Unione Sovietica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Mama Anarchia https://www.carmillaonline.com/2024/01/05/mama-anarchia/ Fri, 05 Jan 2024 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80473 di Giorgio Bona

Un soldato tornava a piedi a casa,

incontrò ragazzi lungo la strada,

oh ragazzi, chi è la vostra mamma?

Quel giorno chiese così il soldato.

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Indossavano tutti giubbotti di pelle,

erano tutti di bassa statura,

il soldato provò ad andare via,

non ci riuscì

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà [...]]]> di Giorgio Bona

Un soldato tornava a piedi a casa,

incontrò ragazzi lungo la strada,

oh ragazzi, chi è la vostra mamma?

Quel giorno chiese così il soldato.

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Indossavano tutti giubbotti di pelle,

erano tutti di bassa statura,

il soldato provò ad andare via,

non ci riuscì

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Una burla giocosa,

si divertivano quei ragazzi

pitturandogli il viso di rosso e blu,

lo obbligarono a dire bestemmie

 

Questa canzone si intitola Mama Anarchia, una canzone dei Kino scritta e musicata nel 1985 da Viktor Coj.

Viktor la dedicò ad Andrej Panov, il leader del gruppo Avtomatiçeskie Udovletvoritelì (un termine di difficile traduzione che potrebbe stare per divulgatori automatici di felicità). Che passerà alla storia come il primo vero gruppo Punk-Rocker di Leningrado: era nato qualche anno prima dei Kino, in quanto Andrej Panov detto il Maiale era rimasto folgorato dalla notizia che in qualche parte dell’occidente ci fosse una band chiamata Sex Pistols, decidendo a diciannove anni, nell’estate del 1979, di formarne una propria con il nome Le Pistole del Sesso.

Perché il Maiale? Intorno alla sua figura fiorivano tanti racconti, e tra questi la voce che Andrej avesse defecato dinnanzi al pubblico durante un evento, poi mettesse il prodotto su un piatto e cominciasse a mangiare. Anche gli altri componenti di questa band avevano soprannomi provocatori: oltre al Maiale c’erano Pinochet, l’Incazzato e il Fruscio e le loro canzoni avevano titoli senza senso come Risata, Sbronza – canzoni senza uno spirito politico definito, ma con parole di grande provocazione che si esprimevano manifestando una contestazione aperta alla canzone tradizionale russa.

Purtroppo, come i Kino di Viktor Coj, quando nacquero, gli Avtomatiçeskie Udovletvoritelì furono un gruppo fantasma, essenzialmente più un nome negli elenchi della polizia segreta che una vera e propria realtà musicale.

Nel suo gruppo Viktor Coj era il bassista: certo un Viktor giovanissimo, diciassettenne, appena agli inizi, grande amico di Andrej anche fuori dall’ambito musicale. Andrej Panov soltanto pochi anni dopo, con la grande politica di rinnovamento in atto nel paese, diventò un musicista leggendario.

Una sua esibizione in stato di ubriachezza venne tramessa dalla televisione centrale del paese. E proprio a lui si deve la maturazione artistica di Viktor che ai tempi del gruppo suonava appunto solo il basso. Mentre dopo la breve esperienza con Panov cominciò lui stesso a produrre musica e testi.

Mama Anarchia ha una storia particolare e il suo percorso è legato a vicende tragicomiche.

Come ogni testo, prima di essere pubblico, doveva essere sottoposto al vaglio della censura che, nonostante l’epoca di cambiamento in atto, sembrava conservare ancora i sistemi del socialismo reale. La stampa di regime definiva il rock un sottoprodotto culturale, simbolo di decadenza culturale e morale dell’occidente e considerava i punk fascisti, violenti e reazionari. Dunque, per, presentare la canzone, Viktor Coj la trasmise alla censura come parodia delle corrotte bande punk rock occidentali considerate di cattivo esempio, e pessimo modello da imitare.

Infatti, il titolo nell’album alla parola Anarchia aggiungeva parodia delle corrotte band rock occidentali.

Il Ministero della Cultura si dimostrò entusiasta e approvò la canzone insieme a tutto l’album. E a quel punto titolo della canzone fu Anarchia, parodia di gruppi punk occidentali, per divenire in seguito Mama Anarchia.

Fu proprio Viktor Coj a dichiarare più tardi che la canzone seguiva lo stile dei Sex Pistols, e che l’escamotage della parodia era stato utilizzato per superare il vaglio della censura.

L’anno successivo, 1986, la moglie di Viktor, Marijana, docente in un liceo musicale, raccontò che nella sua scuola era stato organizzato un concerto per festeggiare il 7 novembre l’anniversario della Rivoluzione di Ottobre. Nel pieno della festa salì sul palco un ragazzo accompagnato dalla chitarra e si mise a suonare Mama Anarchia. Nessuno poté protestare perché il Ministero aveva approvato il testo della canzone.

Certo che Viktor aveva messo in difficoltà il sistema, che anzi, compreso il trucco, non la prese tanto bene.

Per Viktor valeva quanto un passo di una canzone compresa nell’album Noč’ dei Kino (1986) riportava a chiare lettere: “così siamo venuti qui per reclamare i nostri diritti – “. Era quel , quella grande certezza, che infastidì il potere. E come per il suo grande amico Andrej Panov vi saranno ombre intorno alla sua morte.

Panov muore infatti otto anni dopo Viktor di peritonite, ma la madre crederà sempre e affermerà che sia stato ucciso. Le stesse ombre toccano la morte di Viktor, forse in rapporto a quel scandito con tanta fermezza.

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Caffè Saigon https://www.carmillaonline.com/2023/11/24/caffe-saigon/ Fri, 24 Nov 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80064 di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando [...]]]> di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando alle testimonianze del poeta Viktor Toporov, uno dei più assidui frequentatori, il nome è legato alla domanda intimidatoria che un agente rivolse a tre ragazze che stavano fumando all’interno del locale: “È un’indecenza. Che diavolo di Saigon avete creato qui dentro?”. A quei tempi la capitale vietnamita era ritratta dai mezzi di comunicazione occidentali come una novella Sodoma, patria del vizio e del peccato di soldati impegnati nella sanguinosa guerra del Vietnam.

Il Caffè Saigon si caratterizzò come un luogo aperto e democratico, abitato da protagonisti dell’underground come Viktor Krivulin e Tatiana Goriĉeva e da poeti conosciuti a livello ufficiale come Viktor Sosnora e Gleb Gorbovskij.

Il locale era un collante tra individui di diversa età e questo spiega la longevità della sua durata, con un fronte di resistenza che all’interno vedeva discussioni aperte su film, concerti, mostre, letture di poesie, fino allo scambio di manoscritti.

Dal 1964 al 1982 fu anche il periodo in cui Leonid Il’ič Brežnev ricoprì il ruolo di segretario generale del PCUS e capo di stato, ma l’attività letteraria all’interno del caffè proliferò nonostante le censure imposte dal regime.

Quel periodo anni dopo venne chiamato žastoj, ovvero stagnazione a causa dell’immobilismo della politica di quegli anni, un incancrenire delle istituzioni che creò un clima di inerzia e invecchiamento dei progetti in campo economico, sociale e culturale.

Gian Piero Piretto in Quando c’era l’URSS (Cortina, 2018) su Il caffè Saigon:

 

da quel mondo di Bohemien faceva parte anche una giovane donna fotografa, vittima della demotivazione, dell’ingerenza del potere, dell’invadenza del discorso nelle vite private, Maša Ivašinkova, compagna del poeta Viktor Krivulin, ma legata anche a un collega fotografo, Boris Smelov, dopo il divorzio dal primo marito, il linguista Melvar Melkumjan.

 

Maša faceva parte di quel numeroso pubblico underground che frequentava il Caffè. Compagna di vita del poeta Krivulin, legata anche a Smelov, un suo collega fotografo, scattò all’interno del locale un numero smisurato di foto senza mai mostrarle in pubblico. Si seppe che aveva anche componimenti poetici molto belli e nessuno poté mai accedervi perché li tenne sempre riservati: forse per un complesso di inferiorità nei confronti dei suoi amanti, grandi attivisti del caffè che leggevano in pubblico i loro componimenti. Visse facendo svariati mestieri: la guardarobiera, la bibliotecaria, la critica teatrale, ma soprattutto si sentiva una fotografa. Scattò foto per tutta la vita: scorci di quotidiano, angoli di città rubati e dolenti, ritratti espressivi di ribelli e dissidenti di quegli anni. Anche questi scatti non apparvero mai in pubblico.

Qualcuno la accostò a Vivian Maier, la bambinaia americana che fotografò il mondo che vedeva nel fine settimana e lasciò centinaia di rullini mai sviluppati che le avrebbero fruttato notorietà post mortem.

Maša fu vittima di una forte depressione e interruppe la sua attività lavorativa. Fu subito riconosciuta come un soggetto disturbato e definita una asociale. Si trovò a dover scegliere tra due possibilità, entrambe dentro un vicolo chiuso: il carcere o l’ospedale psichiatrico. Scelse il secondo dove morì di cancro nel 2000. Nei suoi anni di frequentazione del caffè sembra che abbia superato i 30.000 scatti trovati dalla figlia in diversi scatoloni in soffitta.

Ma il Saigon non fu soltanto luogo di incontri letterari e poetici.

Nei primi anni Ottanta diede segnali nuovi con altre forme artistiche, quando la musica faceva tremare i muri delle cantine di Leningrado, dove nascevano numerose band sfidando le censure di un governo vicino al collasso ma deciso a non mostrare segni di cedimento.

Leningrado era in Russia la città più occidentale del paese e considerata la più vicina all’Europa e al mercato nero.

Ecco dunque nascere gli eredi degli intellettuali anni Sessanta e Settanta, quelli appunto che frequentavano il Saigon, la fucina dei poeti, degli scrittori, degli studenti e degli informatori del KGB.

A proposito di tale tempesta generazionale di frequentatori, si è già raccontato di Viktor Coj, il frontman dei Kino. Viktor fu la stella più luminosa del rock sovietico, il Jim Morrison russo per via di quella sua aria da ribelle ma soprattutto per la sua morte prematura coperta di mistero.

Sulla scena le band si moltiplicarono: Zoopark, Alissa, Leningrad Center, DDT. Le autorità non vedevano di buon occhio quei personaggi alternativi, tutti schedati, che rappresentavano una minaccia al modello di cittadino sovietico.

La censura stava loro addosso e si racconta che all’interno del Saigon una parete a specchio dividesse il locale da una piccola stanza dove si nascondevano i funzionari del KGB arrestando ogni tanto qualche indesiderato.

Eppure, i testi delle canzoni non attaccavano direttamente il potere, non volevano sparare sul quartier generale, cantavano semplicemente la speranza di un mondo diverso, più aperto, dove i giovani potessero comunicare, parlare. Tutto questo era incompatibile con la massiccia e granitica realtà sovietica.

Il Saigon ora vive nei ricordi di chi lo ha vissuto, sostituto da grandi vetrine con WC, bidet e rubinetteria di una famosa marca italiana.

Resta un ricordo anche di quel processo di emancipazione nel campo della musica che coinvolse tanti ragazzi di allora, offrendo un modo di pensare diverso.

Ai giorni nostri la scena artistica russa si presenta con un’altra faccia. Gruppi identitari e nazionalisti che tessono le lodi di Putin e inneggiano alla potenza militare del paese.

Ma non tutto è così fedele alla linea. E allora nulla è cambiato nella politica sfrontatamente neoliberista del presidente Putin rispetto al passato, perché chi non si adegua viene colpito ancora duramente con la mannaia della censura.

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Un brindisi con Viktor Coj (parte III) https://www.carmillaonline.com/2023/10/29/un-brindisi-con-viktor-coj-parte-iii/ Sun, 29 Oct 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79313 di Giorgio Bona

(qui la prima parte, qui la seconda)

Rimbomba ancora nella testa la notte trascorsa al Caffè Saigon. Un’esperienza unica e indimenticabile, di quelle che ti accompagneranno per una vita.

Il nome Saigon pare sia dovuto alla battuta di un poliziotto che si rivolse a quattro ragazze che stavano fumando nonostante il divieto e aveva esclamato: ma che razza di Saigon avete combinato? Era durante la guerra vietnamita e la reputazione della città di Saigon era al massimo. Nel locale la vodka veniva lasciata da parte [...]]]> di Giorgio Bona

(qui la prima parte, qui la seconda)

Rimbomba ancora nella testa la notte trascorsa al Caffè Saigon. Un’esperienza unica e indimenticabile, di quelle che ti accompagneranno per una vita.

Il nome Saigon pare sia dovuto alla battuta di un poliziotto che si rivolse a quattro ragazze che stavano fumando nonostante il divieto e aveva esclamato: ma che razza di Saigon avete combinato? Era durante la guerra vietnamita e la reputazione della città di Saigon era al massimo. Nel locale la vodka veniva lasciata da parte perché era il caffè a far da padrone con la funzione primaria di aiutare a smaltire la sbornia della notte (“Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica” di Gian Piero Piretto, Cortina, 2018). Il menu ne proponeva diverse varianti: malen’skj prostoj, bol’soj dvojnoj, bol’soj detvernoj (semplice, doppio, quadruplo).

Scoprii quella sera che bere caffè al Saigon ti faceva entrare in quella cerchia di alternativi che la milizia non perdeva di vista anche se ogni tanto prelevava qualcuno per non abbassare troppo la guardia.

La frequentazione del Saigon prevedeva compagnie tra loro differenti: Boris Grebenščikov (leader del gruppo Akvarium), Viktor Coj (Kino), Jurij Ševčuk, il poeta Evgenij Rejn e lo scrittore Sergej Dovlatov.

Il viaggio per il ritorno a Mosca è stato confortevole, il posto letto rilassante e pulito: e al primo mattino mi sveglia l’addetta della carrozza ristoro con una tazza di tè.

A Mosca, come a Leningrado, mi rendo conto che c’è un mondo in fermento. Anche a Mosca, in Piazza Puškin, il mondo giovanile si riversa con più insistenza sotto gli sguardi della milizia che osserva indifferente i gruppi sempre più numerosi, animati da un grande desiderio di evasione, davanti al monumento dedicato al padre della letteratura russa. La nuova musica esce allo scoperto e si fa sentire, viaggia sottopelle, dà emozioni forti.

Come per Viktor la vita non è altro che una favola grigia, una falsa esistenza: nello scrigno della quotidianità sovietica sono custoditi assieme un mondo cupo e il desiderio di un cambiamento celato nell’esistenza di tutti i giorni. “Come una coperta di pezze è la città nella morsa delle strade. Sulla città fluttuano delle nuvole che soffocano il cielo azzurro. Poi ancora: “Sulla mia città c’è un fumo giallo, la città ha duemila anni trascorsi sotto una stella chiamata sole”.

Stena Coj è una parete di Mosca al numero 37 nell’intersezione tra la via Arbat e Krivoarbatskij pereulok. Viene considerata uno dei simboli della capitale. Ricoperta di graffiti, la parete è interamente dedicata a Viktor Coj e alla sua band, i Kino.

In quel luogo frequentemente visitata dai fans è consuetudine lasciare una sigaretta spezzata a metà, accesa, in uno speciale posacenere vicino al muro che venne imbrattato per la prima volta il 15 agosto 1990 con la scritta Viktor è morto oggi seguito da Paçka sigaret (pacchetto di sigarette), una delle più celebri canzoni dei Kino. Altre città hanno seguito l’esempio della capitale dedicando un muro all’artista scomparso: tra queste San Pietroburgo, allora Leningrado, dove Viktor e il suo gruppo nacquero, Sebastopoli, Chabarovsk, Dnipro…

 

Sono qui a guardare un cielo sconosciuto da una finestra estranea e non vedo neppure una stella conosciuta. Ho vagato ovunque per le strade, mi sono voltato e non sono in grado di trovare le tracce. Me se hai in tasca un pacchetto di sigarette non è poi così male il giorno.

 

Migliaia di giovani che forse possiamo indentificare con il testo di una sua canzone del primo album 45, Vremja est’, a deneg net (Ho tempo ma niente denaro), dedicato ai ragazzi, per lo più proletari, ai loro tentativi di sopravvivere e alla conduzione di una vita difficile.

Viktor morì in Lettonia, nelle vicinanze di Riga, il 15 agosto 1990, dopo essersi scontrato in auto contro un autobus. La sua prematura scomparsa, a soli 28 anni, alimentò molti miti, come l’idea che si fosse suicidato o che fosse stato eliminato da servizi segreti sovietici.

Nella sua auto furono trovate cassette con registrazioni vocali e la band le utilizzò varando un album postumo, Čërnyj al’bom (L’album nero) perché la copertina era completamente di colore nero.

Tra queste canzoni rilevante è Kukuška – “Quante canzoni ancora da scrivere, dimmelo, cuculo, canta insieme a me” –, dedicata al cuculo che nell’immaginario russo rappresenta un presagio di morte. E poi ancora i versi “giacere come un sasso o brillare come una stella”? Il dialogo con l’uccello apre il grande tema della morte.

All’epoca eravamo in piena perestrojka: oggi quei giovani hanno (come me) qualche anno in più. Risuonano le parole di alcuni di loro che cantano in gruppo intorno all’accompagnamento di una chitarra “la sorte ama di più chi vive secondo le leggi altrui, chi ha nel destino una morte giovane. Non ricorda le parole ‘sì’  e ‘no’, non ricorda i ranghi e i nomi e arriva a toccare le stelle non sapendo che è un sogno.

C’è ancora un gran movimento, un desiderio di vita come allora. Il rock non è più fuorilegge ma Viktor ci ha lasciato da pochissimo. Ho l’impressione che questi miei coetanei di allora siano come i personaggi dentro le sue canzoni, persone che nutrono un netto rifiuto con la vita esterna e che provano a trovare rifugio nella vita interiore e nella contemplazione (“la sorte ama di più..”).

Tutto questo diventa un brindisi collettivo e tutti alzano il bicchiere.

Cmo grammov?

Cmo grammov…

E per dirla come Viktor, dalle parole tratte dal suo testo Khochu peremen (Voglio cambiamenti), “Non c’è nient’altro, tutto è dentro di noi”.

(3-fine)

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Estetiche del potere. L’ultimo spettacolo. Immaginari funebri sovietici https://www.carmillaonline.com/2023/10/15/estetiche-del-potere-lultimo-spettacolo-immaginari-funebri-sovietici/ Sun, 15 Oct 2023 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79252 di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri [...]]]> di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri di personalità influenti – allineate o scomode – della storia dell’Unione Sovietica, indagando la componente visuale degli eventi e le testimonianze scritte, valutando la relazione tra popolazione e governo, i meccanismi di strumentalizzazione e di coinvolgimento, le imposizioni e le spontaneità.

Lo studioso si dice convinto che approfondire la propaganda legata al rito funebre del periodo sovietico contribuisca a una maggiore comprensione dei fenomeni propri di una Russia contemporanea segnata da un rinnovato culto della morte per la patria venato di suggestioni medievali rilette in chiave filostaliniana.

Scrive Piretto che «nella Russia postsovietica putiniana le modalità di gestione delle emozioni, di ottenimento del consenso da parte del potere e la predisposizione della popolazione all’empatia totalizzante nei confronti di un leader» riprendono modalità proprie del peridio sovietico, tra queste anche un «culto della morte per la patria, molto vicino a quello impostato sulle morti sacrificali dei rivoluzionari sovietici negli anni Venti e addirittura tristemente evocante ideologie naziste» (p. 19).

Emblematiche di questo clima malsano sono le parole pronunciate da Vladimir Solov’ёv, giornalista-conduttore televisivo putiniano, in un suo intervento a Capodanno: “La vita è altamente sopravvalutata. Perché temere ciò che e inevitabile? Soprattutto quando ci aspetta il paradiso. La morte è la fine di un percorso terreno e l’inizio di un altro. Non lasciate che la paura della morte influenzi le vostre decisioni. Vale la pena di vivere solo per qualcosa per cui si possa morire, così dovrebbero stare le cose. Stiamo combattendo contro i satanisti. Questa è una guerra santa e dobbiamo vincerla”.

Il volume si apre con la ricostruzione di alcuni casi di esequie civili solenni dal profondo significato politico e lo fa a partire dai funerali civili riservati a Nikolaj Bauman, collaboratore di Lenin, deceduto nell’ottobre del 1905, il cui funerale, iconograficamente documentato, si trasformò in un’enorme manifestazione politica che vide sfilare oltre mezzo milione di persone in un’apoteosi di stendardi e bandiere rosse.

Vengono dunque tratteggiati i funerali di alcuni rivoluzionari del 1917 che, pur ispirati a quello di Bauman, come dimostra il materiale cine-fotografica dell’epoca, assunsero una forma del tutto particolare derivata dalla combinazione di vecchio e nuovo, di rituali militari e religiosi, forme tipiche delle manifestazioni operaie e messe in scena tipiche delle “feste della libertà” introdotte dai rivoluzionari. Un tipo di esequie riconducibile alla categoria della “scomparsa eroica sacrificale”. Strada facendo l’immortalità sociale ottenuta attraverso narrazioni e funerali ufficiali finì per diventare «la versione sovietica e corretta dell’obsoleta vita eterna religiosa» (p. 35) e i “funerali rossi”, oltre alla funzione di promemoria simbolico delle conquiste della Rivoluzione d’ottobre, intenderanno contribuire alla formazione della coscienza rivoluzionaria delle masse.

A dare il via a quella che sarebbe divenuta un’usanza sovietica per le esequie delle personalità politiche più importanti, ossia all’esposizione della salma all’interno della Sala delle colonne della Casa dei sindacati  moscovita, fu il funerale del febbraio 1921 di Kropotkin organizzato autonomamente dai suoi compagni una volta rifiutate le esequie ufficiali. In questo caso i funerali si trasformano in una manifestazione di dissenso nei confronti dello Stato bolscevico.

Ad essere esaminato con attenzione è poi il funerale di Lenin del 1924 che prese il via con un primo corteo funebre che, nel sobborgo di Gorki, accompagnò la bara sino alla stazione ferroviaria da dove sarebbe partita alla volta di Mosca. Le immagini consentono di percepire la spontaneità della partecipazione popolare che, ancora non irreggimentata in scenografie istituzionali, procedeva in una sfilata richiamante le processioni religiose rurali ortodosse del secolo precedente, pur con una non irrilevante differenza: i contadini smisero di restare ai margini dell’evento trasformandosi da comparse defilate in coprotagonisti.

Il corteo divenne dunque una sfilata onorifica, una sorta di «riproposta in chiave politica contemporanea dell’archetipo della percorrenza della terra russa a piedi unito all’antico e universale valore celebrativo della processione funebre», che «si sarebbe ripresentato per giorni interi fino a perpetuarsi nella lenta, immancabile coda che, nei decenni sovietici, si sarebbe snodata lungo l’apposito percorso tracciato dal giardino Aleksandrovskij fino alla piazza Rossa per rendere omaggio alla salma imbalsamata» (p. 47).

Nonostante l’intenso freddo, circa cinque milioni di persone resero omaggio allo scomparso e se, come visto, i funerali rivoluzionari avevano dialogato con la “festa”, nel caso della morte del leader bolscevico ad avere il sopravvento fu il dolore e lo sbigottimento nonostante una sloganistica votata ad attenuare la perdita: “Lenin vive!”, “Lenin è morto, ma il Partito comunista da lui creato è rimasto”, “Lenin e morto, ma il leninismo vive!”.

Non pochi tra i testimoni oculari parlarono di sensazioni da favola. Primo riscontro di una realtà che nei funerali di Stato successivi si sarebbe riproposta e avrebbe acquisito tonalità sempre più cariche. Necessità di costruire una scenografia mirabolante, una rappresentazione che prendesse nette distanze dalla tragicità e dalla complessità della situazione effettuale per trasportare con la suggestione in una dimensione altra e rassicurante. Anche se, nella fattispecie, tali espletazioni del lutto contrastavano nettamente con lo spirito e le volontà dell’illustre defunto. La ragion di Stato prevalse (p. 50).

Il funerale del celebre poeta Sergej Esenin, nel 1925, si trovò invece a fare i conti con il problema della morte derivata da suicidio, gesto che, da quel momento in avanti, iniziò a essere formalmente denunciato come atto antisovietico e antisociale del tutto inconcepibile per un comunista.

Nel 1930, come Esenin, anche Majakovskij morì suicida e non potendolo liquidarle come traditore, il regime si affrettò a ricondurre le cause a questioni sentimentali. Assenti i rappresentanti delle alte sfere politiche, a rendergli omaggio al Circolo degli scrittori, ove venne esposto il feretro, sfilarono centocinquantamila persone e decine di migliaia accompagnarono la bara al crematorio. Pur trattandosi di una partecipazione spontanea e non organizzata, tra i presenti, probabilmente, in molti non conoscevano davvero le sue poesie ma, scrive Piretto, «il suo mito, politico, personale, oltre che poetico, aveva scatenato la partecipazione popolare». Ornai da tempo, anche in Russia, aveva preso piede «la “cultura della celebrità” e anche alla morte veniva attribuito un significato sociale» (p. 82).

Tra i tanti «funerali illustri e ideologicamente corretti negli anni Trenta staliniani» (p. 85), definiti con estrema efficacia dalla studiosa Helena Goscilo “melodrammi nazionali”, vi è anche quello dell’esponente politico Sergej Kirov assassinato nella sede del Soviet di Leningrado. Non vi sono prove certe che si sia trattato di un omicidio voluto da Stalin, resta il fatto che il suo posto venne prontamente preso da Andrej Ždanov, personalità gradita al dittatore.

Dopo l’assassinio di Kirov immediata fu, in parallelo, la glorificazione del defunto, secondo modalità che la mitologizzazione della storia caratteristica del decennio avrebbe messo sistematicamente in campo. Kirov divenne uno dei più brillanti simboli della lotta contro i nemici interni. La cerimonia del suo addio, avvenuta il 6 dicembre 1934, fu molto solenne, pur non tanto grandiosa come era stato il commiato a Lenin. Cambiavano i morti, ma immutato rimaneva ciò attorno a cui si snodava tutto quel magnifico rituale, melodramma, che ben presto restò l’unico protagonista. I fatti storici, nella fattispecie le reali cause della morte del personaggio, perdevano importanza di fronte alla necessità di mitologizzare il presente, senza attendere che la storia avesse compiuto il suo corso (p. 87).

Gli anni Trenta cambiarono le carte in tavola in Unione Sovietica anche per i funerali delle personalità più rilevanti. «Decesso, sacrificio, immolazione, categorie che erano state determinanti per l’ideologia degli anni Venti, perdevano valore e cedevano il passo all’euforia per le conquiste del raggiunto socialismo e spianavano la strada alla creazione della realtà virtuale, impostata sulla gioia di vivere di Stato, che sarebbe stata caratteristica degli anni Trenta staliniani» (p. 77).

Piretto si sofferma anche sulle vittime dell’assedio di Leningrado facendo riferimento in particolare all’inverno passato alla storia come “il tempo della morte” in cui i cadaveri si accatastavano lungo le strade nell’impossibilità materiale di seppellirli; un contesto in cui i «corpi dei singoli cittadini e, metaforicamente, il corpo collettivo sociale mutavano e perdevano le proprie caratteristiche umane» (p. 98). Il Museo dell’assedio realizzato a Leningrado alla fine del tragico evento venne chiuso da Stalin nel 1948. «Il tema dell’eroismo, temporaneamente accantonato all’inizio della guerra nel cosiddetto tema leningradese della letteratura, tornò prepotentemente per sostituirsi a quello della sofferenza. Il concetto di “guerra” fu rimpiazzato dal concetto di “vittoria”. La storia della guerra diventava la storia della vittoria» (pp. 104-105).

Vista la sua rilevanza nella storia sovietica, il volume non poteva che dedicare ampio spazio al funerale di Stalin del 1953. «L’investimento totale nel culto staliniano portò nei giorni del lutto all’espressione di esasperazioni emotive, ciechi coinvolgimenti ideologici, commozioni estreme, fino all’isterismo e al suicidio» (p. 108). Come per Kropotkin, Lenin e Kirov, anche la camera ardente di Stalin venne allestita per il pubblico omaggio nella Sala delle colonne della Casa dei sindacati. Una folla immensa sentì il bisogno di presenziare incredula circa l’avvenuta scomparsa del leader. A differenza di quanto accaduto ad esempio per Lenin, in questo caso a dominare furono il senso di incertezza, di incredulità, di spaesamento in assenza delle consolanti convinzioni dogmatiche. «Paradossalmente, quello Stalin morto fu la versione del leader più autentica che molti sudditi sovietici avessero mai potuto contemplare: un esemplare unico, appena contraffatto, pressoché tangibile, almeno con lo sguardo, molto più “reale” dei mille simulacri che lo avevano incarnato nei decenni di vita e di potere» (p. 116). È curioso notare come i dipinti realizzati nella Sala delle colonne mostrino uno Stalin isolato, non attorniato, come nelle fotografie e nei filmati, dalla schiera dei compagni di lotta desiderosi di rendergli omaggio ma anche di mettersi in luce in vista della successione.

Mentre, come visto, Lenin era stato sepolto accompagnato dal canto militante, a risuonare durante le esequie di Stalin furono musiche di Chopin, Mozart, Beethoven e Čajkovskij. Il funerale venne trasmesso in diretta radiofonica all’intero Paese con altoparlanti nelle piazze. Estremamente studiata la concessione della parola dalla tribuna del mausoleo; a succedersi furono gli interventi di Malenkov, Berija e Molotov al cospetto di quattromilaquattrocento militari della guarnigione di Mosca e dodicimila delegati moscoviti.

Una volta collocata la bara di Stalin accanto a quella di Lenin, a mezzogiorno le porte del mausoleo si chiusero lasciando la scena ai botti di artiglieria, alle sirene delle fabbriche, delle locomotive e dei cantieri e a cinque minuti di assoluto silenzio in tutti i locali pubblici, nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Dalla mole di pellicola girata durante i funerali sarebbe poi stato realizzato un film a colori intitolato Il grande addio che però, una volta terminato, venne accantonato probabilmente per volere di diverse autorità che, per motivi di convenienza politica, in epoca di destalinizzazione, preferirono rimuovere la loro precedente vicinanza al vecchio leader. Dalle oltre quaranta ore di girato il regista ucraino Sergej Loznitsa derivò nel 2019 un nuovo lungometraggio intitolato Funerali di Stato.

A morire lo stesso giorno di Stalin, ricorda Piretto, fu anche il musicista Sergej Prokof’ev. La sua scomparsa non venne però divulgata immediatamente, quasi a non disturbare la “morte principale” del momento. Trovandosi la sua abitazione vicina alla Sala delle colonne, nell’impossibilità di percorrere le strade con la bara del compositore, le autorità decisero di far ricorso «a una squadra di alpinisti militari che di notte trascinarono la cassa fuori dalla finestra con delle corde e la sollevarono fino ai tetti. Ci vollero cinque ore di rischiosa camminata su tetti spioventi per raggiungere la meta» (p. 122), ove presenziarono poche decine di amici e parenti al seguito.

Se, come suggerisce Piretto, si può affermare che, al di là del decesso vero e proprio, Stalin morirà metaforicamente una seconda volta sul finire degli anni Cinquanta per mano della condanna chruščeviana del culto della personalità, dunque una terza quando, all’inizio del decennio successivo, il Congresso del PCUS decise di rimuovere nottetempo le sue spoglie dal mausoleo per collocarle al muro del Cremlino, spetterà a Putin riesumare il mito di Stalin quando, in anni recenti, in risposta a un crescente malumore nei suoi confronti, decise di fare appello a un passato idealizzato. Non a caso, in occasione della sua visita a Volgograd nel febbraio 2023 per la commemorazione della battaglia di Stalingrado, la città lo ha accolto svelando un busto di Stalin e ripristinando, seppur temporaneamente, il nome Stalingrad.

Dopo aver tratteggiando le modalità con cui si venivano svolti i funerali sovietici della gente comune nei contesti cittadini tra gli anni Sessanta-Ottanta, Piretto, avvalendosi di resoconti dell’epoca e, soprattutto, di un filmato delle cerimonia reso pubblico dagli eredi nel 2017, dedica spazio alle esequie di Pasternak, caduto in disgrazia a seguito del romanzo Dottor Živago terminato nel 1955, opera accusata dal Comitato centrale del partito di essere calunniosa e antisovietica. In quell’occasione, per molti, partecipare al funerale significava non soltanto omaggiare la produzione letteraria dello scomparso ma anche esprimere una posizione di dissenso all’interno della Russia sovietica.

Un capitolo del volume è dedicato ai funerali di alcune donne importanti nel mondo sovietico. Nel febbraio 1919, racconta Piretto, le immagini dei funerali di Vera Cholodnaja, diva del cinema muto russo, si trasformarono in una sorta di suo ultimo film e conclusiva occasione di idolatria. Altri funerali di donne che seppero conquistare una certa partecipazione popolare furono quelli, nel 1920, della rivoluzionaria Inessa Armand, pianta pubblicamente dallo stesso Lenin alla Casa dei sindacati, dunque di Nadežda Krupskaja, una delle più strette collaboratrice di Lenin morta nel 1939 che, nonostante l’isolamento politico a cui era stata ridotta da Stalin, proprio quest’ultimo non mancò, come da copione, di essere tra i portatori dell’urna cineraria alla necropoli del Cremlino in un contesto che vide mezzo milione di persone renderle omaggio alla Sala delle colonne. Altro caso toccato dal volume è quello della poetessa Marina Cvetaeva, morta suicida nell’agosto del 1941 che, pagando l’emarginazione a cui era stata costretta, venne sepolta con una mesta cerimonia nell’indifferenza generale

L’onore di essere sepolte a Novodevičij, nel cimitero dell’elite nazionale, per quanto, allo stesso tempo, «alternativa diplomatica per le figure che non “meritavano” la visibilità della necropoli del Cremlino», spettò a donne come: Aleksandra Kollontaj, deceduta nel 1952, «pioniera dell’emancipazione femminile sovietica, femminista ante litteram, “valchiria della rivoluzione”, le cui teorie (spesso mistificate) relative all’eros e alle relazioni di coppia conquistarono il mondo suscitando perplessità tra molti bolscevichi di vecchia scuola» (pp. 154-155); la scultrice Vera Muchina, venuta a mancare l’anno successivo; Ekaterina Furceva, scomparsa nel 1974, per quattordici anni ministra della Cultura, poi divenuta scomoda al regime; Ljubov’ Orlova, morta nel gennaio 1975, diva sovietica delle commedie musicali dell’era staliniana.

Anna Andreevna Achmatova, tra le massime esponenti della poesia sovietica, pur essendo stata liquidata da Ždanov come una dei “portabandiera della poesia vuota, senza principi, da salotto aristocratico, assolutamente estranea alla letteratura sovietica”, alla morte nel 1966 venne omaggiata con necrologi e articoli pieni di riguardo nei suoi confronti, tuttavia le esequie, di cui esistono filmati, scontarono la storica condanna nei suoi confronti e si svolsero tra mille difficoltà.

Interessante il caso di Jurij Gagarin, per cui venne dichiarato il lutto nazionale, tributo mai concesso a un cittadino sovietico che non fosse un politico eminente. Il cosmonauta perse la vita trentaquattrenne nel 1968, a sette anni dalla sua impresa nello spazio, schiantatosi al suolo insieme a un istruttore di volo a bordo di un caccia. Le morti degli eroi-cosmonauti, ricorda Piretto, vennero spesso ammantate del discorso eroico-sacrificale proprio dei primi anni rivoluzionari: «immolazioni alla causa per la patria e investimenti esistenziali estremi che costellavano di imprese ardite la via verso il radioso avvenire» (p. 167). Il funerale di Gagarin aveva seguito il rituale non certo immune dal kitsch destinato alla scomparsa dei grandi personaggi sovietici: «l’accumulazione, l’inautentico, la facilità della fruizione, la riduzione della complessità estetica» (p. 169). Fuori copione, si sottolinea nel libro, i fiori portati dalla gente comune sparsi disordinatamente nei pressi della bara  infransero il rigido controllo estetico previsto dalle autorità. Come dimostrano le immagini, alle esagerazioni kitsch del cerimoniale, segnate da un “troppo di tutto”, si contrapposero il contegno e la composta sobrietà della gente comune accorsa per sincero affetto nei confronti dello scomparso ma anche, come in molti altri casi, per presenzialismo e per il desiderio di partecipare a un’emozione collettiva.

Un funerale interessante è anche quello di Vladimir Vysockij, deceduto nel 1980, popolare cantautore e attore non apprezzato dal regime anche a causa di una condotta di vita non esemplare secondo i canoni ufficiali. Pur non essendo mai stato dissidente in senso stretto, per certi versi il cantante può essere collocato nella tradizione dei cosiddetti poeti “non raccomandati”. Nel suo caso il funerale si svolse con grande partecipazione popolare e, in assenza di un cerimoniale organizzato dalle autorità, finì per rivelarsi genuino quanto improvvisato.

Nel tardo pomeriggio del 25 dicembre 1991 veniva ammainata la bandiera rossa dal pennone sul Cremlino lasciando posto ad una che riprendeva gli storici colori rosso, bianco e blu. Venendo dunque ad all’era post-sovietica, è da notare come a Gorbačёv, venuto a mancare nel 2022, non siano stati concessi i funerali di stato. Per l’occasione il regime putiniano mise in scena uno sproporzionato sistema di controllo con tanto di imponente schieramento di agenti di polizia nel centro di Mosca, recinzioni, itinerari obbligati e metal detector nella malcelata intenzione di scoraggiare la partecipazione popolare alle esequie. Il Cremlino si era limitato a un formale telegramma di condoglianze alla famiglia, pur avendo dichiarato di malavoglia un giorno di lutto nazionale.

I funerali vennero tenuti presso il tempio moscovita di Cristo Salvatore per poi concludersi con la sepoltura nel cimitero Novodevičij. Anche il feretro di Gorbačёv venne ammesso alla storica Sala delle colonne della Casa dei sindacati, mantenuta insolitamente spoglia rispetto ai funerali di autorità, alla presenza della guardia d’onore. Le tensioni internazionali derivate dal conflitto in Ucraina bloccarono la partecipazione di numerosi capi di Stato stranieri. Lo stesso Putin si limitò a un rapidissimo passaggio alla camera ardente dell’ospedale e alla deposizione di un mazzo di fiori accanto alla bara.

Nell’ultima parte del libro Piretto sottolinea come recentemente Putin abbia esplicitamente riesumato il culto della morte per la patria infarcendo i discorsi ufficiali di “eroi”, “eroismi” e rimandi all’eredità lasciata dai combattenti della “guerra patriottica”, mentre al contempo il regime si prodiga in una politica di negazione dei decessi minimizzando il bilancio delle vittime tra le sue fila. «Una notifica di “disperso sul campo di battaglia” ha consentito alla Russia di non pagare i risarcimenti a cui hanno diritto le famiglie se una persona viene uccisa in prima linea». Si è dunque creata una situazione paradossale. «O si glorificano i defunti per emulare il patriottismo, e si accetta di rendere visibile il fatto che i soldati stanno decedendo a migliaia, oppure si deve negare la morte stessa, facendo finta che tutto sia sotto controllo» (p. 197).

Tale tipo di retorica putiniana riesce a far breccia soprattutto nelle periferie, nelle province e nelle campagne in cui minore è l’attrazione del mondo occidentale.

I ricorrenti accenti “sovietici” riportati in auge, lessico, tono, gestualità, al di la del suonare falsi e stonati per il loro cadere fuori contesto, ribadiscono il disagio che deve essere di molti, rispetto alla contemporaneità postsocialista, e l’adesione alla più manifesta attrazione che il proselitismo putiniano esercita: allucinazione di recuperare un passato glorioso e roboante attraverso la riapplicazione di modalità e pratiche che, in realtà, altro non sono che spettri passati a cui si cerca di ridare nuovo corpo (p. 198).

La conclusione del volume è dunque lasciata ad alcune riflessioni sulla stretta attualità russa a partire dal “non funerale” di Prigožin nell’estate del 2023. La vicenda della colonna militare della Wagner diretta su Mosca, al di là delle letture degli eventi proposte dai media, resta al momento tutta da decifrare. Nel frattempo quel che è certo è che il suo comandante, Prigožin, è morto, insieme ad altri membri del gruppo, su un aereo schiantatosi al suolo.

La vendetta del Cremlino per lo “sgarbo” compiuto dal “traditore della patria” Prigožin il 24 giugno è stata plateale ed efferata», scrive Piretto, è dunque inevitabile «un collegamento con il passato, la morte (e le successive onoranze funebri) di Kirov […], “amico” di Stalin – ucciso nel 1934, forse, per sua stessa volontà –, le cui ceneri erano state portate a spalla anche dall’enigmatico leader. Il suo assassinio era stato strumentalizzato per dare il via alle repressioni dei cosiddetti nemici interni. Copione non così dissimile da quanto e accaduto nella Russia del 2023, dove gli ex “nemici interni” sono stati ribattezzati “agenti stranieri” (p. 205).

Nel caso di Prigožin, nel suo scarno messaggio di condoglianze, Putin si è ben guardato dal riferirsi allo scomparso come a un “Eroe della Russia”, limitandosi a segnarle blandamente il suo contributo alla lotta della Russia contro l’Ucraina, aggiungendo che “era stato un uomo dal destino difficile” capace però di ottenere “i risultati desiderati”. Nonostante tali dichiarazioni siano di difficile decifrazione, non si può non notare come Putin abbia evitato di inveire contro presunti responsabili o anche solo di suggerirne l’identità. Il sorgere di memoriali spontanei volti a celebrare Prigožin, secondo lo studioso, mostrano come in Russia negli ambienti contrari a Putin si riponessero speranze nel defunto leader della Wagner o, almeno, si tenti di costruire attorno alla sua figura una mitologia utile a fini politici, a riprova di come, ancora oggi, l’“ultimo spettacolo” continui a rivelarsi momento tutt’altro che secondario di propaganda e lotta politica.

 

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Un brindisi con Viktor Coj (parte II) https://www.carmillaonline.com/2023/09/26/un-brindisi-con-viktor-coj-parte-ii/ Tue, 26 Sep 2023 20:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79189 di Giorgio Bona

(qui la prima parte)

Mi ritrovai all’incrocio tra il Nevsky Prospekt e il Vladimirskiy Prospekt. Una zona della città da sempre ritenuta malfamata, ma luogo ideale per il fermento della cultura underground.

Ecco il Caffè Saigon. Questo spazio fu un vero e proprio luogo di ritrovo per tutti quelli che nell’Unione Sovietica non si riconoscevano nella cultura organizzata dalle autorità ufficiali, in primis da quella della gioventù comunista del Komsomol.

C’era un senso di inquietudine perché la massa dei frequentatori stava per spostarsi in blocco e abbandonare il centro di [...]]]> di Giorgio Bona

(qui la prima parte)

Mi ritrovai all’incrocio tra il Nevsky Prospekt e il Vladimirskiy Prospekt. Una zona della città da sempre ritenuta malfamata, ma luogo ideale per il fermento della cultura underground.

Ecco il Caffè Saigon. Questo spazio fu un vero e proprio luogo di ritrovo per tutti quelli che nell’Unione Sovietica non si riconoscevano nella cultura organizzata dalle autorità ufficiali, in primis da quella della gioventù comunista del Komsomol.

C’era un senso di inquietudine perché la massa dei frequentatori stava per spostarsi in blocco e abbandonare il centro di incontro.

Pensai subito a un intervento della milizia da lì a poco e anch’io mi allontanai seguendo un gruppo di quattro ragazze che si accorsero della mia presenza. Una di loro mi aspettò e capii che era un invito a unirmi al loro gruppo. Così feci e lei disse di camminare veloce. Dopo venti minuti, eravamo in Via Rubinstein, al numero 13.

Questo era uno dei ritrovi magici per le prime esibizioni dei Kino, uno dei luoghi dell’anima di Viktor Coj.

Negli anni Ottanta si aprì la grande stagione del rock sovietico: accanto ai Kino si esibirono bande come DDT, Graždanskaja oborona, Mašina vremeni, che canonizzarono il genere certamente non senza problemi.

Se da un lato il fenomeno iniziò a diffondersi rapidamente, c’erano le spinte del governo che provarono a rendere vita difficile ai vari collettivi anche dopo la morte di Leonid Brežnev (1982). Ci provò Černenko (che muore però nel 1985) alimentando una caccia ai gruppi musicali costretti ancora una volta alla clandestinità. La ragione era proprio nei confronti dei testi prodotti che inculcavano cattivi valori identificati in droga, alcolismo e vita sregolata.

Tutti gli album di questi gruppi si diffusero su audiocassetta, in proprio: magnitizdat. In clandestinità. Queste cassette dovevano eludere la censura politica e diffondere il più possibile la musica.

Nella canzone dei Kino Khochu peremen (Voglio cambiamenti) uscita nel 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro, siamo in piena Perestrojka sotto l’amministrazione di Michail Gorbačëv e i mutamenti evocati dal gruppo stanno rapidamente arrivando. “Cambiamenti chiedono i nostri cuori, / cambiamenti chiedono i nostri occhi, / […] / nelle nostre risate, nelle nostre lacrime, nel pulsare del sangue nelle vene…”.

Tale canzone diventò la colonna sonora dei giovani di Minsk nel bel mezzo di una rivolta non violenta suonata e cantata nelle strade e nelle piazze giorno e notte, per tenere sveglia la città e dimostrare una ferma opposizione dal basso al governo di Aleksandr Lukašenko.

Ma il testo arriva alla popolarità anche grazie a Assa, 1987, un film psichedelico che il regista Sergej Solov’ëv aveva girato negli anni Ottanta in Crimea e in cui anche Viktor interpretava una piccola parte: lo si vedeva camminare mentre indossava un lungo cappotto nero tra le sale vuote prima di entrare in ufficio. Lì incontrava una signora, la direttrice del ristorante, seduta a una scrivania. La signora gli leggeva un elenco di regole da seguire durante l’esibizione che doveva tenersi da lì a poco. Viktor sembrava ignorarla proseguendo imperterrito e salendo sul palco.

In Assa Solov’ëv aveva chiesto a Viktor di interpretare se stesso. I racconti degli amici testimoniano come lui non avesse atteggiamenti da rock star. In compagnia era piuttosto taciturno, scherzava poco e allo stile di vita rockettaro preferiva sport come il karate o la pesca. Il film rispecchierà dunque la persona che lui è: un emarginato, un solitario, di poche parole. E tale immagine offrì al suo pubblico durante gli anni di celebrità.

Nell’occasione della settantunesima edizione del Festival del Cinema di Cannes è stato presentato Leto (Summer, 2018), nuovo film del regista russo Kirill Serebrennikov. Il regista, tra l’altro non poté partecipare in quanto si trovava agli arresti domiciliari, accusato di peculato e irregolarità finanziarie nella gestione del Centro Gogol’ di Mosca. La parte di Viktor Coj vi è interpretata dall’attore tedesco coreano Teo Yoo: in effetti Viktor aveva tratti asiatici essendo figlio di un ingegnere cazaco di origini coreane e di un’insegnante russa.

Il film narra l’incontro di Coj con “Mike” Naumenko e sua moglie Natal’ja, un giorno d’estate 1981. In quel mese di agosto 1981 nasce la band con il nome Garin i Giperboloidy.

Nel film Serebrennikov tiene a far emergere quello che Naumenko aveva individuato in Viktor: un talento artistico straordinario. Il regista non manca peraltro di evidenziare anche la stretta sorveglianza che gli agenti del KGB esercitavano sul gruppo.

Dagli inizi della sua attività musicale Viktor non seguì il modello di riferimento del potere imposto ai sovietici. Fu espulso dalla scuola d’arte, studiò intaglio del legno e successivamente lavorò per un paio d’anni nel locale caldaia del suo condominio che ora è un museo a lui dedicato. Viktor per il regime era l’ingranaggio imperfetto della locomotiva proletaria, il buono a nulla, l’inutile al progresso sociale.

Ormai il buio stava calando deciso e la strada era affollata dal popolo della notte. Da lì a poco avrei previsto un intervento della milizia, anche se tutti sembravano non preoccuparsi, attenti soltanto alla musica che veniva dall’interno del locale.

Qualcuno ripeteva le parole di una canzone che sembrava conoscere a memoria.

Come in un film di Pavel Lungin una delle mie improvvisate compagne di strada fermò un tassista abusivo per acquistare una bottiglia di vodka. Era cosa nota in Russia che i tassisti abusivi facessero anche mercato nero spacciando vodka agli alcolisti.

Con la bottiglia in mano la ragazza cantava: La morte ha valore per vivere, l’amore ha valore per attendere.

Tutto questo valeva un brindisi.

Cmo grammov?

Cmo grammov…

(2-continua)

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Un brindisi con Viktor Coj (parte I) https://www.carmillaonline.com/2023/09/19/kino/ Tue, 19 Sep 2023 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78993 di Giorgio Bona

Cento grammi di vodka e il fumo di una Kazbek a invadere le narici mentre passeggiavo lungo la Neva a Leningrado. Un invito alla calma per una due giorni di evasione dal frenetico universo moscovita.

Leningrado si preparava per la notte. Godere della sua bellezza e del suo fascino ha qualcosa di straordinario. Abitare in Russia ti porta a vedere la vita con un’ottica completamente diversa, ti invita alla riflessione.

Nella fretta della partenza – realizzai all’improvviso – non avevo effettuato il cambio di valuta: vista l’ora tarda non avevo [...]]]> di Giorgio Bona

Cento grammi di vodka e il fumo di una Kazbek a invadere le narici mentre passeggiavo lungo la Neva a Leningrado. Un invito alla calma per una due giorni di evasione dal frenetico universo moscovita.

Leningrado si preparava per la notte. Godere della sua bellezza e del suo fascino ha qualcosa di straordinario. Abitare in Russia ti porta a vedere la vita con un’ottica completamente diversa, ti invita alla riflessione.

Nella fretta della partenza – realizzai all’improvviso – non avevo effettuato il cambio di valuta: vista l’ora tarda non avevo alcuna voglia di fare code all’ufficio cambi di qualche albergo per stranieri con quelle file interminabili.

Si sa, la Russia è celebre per le sue code, per i suoi moduli da compilare, per le lungaggini della burocrazia.

Ecco tre tipi che mi stavano venendo incontro, potevano fare al caso mio. Tre farsovsiki (trafficanti) che di solito si aggirano nei pressi degli alberghi per concludere affari, soprattutto con l’attività del mercato nero.

Uno dei tre, quello che sembrava il capo, si avvicinò: “Cambiare? Un dollaro due rubli e mezzo”. Gli feci presente che a Mosca il cambio al nero era più favorevole e un dollaro si cambiava a tre rubli.

“Qui non siamo a Mosca, siamo a Leningrado. Malavita italiana malavita russa fare affari”.

Tirai fuori trenta dollari, e settantacinque rubli scivolarono velocemente nelle mie mani. A questo punto un suo compare si avvicinò, viso a viso, e mi mostrò un’audiocassetta, di quelle rudimentali, registrate in proprio. Voleva dieci dollari e io allungai la banconota per levarmeli di torno. Si dileguarono in un attimo.

Alla fine di agosto 1981, Leonid Brežnev era ancora al governo del paese. Da lì a breve sarebbe avvenuta la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Erano gli anni dell’atrofia del periodo brezneviano e del lento passaggio di potere.

Ma fu proprio nell’agosto del 1981 che in uno scantinato nella periferia di Leningrado sotto il nome di Garin i Giperboloidy (“Garin e le iperboloidi”, ispirato al racconto Le iperboloidi dell’ingegnere Garin di Aleksej Tolstoj), Viktor Coj (basso e voce), Aleksej Rybin (chitarra) e Oleg Valinskij (batteria) si incontrarono: con il tempo sarebbero stati considerati i pionieri della musica rock in Unione Sovietica. Dopo l’abbandono di Valinskij richiamato dalla coscrizione obbligatoria la band mutò nome in Kino.

Ora sette dei loro brani erano nelle mie mani, in quella rudimentale audiocassetta registrata chissà dove e che non vedevo l’ora di ascoltare.

I Kino iniziarono a suonare sulla scena underground esibendosi in piccoli appartamenti e copiando in casa le audiocassette delle loro esibizioni. Testi che rievocavano sensazione di tristezza, insoddisfazione di vivere in una società corrotta e oppressiva, senza alcuna opportunità di miglioramento, e rappresentarono per una decina d’anni la voce del malcontento di quei cittadini stanchi delle condizioni precarie in cui versavano e delle menzogne dei politici.

La loro stella smetterà di brillare quando nel 1990 il suo leader Coj morirà in un incidente d’auto in Lettonia e il gruppo abbandonerà la scena dopo aver raggiunto una grande popolarità. Nelle strade della capitale non di rado si sentono ancora oggi le canzoni dei Kino interpretate da giovanissimi musicisti di strada. La volontà è di perpetuare un messaggio avvertito come pressante nonostante lo scetticismo di molti: la perestrojka non è una moda che passa, un fenomeno ancorato ai mutamenti degli anni Ottanta, ma un grido di libertà “puro” che resta nel tempo come provocazione necessaria.

La band aveva iniziato la propria attività in uno dei luoghi simbolo del rock sovietico, il Leningradiskij Rok-Club nella Via Rubinstein, uno degli ambienti più progressivi della città: vi si riunivano i giovani devoti alle espressioni d’arte occidentali e il rock rientrava tra queste. Ovviamente in Russia non ebbe vita semplice: come una letteratura samizdat la sua caratteristica intrinseca fu la clandestinità.

45 era il titolo dell’audiocassetta in mio possesso, la prima esperienza del gruppo, un lavoro sicuramente acerbo dove più che la musica erano i testi ad attirare l’attenzione: metafore della vita borghese e del bisogno di evadere, critiche all’omologazione voluta dal governo, incantevoli paesaggi naturali che evocavano visivamente l’idea di spirito libero.

Di band che cominciavano a suonare il rock senza il guinzaglio delle autorità ne stavano nascendo diverse, costrette a restare nascoste e a esibirsi in clandestinità quasi sempre con strumenti acustici adeguati a non essere facilmente rintracciate dalla milizia.

45 uscì ufficialmente nel 1982. Due anni dopo, con un cambio di sound all’inizio dell’epoca gorbacioviana, ecco Načal’nik Kamčatki (1984), cui collaborò Boris Grebenščikov, leader e cantante di un’altra band ancora oggi attiva, gli Akvarium.

Proprio in quell’anno la musica dei Kino sollevava le complesse questioni sociali e politiche degli anni della svolta. Dichiaro la mia casa una zona denuclearizzata assurse così a canzone per eccellenza contro la guerra, un inno per i giovani inviso al KGB che ascrisse il gruppo all’elenco dei più dannosi: e Viktor Coj ne era l’emblema ufficiale.

Gruppa Krovi (Gruppo Sanguigno, 1988), il sesto album, è sicuramente quello più conosciuto del gruppo, e uno dei più significativi in clima di perestrojka: i leitmotiv sono un incitamento all’azione, al cambiamento, alla lotta. Per molto tempo Gruppa Krovi venne associato alla guerra in Afghanistan:

 

Il mio gruppo sanguigno è segnato su una manica,

C’è il mio numero ordinale segnato su una manica,

Augurami un po’ di fortuna in battaglia…

 

Questo lavoro consacrerà il gruppo oltre la cortina di ferro e la band si esibirà in Europa, anche in Italia a Melpignano in provincia di Lecce dove suonerà un paio di canzoni mentre il pubblico resta in attesa del concerto dei Litfiba: e proprio in questa occasione nascerà l’idea di uno storico tour dei Litfiba in terra sovietica.

Mi fermo qui mentre ho appena attraversato il Nevsky Prospekt in solitudine e la città si prepara per la notte.

Una pioggerellina fine accompagna il mio cammino. Accendo un’altra Kazbek e ogni tiro è una nota: Non puoi dormire qui, non puoi vivere qui. Buongiorno ultimo eroe, buongiorno a te e a quelli come te.

(1-continua)

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/08/14/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-2/ Mon, 14 Aug 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78009 di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a [...]]]> di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a Cambridge, prestigiosa fucina della classe dirigente britannica, che Mclean e i suoi amici (Burgess, Philby, il consigliere artistico della Regina Sir Anthony Blunt) vengono reclutati da un misterioso arruolatore sovietico. È costui il vero eroe della storia: ingaggia esclusivamente gentlemen, la grande aristocrazia del tradimento, e semina talpe che potranno raccogliere informazioni utili, sempre che la fortuna e il talento li assistano, soltanto molti anni più tardi. Costui insinua un gruppo di sabotatori, tra cui Maclean, nel cuore stesso del sistema nemico, poi rientra nell’ombra.

Figlio d’un baronetto scozzese, morto nel 1932, che ha dedicato tutta la vita alla comunità presbiteriana e al partito liberale, la futura spia cresce in un ambiente nutrito di puritanesimo e buone maniere. Vive la sua omosessualità con vergogna e senso di colpa, a differenza di Guy Burgess, che invece l’ostenta, e buona parte del suo odio contro l’Occidente è forse dovuto al fatto che i suoi compagni di college, tra i quali gli omosessuali suicidi erano stati parecchi, lo chiamavano «Lady Maclean», cosa effettivamente poco simpatica.

Il gruppo dei marxisti segreti di Cambridge, dopo l’università, si separa con una strizzatina d’occhi e, ciascuno secondo la propria vocazione, comincia ad aprirsi una strada verso le casseforti che custodiscono i segreti della nazione. Kim Philby passa al Times e si guadagna un’onorificenza franchista come corrispondente durante la guerra civile spagnola, Anthony Blunt si rende indispensabile presso i curatori delle collezioni d’arte della Real Casa e Guy Burgess infiltra per primo l’Intelligence grazie alle sue entrature omosex con alcuni politici francesi.

Maclean, che tutti giudicano un perfetto tipo fisico da Foreign Office per via dei capelli biondi e dei gelidi occhi azzurri, abbraccia la carriera diplomatica a Parigi dove si segnala, in breve tempo, come una delle speranze diplomatiche del Regno. Il Grande Gioco è cominciato: gli assi truccati sono stati introdotti nel mazzo. Gli anni della guerra, per Maclean, sono operosi e silenziosi. Si sposa (un diplomatico dev’essere sposato, specie se la gente mormora). Come un alpinista che punta alla cima del monte, scala le pareti del Foreign Office fino a raggiungere la suprema vetta del Dipartimento di Stato americano a Washington: esattamente dove i russi pregano di poter infiltrare un loro uomo. Di lassù il suo sguardo spazia tranquillo sulla valle misteriosa della ricerca atomica americana.

Ma è un alcolista, soffre di depressione, e gli cedono d’un tratto i nervi. Maltratta la moglie in pubblico, fa aperta professione d’antiamericanismo senza lacrime per la sua copertura e passa le giornate a sbronzarsi. Washington è irritata dal suo comportamento e la Cia comincia a tenerlo d’occhio. Alla fine, il Foreign Office lo trasferisce al Cairo affinché smaltisca la sbornia e si curi le paturnie. Al Cairo Maclean s’immerge in un’atmosfera di scandalo e una volta tenta persino di strozzare la moglie durante una gita sul Nilo. Sa il cielo perché, in queste condizioni, abbia ancora accesso alle carte segrete.

È proprio allora, quando sbraita e ulula al Cairo, che Maclean prende visione del foglio ultrariservato, da tenersi a tutti i costi lontano da occhi indiscreti, col quale gli americani comunicano agli alleati la loro decisione di non allargare il conflitto coreano neppure in caso di sconfinamento delle truppe cinesi. Proprio l’idea che il conflitto potesse essere allargato ha tenuto a freno, fino a quel momento, l’esercito maoista. Maclean rifischia il documento al suo controllo sovietico e, non appena i cinesi sono informati, subito si lanciano al salvataggio dei fratelli coreani. Tutta l’Asia, ahinoi, sta ancora piangendo lacrime di sangue.

Alla fine, inevitabilmente, c’è il punto di rottura. Ubriaco fradicio, reduce da una rissa, senza scarpe e con gli abiti stracciati, Maclean viene arrestato dalla polizia egiziana. Un paio di giorni più tardi, appena scarcerato, lo caricano su un aereo per Londra. Melinda, sua moglie, s’invola con un principe egiziano e lui, sotto inchiesta da parte dell’Intelligence, si mette in cura da una psicoanalista che, dopo averlo ascoltato per una mezz’ora, gli consiglia d’accettare la sua omosessualità senza scalmanarsi tanto. Dice a tutti di lavorare per Baffone e i più ormai gli credono senz’altro. Melinda, finito l’idillio col bel principe, lo raggiunge in Inghilterra mentre il cerchio degli inquisitori gli si stringe intorno.

A quel punto, ridotto com’è, anche se le prove a suo carico sono solo indiziarie, Maclean sta mettendo a rischio l’intera rete sovietica in Inghilterra. Così deve sparire. Non si capisce bene perché anche Guy Burgess, la cui copertura regge ancora, decide di espatriare con lui. I mastini del Mi5, per ragioni sindacali, smantellano le guardie durante i week end e le due talpe, la sera del 25 maggio 1951, prendono il volo da Southampton per ricomparire a Mosca tre giorni dopo. Philby ammette d’aver messo sull’avviso Maclean «perché, maledizione, dopotutto siamo stati compagni d’università». Poco ci manca che la sua correttezza venga premiata con una medaglia.

A Mosca Maclean è nominato redattore capo d’una rivista scientifica e ogni tanto, in compagnia di Burgess, tiene qualche conferenza stampa per le gazzette occidentali. Melinda lo raggiunse a Mosca: dal che si deduce che l’utopia sovietica ha contagiato anche lei. Philby la scampa fino al 1963 e Anthony Blunt viene individuato solo nel 1979 (ma può darsi che sia stato smascherato insieme a Philby e che in seguito l’Mi5 lo abbia usato come agente doppio). Maclean muore a settant’anni, trenta dei quali trascorsi in un appartamento del centro di Mosca, lontano dai clubs eleganti di Regent’s Park, a un’infinita distanza da Berkeley Square e dal bel mondo londinese.

Trent’anni così, trascorsi a fissare dalla finestra le cupole del Cremlino, senza un amico al mondo. Burgess era morto di cirrosi epatica verso il 1960. Quanto a Philby, col quale avrebbe almeno potuto commentare i risultati del cricket vuotando una bottiglia ogni tanto, gli aveva soffiato la moglie non appena era giunto a Mosca nel 1963, anche lui braccato dagli antichi colleghi, e così non erano più molto amici.

Wystam Hugh Auden

C’era probabilmente un quinto uomo nella banda dei «Cambridge Four», i quattro agenti segreti usciti dalla prestigiosa università inglese, che negli anni Cinquanta fuggirono in Unione Sovietica dopo avere fatto a lungo il «doppio gioco» per Mosca. Come complice o perlomeno «compagno di strada» ebbero uno dei più grandi poeti del Regno Unito: Wystan Hugh Auden, caposcuola di una generazione di scrittori accomunati dall’ impegno politico e dall’interesse per le dottrine di Marx.

Documenti resi noti per la prima volta dagli Archivi di Stato di Kew Gardens, a Londra, rivelano i frequenti contatti che Auden ebbe con Guy Burgess e Donald McLean, due dei «quattro di Cambridge», in particolare nei giorni precedenti la loro defezione in Urss; e descrivono i febbrili tentativi dell’ MI5, il servizio di controspionaggio britannico, e dell’Fbi, suo equivalente americano, per pedinare, intercettare, interrogare il poeta. È un thriller che si conclude senza una soluzione chiara: alla fine il caso viene chiuso, senza che Auden riveli nulla e che i sospetti nei suoi confronti vengano suffragati da fatti.

Ma il dossier ora reso pubblico aggiunge un’altra pagina al romanzo della «Guerra Fredda». Una pagina, va precisato, più nello stile ironico dei libri di Evelyn Waugh che in quello dei thriller di Graham Greene o Le Carrè. Lo interpretano, certo, alcuni dei protagonisti del conflitto a colpi di spionaggio tra Occidente e blocco comunista: Kim Philby, Anthony Blunt e gli altri succitati membri dei «Cambridge Four». Ma sullo sfondo c’è il jet set degli artisti e degli intellettuali di sinistra: salotti letterari, circoli accademici, fino alla villa che Auden aveva a Ischia, dove a un certo punto il poeta va in vacanza, per ritrovarsi assediato dai giornalisti e seguito dalla polizia, anche quella italiana, che lo interroga, alla fine di giugno del 1951, apparentemente su richiesta di Londra.

Un colpo di scena lascia intravedere una sorta di «tradimento», volontario o involontario, da parte di un altro scrittore, Stephen Spender, grande amico di Auden: sarebbe stato proprio Spender a confidare a un giornalista le telefonate intercorse tra Auden e Burgess, uno dei «quattro di Cambridge», pochi giorni prima della defezione in Urss. Omosessuale dichiarato ma sposato con la figlia di Thomas Mann, volontario con le forze repubblicane nella guerra civile spagnola, Auden si trasferì poi negli Stati Uniti e prese la cittadinanza americana. Con Philby e gli altri non si rivide più. «Un intellettuale comunista fortemente idealista», lo descriveva un dispaccio dello spionaggio britannico. Morì a Vienna nel 1973. (Enrico Franceschini, la Repubblica, 2007).

Sentimentalismo progressista

Si potrebbe scrivere un pezzo interessante sul mutamento delle mode e sull’autenticità del sentimentalismo progressista della classe media. Negli anni Trenta abbiamo avuto Mister W.H. Auden, l’idolo dei giovani, che inneggiava alla gloria dei lavoratori per rovesciare il capitalismo con la forza. […] Nonostante il colore politico dominante nelle opere di Spender, Auden e Cecil Day Lewis, va detto che non vi era alcuna profondità politica in esse. Perfino in un lavoro relativamente banale come The Dog Beneath the Skin di Auden e Christopher Isherwood il contenuto politico effettivo, perfino il significato antifascista, è risibile. Il desiderio di fondo di Auden & Co. pare quello di denunciare e ridicolizzare la borghesia di Flaubert più che quella di Marx, dal cui vocabolario si limitano a mimare qualche termine, qualche vago concetto. In un certo senso, questi scrittori conducono in pubblico una vendetta personale contro i propri genitori – vedi The Ascent of F6 [da noi L’ascesa dell’F6, Tararà 2004] del duo Auden-Isherwood ­– o contro le autorità che stanno loro antipatiche. Questa nozione di scrittura politica, dunque, è una specie di terapia per superare alcune difficoltà personali più che un contributo alla riforma della società: una chiave importante per capire l’intero approccio intellettuale alla politica, non solo negli anni Trenta. In effetti, a volte penso che l’intero ceto medio britannico prediliga la politica per una questione, diciamo così, di temperamento. Chi ama la consuetudine e la regola è attratto a destra; chi la odia opta per la sinistra. Lo stesso accade con la famiglia: ad alcuni pare un caldo nido, ad altri, come Isherwood, «l’enorme pipistrello sulla casa», qualcosa da cui fuggire. (Kingsley Amis, Socialism and the Intellectuals).

(Fine seconda partecontinua)

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Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 4: a caccia di mostri https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-4-a-caccia-di-mostri/ Tue, 05 Jul 2022 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72780 di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per [...]]]> di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1

Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
Per rispondere occorre storicizzare la concezione del nemico che abbiamo ripreso da Vogler. E a tal fine occorre porsi un’ulteriore domanda: non è che questo modo di concepire il nemico si può affermare quando si è consolidata, fino a diventare senso comune, la convinzione che il nostro mondo non è solo quello più giusto, ma anche l’unico realmente esistente? Quando siamo oramai convinti che “there is no alternative”, né all’interno delle nostre società occidentali né al di fuori? Se esistiamo solo “noi” l’unico nemico può stare solo dentro di noi.
Insomma, il nemico vogleriano fa parte di un tipo di narrazione adeguato ai tempi del neoliberismo trionfante e della globalizzazione rampante. Tempi in cui il nemico storico del sistema capitalistico, quello interno rappresentato dall’Unione Sovietica e quello interno formato dalla classe operaia, sono stati sconfitti. Sulla scena rimane soltanto “il mondo libero”, destinato ad espandersi su tutto il globo. Rimane solo il capitale.

Si può dunque sostenere, utilizzando le categorie di Frederic Jameson, che l’idea del nemico come lato oscuro dell’eroe rappresenti una soluzione immaginaria ad una contraddizione reale che può essere posta in questi termini: come è possibile che esista ancora il male quando il bene ha oramai trionfato? Si tratta di una soluzione che occulta le radici storiche del problema cui cerca di dare una risposta: il problema stesso viene infatti rappresentato come espressione delle eterne contraddizioni della natura umana. Detto in altri termini, il male persiste perché luce e ombra fanno parte dell’essenza immutabile dell’umanità. L’unica soluzione possibile sembra stia nel prevalere del lato positivo su quello negativo. Il primo deve riuscire a inglobare e governare il secondo. Quest’ultimo, però, può sempre risorgere perché imperituro. L’eterno ritorno del conflitto tra luce e tenebre finisce però per offuscare la necessità di un superamento della contraddizione reale si concretizzi in una nuova configurazione storica. Quando le contraddizioni di un periodo storico si incancreniscono, infatti, è inutile sperare che uno dei poli esca vincitore dalla lotta senza che questo comporti la riproposizione di un medesimo ordine in forma sempre più marcescente. Non era questa la lezione di Marx quando sosteneva che la classe operaia deve negare sé stessa per poter trionfare, pena la comune disfatta delle classi in lotta?
Solo attraverso una soluzione immaginaria si può pensare di evitare questo esito riproducendo un vecchio mondo già condannato. In effetti nella narrazione che contiene il moderno archetipo del nemico come ombra, la già richiamata saga di Star Wars, c’è il trucco che consente al mondo di ritrovare il suo perduto equilibrio. Il lato oscuro della forza, Dart Fener, riconosce alla fine la sua manchevolezza e si sacrifica per il trionfo della luce. In fin dei conti la speranza in un regime change in Russia sembra rimandare a questo tipo di epilogo. C’è purtroppo un altro esito possibile che la serialità televisiva ci suggerisce. Dexter, il famoso serial killer che uccide solo serial killer (state forse pensando agli Stati Uniti e alla Russia?), alla fine non riesce più a convivere con il suo “passeggero oscuro”, il suo irresistibile impulso omicida. Le regole del suo “codice” che lo obbligano ad uccidere solo i malvagi sfuggiti alla giustizia ordinaria non sono più sufficienti a impedire che la sua oscurità faccia del male agli innocenti (danni collaterali?). L’unico modo per evitarlo è uccidere il “passeggero oscuro” insieme a chi gli dà il passaggio. Siamo destinati ad un suicidio collettivo? Magari con una guerra nucleare in cui il Sansone occidentale perisce insieme a tutti i filistei russofoni? Forse per evitare questo tragico esito dobbiamo andare a caccia di mostri, quelli veri, non gli spauracchi che ci vengono spacciati come tali. 

Uno che di mostri se ne intende, il romanziere marxista China Mieville, afferma: “La massima ‘Abbiamo visto i veri mostri e siamo noi’ non è né una rivelazione, né una cosa intelligente, interessante o vera. È un tradimento del mostro e dell’umanità”.2  Il mostro, in senso forte, è infatti ciò che è completamente altro da noi. E come tale è inafferrabile, inconoscibile, irrazionale. Il mostro nella sua totale alterità sembra venire dall’esterno: è un’entità extraterrestre (la cosa venuta dallo spazio), extramondana (il demone), extraumana (la catastrofe naturale). Ma, in un senso forse ancora più forte, il mostro, nella sua completa indecifrabilità, non ci rivela la sua origine. Non riusciamo a sapere se provenga da un qualche altrove o se sia un parto del nostro mondo. Il mostro, sostiene sempre Mieville, è l’impossibile eppure necessaria incarnazione dell’inconoscibile. Tale incarnazione è talmente necessaria che “La storia delle società fino ad ora esistite è la storia di mostri”. O, detto altrimenti, “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno. Dei mostri e attraverso di essi può essere scritta la storia”. Una cosa necessaria richiede una spiegazione, ma una cosa impossibile la rifiuta. Da questa tensione scaturisce l’irresistibile tendenza all’esemplificazione del mostruoso. “Una cosa così evasiva rispetto alla categorizzazione provoca – e si arrende a – un desiderio famelico di specificità, di elencazione del suo corpo impossibile, di genealogia, di un’illustrazione. Il telos dell’essenza mostruosa è l’esemplificazione”.

Cerchiamo di applicare queste idee alla guerra che, in fin dei conti, potrebbe essere considerata uno dei peggiori mostri di cui possiamo fare reale esperienza. Prendiamo gli Stati Uniti, la nazione guida del “mondo libero” che senz’altro influenza più di ogni altra il nostro immaginario collettivo. Dal 1776, anno della dichiarazione di indipendenza “solo 18 anni su 245 sono trascorsi in completa pace”.3 La guerra è dunque necessaria perché viene praticata in continuazione. È il passeggero oscuro della nazione americana, il suo irresistibile impulso omicida. Ma essa è al contempo impossibile perché gli USA sono il faro della democrazia, la terra delle opportunità per tutti, il campione dell’autodeterminazione dei popoli. E allora sorge la necessità di esemplificare la guerra attraverso una sequela di nemici cattivi, anzi cattivissimi che possano rientrare nel novero degli assassini meritevoli di essere uccisi secondo il “codice” del serial killer statunitense. Dopo la Seconda guerra mondiale, in ogni conflitto arriva immancabile la reductio ad Hitlerum. Il primo prototipo di questa illustrazione è L’URSS che viene assimilata alla Germania nazista attraverso un utilizzo disinvolto della categoria di totalitarismo.
Ma il nemico, anche se cattivissimo come può essere un Putin qualsiasi, rimane una cosa diversa dal mostro, almeno nel senso forte che abbiamo attribuito a questo termine. Il nemico è qualcosa con cui siamo in grado di fare i conti perché possiamo comprenderlo o quantomeno collocarlo in uno spazio conoscitivo oscuro, ma delimitato. Per questo, quando affrontiamo un nemico, la nostra identità e le nostre coordinate esistenziali non sono messe in discussione fino alla loro radice ultima.  Questo scontro, almeno fino a quando pensiamo di poter essere vittoriosi, ci impone solo di rafforzare la nostra identità, cambiandola quanto basta per sconfiggere l’avversario, qualora necessario. Il mostro ci pone di fronte a un compito ben più difficile: ci obbliga a negare radicalmente il nostro mondo e dunque noi stessi. Poiché la sua minaccia è al tempo stesso inafferrabile e mortale, nulla di ciò che sappiamo o siamo in grado di fare ci può salvare. La catastrofe che incombe manifesta i limiti invalicabili del nostro universo, dal punto di vista pratico e da quello conoscitivo. Pensare di sconfiggere il mostro significa cercare di oltrepassare questi confini provando a immaginare un altro mondo possibile, un’esigenza che appare al contempo impossibile e necessaria. Mi verrebbe da dire che si tratta di una dialettica aperta. Senza garanzie. Anche questo fa paura.

Cerchiamo di approfondire la questione prendendola da un altro punto di vista. L’idea che il nemico sia il lato oscuro dell’eroe, come abbiamo già accennato, rimanda ad una sorta di pessimismo antropologico. Il presupposto è che ci sia un lato oscuro dell’umano in quanto tale da cui scaturisce, tra le sue peggiori manifestazioni, l’incapacità di pensare l’alterità senza mostrificarla. Questo è un dato che possiamo senz’altro ammettere, in considerazione degli orrori ripetuti della storia (dis)umana. Eppure, fermarci a questa considerazione non ci porta molto lontano. Se è vero che il rapporto con l’alterità è sempre stata problematica, non per questo ciò ha dato sempre luogo a esiti estremi come la demonizzazione dell’altro. L’etnocentrismo, che per semplicità possiamo considerare un fenomeno universale, è una cosa, il razzismo è un’altra. Vero è che nel primo possono essere individuati i semi del secondo. Ma non sempre quei semi germogliano. 

Possiamo pensare … che la propensione al dominio e alla violenza, il gusto per la crudeltà e il penchant totalitario facciano parte della natura umana, che siano intrinseci al desiderio che ci muove. È una posizione filosofica fin troppo convincente, molto disperata e infine profondamente reazionaria. Oppure possiamo pensare che violenza, crudeltà, abuso e produzione di miseria siano una possibilità ineludibile, che tuttavia deve ogni volta di nuovo essere scelta. Che siano, cioè, l’esito di una storia.4

La scelta di cui si parla, dunque, avviene ogni volta in condizioni diverse, storicamente determinate e produce effetti di volta in volta differenti. “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno”, ripetiamo insieme a Mieville. Il mostro, potremmo dire, è un modo per raffigurare ciò che le categorie con cui si autorappresenta una data epoca non possono concettualizzare; un modo per narrare allegoricamente le conseguenze più disumane che scaturiscono da un dato sistema sociale e che questo stesso sistema non può riconoscere come propri frutti necessari. Perché se li riconoscesse come tali verrebbe meno quell’etnocentrismo che appare come momento necessario per cementare una qualche forma di solidarietà e di unione di un dato gruppo umano. Il mostro non è solo l’essere spaventoso che minaccia di divorare qualche malcapitato, ma quello che preannuncia la possibile distruzione di un intero mondo. È ciò che, per dirla con De Martino, minaccia la presenza e annuncia l’apocalisse culturale.
Nella concezione di Mieville il mostro deve rimanere qualcosa di inspiegabile, una sorta di imperscrutabile divinità malevola. Rimanendo nell’ambito della narrazione romanzesca, ciò evita il rischio di scadere nel didascalico. Ma se usciamo dalla fiction, siamo sicuri che non possiamo fare qualche passo ulteriore per affacciarci al di là delle categorie con cui si autorappresenta una data epoca? Scrivere la storia attraverso i mostri che di volta in volta essa ha generato non prelude proprio a questo tipo di tentativo?

Ritorniamo alla guerra. Lo sviluppo della cosiddetta globalizzazione avrebbe dovuto portare al mondo la “pace perpetua” perché, secondo uno stereotipo fondante dell’ideologia moderna reso celebre da Kant, lo “spirito commerciale” non può coesistere con la guerra. E invece ci ha condotto alle soglie di un conflitto mondiale. Non dobbiamo perciò pensare la guerra come l’esito delle scellerate azioni del mostriciattolo di turno che interrompe il normale funzionamento di un sistema altrimenti destinato a diffondere la pacifica e fattiva coesistenza tra i popoli. Queste azioni sono solo le cause immediate di un conflitto. Dobbiamo pensare la guerra come un fenomeno mostruoso in senso forte, come raccapricciante conseguenza dei fondamenti indicibili del nostro mondo. In altri termini, con buona pace di Kant, dobbiamo pensare la “guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali”. 5
Ovviamente la guerra non l’ha inventata il capitalismo. Ma la guerra in grado di distruggere, letteralmente, l’intera umanità (un conflitto mondiale, a maggior ragione se nucleare) è impensabile senza il capitalismo. Cannoni, missili, carri armati sono le zanne e gli artigli più visibili del capitale totale che ci sta divorando. Ciò detto è evidente che una cosa è individuare la genesi dei mostri che appartengono al nostro mondo e pensare le condizioni di una società libera dalle loro minacce, altro è riuscire a immaginare un mondo che sia privo da qualsiasi mostro. Insomma, liberarci da un male storicamente determinato non è lo stesso che liberarci da ogni male. Un mondo libero dalla minaccia di una guerra totale può ben essere costellato da una serie di feroci battaglie locali, tribali, sociali. Anche in questo senso la dialettica di una possibile liberazione non può che rimanere aperta. 

(4 – fine– le precedenti puntate qui, qui e qui)


  1. Lo abbiamo già detto, ma vale la pena qui ripeterlo. Oggi assistiamo a uno scontro tra potenze che si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Ciò sia detto senza nulla togliere al fatto che le responsabilità dello scoppio di questa guerra ricadono, nell’immediato, sullo stato guidato da Putin, incapace di rispondere politicamente, con una strategia di tipo egemonico, alla Nato che abbaiava alle sue porte. 

  2. China Mieville, Theses on Monsters, pubblicato in www.chinamieville.net. Le successive citazioni sono tratte dallo stesso scritto (traduzione nostra). 

  3. Questa affermazione non è presa non da un sito filo-Putin, ma dalla sezione Infodata del Sole 24 ore 

  4. Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 72. 

  5. Sandro Moiso, Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempestasu “Carmilla” qui. 

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