per altro perché era quelli che gestivano l’ospedale». Donato fa risalire questa proposta all’inizio degli anni ’70, ma non ricorda l’anno preciso.

I successivi ricordi di Donato sono particolarmente interessanti, perché vanno a toccare una questione fondamentale, cioè il suo status economico agiato in contraddizione al fatto che andava a rappresentare un partito che diceva di voler fare gli interessi delle classi disagiate: «Una volta che son stato, che sono entrato nel giro, già mi aspettavo un’accoglienza abbastanza fredda perché allora comunisti erano, diciamo, i lavoratori, ma poveri […] Mentre invece sarà stato merito mio, non lo so, sarà stato merito dei comunisti che ho conosciuto. Sono stato accolto bene». Oltre a questa accoglienza positiva ma inaspettata, Donato ricorda con piacere delle visite che faceva con altri compagni di partito a un quartiere popolare della periferia della sua città. Donato precisa che non si trattava esattamente di giri propagandistici pre-elettorali: «Più che campagna elettorale erano… neanche di indottrinamento, ma, diffusione della buona novella, diciamo». Se da un lato il riferimento è alla pratica evangelizzatrice cristiana, è interessante come compaia, sembra, un elemento pedagogico che ricorda vagamente l’approccio leniniano (v. Che fare?) e che certamente sarebbe condannato come “elitista” dagli odierni populismi [5]. In quel quartiere, precisa Donato, «trovavi però terreno fertile, perché erano già, molti, lo erano già», essendo un quartiere abitato da «quelli che si chiamavano allora i lavoratori. La classe operaia in senso lato», tra i quali «molti erano artigiani. D’altra parte, anche la composizione del gruppo comunista era un pochino espressione di questo» (come parentesi comico-politica, Donato ricorda anche che l’accoglienza era talmente buona che una volta tornò a casa sulla Vespa miracolosamente guidata da un cugino, dato che avevano bevuto un’intera bottiglia di Vermuth Gancia: «Io non ero abituato a bere, ne sono uscito che non sapevo neanche dov’ero»).

Il segretario del PCI Enrico Berlinguer davanti all’Opera di Guttuso “Il funerale di Togliatti”

Parlando invece dell’attività politica istituzionale, Donato non ricorda particolari successi dato che il Pci si trovò sempre in minoranza (pur aumentando, nel tempo, il numero di consiglieri da 3 a 11). Ricorda inoltre, con un po’ di tristezza, che i numeri della politica facevano sì che spesso le maggioranze in Comune si reggessero su pochissimi voti, talvolta appartenenti a partiti minori. Pertanto, per poter andare avanti, era necessario mettersi preventivamente d’accordo con l’ago della bilancia di turno concedendogli qualche favore. Una volta fatto, il voto era garantito e si poteva andare avanti. Donato ricorda anche un atteggiamento del Pci eccessivamente attaccato a una visione superficiale del prestigio istituzionale. «Istituzionalmente la provincia valeva di più, avere una provincia comunista era più importante che avere un comune, anche se» quel comune «era capoluogo. E quindi per la provincia si sono mollati un sacco di cose».

Complessivamente, Donato ricorda che la sua militanza attiva nel partito è durata all’incirca dal 1975 al 1990, ma non ha un buon ricordo degli ultimi anni, dal 1985 al 1990: «Son stati cinque anni che peggiori non potevano essere. Perché c’era una decadenza, un decadimento complessivo, generale […] Del partito, degli esponenti […] E… per me, non vedevo l’ora di uscirne». Alla domanda se si trattasse di un decadimento solo locale o anche generale, Donato risponde: «Io credo a livello anche generale. Localmente sicuramente. Ma credo che fosse un riflesso della decadenza generale che si stava manifestando». È interessante che, subito dopo aver fatto menzione di questa decadenza, Donato sente il bisogno di parlare di Enrico Berlinguer: «Berlinguer per me è stato il mio idolo». Forse perché, essendo Berlinguer morto nel 1984, può darsi che Donato associ la sua morte alla decadenza finale del Pci. Donato non ha conosciuto Berlinguer personalmente, ma ricorda di essere stato ai suoi funerali.

La menzione di Berlinguer è stata l’occasione per Donato di spiegare la particolare ideologia della quale si sentiva e si sente convinto: «Io ero, sono nato e rimango berlingueriano». Per essere precisi, questo “berlinguerismo” significava «essere, se non antisocialista quanto meno inviso ai socialisti», e avere una buona opinione del cosiddetto “compromesso storico”: «Compromesso storico ero d’accordo allora, che non era il compromesso che c’è oggi» (l’intervista è stata registrata durante il governo Renzi-Berlusconi del 2014-2016, con tanto di “Patto del Nazareno”) [6].

Alla richiesta di arrischiare delle ragioni per questo decadimento del Pci, Donato nomina Berlusconi, benché il suo primo governo risalga al 1994, cioè alcuni anni dopo lo scioglimento del Pci. Ma, nota Donato: «Perché Berlusconi nasce prima. Nasce con Craxi, col craxismo. Il berlusconismo […] Ma può darsi, o forse meglio, che sia nato prima il berlusconismo che ha prodotto Berlusconi poi». Qui, è importante notare che l’impero televisivo berlusconiano, che certamente contribuì in misura preponderante alle vittorie politiche del suo proprietario, fu stabilizzato grazie a una legge, la legge Mammì del 1990, che fu approvata con forti responsabilità del Pci. In buona sostanza, il Pci si mise d’accordo per far passare la legge Mammì (ironicamente definita dai giornalisti di allora la «legge fotografia» o «legge polaroid», dato che si limitava a “fotografare” e legalizzare l’anomala situazione allora esistente) in cambio di una sua influenza politica sulla terza rete della Rai [7].

Sempre sulla decadenza del Pci, Donato nota che «questa che chiamiamo la cupio dissolvi è esistita sempre» all’interno del partito, pur non precisandone in significato. Il termine cupio dissolvi merita una precisazione. Si tratta di un termine religioso proveniente da San Paolo, e che esprime il desiderio di autodistruzione del corpo e di resurrezione dell’anima (bene tenere a mente questo particolare). Sui rapporti del Pci con l’Urss e paesi satelliti, Donato dice che sono stati improntati nel tempo a diverse sfumature: «C’è stato, c’è stato sicuramente, tutte queste cose […] ci sono state. La sudditanza. La critica. Ebbe’! Oh, la critica si è resa evidente, io dico anche molto prima, ma già con i fatti di Ungheria [del 1956] ci sono stati… c’è stata parte del partito che si è dissociato. Mentre parte ha avallato. Un fatto è certo: che in quei tempi il partito era monolitico. Doveva essere il verbo».

Una sezione del PCI

Questo monolitismo, secondo Donato, non è sinonimo di centralismo democratico, anzi: «Centralismo democratico sul quale io ero e sono d’accordo se è gestito, come dice il nome, democraticamente. Se tutti hanno la parola, la possibilità di parlare, di essere ascoltati e di ascoltare, per me è la forma migliore di democrazia quella». Interessante, poi, che secondo Donato il centralismo democratico sia perfettamente compatibile con l’idea di democrazia espressa da Stefano Rodotà nel suo libro Il diritto di avere diritti: «In questa frase secondo me c’è tutta la democrazia. Tutti abbiamo il diritto di avere diritti. Se tu riconosci questo, hai fatto già un passo molto lungo nella ginnastica, direbbe De Andrè, dell’obbedienza. La chiamava De Andrè» [8]. Donato parafrasa un verso della canzone «Nella mia ora libertà», contenuta nell’album Storia di un impiegato (1973). È difficile interpretare le parole di Donato. Nella canzone, la «ginnastica d’obbedienza» viene vista come una cosa negativa. Forse, Donato intende che bisogna allontanarsi da una concezione arrogante ed egoista del potere. Oppure, che un minimo di limitazione o “ginnastica” dell’obbedienza è indispensabile per poter garantire il convivere civile.

A una domanda sulle letture che Donato e suoi compagni facevano all’epoca, la risposta è stata: «Tex, Capitan Miki». Per la musica, invece, Donato ricorda di essersi appassionato a Fabrizio De Andrè, incontrando però le obiezioni di un prete locale, forse per motivi moralistici. Anche se questo stesso prete, nella memoria di Donato, veniva apostrofato pubblicamente nella via principale della città come «Don […] minchia d’oro» da una prostituta locale (un evidente complimento per sue le doti fisiche). La menzione di questo esimio religioso è stata l’occasione per una domanda sui rapporti fra il Pci e il clero. Secondo Donato, i comunisti «non sono mai stati anticlericali», dato che l’anticlericalismo «non fa parte della dottrina comunista». O meglio, l’attitudine del Pci non era del tipo «io ce l’ho con te perché sei prete […] Ce l’ho contro il fatto che tu sostieni una tua filosofia che la mia filosofia non ammette […] tant’è vero che, soprattutto in Italia, ma non solo in Italia, la maggior parte dei comunisti sono tutti “credenti” fra virgolette, non anti, anticlericali voglio dire».

Questa menzione del clero e della religione è importante, perché permette di fare una riflessione sull’atteggiamento in materia del Pci (soprattutto dell’ultimo Pci) e dell’ideologia comunista in genere. Una cosa è certa: basta avere delle conoscenze anche molto superficiali per sapere che nella dottrina comunista hanno sempre avuto una parte molto importante non solo la critica al clero, come vedremo, ma anche alla religione in quanto tale. Naturalmente, Marx è stato un autore estremamente prolifico, ma per sapere le sue opinioni in materia di religione non è necessario andare a cercare testi sconosciuti o inediti. Ricorriamo a una edizione del Manifesto comunista tradotta e introdotta da Palmiro Togliatti. A p. 73 leggiamo: «Le leggi, la morale, la religione, sono per lui [per il proletario] altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi» [9].

Marx ed Engels non potrebbero essere più chiari: la religione altro non è che un pregiudizio borghese. Non solo. Poche pagine dopo, i due si fanno beffe delle obiezioni della borghesia contro il comunismo: «nel corso dell’evoluzione storica […] la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto […] si mantennero sempre […] Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale» [10]. Marx ed Engels notano sprezzanti che il comunismo significa infatti «la rottura più radicale con le idee tradizionali», con buona pace della religione [11].  Ma già nel 1844 Marx aveva precisato, nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli» [12]. Alcuni interpreti dicono che Marx in realtà non avesse un’attitudine negativa verso la religione, considerandola un riflesso di determinati rapporti sociali. In questa visione, con il cambiamento dei rapporti sociali (rivoluzione) la religione non sarebbe stata più necessaria e sarebbe scomparsa. Al di là di quale sia l’interpretazione giusta, non c’è dubbio che negli scritti marxiani la critica verso la religione è chiaramente presente, ed è forte. Negarlo significa negare l’evidenza. Inoltre, non risulta che con il suo esempio personale Marx abbia mostrato che bisognasse adattarsi alla religione, per esempio nell’educazione dei figli (diversamente da quanto fecero molti membri del Pci e Berlinguer in prima persona) [13].

Questo per quanto riguarda il marxismo, ideologia alla quale, almeno inizialmente, il Pci riteneva di ispirarsi. Ma che dire dell’Urss, il paese che per lungo tempo fu il principale punto di riferimento del Pci? Qui il discorso si farebbe complicato, perché andrebbe a investire una contraddizione fondamentale del Pci che certamente ha contribuito alla sua fine, cioè il fatto che un partito interno alla democrazia parlamentare si ispirasse a una dittatura monopartitica instaurata con una rivoluzione armata, giusta o sbagliata che fosse. Fin dal 1917 i bolscevichi al potere mostrarono sempre antipatia e ostilità verso la religione, con campagne antireligiose continue e talvolta violente che hanno avuto una battuta d’arresto solo con l’avvento di Gorbachëv nel 1985. La loro opera fu sempre ispirata a un laicismo e ad un ateismo radicali, tant’è che l’ateismo scientifico veniva insegnato in tutte le scuole e università. La letteratura in materia, del resto, è sterminata [14]. Il dato storico interessante, però, è che dalla svolta di Salerno in poi, il Pci ha progressivamente attenuato la critica marxista alla religione, sino a eliminarla quasi del tutto con Berlinguer.

Sempre dentro, sempre critici

Giacomo è un po’ più giovane di Donato, dato che nel 1973-74, quando si avvicinò al Pci, aveva 25-26 anni. Anche Giacomo fu avvicinato al Pci da persone che frequentavano il partito, quando lui già lavorava come impiegato per un ente pubblico: «Il mio interesse per la politica è nato più o meno insieme all’attività lavorativa. Perché fino ad allora mi definivo un po’ anarcoide, con libro di Bakunin nella valigia». Giacomo ricorda di essersi avvicinato a Bakunin (ma senza seguito) durante alcuni anni di università frequentati al Politecnico di Torino, tra il 1967 e il 1968 (anche, se, dice, «per la verità al Politecnico non ci si è quasi accorti […] di quello che stava succedendo nel resto del mondo»). Poi, dice: «Guardavo verso sinistra. Quindi mi è sembrato quasi naturale aderire [al Pci]. Inizialmente andare a curiosare». Inizialmente senza tessera del partito ma iscritto alla CGIL, Giacomo fu progressivamente coinvolto da colleghi più politicizzati, assieme ai quali rivitalizzò «la sezione Lenin» che «era abbastanza attiva». Interessante punto di contatto tra l’intervista di Giacomo e quella di Donato è che anche Giacomo ricorda le visite al quartiere popolare periferico, anche se con l’obiettivo di distribuire l’Unità: «Ricordo che fra le altre cose non c’era domenica senza che noi andassimo a vendere l’Unità, a distribuire l’Unità nel quartiere […] Quindi sai […] Ci facevamo tutte le stradette, le case – non solo di quelli che sapevamo l’avrebbero presa, ma anche… ovviamente si tentava di darla anche a uno che magari qualche volta la prendeva qualche volta no».

Giacomo ricorda quei quartieri come «molto estesi, c’era tanta gente. Infatti, noi impegnavamo… eravamo diversi gruppetti nella sezione. Andavamo generalmente in due. E impegnavamo tutta la mattinata». Gli abitanti di questi quartieri provenivano prevalentemente dai paesi dei dintorni, ed erano soprattutto «impiegati, operai. Certo non cosiddetta classe medio-alta. Erano tutte persone che si erano un po’ arrangiate a farsi la casa da soli, quindi insomma muratori… ma anche tanti impiegati». Giacomo aggiunge: «E devo dire che quegli anni li ricordo anche con piacere, perché quasi dappertutto ci invitavano ad entrare, si scambiavano quattro parole. C’erano persone anche anziane, vecchi. C’erano molti comunisti lì, eh! […] ai quali faceva piacere. Anzi, era motivo d’onore prendere il giornale. Qualcuno ci offriva il caffè». Alla mia domanda di giovane ingenuo – perché andavate a distribuire il giornale? Non c’era un’edicola? – Giacomo risponde: «Ma era un modo per far politica, per star vicino alla gente. Non era solo il fatto […] di portare il giornale. Era un modo per anche sentire i problemi, eventualmente riportarli, discuterne. Cioè era un modo vivo, diverso da quello… Oggi ci si guarda attraverso la televisione. Cioè uno guarda e l’altro si fa guardare. E lì c’era proprio il contatto fisico, lo scambio di idee […] di prima mano. I malumori, ma anche gli apprezzamenti per quello che succedeva». Giacomo ricorda anche: «Abbiamo avuto anche il piacere, per diverso tempo, di dare, portare il giornale» a un ingegnere azionista che era stato veterano della Guerra di Spagna. All’epoca «era già molto anziano […] E ricordo che un paio di volte ci siamo anche seduti, con lui, a bere il caffè a casa sua. Così a chiacchierare». A differenza di Donato, Giacomo ricorda di essersi tenuto lontano dalle avventure alcoliche, accettando al massimo un caffè ma rifiutando il bicchiere di vino che qualcuno gli offriva.

Il dopo Berlinguer e la sua icona

Giacomo distribuiva in quel quartiere periferico anche perché era il quartiere cui faceva capo la sua sezione, una delle cinque o sei presenti nella sua cittadina, e che ricorda come «abbastanza vivace». Oltre alle discussioni talvolta accese, Giacomo ricorda anche con un pizzico di ironia una caratteristica peculiare delle riunioni di sezione settimanali: «La cosa singolare era che a quei tempi, anche se si doveva parlare magari di un argomento della città, del quartiere, come regola il segretario di sezione […] partiva sempre con una sorta di relazione […] Introduttiva. Partiva […] dalle questioni internazionali [ride], quindi Russia, Stati Uniti e […] poi si avvicinavano i tempi dello strappo con la Russia […] e si partiva di là, poi si passava all’Europa, poi si passava all’Italia, poi alla» nostra regione, «e alla fine quando tutti eravamo esausti [M.G. ride] si arrivava magari al problemino di quartiere. Che era poi quello che magari» interessava maggiormente «chi abitava nel quartiere, che magari era meno interessato ai problemi internazionali e più al fatto che il quartiere non aveva ancora tutte le strade asfaltate, non aveva per niente servizi, e che… e così via. Però questa era la consuetudine, sia delle riunioni di sezioni, sia delle riunioni poi che si facevano periodicamente».

Col senno di poi, secondo Giacomo un’impostazione del genere era troppo dispersiva, «troppo pesante». È vero che lunghe e ricorrenti riunioni di questo tipo possono ben stancare delle persone già stanche dal lavoro, e certamente l’odierna politica digitale si serve di ben altri mezzi per tenere i contatti col popolo. La politica faccia a faccia di cui parla Giacomo, però, presenta anche innumerevoli vantaggi che il mondo del web non offre [15]. Inoltre, riunioni di questo tipo potevano essere positive ed istruttive, parlando di questioni di politica internazionale anche ai militanti di una piccola cittadina del Sud Italia, che così potevano sentirsi parte di un movimento internazionale. Del resto, Giacomo sente il bisogno di aggiungere: «Magari in una certa fase storica può anche essere che questo sia stato anche opportuno, necessario, perché contribuiva comunque a tenere accesa l’attenzione su problematiche che, anche se da lontano, ci riguardavano tutti».

«Poi piano piano», però, «le sezioni hanno iniziato a soffrire la mancanza di militanza. E quindi si sono un po’ ridotte di numero, di attività, e poi in fase successiva» le sezioni sono «quasi praticamente sparite». Per quanto riguarda la democrazia interna al partito, Giacomo ricorda che vi fossero sì degli attriti tra opinioni diverse, ma che la libertà di espressione fosse sostanzialmente garantita: «Ciascuno di noi diceva liberamente quello che pensava», anche se magari c’era chi diceva «ciò che conveniva per fare poi carriera». Nello specifico, Giacomo dice di aver fatto parte di un gruppo interno al Pci locale che aveva degli screzi con i dirigenti più ortodossi, i quali li accusavano di «fughe in avanti, che i tempi non erano maturi», appellandosi al «famoso, maledetto, “rinnovamento nella continuità”». Ma quale era l’oggetto del contendere? Secondo Giacomo, la «democrazia interna al partito», alcune «scelte urbanistiche», ma anche la lottizzazione politica della quale parla anche Donato. Allora, infatti, «era molto più apertamente politicizzata la sanità. Il presidente [delle Asl] veniva scelto. Oggi è la stessa cosa però si fa in maniera subdola. Prima era pacifico che c’era un accordo fra democristiani e comunisti per dire: questo ecco, questo fa il presidente della Asl. […] C’era un’alternanza. C’è chi prendeva quello, la camera di commercio. Quindi sai, queste battaglie le abbiamo fatte tutte. Col privilegio, l’orgoglio di essere sempre in minoranza». Giacomo precisa anche che questa «spartizione» degli enti pubblici è sempre esistita, a prescindere dal fatto che il Pci fosse maggioranza o meno.

Sempre su questo gruppo di “dissidenti”, Giacomo aggiunge che «soprattutto noi eravamo tutte persone che avevamo il nostro lavoro, non eravamo funzionari di partito. Quindi eravamo indipendenti da tutti i punti di vista […] Ragionavamo con la nostra testa», cosa che non tutti vedevano di buon occhio, tanto da arrivare a qualche tiro mancino. Giacomo è stato più volte candidato alle elezioni locali, ma «non son stato eletto perché i miei compagni di partito, dopo che passavo io a fare il giro della mia zona, della zona che mi era stata assegnata […] passavano a dare diverse indicazioni. Quindi […] “vota quest’altro” […] succedevano anche di queste cose». Nonostante questo, però «siamo andati avanti lo stesso, abbiamo fatto le nostre battaglie interne». Del resto, Giacomo precisa per la politica di «carriera» non l’ha mai interessato.

Questo gruppo di dissidenti si trovò poi a formare una rivista bimestrale alternativa che voleva essere «la coscienza critica del Pci […] ci apprezzavano quasi tutti, fuorché quelli della classe dirigente del Pci» che infatti tentò di sabotarla «in tutti i modi». «Soprattutto nei primi anni, quando eravamo molto motivati, molto impegnati […] abbiamo saltato anche le mille copie, siamo arrivati che vendevamo sulle 1200 copie ad uscita, che insomma, per questa zona non sono poche». Complessivamente, la rivista è durata dal 1987 al 2005.

Complessivamente, Giacomo dice di potersi essere orientato politicamente autonomamente: «Io non ho mai respirato aria di politica qui a casa mia […] Non se ne parlava, quindi io ho avuto la possibilità di orientarmi per i fatti miei». A una domanda su quali fossero i simboli politici che lo attiravano, Giacomo cita Berlinguer, come Donato: «Simboli in carne e ossa sicuramente c’era Berlinguer, che già da allora era un simbolo. Perché sia da quando era in vita sia dopo ha sempre rappresentato il modo corretto di intendere il comunismo, di intendere la sinistra […] quei continui richiami, inascoltati per lo più, alla correttezza […] La questione morale insomma. E lui li faceva […] Per tantissimi, direi per la maggior parte, era un simbolo. Poi vabe’, non so gli altri simboli. Il… quello che ha dato il nome alla mia sezione [Lenin] non l’ho mai visto come un simbolo in effetti […] Uno sicuramente dei padri fondatori, però era già… cioè non era, non aveva quel richiamo». Berlinguer, invece, «sicuramente era la personalità di maggior spicco, e che ti, proprio ti dava un… solo a sentirlo parlare delle vibrazioni particolari, ecco». A una domanda se anche Gramsci rappresentasse un simbolo, Giacomo risponde: «Gramsci sì. Vabe’ di Gramsci poi, non è che abbia letto tutto, ma avevo già letto allora diverse cose. Quindi anche Gramsci, ma non come Berlinguer». Anche Giacomo, come Donato, ha partecipato ai funerali di Berlinguer: «È stata una emozione grandissima proprio».

Conclusioni

Le due interviste con Donato e con Giacomo, messe a confronto, ci possono permettere di fare alcune conclusioni che esulano dal carattere strettamente locale, con l’aiuto di una letteratura selezionata. Banalmente, entrambe le interviste presentano delle scene di politica novecentesca che nell’odierno mondo “post-ideologico” possono sembrare lontane anni luce come la politica faccia a faccia, le visite, la distribuzione dei giornali, le sezioni. Altra cosa che oggi può sembrare lontana anni luce è che sia Giacomo sia Donato fanno esplicito riferimento a un partito che aveva un riferimento di classe (per quanto ampiamente inteso), cosa ben diversa dall’odierna politica. I quartieri che sia Giacomo sia Donato visitavano erano quelli periferici e popolari, abitati dai lavoratori. Un altro punto in comune delle due interviste è che in entrambe si fa riferimento a un impegno politico nato da stimoli etico-morali più che prettamente ideologici (l’antipatia verso le spartizioni o lottizzazioni partitiche).

La svolta della Bolognina

Alcune questioni più generali si intrecciano ai temi toccati nelle interviste. Che cos’era il Pci? Il Pci ha fatto bene a sciogliersi come ha fatto? Era una scelta inevitabile? Esiste oggi una sinistra in Italia? Se esiste, perché è cambiata tanto da diventare irriconoscibile? Il marxismo è morto? Sulla questione dell’inevitabilità della storia, sarebbe bene fare tesoro della lezione di Richard Pipes, che notava come certe cose possano facilmente apparire inevitabili a posteriori, ma ciò non significa che il paradigma dell’inevitabilità della storia sia sempre utile e giusto [16]. In generale, sappiamo da Lucio Magri che la decisione di sciogliere il Pci fu presa d’imperio per bypassare l’opposizione di buona parte della base [17]. Tuttavia, è indubbio che lo scioglimento fu la conseguenza di una profonda crisi, della quale qui non è possibile indagare completamente la genesi e le cause.

Come si accennava, si possono solo offrire alcuni spunti critici. Parlando dell’ammirazione per Enrico Berlinguer, molti ex militanti del Pci assumono toni nostalgici, quasi commossi. Se per qualcuno era addirittura un «idolo», per altri era comunque un «simbolo», anche ben più importante di Gramsci. La cosa che colpisce è la scarsità o assenza di resoconti critici su questa importante figura, che lasciano spesso il posto a una agiografia più o meno marcata. E il problema non è affatto facilitato dal fatto che molti dei commentatori appartengono all’area (post)Pci [18]. C’è di più: una agiografia di parte su una figura così importante potrebbe anche non stupire, ma stupisce e preoccupa il fatto che la simpatia e l’ammirazione sembrino universali, unendo anche personaggi lontani da quella tradizione politico-culturale, come Gianroberto Casaleggio e Marco Travaglio [19].

Un possibile approccio critico potrebbe partire da un esame più obiettivo di alcuni miti fondanti del “berlinguerismo” (termine giustificato sia dalla forte identificazione degli ex Pci con la figura di Berlinguer, sia dall’oggettiva differenza tra quest’ultimo e la precedente tradizione marxista), come per esempio il Compromesso Storico. Un tentativo è stato fatto da Lucio Magri e Paolo Persichetti, che nei loro libri notano che il Compromesso Storico fu in realtà una strategia molto mitizzata ma in un’ultima analisi irrealistica e fallimentare, per una serie di motivi [20]. La c.d. “questione morale” berlingueriana sarebbe un altro mito da rivedere criticamente. Quasi nessuno, infatti, fa notare che questa “questione morale” si riduce a un richiamo all’onestà, privandosi di qualunque elemento ideologico alternativo come l’emancipazione delle classi subalterne [21]. Usando la metafora del mercato politico, un consumatore/elettore sceglie una merce in base a delle caratteristiche che la differenziano dalle altre merci. Se le differenze non ci sono o non sono sostanziali, perché dovrebbe sceglierla? Senza contare che (naturalmente questo Berlinguer non poteva saperlo, essendo morto prima) dopo Tangentopoli questione morale e giustizialismo si sono mescolate creando un mix esplosivo, in gran parte responsabile dell’ascesa degli odierni populismi.

Del rapporto con la religione e di una lettura parziale del berlusconismo come causa primaria della crisi del Pci si è già detto. Il fatto che le letture di alcuni quadri del Pci fossero Tex e Capitan Miki merita un’ulteriore riflessione. Con tutto il rispetto per l’arte del fumetto, sembra che il Pci non curasse molto la formazione dei suoi quadri locali. Da dei membri di un certo livello di un partito che diceva di voler fare gli interessi della classe lavoratrice ci si aspetterebbe qualche incursione anche in autori come Marx e Gramsci, del resto ampiamente disponibili e ricchi di sistematicamente ignorati insegnamenti (il travisamento del quale Gramsci è stato vittima dalla sua morte a oggi meriterebbe un discorso a parte) [22]. Questo carattere negativamente “nazionalpopolare” (populista?) del Pci viene talvolta presentato dai suoi agiografi come prova di una grande vicinanza alla classe lavoratrice. Eppure non si direbbe, dato che l’evoluzione della sinistra italiana negli ultimi decenni è andata in un senso sempre più anti-popolare, elitista, post-ideologico e iperliberista.

Di fronte alla gravissima crisi che il marxismo ha vissuto verso la fine del XX secolo, vi sono stati vari approcci. Quello scelto dalla maggior parte delle élite di sinistra e da molti militanti è stato quello di appiattirsi sulle posizioni dell’ideologia avversaria, annacquare sempre di più la propria storia, le proprie origini e la propria specificità, presentando il tutto – è il colmo! – come una dolorosa necessità o addirittura come un impavido atto di coraggio [23]. Questo ha portato a una involuzione nella quale l’elettorato storico della sinistra, lasciato solo e disorientato, è stato facilmente captato dai partiti di vecchie e nuove destre, talvolta con sfumature rossobrune o neofasciste [24]. Del resto, la cosa sembra non essere compresa dalle élite di sinistra, ma è compresa benissimo dalle suddette destre [25].

Bisogna però dire che in questo desolante appiattimento capitolardo c’è stata una eccezione interessante, lo storico Domenico Losurdo (1941-2018). Nonostante alcune sue cadute stalinoidi e la sua visione eccessivamente realpolitik e campista della storia del movimento comunista e delle relazioni internazionali passate e presenti, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Losurdo ha avuto un atteggiamento diverso da quello di tanti suoi (ex) compagni. Eppure, proveniva dall’area culturale Pci! Anzi, si può dire che ne fu un intellettuale organico! Già negli anni ’90, infatti, mise in chiaro che c’era una bella differenza tra autocritica e autofobia, e la sinistra già da allora era purtroppo in preda alla seconda, con un atteggiamento religioso paragonabile a quello del primo messaggio cristiano: il mio regno non è di questo mondo! [26] Notò, inoltre, come l’Italia e non solo fosse ormai in preda a un vero e proprio monopartitismo competitivo, animato da leader di vari partiti che rappresentavano sostanzialmente gli stessi interessi socioeconomici [27]. Già nel XXI secolo e poco prima della morte, scrisse anche un libro eloquentemente intitolato La sinistra assente, dove documentava e si interrogava su questa grave assenza (o metamorfosi?) [28]. Fino alla fine, non smise mai di ribadire la necessità della rinascita del marxismo in Occidente [29]. Questo atteggiamento più critico, serio, e non agiografico, forse, potrebbe aiutarci a capire meglio la crisi in cui ci troviamo, e ad ideare le vie per uscirne fuori.

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Note

[1] Come esempio di agiografia in occasione del centenario: Fabrizio Rondolino, Il nostro Pci, 1921-1991. Un racconto per immagini (Milano: Rizzoli, 2021). Purtroppo, anche una rivista che si occupa di storia orale e che ha l’ambizioso intento di occuparsi del «mondo popolare e proletario» come Il De Martino, ha pubblicato in occasione del centenario un contributo meramente agiografico e senza nessuna riflessione critica: Maria Luisa Righi et al., «Storie e memorie del Pci: voci, suoni e miti del comunismo Italiano», Il De Martino 23 (2021).

[2] Alessandro Portelli, «What Makes Oral History Different» in The Oral History Reader, a cura di R. Perks e A. Thomson (London: Routledge, 1998): p. 68.

[3] Nel suo libro L’ uccisione di Luigi Trastulli: Terni, 17 marzo 1949. La memoria e l’evento (Foligno: Il Formichiere, 2021), Alessandro Portelli fa una lunga e interessante riflessione sul perché un nutrito gruppo di operai si erano collettivamente sbagliati sulla data e sulle circostanze della morte di un loro compagno. Come spiega bene Portelli, ciò non era causato dal fatto che gli operai volevano “mentire” allo storico, ma dal fatto che la loro memoria si era sedimentata collettivamente in un certo modo per ragioni precise.

[4] Per opere generali sulla storia della DC, vedasi: Agostino Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994 (Bari: Laterza, 1996); Nico Perrone, Il segno della DC (Bari: Dedalo, 2002); Luciano Radi, La Dc da De Gasperi a Fanfani (Soveria Manelli, Rubbettino, 2005); Giorgio Galli, Storia della Dc (Kaos edizioni, 2007).

[5] Vladimir Ilʹič Lenin, Che fare? (Roma: Editori Riuniti, 1970).

[6] Massimo Parisi, Il patto del Nazareno (Soveria Mannelli: Rubettino, 2016).

[7] Giuseppe Fiori, Il venditore. Storia di Silvio Berlusconi e della Fininvest (Milano: Garzanti, 1995).

[8] Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti (Roma-Bari, Laterza, 2012).

[9] Karl Marx e Friederich Engels, Manifesto del partito comunista (Roma: Editori riuniti, 1980).

[10] Ibid., pp. 86-87.

[11] Ibid., p. 87.

[12] Karl Marx, Scritti politici giovanili (Einaudi, Torino, 1975), p. 395.

[13] Nello Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 (Roma-Bari: Laterza, 1997).

[14] Qui si dà solo qualche sintetico accenno: Dimitry V. Pospielovsky, A History of Marxist-Leninist Atheism and of Soviet Anti-religious Policies (New York: Palgrave, 1987); Felix Corley, Religion in the Soviet Union (London: Macmillan, 1996); Paul Froese, «Forced Secularization in Soviet Russia: Why an Atheistic Monopoly Failed», Journal for the Scientific Study of Religion, Vol. 43, No. 1 (Mar., 2004), pp. 35-50; M. Sherwood, The Soviet War on Religion (London: Modern Books); Sabrina Petra Ramet (a cura di), Religious Policy in the Soviet Union (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); Victoria Smolkin, A Sacred Space is Never Empty. A History of Soviet Atheism (Princeton: Princeton University Press, 2018).

[15] Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero (Roma: Laterza, 2011); Neil Postman, Amusing Ouselves to Death. Public Discourse in the Age of Show Business (London: Penguin, 2005).

[16] Richard Pipes, A Concise History of the Russian Revolution (New York: Vintage Books, 1996), pp. 383-384. In realtà, Pipes contraddice la sua saggia riflessione poche pagine dopo, quando dice che la fine dell’Urss era inevitabile (p. 405).

[17] Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci (Milano: Il Saggiatore, 2012).

[18] Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer (Roma: Laterza, 2004). V. anche il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer (2014). In Enrico Berlinguer e la fine del comunismo (Torino: Einaudi, 2006), Silvio Pons fa un tentativo (per quanto insoddisfacente) di uscire dal paradigma agiografico.

[19] V. Gianroberto Casaleggio intervistato da Marco Travaglio, https://www.youtube.com/watch?v=OWsaWMcPkMo,https://www.youtube.com/watch?v=8ZmulG8z5iI. È anche significativo che Travaglio concluda il suo spettacolo del 2009 Promemoria con le famose parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale.

[20] Magri, op. cit. V. anche Paolo Persichetti, La polizia della storia (Roma: DeriveApprodi, 2022).

[21] Salvo Lo Galbo, «Le stelle che si frantumano e la caduta delle meteore», Unità di classe n. 9, marzo 2021, pp. 4-5.

[22] V. Marco Gabbas, «Guerrilla War and Hegemony: Gramsci and Che», Tensões Mundiais/World Tensions v. 13, n. 25 (July-December 2017): pp. 53-76, https://revistas.uece.br/index.php/tensoesmundiais/article/view/346). Sull’”operazione Gramsci” v. anche: Nello Ajello, Intellettuali e PCI: 1944-1958 (Roma: Laterza, 1997). Anche Aurelio Lepre fa saggiamente notare nel suo libro Che c’entra Marx con Pol Pot? (Roma: Laterza, 2001 – versione ebook) che Gramsci perorava la “guerra di posizione” in Occidente, ma «[Q]uesto non significa che fosse diventato un socialdemocratico o un riformista: come affermò esplicitamente nella sua analisi dei rapporti di forza, anche per lui il momento dello scontro militare era decisivo. […] In realtà, Gramsci aveva della democrazia una concezione ben diversa da quella liberaldemocratica e, pur criticando Stalin (ma non Lenin), rimase sempre un comunista. […] Gramsci voleva una “democrazia organica”, che doveva realizzarsi non sul piano individuale, ma all’interno della “personalità collettiva” delle classi». Interessante che in tempi recenti anche Diego Fusaro abusi del concetto gramsciano del nazionalpopolare per i suoi fini populistici.

[23] Naturalmente, le tante folgorazioni sulla via di Damasco sono state alimento anche per una letteratura comico-satirica. V. Ilya Kuriakin, Il compagno Veltroni. Dossier sul più abile agente della Cia (Roma: Stampa alternativa, 2000). V. anche: Denis Jeambar e Yves Roucaute, Éloge de la trahison. De l’art de gouverner par reniement (Paris: Seuil, 1988).

[24] Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2017); Thomas Picketty, Capital and Ideology (Cambridge: Harvard University Press, 2020).

[25] Adriano Chiarelli, Capitan Selfie. Eccessi, contraddizioni e manie nelle dichiarazioni di Matteo Salvini (Roma: Nutrimenti, 2020).

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi (Napoli: La scuola di Pitagora, 2005).

[27] Domenico Losurdo, La seconda repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo (Torino: Bollati Boringhieri, 1994).

[28] Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra (Roma: Carocci, 2014).

[29] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Roma: Laterza, 2017).

 

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La pace è finita, l’Unione Europea anche https://www.carmillaonline.com/2023/01/05/la-pace-e-finita-lunione-europea-come-la-si-e-immaginata-anche/ Thu, 05 Jan 2023 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75302 di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli [...]]]> di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli studi di Caracciolo per i “compagni”. Spesso accusandolo di un filo-atlantismo ad oltranza che stride in maniera evidente con tutto ciò che l’autore va dicendo e scrivendo da anni.

Anche quelli che si ostinano a ritenere che la geopolitica sia “roba di destra” farebbero meglio a leggere il libretto oppure richiedere la consegna dello stesso da parte del drone con la scopa caratteristico del 6 gennaio. Poiché se è vero che acquistare «Limes», la rivista di cui Caracciolo è direttore, tutti i mesi può rivelarsi impegnativo e costoso, la lettura e l’acquisto di questo ultimo suo lavoro potrebbe occupare poco tempo e pesare non molto sulle tasche dei singoli (parlando comunque di tempo e soldi ben spesi).
Ma allora cosa conterrà di così importante il testo di cui si sta qui parlando, chiederà qualche lettore storcendo già il naso. La risposta è già nella prima riga, e in quelle seguenti, senza ombra di dubbio.

Il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. Trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sopra La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), l’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo, stigma di ogni progressismo occidentale. Fukuyama scriveva all’indomani del miracoloso biennio avviato dal crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e chiusa dal suicidio dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991), con i decisivi passaggi dell’unificazione tedesca (3 ottobre 1990) e dello scioglimento del Patto di Varsavia (1° luglio 1991) […] Il presidente George H. Bush preconizzava un Nuovo Ordine Mondiale (ancora!), fondato sull’incontestata, pacifica, benevolente egemonia a stelle e strisce. I cantori della vittoria americana nella Guerra fredda annunciavano il trionfo della Nuova Roma. Pax americana, dunque?
Non proprio. Prima il lungo decennio della Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il vetennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la contestazione russa dell’ordine americano […] parallela all’analoga sfida cinese al primato di Washington […] Finita era la pace, non la storia. A Bush padre come a quasi tutti i contemporanei sfuggiva che la fine dell’impero sovietico e la scomposizione dell’URSS in quindici repubbliche che dalla sera alla mattina vedevano i loro pseudoconfini amministrativi eretti a frontiere di improbabili Stati, segnavano il tramonto del vecchio ordine, non l’alba del nuovo. Le rovine dell’edificio crollato. Costruito dopo il 1945 sulla spartizione dell’Europa per mano dei suoi conquistatori – base della doppia egemoonia americano-sovietica sul pianeta – ostruivano qualsiasi velleità di impiantarvi il Sistema-Mondo definitivo, già battezzato “Washington Consensus”. Stiamo ancora spalando tra le macerie del vecchio ordine, mentre i residui muri portanti su cui americani e altri occidentali imperniavano l’ideale dell’umanità metastorica si rivelano perfettamente inadatti allo scopo. Viviamo il rovesciamento della fine della storia: le storie della fine1.

Dovrebbero bastare queste poche righe a contestare le convinzioni di coloro che ritengono l’autore un ferreo sostenitore degli Stati Uniti e dell’atlantismo a ogni costo, ma poiché non è intento di questa recensione difendere o salvare una personalità pubblica dalle critiche di carattere ideologico, è invece importante sottolineare che, in fin dei conti, ciò che anima il pensiero di fondo di Caracciolo è un europeismo costretto oggi a fare i conti con la Storia. Proprio questo aspetto sembra infatti costituire il cuore del saggio: analizzare le prospettive dell’Europa e della sua presunta unità di fronte alle sfide poste dalla crisi, indubitabile, dell’Occidente americano e dall’insorgenza, più che dal sorgere, di potenze economico-militari e dalle ancor ampie risorse energetiche tradizionali a loro disposizione.

I soliti critici ideologici, con le menti tradizionalmente avvolte nelle fette di salame tardo marxista-leninista e per questo motivo scarsamente attenti alla realtà dei fatti, spesso dipingono l’Occidente come un tutt’uno, in cui gli attori nazionali sono tutti fedelmente legati all’obbedienza al canone e al volere degli Stati Uniti d’America e mai in contrasto al loro interno se non per quisquilie di carattere etico e giuridico. Finendo col costituire soltanto l’altra faccia della medaglia del pensiero embedded di pennivendoli “inconsapevoli e felici” come Massimo Giannini2, mentre la realtà, fotografata anche nelle pagine del testo qui proposto, appare ben diversa.

Realtà che, al di là degli evidenti contrasti tra Europa del Nord ed Europa mediterranea, tra stati dei confini orientali e stati occidentali all’interno del continente oppure se vogliamo delle immarcescibili polemiche e rivalità mediterranee tra Italia e Francia, travestite amabilmente da “questione migratoria”, e della Francia con gli Stati Uniti sulla necessità di una Difesa comune europea (possibilmente a guida francese) che si distacchi in parte o del tutto dalla Nato (a cui, però, Macron intende vietare l’accesso all’Ucraina guerriera e filo-americana di Zelensky), risalente ancora ai tempi della grandeur sognata da Charles De Gaulle, vede il centro di ogni turbolenza economica, politica militare accentrarsi al suo vero cuore: la Germania, riunificata nel 1990 e ancora una volta a caccia del suo ruolo di comando sul continente.

Prima dell’Ottantanove le due Germanie avevano cautamente stabilito rapporti piuttosto intensi, spesso segreti. Molto più di quanto lo schematismo della Guerra Fredda prevedesse. E di quanto la grande maggioranza degli stessi tedeschi, su entrambe le sponde, immaginasse. All’ombra di ideologie e narrazioni storiche specularmente opposte – doppia negazione, dunque affermazione – l’una conferma e dimostrazione dell’altra, si dipanava un filo rosso percebile a chi non mettesse la testa nella sabbia o non fosse stordito dalle rispettive propagande. Filo che negli ultimi trent’anni, almeno fino alla svolta del 24 febbraio, ha riportato la Germania al rango di protagonista economico ma anche geopolitico su scala mondiale. Ma sempre a rischio di rompersi il collo, proprio quando il ritorno della Potenza del Centro – Zentralmacht Europas […] – sembra scolpito nella pietra3.

Nel delineare i “due blocchi” tedeschi riunificatisi nel 1990, l’autore ci ricorda che:

La più piccola delle due Germanie (quella ex-orientale – NdR) è stata e rimane la più tedesca. Così come, a suo modo, la Bundesrepublik preunitaria non può essere ridotta a base avanzata dell’impero americano in Europa occidentale, l’altra Germania non è mai stata un mero satellite dell’URSS. Il graduale ritorno della Germania unita nella storia avviene attingendo al patrimonio identitario custodito dalla DDR molto più che dalla Bubdesrepublik delle origini. Se l’Ovest annette l’Est, l’Est inietta nell’Ovest quelle dosi di codice nazionale, non necessariamente democratico, preservato nei quarant’anni di controllo sovietico. Trovando a occidente dell’Elba un terreno più fertile di quanto apparisse in superficie4.

La storia ha il respiro lungo. E ci ricorda come quel decisivo spazio nel cuore dell’Europa sia culturalmente autocentrato. L’identità tedesca, dal romanticismo in poi, verte su valori orgogliosamente specifici […] E’ l’architrave sul quale si è costruito il Secondo impero e la cui versione aggiornata sta riportando i tedeschi di oggi al senso di appartenere, malgrado tutto, a un soggetto storico dotato di un proprio codice culturale. Di una specifica missione […].
Nell’Europa eterodiretta dai due poli esterni (USA e URSS – NdR), la risultante politica di questo sentimento collettivo era latente neutralismo. Rifiuto di ridursi a meri strumento delle superpotenze. Ben sapendo come queste divergendo su quasi tutto convergessero nel considerare lo spazio tedesco intrinsecamente pericoloso, da mantenere sotto stretta sorveglianza. Tale neutralismo era fondato su un nazionalismo segreto, per certi versi passivo e persino inconsapevole. Nella Germania Federale prendeva la forma dell’Europa, maschera e insieme confortevole vestito dei propri interessi di Stato. Di fatto nazional-statali5.

L’europeismo tedesco-occidentale era il nazionalismo possibile nel mondo della Guerra fredda. Almeno quanto lo era il francese. Ma senza la gloria, il messianismo universalista della Grande Nation […] Allo stesso modo, sulla riva destra dell’Elba il tardo prussianesimo dai colori socialisti coltivato dalla DDR era il seminazionalismo possibile nel blocco imperiale sovietico. Dal 1990 in poi le due correnti carsiche sono emerse, mescolandosi. Il neonazionalismo tedesco risorto a partire dai “nuovi Länder”, anche ma non solo sotto specie del partito Alternative für Deutschland, conferma il diverso tono cultural-politico fra le due Germanie, socialmente e culturalmente distinte quanto istituzionalmente riunite. Soprattutto annuncia la rilegittimazione del discorso nazionale anche all’Ovest. L’europeismo germanico ha sempre meno remore a mostrare il suo scopo nazionale, anche se il mantello giallo-stellato resta irrinunciabile6.

Nel tanto parlare che si fa, a Sinistra come a Destra, in maniera negativa oppure positiva, di sovranismo sempre questo si dimentica ovvero il fatto che si tratta soltanto di un nazionalismo diversamente travestito, che ha potuto sopravvivere, come ben dimostra il caso tedesco, sia sotto il tallone democratico-liberale americano che sotto quello socialista-autoritario dell’URSS e del Patto di Varsavia. Sono riflessioni necessarie che proprio il testo di Caracciolo, anche indirettamente, invita e obbliga a fare.

Oggi la Germania, sempre meno vestita da Europa, vuole iniziare a riprendere in mano il proprio destino, stando all’ormai famosa formula di Angela Merkel7. I successori della cancelliera, a cominciare dal non spettacolare Olaf Scholz, inclineranno ad allargare lo spazio di autonomia della Bundesrepublik anche rispetto ai soci europei e alla superpotenza americana8. La traiettoria imboccata dopo il 1990 porta la Germania a trattare l’Europa sempre meno da foglia di fico e sempre più da area di influenza. Selezionando al suo interno, a partire dal classico spazio mitteleuropeo (Nord Italia incluso), i partner da associare più strettamente facendo leva sul vincolo monetario e sull’integrazione economica, da volgere per quanto utile in leva geopolitica9.

La guerra in Ucraina ha contemporaneamente sia rallentato che accelerato tale processo, che vedrà come centrale una ristrutturazione della presunta unità europea, destinata a finire sia per effetto delle pressioni americane che di quelle russe e tedesche. Un nuovo, importantissimo, elemento del nuovo disordine mondiale che il testo di Caracciolo, borghese intelligente e pacato non certo uno pseudo-comunista da operetta o da social assetato di fake, ci aiuta a prevedere.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina la Germania pareva avviata nel medio periodo verso la piena affermazione come potenza regionale dotata di una sfera d’influenza più o meno travestita da “Europa” […] La guerra in corso colpisce i pilasti della Bundesrepublik: il vincolo strategico con l’America, il vincolo energetico con la Russia, affossato dalle sanzioni; la speciale relazione economica con la Cina, mercato di primario interesse; e la stabilità economico-monetaria dell’Eurozona. Vedremo quanto questo influirà sulla traiettoria geopolitica della Germania, che non intende certo rinunciare a nessuno dei fondamenti del suo benessere e della sua potenza10.

La guerra ha coinvolto la Germania e i suoi interessi e deciderà della sorte dell’Europa che, ancora una volta come nel corso delle guerre napoleoniche, prima, e della Prima e della Seconda Guerra mondiale, poi, in assenza di significativi rivolgimenti classisti, sarà nuovamente spartita, suddivisa e riunificata soltanto per mezzo del rombo dei cannoni e il clangore delle armi. Lo sappiano gli amanti dei discorsi fintamente antimperialisti in bianco e nero. Noiosissimi, scontati e totalmente inutili.


  1. L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 7-8  

  2. Cfr. M. Giannini, Le democrazie “resilienti” e l’anno zero delle autocrazie, “La Stampa”, 31 dicembre 2022 

  3. L. Caracciolo, op. cit., pp. 93-94  

  4. Caracciolo, cit, p. 93  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ibid., p.95  

  7. Che, non va mai dimenticato, anche se nata ad Amburgo nel 1954, ha trascorso gran parte della sua gioventù nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR), fino a diventare, dopo le elezioni del 18 marzo 1990, portavoce dell’ultimo governo della stessa prima della riunificazione, avvenuta nell’ottobre di quello stesso anno – NdR  

  8. Come dimostrano gli investimenti militari programmati nei mesi scorsi, già sottolineati su «Carmillaonline», che hanno portato la Germania ad essere la terza potenza per investimenti nel settore militare a livello planetario – NdR  

  9. Caracciolo, cit., pp. 95-96  

  10. Ibidem, p. 96  

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Studiare le radici delle guerre (per tagliarle) https://www.carmillaonline.com/2022/12/21/studiare-le-radici-delle-guerre-per-tagliarle/ Wed, 21 Dec 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75027 di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera [...]]]> di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera di gran lunga tante analisi precedentemente condotte sullo stesso argomento, anche se «raccolti tutti insieme, i libri dedicati alla Seconda guerra mondiale occuperebbero centinaia di metri sugli scaffali di una biblioteca».

L’autore evita infatti di dipingere il quadro in bianco e nero, semplice e rassicurante, ma allo stesso tempo reticente e falso, con cui quel conflitto è stato troppo spesso ridotto, a fini propagandistici, a una titanica lotta tra il “bene” e il “male” ovvero tra la democrazia e la barbarie e il totalitarismo nazifascista. Modello storiografico cui si è, invece, abituati fin dalle frequentazioni scolastiche, utile a rappresentare l’attuale come il solo e il “migliore” dei mondi possibili, da difender “ad ogni costo” contro qualsiasi minaccia o attacco proveniente dall’esterno (o dall’interno).

Ottica adattissima a fomentare nuove guerre in difesa delle “libertà occidentali”, tacciando di barbarie criminale qualsiasi potenziale avversario. In modo da tracciare a priori linee di differenziazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra chi è amico e chi nemico e costruire un comune immaginario su cui costruire un’identità adatta a supportare le esigenze del capitale occidentale e a giustificarne le conseguenze. In parole povere: la situazione di oggi a livello propagandistico e narrativo dei media mainstream e dei guru politici europei ed americani.

Ernest Mandel, nato in Germania nel 1923, da genitori appartenenti alla Lega di Spartaco di Karl Liebneckt e Rosa Luxemburg, e morto a Bruxelles nel 1995, ha dedicato la sua vita, fin dalla più giovane età, alla militanza politica rivoluzionaria. Svolta fin dal 1938 nelle file della IV Internazionale ispirata da Lev Trotsky, seguendone tutte le vicissitudini ideologiche ed organizzative successive, come mette ben in luce Pietro Acquilino nella sua introduzione al testo.

Mandel, per una parte del pubblico italiano meno giovane, è noto soprattutto per alcuni testi editi durante il ciclo di lotte operaie e studentesche a cavallo tra anni ’60 e ’70, che servirono ai più come primo avvicinamento al marxismo: Trattato di economia marxista (Samonà e Savelli 1967)1, La formazione del pensiero economico di Karl Marx (Laterza 1968) e Neocapitalismo e crisi del dollaro (Laterza 1973), solo per citarne alcuni.

L’opera qui presentata, però, si rivela, almeno in gran parte, come una delle sue più efficaci e interessanti, soprattutto, si scusi la ripetizione, se vista alla luce dell’attualità odierna. Poiché, come si afferma nell’introduzione al testo: «Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico». E studiare i motivi reali e lo svolgimento del secondo macello imperialista planetario non significa soltanto, anche se sarebbe già importante di per sé, superare d’un balzo tutte le narrazioni banalizzanti e di comodo che su quel conflitto si sono accumulate sugli scaffali delle biblioteche e nell’immaginario collettivo, ma anche studiare, comprendere e affrontare il conflitto che, dopo decenni di guerre neo-coloniali mascherate da operazioni di polizia internazionale, più si avvicina, per condizioni generali di partenza, pericolosità e possibile estensione su scala planetaria, a quello attualmente in corso sulle frontiere orientali d’Europa. Come si afferma ancora nell’introduzione:

Occorre quindi studiare le guerre del passato, soprattutto prossimo, non perché convinti ingenuamente che gli avvenimenti di allora possano ripetersi negli stessi termini, ma perché le loro cause profonde, che possono condensarsi nelle lotte per i mercati insite nel modo di produzione capitalistico, sono tuttora operanti e potranno portare a nuovi conflitti. Perciò la guerra non sarà solo un problema che le prossime generazioni dovranno affrontare, sarà il problema che coinvolgerà tutti gli aspetti del vivere umano, da quello sociale e a quello ecologico, dissolvendo le ultime vestigia di quel confine tra militare e civile che i grandi conflitti mondiali del ‘900 hanno già fortemente intaccato2.

Soprattutto in un contesto in cui, come hanno rilevato due esperti di strategia del’esercito cinese, in un testo del 1999: «Con il nuovo secolo i soldati devono chiedersi: che cosa siamo? Se Bin Laden e Soros sono soldati, allora chi no lo è? Se Powell, Schwarzkopf, Dayan sono politici, allora chi è un politico? Questo è il quesito fondamentale del globalismo e dellaguerra nell’era della globalizzazione.»3. Affermazione che, tra le altre cose, non fa che confermare l’osservazione già fatta da Michel Foucault, nel 1976, che «il potere è la guerra continuata con altri mezzi. Così facendo si ha il rovesciamento della tesi di Clausewitz e si afferma che la politica è la guerra continuata con altri mezzi»4.
Il motivo di tali trasformazioni della politica e della guerra può essere facilmente individuato in ciò che scrive Mandel fin dall’inizio del suo studio:

Il capitalismo implica la concorrenza. Con la nascita delle grandi corporations e dei cartelli – cioè con l’avvento del capitalismo monopolistico – la concorrenza assunse una nuova portata. In termini quantitativi divenne più economico-politica e, dunque, economico-militare. […] In gioco c’erano colossi industriali e finanziari i cui interessi si misuravano in decine o centinaia di milioni (oggi miliardi, spesso migliaia – NdR). Gli Stati e i loro eserciti, perciò, si impegnarono sempre più direttamente in questa gara, presto diventata competizione imperialistica alla ricerca di nuovi sbocchi per gli investimenti e l’accesso a materie prime a basso prezzo o rare. Il carattere distruttivo di questo antagonismo si accentuò sempre più, in una crescente tendenza alla militarizzazione e al suo riflesso ideologico: la giustificazione e la glorificazione delle guerra. Al contempo la crescita della manifattura, l’aumento della capacità produttiva delle imprese tecnologicamente più avanzate, la produzione complessiva delle principali potenze industriali e, in particolare, l’espansione del capitale finanziario e della capacità di investimento, si riversarono ben oltre le frontiere degli Stati-nazione, persino dei più grandi5.

Questi però vanno considerati ancora come i prodromi ottocenteschi dei grandi macelli imperialistici del ‘900 e del loro prolungamento nel XXI secolo. Se, infatti, non sorprende che il primo tentativo di mettere in discussione lo status quo ottocentesco, favorevole al colonialismo e al controllo dei mercati di stampo inglese e francese, fosse intrapreso, all’alba del Primo conflitto mondiale, dalla Germania «che aveva raggiunto la supremazia industriale in Europa ed era nella condizione di sfidare con la forza delle armi la suddivisione delle colonie favorevole alla Francia e all’Inghilterra»6 oltre che quella del mercato mondiale, non c’è nemmeno da stupirsi che il motore del secondo conflitto mondiale, più che nel Trattato di Versailles e affini, fosse ancor auna volta determinato dalla «necessità dei principali Stati capitalisti di controllare l’economia di interi continenti attraverso gli investimenti di capitale, gli accordi commerciali privilegiati, le regole monetarie e l’egemonia politica. L’obiettivo della guerra fu sottomettere alle priorità dell’accumulazione di capitale di una singola potenza egemonica, non solo i paesi sottosviluppati, ma anche gli altri Stati industrializzati, sia nemici che alleati»7.

Ora cambiati, almeno in parte, gli interpreti del dramma destinato a andare nuovamente in scena, è possibile verificare non solo che tale prospettiva è ancora quella in atto, ma che le stesse motivazioni stanno da anni spingendo al conflitto in ogni area del mondo. Dall’Africa al Medio Oriente, dal Mar della Cina all’Ucraina passando per i processi mai riusciti completamente di centralizzazione del capitale europeo intorno a suo “cuore tedesco” e i vari tentativi di quello statunitense di sabotarne la realizzazione. Mentre nuovi soggetti politici e progetti imperiali scalpitano per sostituire il dominio occidentale e del dollaro sulle risorse, le ricchezze e i mercati globali del pianeta.

Non esiste la benché minima prova che il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti, i veri sfidanti dello status quo nella Seconda guerra mondiale, ponessero limiti ai loro obiettivi bellici. […] si stabiliva fin dall’inizio che per l’esercito giapponese l’occupazione della Cina era soltanto il trampolino verso la conquista del dominio mondiale, che sarebbe stato raggiunto dopo aver soffocato la resistenza degli Stati Uniti. L’alleanza giapponese con la Germania in effetti non fu che momentanea e rimase fragile e inefficace durante tutta la guerra, perché era considerata come una tregua provvisoria con un futuro nemico. Per Hitler la comprensione della guerra in arrivo era altrettanto chiara: «La lotta per l’egemonia mondiale in Europa sarà decisa dal possesso dello spazio russo. Qualsiasi idea di politica mondiale sarà ridicola [per la Germania] fintanto che non dominerà il continente (…) Se saremo i padroni dell’Europa, allora occuperemo una posizione dominante nel mondo. Se l’Impero britannico dovesse crollare adesso grazie alle nostre armi, non ne saremmo noi gli eredi, perché la Russia si prenderebbe l’India, il Giappone l’Asia orientale e l’America il Canada8. Anche l’imperialismo americano era cosciente del suo “destino” di leader nel mondo. […] Per gli Stati Uniti la guerra dveva essere la leva con cui aprire allo sfruttamento americano l’intero mercato e le risorse mondiali9. […] Se dunque il significato della Seconda guerra mondiale, come di quelle precedenti, si può comprendere solo nel contesto della contesa mondiale per il domino imperialista, la sua importanza sta nel fatto che si trattò della decisiva verifica dei reciproci rapporti di forza per gli Stati imperialisti in competizione. Il suo esito ha determinato per un lungo periodo la forma specifica dell’accumulazione mondiale del capitale. Nel mondo organizzato dal capitale, fondato sugli Stati-nazione, la guerra è lo strumento per la risoluzione definitiva delle divergenze10.

Si lascia naturalmente qui, ai lettori più attenti e interessati, la comprensione di quali siano oggi i propositi e i protagonisti principali del conflitto apertosi in Ucraina, sottolineando, però, come ancora una volta l’ideologia liberal-democratica costruirà, e stia già costruendo, un proprio modello di paesi e comportamenti “amici” per individuare il fronte dei “cattivi nemici”. Operazione che, ormai ben rodata da anni di sbandieramento democratico e discorsi politically correct, viene portata avanti quotidianamente sui media mainstream occidentali. Mentre sul fronte opposto, ancora una volta profondamente diviso nella sostanza, l’unico discorso unificante pare ancora esser quello “anticoloniale” arbitrariamente sventolato da nazioni altrettanto imperialiste negli intenti ultimi. Motivo per cui, forse, era più sincero Goebbels quando, con il suo solito stile diretto e cinico, descriveva così gi obiettivi dell’imperialismo: «Obiettivamente il senso di giustizia e il sentimentalismo sarebbero soltanto un ostacolo per i tedeschi nella loro missione mondiale. Questa missione non consiste nell’estendere la cultura e l’educazione nel mondo, ma nel sottrarre grano e petrolio»11.

Per ragioni di lunghezza occorre chiudere qui la recensione di un libro la cui lettura, in quasi tutti gli aspetti, esclusi forse quelli relativi al controverso ruolo dell’URSS nel conflitto 1939-1945 e ai movimenti di Resistenza antifascista e antinazista inquadrati dagli interessi delle borghesie nazionali e del capitale imperialista occidentale, può rivelarsi particolarmente utile ancora oggi. Specie per tutti quei militanti che dal loro campo di interessi e di azione hanno precedentemente escluso la storia militare ed economica dell’imperialismo mondiale.

Avvertenza

Poiché il testo non è di facile reperibilità, si indica qui di seguito l’indirizzo e-mail da contattare per richiederlo o ordinarlo: assopuntocritico@gmail.com


  1. Ora disponibile qui  

  2. P. Acquilino, Introduzione a E. Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Punto Critico, 2022, p.10  

  3. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  4. M. Foucault, Corso al Collège de Franc del 7 gennaio 1976 ora in M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009 (prima edizione 1998), p. 22  

  5. E, Mandel, op. cit., p. 21  

  6. Ibidem, p.22  

  7. Ibid, pp. 25-26  

  8. Discorsi nel Quartier generale del Führer 1941-1944, Heine, Monaco 1986, p. 110 – NdA  

  9. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941 in Life Magazine, Henry Luce ha scritto: «Roosvelt è riuscito dove Wilson aveva fallito (…) Per la prima volta nella storia il nostro mondo di due miliardi di abitanti formerà un’unità indissolubile. Perché questo mondo sia sano e forte il XX secolo deve diventare il più possibile il Secolo americano» – NdA  

  10. E. Mandel, op. cit., pp. 26-29  

  11. Cit. in Mandel, p. 28, n. 15  

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Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe https://www.carmillaonline.com/2022/12/07/uno-sguardo-altro-sulla-cina-contemporanea-e-le-sue-contraddizioni-di-classe/ Wed, 07 Dec 2022 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74897 di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati [...]]]> di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.

Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.

Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale. Il libro, appena tradotto in Italia ma già apparso nel 2016 sul primo numero della rivista, rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina che, con taglio dichiaratamente “materialista”, vuole smarcarsi tanto da una letteratura “di sinistra” da anni sostanzialmente monopolizzata e caratterizzata dalle varie correnti ideologiche di origine “maoista” che, occorre qui ricordarlo, hanno spesso poco a che vedere con il marxismo inteso in senso stretto, quanto dallo specialismo di chiara marca accademica.
Come hanno sottolineato gli autori:

ripercorriamo lo sviluppo materiale della società cinese per evitare di rimanere invischiati nelle battaglie ideologiche del passato. Qua non si tratta di difendere una tradizione di sinistra contro un’altra. Anzi, a differenza della maggior parte delle ricostruzioni, la nostra serie storica de-enfatizza intenzionalmente i dibattiti ideologici e il ruolo dei leader, compresi quelli di Mao e Deng. Non siamo qui per riportare in vita i morti o per far rivivere le glorie del passato. Anche nel nostro lavoro di ricostruzione storica, il focus resta totalmente orientato al presente. Ripercorriamo gli sviluppi materiali della società cinese per tracciare le possibili aperture politiche del nostro tempo1.

Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale. A partire dalla ricostruzione del contesto economico e sociale in cui maturò il progetto rivoluzionario cinese (costantemente inteso nella sua dimensione collettiva di fenomeno di massa), ci guida nei meandri del processo di costruzione di quello che viene definito “regime sviluppista socialista”, vero assemblaggio in corso d’opera di pratiche, sistemi produttivi, metodi di inquadramento e disciplinamento della forza lavoro ed estrazione dl surplus agricolo, definito dal rapporto tra il Partito Comunista Cinese e la base sociale della rivoluzione.

E’ fra i meandri di questo processo che vediamo emergere tutti gli elementi che andranno a definire i contorni dell’attuale conflitto sociale in Cina: l’irrisolto divario tra città e campagna, la sovrapposizione fra strutture partitiche e apparati dello Stato, la graduale formazione di una classe dirigente di “ingegneri rossi” da un lato e di un semi-proletariato a cavallo fra mondo contadino e sfruttamento urbano, dall’altro. “Uno dei più importanti slanci verso lo sviluppo nella storia dell’umanità”: un sistema, come ci illustra Chuăng, crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni e del contesto storico internazionale in cui viene a maturare, ma che, nondimeno, sedimenta gli elementi strutturali che, a partire dalla successiva fase di “riforma ed apertura”, porteranno […] la Cina degli ultimi decenni a rappresentare non solo l’ancora di salvezza per un’economia globale scossa da una crisi ancora irrisolta, ma che ha costituito anche il teatro di una vivace, quanto in parte misconosciuta, conflittualità sociale e di classe, protagonista una giovane e massiva classe operaia cinese. Le sue lotte ricalcano in parte le caratteristiche e i limiti del ciclo di conflittualità globale dell’ultimo decennio, anche se, considerata la posizione strutturale del Paese, hanno, e non potranno che aver anche in futuro, un’eco e una portata mondiale2.

Per tutti questi motivi, si afferma ancora nella Prefazione:

Approcciarsi ad una comprensione della Cina contemporanea appare oggi compito non più procrastinabile. La rapida mutazione dello scenario internazionale, le linee di faglia che vanno ad approfondirsi, i tamburi di guerra totale sempre più incalzanti che fanno da sfondo a questa fase di transizione del capitalismo globalizzato, rendono ormai imprescindibile dotarsi di una cassetta degli attrezzi analitica e teorica “di parte”, che provi a sottrarre la “questione” della Cina tanto al tifo per un fantomatico “socialismo con caratteristiche cinesi”, che assumerebbe sempre più i tratti di faro alternativo per una parte consistente di periferia del mondo, quanto, soprattutto, alle sirene di una sinofobia occidentale sempre meno strisciante, substrato ideologico e narrativo dello scontro inter-imperialistico a venire3.

Attrezzarsi, dunque, non solo per capire la Cina e le sue contraddizioni, ma anche il conflitto interimperialistico allargato che verrà e che è già nell’aria e che, per forza di cose, vedrà coinvolte direttamente una potenza al suo tramonto e una già emersa da tempo. Non a caso due aree, quella dell’America settentrionale e quella sino-asiatica, da cui gli osservatori e i “tifosi” del conflitto di classe potrebbero e dovrebbero attendersi le sorprese maggiori.

Il presente volume costituisce, nell’intento degli autori, il primo volume di una serie di tre dedicati all’«emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell’accumulazione capitalista» e nello stesso si analizza

la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l’era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell’Asia orientale. Il secondo volume coprirà la “Riforma e l’Apertura” avviate alla fine degli anni ’70, per giungere alla cosiddetta distruzione della “ciotola di riso di ferro” durante l’ondata di deindustrializzazione degli anni ’90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell’agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo4.

Nell’analizzare l’evoluzione dei rapporti sociali e di classe all’interno del sistema politico-economico cinese i compagni di Chuăng utilizzano, come anticipato già dal sottotitolo dell’opera, la definizione di “socialismo sviluppista”, riferito in particolar modo al periodo compreso tra il 1949 e il 1969 ovvero tra l’affermazione della Repubblica Popolare e la fine della Rivoluzione culturale (1966-1969). Secondo gli autori, infatti:
Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come “regime sviluppista”, non fu né un modo di produzione né una “fase di transizione” tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di “capitalismo di Stato”, nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l’egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.
Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l’alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l’arco dell’espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l’edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo ad un nuovo modo di produzione.
Questo sistema industriale non fu immediatamente o “naturalmente” capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell’era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della “forbice dei prezzi”, ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall’immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all’andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell’industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.
Allo stesso tempo, non v’era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò e, gli ultimi decenni del periodo videro l’emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella “breve” Rivoluzione culturale del 1966-1969 […] Nei primi anni del dopoguerra, il PCC fu in grado di mantenere l’egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni ’50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l’inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l’evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell’intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale(( Ivi, pp.14-16 )).

Per questi motivi non solo i compagni del collettivo possono affermare che a differenza di molte sinistre, non devono nemmeno cercare di tracciare il “filo rosso” della storia, «per scoprire dove il progetto socialista “sarebbe andato storto” e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo», ma anche che

Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come quella di altre formazioni all’interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell’epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal PCC siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di “falsi” comunisti, o semplicemente come prodotto dell’azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento5.

Resta, però, all’interno dell’analisi condotta nel testo un dubbio per il lettore più attento, riguardante la differenza che si vuole rimarcare tra esperienza cinese e esperienza russa.

Nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l’era socialista cinese […]. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi, la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull’esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall’esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, ed i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.
Al di là di questo, la geografia dell’influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall’esperienza dell’epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente “cinese”, con una propria economia nazionale unitaria6.

Ciò non toglie però che l’economia cinese sia passata proprio nel periodo esaminato attraverso alcune tipiche contraddizioni di quello che era stato considerato il “socialismo in un solo paese” dell’URSS di età staliniana e successive. Per esempio la permanenza di un sistema salariale che, come si afferma ancora nel libro:

rispecchiasse le priorità strategiche d’investimento dello Stato centrale. In base a ciò, fra i lavoratori impiegati nell’industria pesante, gli addetti ai lavori manuali percepivano i salari più alti, con paghe per le maestranze di grado superiore quasi equivalenti a quelle dei quadri di medio livello (come i capi reparto), e fondamentalmente alla pari con le paghe dei docenti universitari e assistenti ingegneri. I lavoratori dell’industria pesante di grado inferiore, invece, ricevevano poco meno della media degli insegnanti di scuola elementare. Questo a sottolineare quanto le stratificazioni salariali progettate dal partito fossero destinate non solo a differenziare i diversi settori industriali urbani, ma anche i lavoratori stessi all’interno della fabbrica7

Mi perdonino gli autori, ma altro che “socialismo”, qui ci troviamo davanti agli stessi problemi sociali e organizzativi emersi durante l’industrializzazione forzata di staliniana memoria, con tutte le conseguenze politiche e di classe che ne derivarono. Motivo per cui, anche se non è il caso di riaprire qui il dibattito sulla permanenza o meno del capitalismo, seppur di Stato, in presenza del regime salariale di scambio ineguale tra lavoro e sua effettiva retribuzione, certo è difficile cogliere una significativa differenza tra il regime del lavoro vigente in URSS e quello cinese del periodo preso in esame. Questo paragone può valere poi ancora per la violenta, e drammatica, mutazione avvenuta in agricoltura che portò a momenti di carestia e fame diffusa.

Nella pratica le politiche del Grande Balzo finirono per minare le fondamenta stesse del regime sviluppista socialista arrestando la produzione e l’esportazione delle eccedenze di grano dalle campagne verso le cttà. Con una sottrazione di una significativa quota di forza lavoro dal settore agricolo e, allo stesso tempo, con la requisizione crescente di grano per il consumo industriale, la produzione totale del cereale rimase ben al di sotto del fabbisogno reale. L’agricoltura collettivizzata risultava in grado di fornire un surplus, ma senza riuscire a innescare quel tipo di rivoluzione della produttività che avrebbe resp veramente possibile un effettivo slittamento demografico. La produttività del lavoro agricolo non era progredita in modo sostanziale, specialmente se paragonata alle prototipiche rivoluzioni agricolebche avevano aperto la transizione capitalista delle nazioni europee. I risultati furono la carestia ed un devastante collasso economico8.

Ancora una volta lo stesso effetto ottenuto in Russia con l’industrializzazione forzata e la collettivizzazione agraria dall’alto degli anni Trenta. Occorrerebbe dunque evitare di negare la similitudine tra rivoluzione cinese e trasformazioni dell’URSS in chiave capitalistica, considerato che in entrambi i casi il termine socialismo è spesso servito per mascherare il salto verso lo Stato e l’economia di stampo capitalistico. Anche l’accentramento svolge questa funzione per un’economia arretrata o parzialmente tale oppure in crisi. Come accadde infatti anche nell’Occidente capitalistico con la Grande Crisi e l’intervento statale nell’economia ad opera del Fascismo, del Nazismo e del New Deal. Allora non è forse proprio lo sviluppismo a costituire il problema di fondo di transizioni che hanno avuto essenzialmente caratteri nazional-borghesi più ancora che socialisti?

Fatte però tutte le dovute considerazioni, non resta che sottolineare l’utilità del testo e il metodo applicato per arricchire un dibattito che ancora oggi, all’alba del terzo millennio e di un nuovo conflitto di portata mondiale e devastante, definire asfittico è ancora troppo poco.
Grazie dunque ai compagni di Chuăng e a quelli delle edizioni Porfido per l’impegno assunto nello stimolarlo con le loro ricerche e questa pubblicazione, motivo per cui non ci rimane che attender l’uscita degli altri due volumi previsti dell’opera.


  1. https://positionspolitics.org/dirty-work/  

  2. Prefazione all’edizione italiana di Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 6 -7  

  3. ivi, p.7  

  4. Chuăng, Introduzione op. cit., pp. 13-14  

  5. Ivi, p.17  

  6. Ivi, pp. 17-18  

  7. Ivi, p.89  

  8. Ivi, p. 133  

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Traditori di tutti, traditi del tutto https://www.carmillaonline.com/2022/11/15/traditori-di-tutti-traditi-da-tutto/ Tue, 15 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74689 di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, [...]]]> di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, troppo spesso, fine a se stessi (o quasi.) Basta leggere, infatti, le pagine di romanzi quali La talpa, La spia venuta dal freddo, Tutti gli uomini di Smiley o La tamburina per entrare in un mondo di servizi segreti occidentali (MI6, CIA o Mossad) in cui a dominare sono l’astuzia, la spietatezza, il calcolo (spesso personale) e la disillusione,

Il romanzo di Jorge Semprún (1923- 2011), appena pubblicato in Italia da Settecolori, nonostante la sua edizione originale risalga al 1969, ci introduce nello stesso mondo, però visto dal “fronte orientale”, speculare avversario dei protagonisti dei romanzi di le Carré. Qui gli agenti operano per il KGB (siamo ancora in piena guerra fredda, e gli avversari (?) sono quelli della CIA. Il tutto complicato da un elemento che per i difensori dell’ordine liberale non esisteva: il sentirsi, o meno, rappresentanti di una Rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare il mondo, ma che invece non lo ha fatto.

Oltre a ciò, nel romanzo si affaccia in continuazione la storia collettiva e personale della Guerra Civile spagnola. Anch’essa caratterizzata da tradimenti, violenze, soprusi che non hanno lasciato certo immacolata la sua immagine. Anche sul fronte repubblicano.
E vi è molto di autobiografico nel romanzo, visto che l’autore, spagnolo di origine e francese per vocazione letteraria, aveva dovuto abbandonare la Spagna appena tredicenne, al seguito della famiglia di un diplomatico della Repubblica, riparata in Francia agli inizi della guerra nel 1936.

Non solo, l’autore, pur appartenente ad una famiglia borghese di rango, democratica e cattolica, aveva in seguito aderito al Partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo ed era diventato agente dei servizi segreti dello stesso e dei paesi dell’Est. Un percorso non dissimile, anche se con motivazioni estremamente diverse, a quello di le Carré che, prima di diventare scrittore, era stato agente dei servizi inglesi del MI6.

Ancor prima, però, il futuro scrittore spagnolo era entrato nella resistenza francese contro i tedeschi ed era finito prigioniero a Buchenwald. Così, come racconta nella bella postfazione al testo Romain Cortés:

Nell’aprile del 1945, tre ufficiali con la divisa britannica, ma in forza all’esercito del generale americano Patton, fissarono con uno sguardo spaventato il ventenne che li osservava all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, da poco liberato. Capelli rasati a zero, una magrezza estrema, il ragazzo indossava degli stivali di cuoio dell’esercito russo, aveva a tracolla una mitraglietta tedesca sotto cui, a strati, l’uniforme del carcerato si mischiava con ritocchi civili e militari. Jorge Semprún era il nome di quell’apparizione. […] A Buchenwald Semprún era arrivato un anno prima, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato in un rastrellamento di provincia, sorpreso nel sonno in uno dei tanti rifugi clandestini della Resistenza. Il risultato di quell’anno, in quello che non era un campo di sterminio, ma i cui forni crematori tramutavano in fumo i corpi di chi vi moriva per fame, stenti, fatica, spandendo nell’aria l’odore dolciastro della carne umana bruciata, era ciò che si stagliava davanti agli occhi come pietrificati dei tre ufficiali. Un fantasma, più che un sopravvissuto, si sorprese a pensare il diretto interessato. «I fantasmi fanno sempre paura. Io non ero veramente sopravvissuto alla morte, non l’avevo evitata. Non le ero sfuggito. Piuttosto, l’avevo percorsa da un capo all’altro. Ne avevo percorso i sentieri, mi ero perduto e ritrovato, immenso territorio dove scorre l’assenza. Un fantasma, appunto». Dietro questa constatazione, Semprún sentiva però premere qualcos’altro, sempre più forte nei diciotto giorni che passarono dalla liberazione di Buchenwald al suo ritorno a Parigi, in un convoglio di rimpatriati organizzato da una associazione religiosa. «Ero convinto di essere immortale. Fuori pericolo, in ogni caso. Mi era successo tutto, niente poteva più accadermi. Nient’altro che la vita, da mordere con denti voraci. È con questa sicurezza che ho attraversato, più tardi, dieci anni di clandestinità in Spagna» 1.

Clandestinità e azione politica durante le quali si rese progressivamente conto di quante menzogne occorresse sostenere oppure contribuire a diffondere, anche nei confronti di amici e compagni “innocenti”, purché la grande macchina partitica ed organizzativa, oltre che propagandistica, di una rivoluzione da tempo spentasi potesse continuare a rappresentarsi come l’erede delle tradizione rivoluzionaria e proletaria.

Sono le stesse domande che sembra porsi il protagonista del romanzo. Un agente trentatreenne che, durante una missione ad Amsterdam, nel 1966, si rende conto di essere stato tradito e venduto agli agenti della CIA.

Qual era l’uomo incaricato di seguirlo? Uno qualunque. Quelli della CIA, aveva pensato, stanno diventando irriconoscibili, ultimamente: assomigliano a degli universitari, a dei ricercatori della Rand Corporation, oppure a dei seduttori con le tempie brizzolate. A chiunque. Alcuni non sembrano nemmeno americani, hanno una faccia umana. È lo stile Kennedy, forse2.

Ma il vero problema si nasconde tra le file del KGB, forse ai livelli più alti. Forse proprio tra quei vecchi agenti e compagni che per il Partito avevano già sopportato tutto. Anche il Gulag, prima di essere riabilitati ed inseriti nuovamente nelle fila e ai vertici dei servizi operativi.

«Che cosa siamo noi, esattamente? Può dirmelo, Georgij Nikolaevič?». […]
A Zurigo, due anni prima, in Froschaugasse, aveva fatto una domanda a Georgij Nikolaevič Užakov, e questi aveva riso, con gli occhi celesti che gli brillavano.
«La storia si ripete come una farsa, vero?» aveva detto Užakov. «Siamo la ripetizione farsesca e beffarda di una storia del passato».
«Quale storia?».
«Ma quella della rivoluzione, ovviamente» diceva Georgij Nikolaevič.
«Una storia mancata» diceva lui.
«Ma via! Se non fosse mancata, non si ripeterebbe come una farsa. Anzi, non si ripeterebbe in alcun modo».
Lui, però, insisteva. «E il nostro ruolo qual è, in questa farsa?».
Užakov lo stava fissando. Non sembrava vederlo. Lo stava fissando, senza vederlo. Stava fissando altrove, nel proprio passato.
«Un ruolo tragico» diceva alla fine. «Tragico e beffardo. Siamo solo la caricatura dei funzionari della rivoluzione. Non ci sono più professionisti della rivoluzione mondiale, ci sono solo agenti infiltrati, funzionari dei servizi speciali»3.

Ecco, il rivoluzionario o preteso tale. si era trasformato, o era stato trasformato, in un funzionario, in un burocrate, un grigio esecutore di ordini. Magari dell’assassinio e del tradimento. Come in ogni dittatura che si rispetti, come per un altro fronte aveva già spiegato già Hannah Arendt nel suo La banalità del male (1963).
Non a caso il protagonista porta lo stesso, pesantissimo nome di un personaggio simbolicamente importante del tortuoso percorso della rivoluzione dall’Ottobre allo stalinismo e al Gulag: Ramón Mercader, l’assassino di Leone Trotzkij in Messico, nel 1940.

Figura tragica e dannata, degna forse di figurare nel romanzo Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto tra il 1892 e il 1902 e apparso a puntate nel 1905. Condannato a vent’anni di carcere in Messico come esecutore dell’assassinio, Mercader scontò tutto il periodo della condanna, senza mai parlare o confessare, in attesa di tornare in Russia a ritirare la medaglia d’oro che Stalin gli aveva assegnato per il compito svolto e gli onori che avrebbero dovuto essergli tributati. Ma Stalin era morto nel 1953 e quando Mercader era ritornato in URSS erano già passati quattro anni da quel congresso, voluto da Nikita Kruscev (segretario generale del Partito dal 1954 al 1964), che ne aveva rivelato i crimini. E per questo motivo, ignorato ed evitato da tutti, aveva dovuto accontentarsi di una dacia e di una pensione assegnategli dallo Stato, come unica ricompensa dei suoi “servizi”. Dopo aver vissuto nelle vicinanze di Mosca per un decennio si sarebbe trasferito a Cuba nel 1970, dove morì nel 1978 a 65 anni. Ecco il destino dell’”eroe” socialista.

Walter Wetter alzava il suo boccale di birra, quasi vuoto.
«Sai?» diceva. «Adesso brindiamo alla salute di Ramón Mercader».
Wettlich lo guardava. «Perché? È in pericolo?».
Walter Wetter sorrideva malignamente. «Ma no, non quello. Alla salute dell’altro, il vero Ramón Mercader».
Herbert Wettlich, visibilmente, non apprezzava lo scherzo. «E perché, se posso?» chiedeva, con una voce che voleva essere di biasimo.
«Ma perché è un militante esemplare, via!».
E Walter Wetter rideva sinceramente, una grande risata cupa, e a Herbert Wettlich quello scherzo piaceva sempre meno, ed ecco il nostro eroe positivo, pensava Walter Wetter, con una risata sempre più violenta, c’è da chiedersi perché i critici e i teorici della letteratura socialista si siano scervellati così a lungo, eccolo l’eroe positivo, Ramón Mercader del Río, ammesso che sia il suo vero nome, il militante che ha sacrificato tutto alla Causa, e quando dico tutto è tutto, non è una metafora, tutto, sé stesso, e la Causa stessa, tutto sacrificato nel silenzio e nel pubblico ludibrio, e non vale la pena di cercare altrove, signore e signori, eccolo l’eroe positivo, non vale la pena tentare di spingere in primo piano sulla scena letteraria – fedele riflesso socialista di una realtà radiosa – spingere avanti tutti quei trattoristi, quelle esemplari mungitrici di mucche da latte, quei tecnici che nella gioia del pensiero corretto inventano il metodo migliore per fondere i pezzi di una nuova macchina, non vale davvero la pena, parlateci piuttosto di Ramón Mercader del Río, il nostro eroe positivo4.

Per i suoi dubbi e le sue critiche Semprún era stato espulso dal partito spagnolo nel 1965 e, pur continuando a dichiararsi comunista per anni, aveva deciso di non più tacere e trasformare in letteratura ciò che apparentemente avrebbe dovuto appartenere soltanto alla Storia con la s maiuscola. Ricevendo, inevitabilmente, l’ostracismo dall’«Humanité», il quotidiano del Partito comunista francese, al momento dell’uscita di La seconda morte di Ramón Mercader in Francia.

Nel 1979, su insistenza di Leonardo Sciascia, altra splendida figura di intellettuale eretico, sarebbe stata pubblicata in Italia, da Sellerio, l’opera autobiografica che ripercorreva il cammino dell’autore tra le rovine e le menzogne del socialismo reale (e di Santiago Carrillo, storico segretario rigidamente allineato all’URSS del Partito comunista spagnolo): Autobiografia di Federico Sánchez, uscita l’anno prima per le Editions du Seuil, in Francia.

E proprio nelle pagine della Postfazione, Romain Cortés ci aiuta a disvelare il “segreto” della mancata pubblicazione fino ad ora del romanzo di cui si è fin qui parlato, anche se di Semprún in Italia erano già state pubblicate, da Einaudi, altre opere.

In Francia, l’unica critica astiosa al libro venne dal quotidiano «L’Humanité», organo del PCF, il Partito comunista francese […] Si tratta di una posizione minoritaria, come del resto è sempre più calante, come appeal e come voti, il peso culturale e politico di quel partito, sorpreso dal «maggio francese» come dall’invasione della Cecoslovacchia, ancora egemone nella classe operaia, ma non più in quella borghese e intellettuale, costretto di lì a non molto a ritrovarsi come competitor quel François Mitterrand che di fatto rifonda il Partito socialista e lo mette alla guida della sinistra…
Ma in Italia? In Italia il ruolo e il peso del Pci sono ben diversi e la situazione sociale, economica e politica molto più turbolenta di quella francese, dove la contestazione dura appena un mese e per un de Gaulle che se ne va c’è un Pompidou che arriva… Dopo aver espulso, proprio in quel 1969, per «frazionismo» il gruppo del Manifesto, nel 1973 Berlinguer proporrà il «compromesso storico», l’anno prima è saltato per aria l’editore Feltrinelli, c’è già stata piazza Fontana, hanno già fatto la loro comparsa le Brigate rosse, fra «strategia della tensione» e «autunno caldo», hanno insomma preso il via gli «anni di piombo». Il decennio dei Settanta è dunque il meno ideale per un libro che al fondo sostiene che tutto il comunismo non è stato altro che un gigantesco, sanguinoso inganno, che il Partito, con la p maiuscola, è la Burocrazia, non la Rivoluzione, che l’abitudine al bis-pensiero e alla neolingua di orwelliana memoria (anche di questo, criticamente, si parla nel romanzo), è una camicia di Nesso destinata bruciare chi la indossa… E che a dirlo sia uno che continua a definirsi comunista non migliora le cose, ma le peggiora5.

Agli estimatori della buona letteratura, lontana dal mainstream modaiolo e poco interessata alle verità preconfezionate, non resta allora che ringraziare l’editore milanese che, seppur ideologicamente distante dalle posizioni espresse da chi scrive e da Carmilla più in generale, sta però conducendo un ottimo lavoro di riscoperta, traduzione e pubblicazione di testi fino ad ora sconosciuti, o quasi, ai lettori italiani.


  1. R. Cortés, La scrittura e la vita, postfazione a J. Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Settecolori, Milano 2022, pp. 454-455  

  2. J. Semprún, op. cit., p. 31  

  3. pp. 273-275  

  4. pp. 271-272  

  5. R. Cortés, op. cit., pp.450-451  

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I comunisti della capitale… (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/08/i-comunisti-della-capitale-prima-parte/ Tue, 08 Nov 2022 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74522 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”. In due anni e mezzo si avvicendano ben sei governi. Le diverse componenti politiche del movimento proletario, che erano state decimate e disorganizzate dagli apparati repressivi del regime, riavviano la loro attività nel quadro di una intensificazione degli scontri bellici tra i fronti contrapposti, che getta le premesse di una (limitata) guerra civile. Il tutto mentre a livello internazionale si infittiscono a ritmo incalzante le trame e le conferenze tra le potenze che stanno per uscire vincitrici dalla guerra, volte a disegnare il nuovo ordine mondiale, con effetti a cascata sui singoli paesi, Italia inclusa.

La vicenda “locale” che Broder ci presenta è stata dominata in lungo e in largo da questi processi. A chi la guardasse oggi con un arrogante senno di poi, potrebbe apparire semplicemente come il vano annaspare di un pugno di militanti comunisti vittime delle proprie ingenue illusioni rivoluzionarie. Vissuta in presa diretta, invece, è la storia appassionante e drammatica, non limitata ai suoi fisici protagonisti, del tentativo di piccoli settori del movimento proletario italiano e internazionale di fare i conti oltre che con il fascismo, anche con il capitalismo. E di farli sfidando la repressione e il piombo dei nazisti, prima, soffrendo il controllo occhiuto delle polizie democratiche e gli attacchi politici senza tregua del PCI di Togliatti, poi. Il luogo in cui la vicenda si svolge è Roma, l’unica grande città italiana in cui le forze comuniste “dissidenti” hanno avuto una consistenza fino ad un certo momento paragonabile a quelle del PCI in via di rapida ricostituzione su basi completamente diverse dalle originarie del 1921. Forze comuniste “dissidenti” che, con la loro piccola Armata rossa, hanno dato un contributo perfino superiore a quello del PCI nella cacciata dalla capitale delle truppe nazifasciste nel periodo settembre 1943-giugno 1944.

Si deve a Silverio Corvisieri il lavoro più noto, in lingua italiana, sul ruolo svolto dal Movimento comunista d’Italia, o movimento di Bandiera rossa, nella resistenza romana – a cui contribuì con 2.548 militanti (il PCI con 2.336). Si tratta di un testo del 1968 che però, come osserva Broder, è più interessato all’attività militare di questi compagni che alla loro battaglia politica, alla loro resistenza alla politica di unità nazionale e alla loro critica della “degenerazione riformista” del PCI. Il tempo – sul metro del lungo periodo – consente oggi, anzi obbliga, a riconoscere loro di avere se non altro intuito il corso degli avvenimenti susseguenti alla fine della guerra in maniera incomparabilmente più corretta di coloro che li sconfissero e li denigrarono come affetti da infantilismo – questo, almeno per ciò che concerne il ruolo non proprio liberatorio degli Alleati anglo-americani, e gli effetti deleteri che la politica di unità nazionale con la borghesia avrebbe avuto sul proletariato.

Procediamo con ordine. Con una ben congegnata azione repressiva attuata in due momenti (gennaio 1923, autunno 1926), Mussolini e il suo partito-stato riuscirono a smantellare la direzione e i gangli fondamentali della macchina organizzativa del Pcd’I. E costrinsero all’espatrio centinaia di migliaia di proletari simpatizzanti per esso, o sua potenziale area di influenza. Alla messa fuori uso di questa macchina ancora in formazione, concorse pure la scatenata caccia ai trotskisti che si abbatté su Amadeo Bordiga e i suoi più stretti compagni di partito. Sicché al 1943, quando il fascismo inizia a vacillare sotto il peso delle sconfitte militari dell’Asse e degli scioperi operai nelle fabbriche del nord, ciò che rimane in piedi di realmente organizzato del movimento comunista degli anni ‘20 è poco, molto poco. Non esiste alcuna rete di collegamento interna alla penisola. Il centro direttivo del partito legato a Mosca è all’estero (a Parigi). La diaspora è ancor più slabbrata nel campo, assai ristretto, di quanti sono rimasti fedeli alla linea di Bordiga, anche per la sua categorica decisione di sospendere ogni forma di attività politica. Restano in piedi solo esili reti locali. La maledizione del localismo che per secoli ha afflitto e indebolito la borghesia italiana, pesa in questo frangente anche contro la riorganizzazione della classe operaia. Pur avendo alcuni tratti in comune, le dissidenze comuniste di Roma, Napoli, Torino e dell’alto milanese non riescono a coordinarsi tra loro. Anzi, a stento sono consapevoli delle rispettive esistenze e posizioni. Sicché la vicenda del Mcd’I – un nome che, al pari di Pcd’I (Partito comunista d’Italia, non Partito comunista italiano), rimanda a una concezione dell’internazionalismo proletario differente dall’inter-nazionalismo di matrice stalinista e togliattiana – resta una storia peculiare, separata, a sé stante. E questo faciliterà l’azione di quanti hanno operato per distruggerla fisicamente e politicamente, e cancellarne perfino il ricordo.

Con un’attenzione rigorosa e al tempo stesso empatica, David Broder ne ricostruisce la nascita negli “anni della cospirazione” (1939-1942), e ne descrive le radici sociali in un milieu che, data la struttura sociale della Roma fascista e imperiale, è più proletario e popolare che in senso stretto operaio. Gli insediamenti più significativi di Bandiera rossa sono nei quartieri popolari dell’Urbe e nelle borgate: San Lorenzo, Trionfale, Certosa, via Appia, via Tuscolana, via Casilina, Quadraro, Quarticciolo, Certosa. L’attività di questi compagni decisi a restare fedeli all’“autentica tradizione comunista” mette capo nel giugno del 1942 alla pubblicazione del giornale clandestino Scintilla. Tanto nei suoi pregi quanto nei suoi limiti, siamo dentro quel sottosuolo proletario comunista, quella “subcultura antagonistica” rimasta viva in militanti operai e proletari di lungo corso, messi in evidenza da Luigi Cortesi. Si tratta di marxisti autodidatti, carpentieri, elettricisti, ciabattini, grafici, espulsi dalle storie ufficiali del movimento comunista italiano del tempo insieme con i penetranti spunti politici contenuti nei loro abbozzi di analisi della guerra e del dopoguerra. Piccoli cammei disseminati qua e là nei testi a stampa che ci sono arrivati (meno sappiamo delle loro discussioni), che provo qui a mettere in sequenza.

Notevoli sono anzitutto il loro richiamo alla storia internazionale del proletariato rivoluzionario di cui si sentono parte, che fanno cominciare a Lione nel1831. Rivendicano in modo talvolta implicito, talaltra esplicito, mai esauriente, di essere in continuità con la prima fase della vita del Pcd’I, con le battaglie del biennio rosso, e con l’esperienza degli Arditi del popolo. Sorvolando sulle controversie interne al Pcd’I dei primordi, tale rivendicazione esprime l’aspettativa di poter portare a termine il lavoro lasciato incompiuto in quegli anni, arrivando a “fondare una repubblica sovietica sul suolo italiano”. Il più rilevante tratto distintivo di quest’area di compagni è il rifiuto della politica di unità nazionale prima e dopo la svolta di Salerno dell’aprile 1944. Anzi: il rifiuto di ogni forma di collaborazione con la borghesia italiana, di ogni confusione tra antifascismo e anticapitalismo, e tanto più della loro identificazione. Nessuna riabilitazione della classe dominante che ha portato l’Italia al fascismo, alla guerra, alla rovina! Bisogna stare fuori dal CLN, gli operai e i contadini non possono, non debbono gettare il loro sangue per le classi privilegiate. All’unità con la classe dei borghesi i “dissidenti” contrappongono la prospettiva politica dell’unità del fronte di classe. Al diavolo la bandiera tricolore, bandiera rossa! Colpisce anche l’inquadramento della seconda guerra mondiale come “scontro tra poteri imperialisti”, nazifascismo contro blocco a guida statunitense, espressa nel n. 2 di Scintilla. In tale scontro l’Urss è stata trascinata solo dall’aggressione esterna – e la forte diffidenza nei confronti dei “liberatori” anglo-americani, di cui non si dimentica la funzione di primo piano avuta nei tentativi di soffocare la rivoluzione russa nella culla. Questi militanti si rifiutano di vedere nei tedeschi in quanto tali il nemico, e valorizzano il sentimento anti-fascista e anti-nazista espresso dai migliori elementi dell’esercito tedesco, indirizzando ai soldati tedeschi dal retroterra operaio l’invito a rivoltarsi contro i propri generali. Se poniamo questa attitudine e questo invito di impronta internazionalista a confronto con la direttiva nazionalista del PCI di colpire i tedeschi quali che fossero, in quanto tedeschi occupanti; se li mettiamo a confronto con la logica altrettanto nazionalista che ispirò l’attentato di via Rasella; ci troviamo di fronte a due differenti modi di intendere la lotta al nazi-fascismo tra loro alternativi, corrispondenti, ove si vada ad indagare fino in fondo, a due differenti classi, perfino a due differenti prospettive storiche. Quella dei militanti del Mcd’I appare, quanto meno nei testi più maturi, rivolta alla “seconda guerra” da combattere una volta vinta quella al nazifascismo: la guerra contro il mondo capitalistico. Si tratta, affermano, di “trasformare la guerra contro il nazismo nella guerra contro tutto il capitalismo”. Rivendicano con orgoglio: “noi non siamo anti-fascisti, siamo comunisti”. Spriano nota che il loro simpatizzante Riccardo Tenerini, un giovane perugino, arriva a preconizzare per il dopo-guerra lo scontro tra il capitalismo anglo-sassone (i “poteri imperialisti”) e il proletariato mondiale nei seguenti termini:

Viene ora la seconda guerra: quella rivoluzionaria, quella che il proletariato deve combattere e vincere contro il mondo capitalista… La rivoluzione anticapitalista è in marcia, non si arresterà che ad eliminazione totale di ogni residuo del mondo attuale… L’ora della rivoluzione liberatrice è vicina… W Stalin, W l’Unione sovietica, patria di tutti i lavoratori. Evviva il Partito comunista d’Italia, evviva l’Internazionale comunista.

In maniera più sfumata e confusa la tematica della “doppia rivoluzione” è presente anche nei testi dei dissidenti romani. Ad esempio nel documento di fine 1944 intitolato “La via maestra”, il Mcd’I espone questa prospettiva, sebbene in una forma decisamente volontaristica:

[il nostro] movimento si distingue per la sua netta intransigenza, che non ammette ritardi né compromessi perché sostiene che l’ora della abolizione del capitalismo è suonata, e che il proletariato, per impedire la minaccia di nuove oppressioni e di nuove barbarie, deve conquistare il potere proprio in questo momento, in nome dei principi universali del comunismo.

Questi spunti eterodossi di matrice classista rivoluzionaria cozzano e si infrangono contro quella che David Broder chiama “idolatria” di Stalin e dell’Urss staliniana. Per i militanti di Bandiera rossa, infatti, la continuità tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è un dogma. Anche se il loro stalinismo ha certi tratti sui generis (“an idiosyncratic Stalinism of their own”). Rifiutano di norma l’atteggiamento passivo insito nell’attesa “addavenì Baffone”, considerando la liberazione dal giogo capitalistico un compito del proletariato italiano. Reinterpretano a modo loro una serie di atti dell’Urss di Stalin, a cominciare dal patto Molotov-von Ribbentrop, giustificato dalla “ragion di stato”, e lo considerano non vincolante per l’Internazionale. I comunisti italiani, si sostiene, non sono “agenti di Mosca”. Collaborano con Mosca come con tutti i movimenti proletari del mondo, e perciò non sono affatto obbligati a “rivalutare” nazismo e fascismo, come invece per un tratto avvenne. Lo stesso scioglimento dell’Internazionale è presentato come il riconoscimento da parte di Stalin del grado di maturità raggiunto dai singoli partiti comunisti – un’interpretazione del tutto infondata, essendo chiarissimo, invece, che lo scioglimento dell’Internazionale è stato un passaggio ineludibile nel processo di appeasement tra l’Urss e gli Stati Uniti. Qui le spire dell’idolatria di Stalin e dell’Urss si mostrano in tutto il loro potere soffocante.

Per quanto incompleti e contraddittori siano, e lo sono, il valore degli spunti, delle intuizioni, delle anticipazioni del corso futuro degli avvenimenti, risalta meglio oggi a ottant’anni di distanza se li si pone a confronto con la funzione anti-proletaria e contro-rivoluzionaria svolta dagli imperialisti anglo-americani sia in Italia che ai quattro angoli del globo terrestre; con il carattere sempre meno “progressivo” acquisito dalla “repubblica nata dalla Resistenza” non appena si è ridotto il grado di attività e combattività della classe lavoratrice; con la decomposizione e la totale scomparsa del PCI togliattiano avvenute lungo la linea continua di deriva socialdemocratica temuta e denunciata in tempo reale da militanti del Mcd’I come Mucci, Poce, Cretara, Sabatini, De Luca (in questi giorni alcuni degli ultimi epigoni del PCI sono addirittura dediti all’abbraccio con forze di orientamento razzista e semi-fascista…). Riletti oggi, gli anatemi scagliati dagli Amendola, dai Secchia e dai loro accoliti contro questi “estremisti infantili”, “settari”, esponenti di una “vecchia opposizione pro-trotskista e bordighista”, agenti provocatori, e perfino “maschera della Gestapo” (!!!!), appaiono in tutta la loro miseria politica e morale. Anatemi da guardiani non tanto né solo dell’ortodossia stalinista, quanto della stabilizzazione borghese dell’Italia post-fascista sulla pelle del proletariato – la sola classe sociale che si batté contro il fascismo ascendente nei primi anni ‘20 e fu, con i suoi scioperi, il principale fattore interno della caduta del fascismo. La loro violenza verbale nei confronti di questi compagni, e di tutto ciò che in loro poteva suonare proveniente dalla tradizione della Sinistra comunista e dal leninismo di Lenin, si disvela nel suo carattere di disciplinamento forzato al nuovo ordine democratico nel quale al posto di comando c’è la stessa vecchia, impunita borghesia che aveva portato al potere il partito fascista.

Fine prima partecontinua

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