Turchia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La Storia non sempre si ripete https://www.carmillaonline.com/2023/07/03/la-storia-non-sempre-si-ripete/ Mon, 03 Jul 2023 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77727 di Sandro Moiso

Francesco Dei, Balcani in fiamme. Storia militare della guerra russo-turca (1877-1878), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 424, euro 32,00

Il bel saggio di Francesco Dei, appena pubblicato da Mimesis, permette di svolgere riflessioni, non solo di carattere militare, su molti aspetti dei conflitti alle porte d’Europa, sia di ieri che di oggi. L’autore non è nuovo ad opere del genere poiché, già in passato, si è occupato di conflitti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi vent’anni del secolo successivo, hanno visto coinvolte le forze armate russe. Sia nella loro forma zarista che in quella [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Dei, Balcani in fiamme. Storia militare della guerra russo-turca (1877-1878), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 424, euro 32,00

Il bel saggio di Francesco Dei, appena pubblicato da Mimesis, permette di svolgere riflessioni, non solo di carattere militare, su molti aspetti dei conflitti alle porte d’Europa, sia di ieri che di oggi.
L’autore non è nuovo ad opere del genere poiché, già in passato, si è occupato di conflitti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi vent’anni del secolo successivo, hanno visto coinvolte le forze armate russe. Sia nella loro forma zarista che in quella di Armata rossa.

Dei, nato a Siena nel 1975 e laureato in Scienza politiche, si è specializzato in storia e cultura dell’Estremo oriente e in storia e cultura della Russia e dell’Europa slava. Appassionato di storia militare, ha pubblicato, sempre per Mimesis nel 2018, “La rivoluzione sotto assedio: Storia militare della guerra civile russa 1917-1922” (a suo tempo recensito su «Carmillaonline» il 27 giugno 2018), mentre nel 2020 ha dato alle stampe una “Storia militare della guerra russo giapponese 1904 – 1905” (LEG, Gorizia 2020).

La guerra affrontata nel saggio attuale è uno delle tante che hanno visto, tra l’età moderna e quella successiva alla metà del XIX secolo, due imperi, quello russo e quello ottomano, affrontarsi sia per il controllo dei Balcani che della Crimea e del Mar Nero. Conflitti in cui, di volta in volta, l’”aggressore” è stato uno dei due paesi, con motivazioni spesso mascherate dietro alla necessità di intervenire in difesa di minoranze etnico-religiose oppure di comunità ribellatesi contro lo zar o il sultano.

Nel caso della guerra del 1877-1878 il pretesto è fornito dalla persecuzione delle comunità cristiane dell’impero ottomano da parte delle milizie irregolari turche basci-buzuk, soprattutto in Bulgaria. Cosa che fornì lo spunto all’impero zarista, custode formale della fede ortodossa, di intervenire per espandere la propria influenza e presenza militare nell’area. A differenza, solo per fare un esempio, della guerra russo-turca del 1768-1774 in cui la parte del persecutore, in questo caso di comunità polacche e ucraine, era stata svolta dalle truppe di Caterina II di Russia e del suo favorito, Stanislao Augusto Poniatowski.

Considerata da molti storici come un conflitto secondario, la guerra russo-turca, nelle pagine e nell’accurata ricerca di Dei si rivela, nei fatti, una anticipazione e prefigurazione del futuro conflitto mondiale, in cui, soprattutto i Russi, utilizzeranno tecniche, strumenti, tattiche e lezioni tratte sia dalla guerra civile americana del 1860-65 che del conflitto franco prussiano del 1870.

Capisaldi trincerati sotto il livello del suolo o posti come rilievi creati con l’artificio di essere circondati e protetti da scavi profondi 4 o 5 metri che mettevano in difficoltà l’assalto delle fanterie e della stessa cavalleria; l’uso di armi da fuoco a retrocarica con gran numero di proiettili a disposizione di ogni soldato; mitragliatrici (prima fra tutte la Gatling così ampiamente utilizzata nel conflitto tra Nord e Sud negli Stati Uniti) e diversi tipi di artiglieria, cosi come l’uso dei primi siluri a propulsione per la marina militare, delinearono con grande anticipo quello che sarebbe stato, sul piano militare, il grande macello del Primo conflitto mondiale che sarebbe iniziato meno di quarant’anni dopo. Preceduta, per quanto riguarda la Russia, ancora dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905.

Anche nel numero dei morto e feriti tra i soldati che, secondo i calcoli dell’autore, raggiunse quello complessivo di circa 230.000 caduti, spartiti su entrambi i fronti, nell’arco di soli 10 mesi di scontri.
Caduti che se apparentemente diminuivano rispetto al conflitto in Crimea del 1853-1856 (con un numero di soldati deceduti compreso tra i 363 e 673mila) oppure alla guerra civile americana (con un milione e ottocentomila caduti), costituivano un discreto esempio di macelleria automatizzata moderna se si tiene conto della minor durata del conflitto stesso.

L’autore eccelle sia nella descrizione del conflitto e del suo svolgimento sul campo e a livello politico-diplomatico, che nel descrivere le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte. Così come nell’elencare le caratteristiche della capacità di resistenza del popolo russo e del suo esercito e le motivazioni su cui questa si è, spesso, fondata. Cosa che nell’introduzione lo porta a tracciare interessanti paralleli con il conflitto attualmente in atto in Ucraina.

Lasciando, però, al lettore interessato la ricostruzione di quei drammatici avvenimenti che si conclusero con una vittoria russa non coronata dai risultati sperati e con un ulteriore indebolimento di quello che era ormai chiamato il Grande Malato, ovvero l’impero ottomano, occorre qui sottolineare alcune ulteriori riflessioni che il testo di Dei induce a svolgere, pur non trattandole sempre in maniera diretta.

La prima riguarda proprio il numero dei caduti che, dal punto di vista delle perdite puramente militari, avrebbe raggiunto il suo apice nel conflitto 1914-18 e che ci suggerisce che le cifre pornograficamente fornite ogni giorno dai media e dalla propaganda sulle perdite russe (soprattutto) ed ucraine, per il conflitto attualmente in corso, devono essere per stati in precedenza un po’ (se non molto) gonfiate. Secondo fonti del Pentagono, infatti, a tutto aprile 2023, l’esercito ucraino avrebbe sofferto un numero di perdite che potrebbe variare dai 124.500 ai 131.00, compresi 17.500 deceduti in azione; mentre le forze russe avrebbero subito da 189.500 a 223.00 perdite di cui 43.000 sarebbero cadute in azione1. Chiaramente in molti articoli riguardanti l’argomento si è giocato molto sulla traduzione del termine inglese casualties che può indicare sia le vittime che i feriti oppure i morti.

Anche se c’è da osservare come l’attuale conflitto, proprio per la novità rappresentata da alcuni strumenti usati per la prima volta su larghissima scala come i droni, di fatto costituisca sia un passo avanti nelle tecniche militari che un passo, forse due, indietro con il forzato ritorno alla guerra di trincea e il rallentamento della guerra di movimento. Dovuto sia al controllo dello spazio aereo e terrestre con i droni che all’utilizzo di più maneggevoli e micidiali armi anticarro su entrambi i fronti. Mentre allo stesso tempo, il numero delle vittime civili sembra andare in controtendenza rispetto ad un trend storico in cui, dalla seconda guerra mondiale in poi, il numero dei civili uccisi in ogni guerra , allargata o locale, ha sempre ampiamente sopravanzato quello dei militari uccisi.

La seconda riflessione, invece, aiuta a spiegare la tensione e l’attenzione con cui i media liberal occidentali hanno seguito le recenti elezioni tenutesi in Turchia, tifando apertamente per il tutt’altro che liberale avversario di Recep Tayyip Erdogan, Kemal Kilicdaroglu, che aveva promesso un patto più forte con l’UE (e quindi con le sue politiche nei confronti della Russia). Questo perché, al di là delle farlocche dichiarazioni sui “diritti” (poi smentite proprio dalla promessa del pugno duro con i migranti presenti sul territorio turco fatta dallo stesso Kilicdaroglu), quello che interessava allo schieramento occidentale era il far tornare la Turchia “nemica” della Russia come nei decenni e nei secoli precedenti.

Smontare quell’asse che, se non costituisce ancora una vera e propria alleanza con Putin, in realtà fa sì che il paese detentore del secondo apparato militare della Nato (ampiamente rivisitato nei suoi vertici dopo il fallito colpo di stato del 20162, sventato anche grazie all’intervento dell’intelligence russa) non costituisca più quel baluardo anti-russo cui la Storia degli ultimi decenni, ma soprattutto dei secoli precedenti, aveva abituato l’Occidente (e soprattutto il Regno Unito) ad un “sicuro” contenimento verso il Mediterraneo e il Medio Oriente della potenza slava.

Proprio ciò, ovvero la differente politica di Erdogan e della Turchia nei confronti della Russia e delle “volontà occidentali”, costituisce uno dei fatti di rilevanza storica scaturiti prima e confermati durante l’attuale conflitto russo-ucraino. Dimostrando che non sempre la Storia si ripete, uguale a se stessa, così come troppo spesso analisti, studiosi, politici e militari dello schieramento europeo e Nato continuano a pensare per poter fare affidamento su certezze, in realtà, in via di rapido decadimento.

Un’ultima riflessione, che svolge ancora l’autore proprio nel saggio, riguarda infine la debolezza e la vacuità delle trattative diplomatiche una volta che i conflitti sono avviati e non abbiano ancora raggiunto un punto in cui sia chiara la loro possibile conclusione. Cosa che non fa altro che confermare lo sconcerto e la delusione di chi, oggi, dal Vaticano a varie altre entità politiche e statuali, guarda e promuove, con scarsi o nulli risultati, una soluzione diplomatica del conflitto in corso. In questo, sì, la Storia sembra ripetersi ancora, indipendentemente dalle capacità e dal carisma dei promotori delle medesime iniziative3.


  1. Fonte: M. Specia – B. Hoffman, Casualties in Ukraine overwhelm cemeteries, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  2. Si veda qui  

  3. Si veda, in proposito, l’intervista concessa dall’ex Capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare, Leonardo Tricarico, a Carlo Cambi in «In Ucraina nessuno cerca la pace», La Verità, 12 giugno 2023.  

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Della guerra economica condotta dal capitale https://www.carmillaonline.com/2022/12/14/della-guerra-economica-condotta-dal-capitale/ Wed, 14 Dec 2022 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74978 di Sandro Moiso

Emiliano Brancaccio – Raffaele Giammetti – Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 280, euro 20,00

Quando il sottoscritto, nel 2019, pubblicò, proprio per le edizioni Mimesis, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, l’argomento “guerra” costituiva, sia per l’ideologia mainstream che per gran parte di quella antagonista, un autentico tabù. Una sorta di coscienza rimossa dell’inevitabile divenire della Storia che sfociava in forme di ignoranza crassa degli implacabili meccanismi di funzionamento del capitale e dell’imperialismo. Tanto [...]]]> di Sandro Moiso

Emiliano Brancaccio – Raffaele Giammetti – Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 280, euro 20,00

Quando il sottoscritto, nel 2019, pubblicò, proprio per le edizioni Mimesis, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, l’argomento “guerra” costituiva, sia per l’ideologia mainstream che per gran parte di quella antagonista, un autentico tabù. Una sorta di coscienza rimossa dell’inevitabile divenire della Storia che sfociava in forme di ignoranza crassa degli implacabili meccanismi di funzionamento del capitale e dell’imperialismo. Tanto da far chiedere a chi scrive se colui che all’epoca, proprio a proposito della guerra nelle sue forme allargate, aveva affermato, in occasione della presentazione del libro di allora al primo Carmilla Fest al Centro sociale Vag di Bologna, che «la guerra mondiale non è più possibile poiché Russia e Stati Uniti si sono accordati sul gas», avrebbe ancora il coraggio di sostenere una tale proposizione.

Mala tempora currunt, così nel frattempo anche i banchi delle librerie si sono nel frattempo riempiti di danni collaterali editoriali ovvero di un numero eccessivo di libri dedicati alla guerra (in generale e russo-ucraina in particolare) che, troppo spesso, all’ignoranza hanno aggiunto la beffa, poiché nella maggior parte dei casi schierati partigianamente e inopportunamente con una delle parti in causa.

Poiché, come ha affermato ancora in varie occasioni pubbliche chi scrive, parlare di guerra mentre è in corso un confitto dalla portata potenzialmente devastante, ben al di là dei confini entro cui attualmente si svolge, costituisce una grande responsabilità morale ed etica, ancor prima che politica, ben venga dunque il volume appena pubblicato dalle medesime edizioni. In cui fin dall’Introduzione, illustrando il contenuto della terza parte della ricerca, si afferma, a proposito della guerra in Ucraina e delle sue cause reali:

Con buona pace delle ideologie propugnate dalle rispettive fazioni in campo, […] mostreremo che sullo scacchiere mondiale agiscono almeno due diversi imperialismi, legati tra loro dal grande squilibrio accumulato nell’era del libero-scambismo globale e logicamente consequenziali l’uno all’altro. Da un lato c’è il vecchio blocco imperialista definibile “dei debitori”, a guida americana e anglosassone, con l’Europa al traino, impegnati a difendere un’infiacchita egemonia con tutti i mezzi possibili, prima militar-monetari e dopo la grande recessione anche protezionistici. Dall’altro lato, c’è un emergente blocco imperialista “dei creditori” a guida cinese, che coinvolge russi e vari asiatici e registra un’indubbia fase di ascesa. Quest’ultima, tuttavia, è resa instabile proprio dalla decisione di rispondere al protezionismo dei debitori con una scompaginante aggressione militare: un attacco inedito che sfida il monopolio della guerra imperialista con cui, dopo il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti e gli alleati occidentali hanno impunemente messo a ferro e fuoco vari pezzi del mondo. E’ una situazione in larga parte senza precedenti, ma ch eper certi aspetti richiama la crisi dell’impero britannico del secolo scorso, con tutte le sue terrificanti implicazioni1.

E’ bene iniziare da qui visto che, proprio in data 26 novembre 2022, il nuovo quotidiano delle mosche bianche e dei grilli parlanti, «Domani», ha affermato nel suo editoriale la preoccupazione per gli sconvolgimenti degli equilibri globali portati dal fatto che i nuovi imperi (Russia, Turchia. Cina anche se non citata) starebbero esercitando una forma di rivincita sugli stati-nazione poiché «non hanno mai amato confini troppo definiti, sempre alla ricerca di un’espansione e di un’influenza oltre frontiera»2. Dimenticando così, e in un sol colpo, le appassionate difese della globalizzazione imperialista occidentale e le accuse di populismo e sovranismo contro coloro che si macchiavano precedentemente della colpa di voler difendere gli interessi e i confini nazionali, l’editorialista riscopre il pericolo rappresentato dall’espansione imperiale (altrui).

Chiarissimo, ma non unico, esempio di come il capitale occidentale, sentendosi minacciato dall’ascesa non solo più economico dei Brics e di altre componenti del capitalismo planetario non dislocate nelle solite metropoli occidentali, non esiti a ricorrere ai tamburi di guerra e ai richiami per allodole dei riferimenti alla nazione e ai suoi confini. Confermando ciò che poco prima si diceva attraverso la citazione tratta dall’introduzione al testo qui recensito. Che così continua:

Osservata in questo quadro generale, la stessa guerra in Ucraina assume caratteri piuttosto diversi rispetto alle solite narrazioni. Non si tratta semplicemente di una guerra per l’autodeterminazione di una regione o per la sovrantà di una nazione, né per la denazificazione di un territorio o per la libertà di un popolo aggredito. Piuttosto, quel conflitto sanguinoso, scatenato dall’oligarchia russa e surrettiziamente avvallato dai suoi grandi sodali, segna l’avvio di una contesa su vasta scala, che servirà a verificare se gli Stati Uniti e i loro alleati possono tranquillamente saltare dal libero-scambismo al protezionismo e tutti gli altri debbano passivamente adattarsi o se, da ora in poi, le regole del gioco economico dovranno esser decise in base ad un diverso ordne di rapporti di forza globali3.

Poche righe che servono a ridefinire completamente i confini del dibattito in corso sulla guerra, sia da parte dei rappresentanti del capitale che dell’antagonismo, o presunto tale. Con una differenza, però, poiché, come affermano ancora gli autori, siamo oggi in presenza di una sconcertante presa d’atto «di un Marx “rapito dal nemico”: tanto dimenticato dai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo quanto studiato e rivalutato dagli agenti del capitale, soprattutto per le virtù premonitrici della marxiana “legge” di centralizzazione»4.

Nella prima parte del testo, intitolata non a caso Capitali di tutto il mondo, unitevi!, vengono infatti sviluppate le premesse «di una nuova teoria della riproduzione e della tendenza verso la centralizzazione capitalistica, un approccio che si contrappone al paradigma teorico mainstream ma solleva anche obiezioni ai filoni del pensiero critico che hanno ridotto il marxismo a un intoccabile reliquiario antiscientifico, o che da lungo tempo tacciono sul grande tema delle “leggi generali”»5.

I tre autori, rispettivamente professore di politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio il primo, ricercatore in economia politica presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale il secondo e professore di politica economica presso l’Università di Bergamo il terzo, non solo si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista, ma anche di individuare con precisione la “legge generale” del suo essere non solo “valore in processo”, ma anche indirizzato ad una costante rimessa in discussione degli equilibri precedentemente raggiunti in nome di nient’altro che della progressiva e frenetica centralizzazione delle “ricchezze”. Cui l’Occidente, evidentemente, non basta più come unico centro di raccolta e accumulazione.

L’opera, come si è già accennato prima, è divisa in tre parti e in una serie di appendici, tutte molto interessanti e pertinenti oltre che accompagnate da alcune tabelle riguardanti le variazioni della spesa militare dei principali paesi nel corso degli ultimi vent’anni e dalle posizioni nette estere (in attivo e passivo) dei principali paesi.
In quest’ultimo caso si può rilevare come i principali paesi in attivo siano, in ordine discendente: Cina, Giappone, Germania, Canada, Arabia Saudita e Russia. Mentre all’opposto siano in passivo, sempre nello stesso ordine: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Australia, Messico e Brasile.

Come si può cogliere attivi e passivi sono divisi tra polo occidentale e altre aree, ma ciò che maggiormente colpisce è il fatto che il solo debito degli Stati Uniti (18124 miliardi di dollari nel 2021) sia superiore all’attivo dei primi sei paesi (12735 miliardi di dollari nello stesso anno) e rappresenti più dell’80% del debito accumulato complessivamente dai sei paesi più “indebitati” (22533 miliardi di dollari totali).

Quanto potrà essere ancora accettata dai competitor tale situazione, soprattutto oggi che Stati Uniti e alleati hanno scelto la strada del sequestro degli investimenti altrui nelle banche da essi controllati? Non sarà per caso questo un altro motivo di inasprimento dei conflitti, più che del conflitto, a venire? Insomma, quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?

Questi sono i concreti quesiti che La guerra capitalista impone ai lettori più attenti, al di fuori delle narrazioni manichee e semplicistiche dell’una e dell’altra parte.


  1. Introduzione a E. Brancaccio- R. Giammetti- S. Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, p.11  

  2. Mario Giro, La rivincita degli imperi ora minaccia la stabilità, «Domani» 26 novembre 2022  

  3. E. Brancaccio- R. Giammetti- S. Lucarelli, op. cit., pp.11-12  

  4. ivi, p.10  

  5. ibidem  

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Il nuovo disordine mondiale/ ieri e oggi: la jihad imperialista https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/il-nuovo-disordine-mondiale-ieri-una-jihad-imperialista/ Wed, 06 Jul 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72546 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che ha sempre affermato di aver iniziato a scrivere sul Grande gioco a partire dalla lettura di Kim, il capolavoro letterario-avventuroso di Rudyard Kipling, ancora una volta non smentisce la sua abilità nel trattare la materia in esame sia dal punto di vista documentario che da quello letterario, dando vita ad una narrazione in cui storia politico-militare e avventura si fondono in pagine che sicuramente non permettono al lettore di separarsi facilmente dalle stesse.

In questo caso si tratta di analizzare e raccontare lo sforzo che la Germania guglielmina, sul fare e nel corso della Prima Guerra Mondiale, mise in atto per poter scalzare, con l’aiuto dell’allora ancor parzialmente vivo impero ottomano e il richiamo all’islamismo più intransigente, la presenza britannica dai territori del Vicino Oriente, andando però ben oltre i confini e i territori compresi nello stesso.

Organizzata da Berlino, ma scatenata da Costantinopoli, la Guerra Santa era una nuova e più sinistra versione del vecchio Grande Gioco. Combattuta tra i servizi segreti di Re, Kaiser, Sultano e Zar, doveva avere un camppo di battaglia che si estendeva da Costantinopoli a est fino a Kabul e Kashgar, fino alla Persia, al Caucaso e all’Asia centrale russa. Doveva poi allargarsi a tutta l’India britannica e alla Birmania, dove Berlino sperava, con l’aiuto di armi e fondi di contrabbando, di fomentare violente rivolte rivoluzionarie tra le popolazioni locali ribelli, fossero esse musulmane, sikh o indù. Ma i sinuosi tentacoli della cospirazione si protendevano ben oltre le frontiere dell’Asia. Il grande progetto di Berlino comprendeva trafficanti d’armi negli Stati Uniti, un’isola remota al largo della costa sull’Oceano Pacifico del Messico e un poligono di tiro nell’affollata Tottenham Court di Londra, da dove venivano pianificati (e provati) assassini politici. Avrebbe coinvolto golette cariche di una quantità di armi sufficiente a far scoppiare di nuovo la Rivolta Indiana1 e casse di letteratura rivoluzionaria contrabbandate in India con innocue false copertine di classici inglesi2.

Naturalmente gli agenti tedeschi destinati portare a termine un’operazione così ampia, ambiziosa e “rivoluzionaria” dovettero scontrarsi sul campo sia con la determinazione inglese a mantenere il proprio vantaggio, se non di ampliarlo ai danni dell’impero ottomano attraverso l’azione di agenti altrettanto determinati e ambiziosi, quali ad esempio il notissimo colonnello Lawrence meglio noto come Lawrence d’Arabia3, sia con un evento inaspettato come quello rappresentato dalla Rivoluzione russa e dalle sue conseguenze anche su quella parte del continente asiatico4 oltre che con la diffidenza del mondo musulmano per questa ennesima intrusione del mondo cristiano nelle aree in cui il primo era prevalente.

Quel desiderio imperiale dovette poi ancora fare i conti con l’opposizione armena ai desideri di espansione che i tedeschi alimentavano nell’impero ottomano e nei suoi rappresentanti come Enver Pascià, già a capo dei Giovani Turchi e in gran parte responsabile del genocidio armeno (perpetrato tra il 1915 e il 1916) oltre che di quello dei Greci del Ponto (tra il 1914 e il 1923), che suscitò tra la popolazione armena superstite e ancora ben presente in città come Baku la tendenza ad allearsi con i bolscevichi in funzione di difesa nazionale ancor prima che di sollevazione rivoluzionaria. Oppure facendo sì che desiderio di rivalsa e simpatia per il bolscevismo si fondessero in un’unica causa (come nel caso del bagno di sangue a Baku nel 1918, in cui fu distrutta la Divisione Selvaggia turca insieme agli alleati Tartari, ben descritto nel libro di Hopkirk). Motivo per cui lo stesso Ismail Enver, conosciuto anche come Enver Bey, finì i suoi giorni cadendo in combattimento contro il battaglione armeno dell’Armata Rossa bolscevica comandato da Hagop Melkumian il 4 agosto 1922 presso Baldžuan, nella Repubblica Sovietica Popolare di Bukhara (odierno Uzbekistan), durante la rivolta dei Basmachi.

E’ una storia dalle tinte forti, a tratti fosche, quella che ci narra ancora una volta Hopkirk attraverso le pagine di questo libro e, allo stesso tempo, di avventure e di uomini che sembrano usciti dalle pagine di movimentatissimi romanzi di spionaggio. Come lo stesso autore ci suggerisce citando un autore di genere come John Buchan che nel 1916, proprio intorno a quegli eventi, aveva intrecciato quello che è da considerarsi come un thriller immortale: Greenmantle, il secondo di cinque romanzi di John Buchan con protagonista Richard Hannay.

Richard Hannay è uno dei primi eroi seriali dello spionaggio, ben prima dell’esuberante 007 di Ian Fleming o del grigio George Smiley di John le Carré, e di solito si accompagna ad un collega di nome Ludovic “Sandy” Gustavus Arbuthnot che, ci rivela Hopkirk, sembra ritagliato sulla figura del Capitano Edward Noel, uno dei veri protagonisti dell’azione dei servizi segreti inglesi nella regione caucasica e transcaucasica. Che nel libro di Hopkirk è proprio al centro delle vicende che si svolgono a Baku, prima, durante e dopo il cosiddetto “bagno di sangue” cui si è accennato prima.

Così, nel libro di Buchan, Hannay è chiamato a indagare sulle voci di una rivolta nel mondo musulmano e intraprende un pericoloso viaggio attraverso il territorio nemico per incontrare il suo amico Sandy a Costantinopoli. Una volta lì, lui e i suoi amici devono contrastare i piani dei tedeschi di usare la religione per vincere la guerra. Sforzi che raggiungeranno il culmine nel corso dell’offensiva di Erzurum. Durante tale offensiva, portata avanti tra il 10 gennaio 1916 e il 16 febbraio dello stesso anno dall’esercito imperiale russo, le forze dell’Impero ottomano, sorprese nei quartieri invernali, subirono una serie di sconfitte che portarono ad una decisiva vittoria russa.

Il libro di Hopkirk è, ancora una volta, densissimo di fatti, riferimenti, personaggi e documenti; tali da impedire al recensore una narrazione completa degli eventi narrati senza togliere al lettore il piacere della lettura e della progressiva scoperta delle conseguenze di azioni portate avanti da individui che, da soli o in gruppo, attraversano deserti e lande desolate e selvagge a piedi, a cavallo, su sgangherati mezzi di trasporto a motore o a trazione animale o in treno. Oppure che agiscono tra palazzi, ambasciate, uffici dei servizi segreti o vie di città europee o orientali in cui il tradimento e il doppio gioco sono sempre all’ordine del giorno. Ma ciò che appare al recensore attuale particolarmente importante sono alcune riflessioni, direttamente o indirettamente, stimolate dalla lettura dello stesso.

La prima è data dal rapporto tra avventura e imperialismo e colonialismo. Giunti infatti al termine della serie di libri di Hopkirk dedicati al Grande Gioco in tutte le sue sfaccettature, che l’autore stesso dichiara di aver sviluppato a partire dalla lettura di Kim, diventa impossibile non rilevare come proprio il genere avventuroso, in letteratura prima e nel cinema o nelle serie televisive poi, oltre che nei fumetti, affondi le sue radici nell’avventura delle imprese coloniali e imperiali che l’uomo bianco, con la sua cultura, i suoi “nobili ideali” e gli enormi e insaziabili appetiti economici, portò a termine tra il XVIII e il XX secolo ai danni di altri uomini, diversamente colorati, di diversa religione, cultura e interessi economici o organizzazione sociale opposta. I quali, insieme alle loro etnie e società, quando queste non furono del tutto distrutte, ai loro governi, alle loro famiglie, tribù o clan vissero, e ricordano ancora oggi, gli stessi eventi senza l’aura dell’impresa eroica ma soltanto attraverso l’esperienza e il ricordo del sangue e della tragedia. Cosa di cui, oggi, l’occidente sta iniziando a pagare il conto sotto forma di guerre incontrollabili, rivolte sempre più ampie, migrazioni epocali e crisi del proprio sistema economico e politico su scala globale.

Rimanendo ancora per un attimo sul piano della letteratura è allora impossibile non ritornare con la mente a quanto già scrisse profeticamente Ugo Foscolo nel suo romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, ancora all’alba del XIX secolo:

Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue di innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! Ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno la loro età. Oggi son tiranne, per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco5.

Eppure, eppure…
A distanza di un secolo, oppure anche di secoli, nulla è cambiato.
Come cieche ruote dell’oriuolo gli ingranaggi dei servizi di intelligence (come si usa denominare oggi lo sporco lavoro degli agenti segreti) continuano a macinare intrighi, a programmare assassinii, a giocare sulle divisioni etniche, culturali e religiose per far guadagnare alle diverse potenze in campo qualche fonte di materie prime in più, qualche spostamento di baricentro del potere in Europa o negli altri continenti, a preparare rivolgimenti che, esattamente come un tempo, potrebbero avvenire con risultati ben diversi da quelli sperati.

Mentre i teorici del complotto e del super-imperialismo continuano a discettare della capacità statunitense di dirigere a proprio vantaggio gli affari economici e militari del pianeta, la Storia continua a dimostrare che dirigerla è impossibile, magari prevederla sì, utilizzando i giusti strumenti di analisi e riferimenti di classe, ma non determinarne il corso. E a far le spese di questo gioco incontrollabile sono proprio i presunti artefici dello stesso, in particolare i vari governi susseguitisi negli Stati Uniti dalla caduta del Muro in poi, ma anche prima.

In fragile equilibrio tra potenze emergenti sempre più aggressive e determinate, alcune delle quali ancora esattamente dislocate sui territori già in palio nel Grande Gioco, talvolta imprevedibili nelle scelte e scaltre nel destreggiarsi tra i differenti ruoli che sembrano essere stati assegnati loro da un croupier piuttosto distratto e disordinato (si pensi solo alla Turchia di Erdogan e ai paesi arabi, sempre apparentemente in bilico tra Occidente e Oriente ma sempre più determinati a seguire una propria politica di potenza), gli Stati Uniti sembrano condannati a ripetere non solo gli errori di un passato che ancora li preoccupa (ad esempio la guerra in Vietnam), ma anche quelli altrui.

Come, ad esempio, proprio con la scelta di scatenare una jihad islamica contro i russi, in Afghanistan, che poi si rivolse contro di loro (a partire dalle Torri Gemelle) e contro l’intero Occidente, fino alla catastrofica uscita e disordinata dalla ventennale guerra nello stesso paese, in cui, nel periodo “migliore” riuscirono a mettere al governo un individuo come Hamid Karzai, meglio noto, al di là delle ruberie e della corruzione che lo hanno contraddistinto, come “sindaco di Kabul” più che come presidente di uno stato riformato in chiave moderna. In una storia in cui a farla da padrone è stato l’avventurismo, più che l’avventura.

Ciechi ingranaggi che girano e girano, spesso a vuoto, ma altre volte macinando vite, sangue e risorse, determinati da elementi che vanno ben al di là della volontà dei singoli governi o dei singolo, per quanto spregiudicati, individui. Come anche Lawrence d’Arabia, insieme a molti personaggi di differente nazionalità riproposti da Hopkirk nelle sue ricerche, ebbe modo di scoprire.

Il suicidio dell’Occidente (imperiale e coloniale) passa da lì e la lettura di Hopkirk, anche se indirettamente, ci aiuta a comprenderlo meglio. A patto di saper leggere e studiare invece di vaneggiare di volontà individuale, libertà di scelta, complotti, difesa della patria e svariate altre amenità diversamente proposte dai media mainstream e dalla propaganda politico-ideologica di ogni, nefasto, colore. Soprattutto oggi, in occasione della guerra in Ucraina.


  1. Rivolta antibritannica scoppiata in India nel 1857 che vide protagonisti i cosiddetti sepoy della Bengal Army, ovvero i soldati di origine indiana arruolati nell’esercito inglese – Nota nel Testo. Si veda anche: William Dalrymple, L’assedio di Delhi, Rizzoli, Milano 2007  

  2. Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, p. 17  

  3. Cui le edizioni Settecolori hanno già dedicato un libro (recensito qui)  

  4. Si veda ancora qui  

  5. Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione definitiva del 1817), (a cura di Mario Puppo), Mursia 1965, decima ristampa 1994, pp. 110-111  

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 10: il biglietto che è esploso https://www.carmillaonline.com/2022/03/30/il-nuovo-disordine-mondiale-10-il-biglietto-che-e-esploso/ Wed, 30 Mar 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71203 di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 ) “Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022) “E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere. Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo [...]]]> di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale; dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio della guerra in Ucraina, poi.

Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.

La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione.
In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.

Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.

La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:

Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.

Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.

Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. E’ infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.

All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica mondiale dei produttori ed esportatori di armi.

Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per il montaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.

Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.

Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
E’ proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un fallimento, diplomatico ed economico.

Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.

E’ anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.

Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.

Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:

quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui ).

Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.

Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.

Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4

Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5 e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso la Russia e che ha fino ad ora impedito sul suo territorio il passaggio di armi occidentali destinate agli ucraini.

A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata, potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come un’autentica manovra economica di guerra. «E’ un budget di guerra in tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale 2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono destinati al Pentagono»6.

Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.

La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi- andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.

Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e, allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.

Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9 su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.

Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.

Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancor affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.

Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.

Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.

(10 – continua)


  1. Su questi ultimi si veda qui  

  2. Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217  

  3. Mediterraneo, Baltico e Mar Nero  

  4. Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23  

  5. Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria  

  6. Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022  

  7. A. Simoni, cit.  

  8. Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022  

  9. Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche  

  10. Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 8: mai più per un pugno di conchiglie https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/il-nuovo-disordine-mondiale-8-mai-piu-per-un-pugno-di-conchiglie/ Tue, 22 Mar 2022 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71094 di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu [...]]]> di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu un commercio tra eguali, basato su diverse valute. Soprattutto conchiglie importate dalle Maldive e dal Brasile.
Nel corso del tempo, le relazioni tra Africa ed Europa si incentrarono sempre di più sul commercio degli schiavi, danneggiando il relativo potere politico ed economico dell’Africa, mentre i valori di scambio monetario si spostarono drasticamente a vantaggio dell’Europa.

Questo, almeno, è quanto raccontato e analizzato da Toby Green, Senior Lecturer di Storia e cultura lusofona africana presso il King’s College di Londra, in un testo molto importante e sicuramente destinato a diventare di riferimento per quanto riguarda la storiografia sul colonialismo1.

Se l’imposizione di un sistema monetario basato sul denaro, come feticcio e valore equivalente per gli scambi commerciali, si rivelò decisivo per lo sviluppo degli scambi avviati dalla prima grande globalizzazione coloniale e capitalistica, oggi l’assoluta e trionfale diffusione del sistema su cui si fondò l’accumulazione primitiva e l’instaurazione di un autentico regime di rapina, basato sullo scambio ineguale, causa, sia al cuore che alla periferia dell’impero occidentale, sconvolgimenti pari soltanto a quelli che la rapida diffusione della rete e dei social ha causato al sistema di informazione e disinformazione mediatica, politica e militare operativo tra gli Stati e tra i governi di questi e i loro cittadini2.

Apparentemente, fino ad ora, la narrazione dell’attuale conflitto russo-ucraino sembra essere stata relegata ad una guerra tra due nazioni, in cui una è formalmente aggredita mentre l’altra riveste i panni dell’aggressore, oppure ad una guerra tra Russia e Nato con l’Unione Europea come addentellato. In realtà, se osservata con maggior distacco e su un piano storico più ampio, questa guerra, soltanto per ora non ancora trasformatasi in mondiale, porta alla luce contraddizioni e criticità che per lungo tempo, sicuramente in Occidente, sono state nascoste sia dai governi che dalla comunicazione mainstream.
Non solo, però, ma anche da una concezione, ancora figlia del colonialismo e dell’idea, ereditata spesso anche da certo socialismo e anarchismo di ispirazione tardo ottocentesca, del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” ovvero della necessità per la “razza bianca” di farsi carico dell’educazione politica e morale, oltre che economica, dei popoli “altri”.

Da qui lo sfoggio in gran spolvero, in ogni occasione e soprattutto in tempi di giustificazionismo di guerra, delle idee di democrazia, libertà civili e individuali e diritti formali che hanno finito spesso col coinvolgere nelle diatribe interimperialistiche, militari ed economiche, anche porzioni di classi e partiti che, invece, avrebbero avuto interesse a tenersi ben lontane da tali questioni. Non per indifferenza, ma proprio per presa coscienza della truffa, esercitata soltanto in nome degli interessi proprietari e finanziari, contenuta in tali immorali chiamate alle armi (ideologiche prima e militari successivamente) di coloro che dai conflitti militari ed economici del capitale hanno sempre e soltanto da perdere, spesso la vita ma mai le “storiche” catene.

Ora, di fronte al baratro della natalità occidentale, in vista di un 2050 in cui le stime demografiche prevedono che su circa dieci miliardi di abitanti del pianeta soltanto un miliardo o poco più sarà dislocato in Europa e Nord America, è evidente che, in maniera prima impercettibile poi sempre più evidente, la lotta per le risorse e le ricchezze del pianeta ha cominciato a vedere protagoniste nazioni che, fino a qualche decennio or sono, l’idea colonialista del mondo ereditata dall’Occidente insieme alle sue fortune dai secoli precedenti contribuiva a definire come sottosviluppate, in via di sviluppo oppure appartenenti al Terzo Mondo (quando il secondo era rappresentato dal cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico).

Alcune di queste nazioni (come India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Nigeria, Etiopia, Congo e Tanzania) non soltanto appartengono al gruppo di quelle destinate ad avere il maggior incremento demografico nel prossimo futuro, ma sono anche tra quelle che alla votazione avvenuta recentemente alle Nazioni Unite si sono astenute dal condannare la Russia e dall’approvare le sanzioni internazionali nei confronti del suo regime e della sua economia. Tra queste appunto, oltre alla Cina, troviamo infatti l’India, il Pakistan, il Congo, la Tanzania e altre trenta variamente dislocate tra Asia, Africa e America Latina3.

Quella astensione, occorre ribadirlo con forza, non ha segnato certamente un appoggio più o meno mascherato all’autocrate del Cremlino, erede a sua volta della tradizione di un impero sovranazionale, sia in epoca zarista che in epoca staliniana e post-staliniana, ma piuttosto una sorta di rivendicazione di indipendenza di diverse nazioni, certo non tutte di pari grado e importanza o estensione spaziale e demografica, dall’ormai insopportabile e antistorica pretesa dell’Occidente di essere punto focale e riferimento per il mondo intero.

Sono stati e nazioni spesso di diverso credo religioso, in alcuni casi divise da rivalità economiche, militari e talvolta etniche, quasi sempre governate da partiti e personaggi tutt’altro che progressisti, ma accomunate sempre dall’essere state in precedenza colonie degli imperi occidentali e dal far parte di un’umanità colorata e non bianca.
Intravedere in tutto questo una prosecuzione della lotta anti-coloniale sarebbe certamente illusorio e fuorviante, ma occorre coglier in tutto ciò un aspetto importante di quel “nuovo disordine mondiale” di cui si va parlando, anche in questa serie di articoli, da diverso tempo a questa parte.

In prospettiva, una separazione di interessi anche dal dollaro e dal suo sistema, che, sicuramente, le drastiche sanzioni prese dall’Occidente nei confronti della Russia, in primo luogo l’esclusione dal circuito Swift per i pagamenti interbancari e le transazioni finanziarie internazionali, hanno contribuito indirettamente a incoraggiare.
Da questo punto di vista si può iniziare a cogliere proprio ciò che si diceva in apertura, ovvero che quello che era diventato strumento di dominio ed accentramento economico alle origini del capitalismo (la moneta europea nelle sue varie forme nazionali, auree e cartacee), rafforzatosi poi, dopo Bretton Woods4, con la “folgorante” carriera del dollaro come strumento monetario internazionale per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie su scala planetaria, inizia a rivoltarsi proprio contro coloro che per secoli oppure decenni ne hanno mantenuto il controllo. Dando vita a guerre, non solo “monetarie”, di cui anche la creazione dell’euro è stato un effetto, che sempre più si orientano alla sostituzione della moneta americana con altre, bitcoin compresi.

Come era già stato proposto al decimo summit dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Johannesburg, in Sud Africa nel 2018. In tale contesto, nella più totale indifferenza europea, un atteggiamento miope che ha rivelato tutta l’impotenza politica dell’Unione europea di fronte ai grandi cambiamenti geopolitici che stanno determinando la storia, i cinque paesi, soprattutto Russia e Cina, avevano confermato politiche di diversificazione delle loro riserve monetarie e di progressiva dedollarizzazione delle economie.

In Russia, per esempio, nell’ultimo decennio la quota dell’oro è decuplicata, mentre gli investimenti nei titoli di debito del Tesoro USA sono calati al minimo. Se nel 2010 Mosca deteneva obbligazioni americane per 176 miliardi di dollari, nel 2018 ne deteneva 15 miliardi. La Russia è poi fra i primi cinque paesi per riserve auree. Secondo alcune stime, all’epoca del summit deteneva circa 2.000 tonnellate di oro, pari al 18% di tutte le riserve auree nel mondo. Simili processi erano in corso anche in Cina, che negli anni precedenti il 2018 aveva acquistato 800 tonnellate d’oro, e, anche se in modo più attento, aveva diminuito gli investimenti in titoli di debito americano, scesi dal picco di 1,6 trilioni di dollari del 2014 ai circa 1,2 trilioni5.
Mentre l’Europa, nel frattempo, ha preferito trascurare i Brics intesi come gruppo, sottovalutando che esso, nel frattempo, rappresentava all’epoca il 23% del pil mondiale e il 18% dell’intero commercio globale, limitandosi a rapporti bilaterali.

Se tale processo andrà avanti, sarà certamente lungo e richiederà scelte dolorose soprattutto per le classi lavoratrici di quegli stessi paesi, se non sanguinose sul piano politico-militare, mentre la centralizzazione finanziaria e monetaria a livello mondiale non è certo per ora ancora in discussione. Però iniziano ad essere messe in discussione l’autorità della moneta e delle istituzioni che la hanno fino ad ora rappresentata. Certo è che non saranno più le conchiglie di ciprea o nzimbu, di cui si parlava in apertura, a soddisfare le intenzioni e le mire dei rappresentanti di tutte quelle economie che definire emergenti costituirebbe ormai soltanto un pallidissimo eufemismo.

Intanto si possono citare alcuni episodi “esemplari”. Iniziando dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che in un Tweet avrebbe definito boomers (vecchi coglioni o qualcosa del genere) i rappresentanti del Senato americano che rimproveravano minacciosamente il suo governo nello stesso momento in cui relativizzava il dollaro (scelto nel 2001 come «moneta nazionale» da predecessori) instaurando il bitcoin come seconda «moneta nazionale» nel giugno 2021.
«Ok boomers», ha twittato Bukele. «Non siamo la vostra colonia, il vostro cortile o il vostro zerbino. Non immischiatevi nei nostri affari interni. Non cercare di controllare qualcosa che non puoi controllare». Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno «zero giurisdizione» in El Salvador, una nazione sovrana e indipendente».

Bene, non siamo certamente davanti ad uno delle economie più importanti del pianeta e nemmeno davanti ad un governo rivoluzionario, anzi, ma cogliamo la connessione con gli altri Stati latino-americani astenutisi nel voto alle Nazioni Unite, esattamente come El Salvador (Bolivia, Nicaragua e Cuba e Venezuela che, semplicemente, non ha nemmeno votato), senza dimenticare, però, nemmeno quei vertici militari brasiliani che scoraggiarono Trump, più delle mobilitazioni pro-Maduro in Venezuela, dal posare gli stivali militari americani sul terreno sudamericano per risolvere il fallito tentativo di rovesciamento del regime venezuelano messo in atto da Juan Gaidò.
Movimenti e soggetti nazionalisti? Certamente. Rivoluzionari? Per niente. Ma che, rappresentano un autentico pain in the ass per l’amministrazione degli Stati Uniti proprio nel continente che pensava di avere assoggettato una volta per tutte.

Di maggior peso, invece, appare sul piano internazionale l’atteggiamento del primo ministro pakistano Imran Khan che, dopo che i capi di 22 missioni diplomatiche, comprese quelle degli stati membri dell’Unione Europea, avevano rilasciato una lettera congiunta il 1° marzo, sollecitando il Pakistan a sostenere la risoluzione nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, ha affermato, durante un raduno politico: «Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi… che qualsiasi cosa voi diciate, noi la faremo?»
Opportunismo tattico? Molto. Spirito di rivalsa di una nazione islamica sempre ambigua nel comportamento nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani? Probabile. Retorica nazionalista adatta a nascondere i veri propositi e obblighi di un governo comunque considerato filo-occidentale? Ancor più probabile.

Dall’Africa non sono giunte voci altrettanto “chiare”, ma l’elenco di nazioni astenute è davvero impressionante, a partire dal Sud Africa e continuando, oltre alle due citate prima, con Algeria, Angola, Burundi, Repubblica Centro Africana, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudan del Sud, Uganda e Zimbabwe. Mentre Etiopia, Marocco, Guinea, Togo, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale e Burkina Faso non hanno nemmeno votato.

E’ evidente non soltanto che la presenza militare russa e quella economica cinese esercitano ormai una forte influenza sulle politiche interne ed estere di quei governi, ma anche che un certo spirito di rivalsa anti-occidentale, condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica locale e utile a sedarne in anticipo le eventuali proteste per condizioni di vita dovute alle politiche economiche messe in atto da quegli stessi governi, agita gran parte dei paesi ex-coloniali.

Occorre qui ripeterlo: non si tratta più di lotte di liberazione nazionale, com’era avvenuto fino alla metà degli anni Settanta o, ancora, con il passaggio di poteri in Sud Africa nei primi anni Novanta, ma piuttosto di una sorta di rivendicazione della possibilità di partecipare, con voce in capitolo, al gran banchetto della spartizione delle ricchezze mondiali che, a quanto pare, l’Occidente e il suo imperialismo sembrano ben determinati a trattenere tra le proprie mani o, per meglio esprimere il concetto, grinfie.

La favoletta della globalizzazione che avrebbe reso tutti più ricchi e moderni con relativa equità è fallita da tempo6, ma la diffusione dei sistemi produttivi ad essa associati ha portato a risultati imprevisti. Come la scalata cinese al predominio nella produzione industriale e lo sviluppo dell’economia indiana e l’importanza di entrambe le nazioni nella formazione di ingegneri e tecnici dalle conoscenze e abilità che spesso superano quelle occidentali in diversi settori avanzati. Mentre l’espansione del capitalismo cinese in Africa, come si è già detto, ha poi contribuito al resto.

Nulla che spinga in direzione di quel superamento del modo di produzione attuale cui sarebbe giusto aspirare ormai in ogni parte del mondo, ma sicuramente tutti elementi di contraddizioni ormai insanabili, che rivelano l’intima essenza di quel disordine mondiale di cui abbiamo parlato così spesso. Di cui l’esplosione della guerra in Ucraina potrebbe costituire nient’altro che l’aperitivo per le portate principali che devono ancora essere messe in tavola.

Impressione rafforzata poi da altri fatti, spesso inerenti paesi legati tradizionalmente all’Occidente e che hanno votato a favore della condanna di Mosca. Come la Turchia che, da anni, sta conducendo un gioco diplomatico e militare a sé, sia nel Medio Oriente che in Asia Centrale e in Libia, talvolta convergente e talvolta divergente da quello condotto dalla Russia. Motivo per cui l’impegno di Erdogan nelle attuali trattative avrà sicuramente un prezzo anche per l’Occidente.

Oppure l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo che non hanno accettato la proposta di Biden di regolamentare il prezzo del petrolio aumentandone il flusso verso Ovest, ma rivendicato piuttosto il diritto di trattare prezzo e quantità dello stesso con la Cina. Così, sempre per l’area del Golfo, va segnalato che, se dall’inizio della guerra in Siria, 11 anni fa, il presidente siriano Bashar al-Assad ha viaggiato pochissimo al di fuori del Paese, e solo per recarsi in Russia e in Iran, il 18 marzo scorso si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, facendosi fotografare nel sontuoso palazzo dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. Cosa che ha scandalizzato non poco il governo degli Stati Uniti.

Infine, occorrerebbe osservare ancora i comportamenti dell’India, che acquista il 70% dei suoi armamenti dalla Russia e che si è già dichiarata pronta ad acquistare gas e petrolio russo in quantità. Certamente in relazione alla sua rivalità economica e militare con la Cina, ma con un gioco diplomatico e finanziario che riduce, al momento, il ruolo dell’Occidente per quanto riguarda i suoi interessi i immediati.

Sarebbero ancora molto numerosi i casi e le contraddizioni che si potrebbero citare e soltanto i rappresentanti del capitalismo occidentale e i suoi media ed intellettuali asserviti sembrano non essersene accorti, continuando a raccontare storie che, come la strage al Teatro di Mariupol, poi smentita dagli stessi che l’avevano gonfiata ad uso propagandistico come autentica “carneficina”, rinverdendo i fasti della campagna di disinformazione europea ai tempi della caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, non costituiscono altro che continue fake news di cui, forse, stanno addirittura perdendo il controllo. Con rischio ulteriore di far precipitare il conflitto attuale, ancora locale, in uno su scala mondiale. In cui le classi meno abbienti avrebbero soltanto da perdere, in ogni angolo del pianeta.

Come c’è da attendersi, in fin dei conti, da un ambiente politico-culturale in cui l’imbecillità trionfante spacciata per informazione fa sì che personaggi del calibro di David Parenzo possano zittire in malo modo un esperto di questioni internazionali come Alessandro Orsini, se soltanto quest’ultimo osa criticare l’operato della Nato e degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan; oppure in cui i discorsi di Zelensky vengono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie televisiva che lo lanciò verso l’attuale presidenza. Tra gli applausi dei media e dei politici europei e nord americani.

(8 – continua)


  1. Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021  

  2. Su quest’ultimo tema si veda su Carmilla il contributo di Gioacchino Toni contenuto in Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa, 20/03/2022  

  3. Sullo stesso tema si confronti: Dario Fabbri, Una guerra per procura nel mondo che cambia, “Scenari”, 18 marzo 2022, pp. 2-3  

  4. Accordi di Deliberazione della Conferenza monetaria e finanziaria che si tenne dal 1° al 24 luglio 1944 presso la città di Bretton Woods, in New Hampshire (USA), con la partecipazione dei delegati di tutti i paesi alleati contro il Patto tripartito, compresa l’URSS. Entrati in vigore il 27 dic. 1945, oltre a prevedere la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli accordi istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi tra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Tra i paesi firmatari, tra gli attuali appartenenti ai Brics attuali, risultava soltanto la Russia, all’epoca URSS.  

  5. Fonte: www.tendenzamercati.net  

  6. Se n’è parlato qui  

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Il nuovo disordine mondiale / 6: la crisi dell’ordine occidentale e la sua “naturale” soluzione https://www.carmillaonline.com/2022/03/17/il-nuovo-disordine-mondiale-6-la-crisi-dellordine-occidentale-e-la-sua-naturale-soluzione/ Thu, 17 Mar 2022 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71032 di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II. Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The [...]]]> di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II.
Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The Fall of Costantinople 1453»)

Nel corso delle ultime settimane una viscerale e sfegatata propaganda bellica ha visto tutti i media mainstream insistere sull’unità politica, militare e di intenti degli alleati occidentali di Washington, in generale, e dei paesi dell’Unione Europea, in particolare. Vedremo che così non è anche se, sempre nello stesso periodo, gli stessi strumenti di disinformazione hanno particolarmente insistito sulla provenienza “cinese” dell’idea di un nuovo disordine mondiale ovvero di una situazione in cui si può considerare quasi irreversibile il declino delle potenze economico-militari collocate a cavallo dell’Oceano Atlantico.

In realtà, però, la troppa attenzione prestata dai media e dai giornalisti embedded alla causa occidentale ha impedito loro di cogliere che la prima formulazione completa di tale idea, almeno sul piano economico-politico e finanziario, è stata sviluppata in maniera abbastanza compiuta proprio da uno degli organi più rappresentativi del general management statunitense, la «Harvard Business Review», che nel numero di agosto del 2003 titolò un suo articolo, redatto da Nicolas Checa, John Maguire e Jonathan Barney, proprio così: Il nuovo disordine mondiale (The New World Disorder qui).

Per intendere meglio di che cosa si parla, basti sapere che l’«Harvard Business Review» nacque nel 1922 come progetto editoriale della Harvard Business School, ma iniziò a spostare il suo focus editoriale sul general management dopo la seconda guerra mondiale, quando un crescente numero di manager cominciò ad interessarsi alle tecniche di gestione introdotte dalla General Motors e da altre grandi aziende. Nei successivi tre decenni, ha focalizzato la sua attenzione sulla formazione dei decision maker. Contribuendo ad un’idea di gestione manageriale del mondo che rivela tutta l’insopportabile prosopopea connessa alla pratica della privatizzazione e dello sfruttamento di ogni aspetto della vita e della riproduzione della specie.

Nell’articolo anticipato prima, la rivista riassumeva il percorso della globalizzazione a partire da quel 1° gennaio 1995 in cui, con una cerimonia a Ginevra ampiamente pubblicizzata, i rappresentanti di 76 paesi avevano apposto le loro firme alla carta dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’OMC (o WTO, World Trade Organisation), fu l’ultima dei figli di Bretton Woods a diventare maggiorenne, mentre i suoi organi gemelli, tra cui il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, si erano formati tutti nel 1940.

Precedentemente l’OMC era stata per anni classificata come parte di un accordo commerciale temporaneo e il suo emergere finale come organismo sovranazionale pienamente potenziato sembrava riflettere il trionfo di quello che il primo presidente Bush aveva descritto come il “nuovo ordine mondiale”, dopo aver colto i frutti, elettorali ed economici, della reganiana “vittoria sul comunismo” e della Glasnost e della Perestroika avviate da Mikhael Gorbachev .

Quell’ordine era in gran parte basato su due presupposti: in primo luogo, che un’economia sana e un solido sistema finanziario creano stabilità politica, e in secondo luogo, che i paesi in affari insieme non si combattono a vicenda. La priorità numero uno della politica estera degli Stati Uniti era chiara: incoraggiare i paesi ex comunisti d’Europa e le nazioni in via di sviluppo in America Latina, Asia e Africa ad adottare politiche favorevoli alle imprese. Il capitale privato sarebbe fluito quindi dal mondo sviluppato in questi paesi, creando crescita economica e posti di lavoro. […] Come la gente amava dire, nessun paese con McDonald’s era mai andato in guerra l’uno con l’altro.

[…] Questo percorso di riforma, spesso chiamato Washington Consensus, ha comportato disciplina fiscale, liberalizzazione del commercio, privatizzazione, deregolamentazione e diritti di proprietà ampliati attraverso riforme legali. I promotori di queste riforme speravano che i cambiamenti avrebbero reso i paesi in via di sviluppo più attraenti per gli investimenti stranieri e avrebbero integrato ulteriormente quei paesi in una rete economica globale competitiva, ma pacifica. Nella sua forma più estrema, la visione divenne quella in cui questi paesi sarebbero diventati parte di un’economia mondiale liberale e aperta che promuoveva valori occidentali come la democrazia.
Per la maggior parte degli anni 1990, i paesi in via di sviluppo sono stati più che felici di accontentare tali propositi. Nell’agosto 2000, con l’adesione dell’Albania, il numero dei membri dell’OMC era quasi raddoppiato a 139.

La politica degli Stati Uniti di mettere il business al primo posto sembrava rendere il mondo un posto molto più semplice per i manager. Molti presumevano che l’esportazione di capitali dalle economie sviluppate verso i mercati meno sviluppati potesse essere sostenuta indefinitamente; non appena un paese sceglieva di essere integrato nella nuova economia globale, le sue istituzioni si adattavano sotto la stessa pressione implacabile che stava trasformando le imprese di tutto il mondo.

Per le aziende il tutto si riduceva sostanzialmente alle dimensioni: più grande è il paese, meglio è e più sicuro. Sembrava più pericoloso stare fuori dalle grandi economie in via di sviluppo che immergersi. Un miliardo di cinesi avrebbero potuto acquistare un sacco di auto, dentifricio o scarpe, mentre gli investitori finanziari tenevano un atteggiamento altrettanto spensierato.

Finché la valuta di un paese poteva essere scambiata liberamente e un mercato liquido era disponibile nel suo debito, l’economia di quel paese era considerata sicura. Quando il FMI si comportava come prestatore dell’ultimo, e in alcuni casi del primo, ricorso (anche se non ha mai affermato di esserlo), cosa importava se il sistema bancario di un paese era compromesso?
Sembrava troppo bello per essere vero, e così si è dimostrato. Il nuovo ordine mondiale di Bush padre e del suo successore, Bill Clinton, è stato sostituito dal nuovo disordine mondiale di Bush figlio.

Fu infatti alla fine degli anni ’90 che si ebbe il primo assaggio del rovescio della medaglia della globalizzazione finanziaria:

la crisi finanziaria della Thailandia del 1997 ne scatenò un’altra in Corea lo stesso anno. Il virus economico si diffuse in Russia l’anno successivo e, all’inizio del 1999, il Brasile fu costretto ad abbandonare la sua politica di tassi di cambio fissi. Questi paesi avevano poco in comune, eppure le crisi finanziarie si propagavano da uno all’altro come un virus a causa dei legami creati dalla nuova economia globale.
La ragione era semplice: sebbene le destinazioni degli investimenti diretti esteri fossero lontane e diversificate, la fonte di quel capitale non lo era. La banca occidentale che deteneva baht thailandesi deteneva anche real brasiliani. Il fondo che possedeva obbligazioni coreane deteneva anche banconote russe. Nella convinzione che il FMI, con gli Stati Uniti alle spalle, fosse disposto a salvare le economie che si trovavano in difficoltà a breve termine, molte di queste istituzioni avevano fatto incetta di titoli e valuta di quelle stesse.

[…] All’inizio, il FMI è intervenuto per aiutare, ma i costi dei ripetuti salvataggi multilaterali sono diventati sempre meno accessibili. Alla fine, il governo russo è andato in default, rendendo pressoché inutili i quasi 40 miliardi di dollari di debito pubblico interno detenuti dalle istituzioni finanziarie e più che dimezzando il valore di 100 miliardi di dollari delle azioni russe. Gli Stati Uniti hanno usato la loro influenza per costringere il FMI ad aiutare la Russia poco prima dell’agosto 1998; tuttavia, è riuscito ad acquistare meno di un mese di solvibilità aggiuntiva. Con il senno di poi, possiamo vedere che la convinzione degli investitori che gli Stati Uniti sarebbero rimasti indietro rispetto ai grandi paesi desiderosi di riforme aveva innescato una bolla speculativa in quelle economie che sarebbe scoppiata con il default russo.

[In realtà] Le forze della globalizzazione avevano cambiato le istituzioni russe così poco che un funzionario pubblico ha definito gli aiuti del settore pubblico alla Russia come “acqua versata su una lastra di vetro”. I programmi di privatizzazione hanno dimostrato di aver fatto poco più che arricchire le classi dominanti, anche se la gente comune ha pagato per la presunta liberalizzazione economica con il proprio lavoro. L’ostilità che questo ha generato tra gli elettori, spesso di recente diritto di voto, si è solo approfondita quando gli investitori stranieri hanno iniziato a chiudere i rubinetti.
Ironia della sorte, il secondo presidente Bush ha messo l’ultimo chiodo nella bara del nuovo ordine mondiale. Anche prima dell’11 settembre, l’amministrazione stava segnalando di avere una visione molto diversa dell’impegno internazionale da quella del suo predecessore, basata sulla sicurezza, non sulle preoccupazioni economiche. E la sicurezza era ora definita non solo negli stretti termini della Guerra Fredda di sicurezza dall’attacco di una superpotenza ostile, anche se stabile, ma molto ampiamente per includere la sicurezza dal terrorismo e dalle armi di distruzione di massa, così come gli input economici vitali come il petrolio.

Nel maggio 2001, la politica energetica nazionale del presidente Bush e del vicepresidente Cheney sottolineò che: “La sicurezza energetica deve essere una priorità del commercio e della politica estera degli Stati Uniti. Dobbiamo guardare oltre i nostri confini e ripristinare la credibilità dell’America con i fornitori esteri. Inoltre, dobbiamo costruire forti relazioni con le nazioni produttrici di energia nel nostro emisfero, migliorando le prospettive per il commercio, gli investimenti e le forniture affidabili”.
L’implicazione era chiara: la sicurezza, in questo caso la sicurezza energetica, era ora la considerazione principale nel commercio e nella politica estera degli Stati Uniti. La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America pubblicata nel settembre 2002 mostra come il pensiero si sia sviluppato da lì. È diventato molto chiaro che il governo Bush definisva l’impegno internazionale in termini di relazioni bilaterali con alleati strategicamente importanti e confronto unilaterale con quasi tutti gli altri.

Ma è a questo punto che viene la parte più interessante dell’articolo, motivo per cui l’autore del presente chiede venia al lettore per le lunghe citazioni, che ha inizio con una dichiarazione decisamente spudorata:

Le aziende non possono giocare in difesa tutto il tempo; solo l’offesa mette punti sul tabellone. Dal momento che la globalizzazione è qui per rimanere.
Anche le economie sviluppate sono colpite, anche se in modo più sfumato, dal cambiamento epocale delle prospettive geopolitiche. È improbabile che l’acrimonia sollevata nel dibattito sull’Iraq si traduca in una guerra commerciale, ma avrà un piccolo ma percettibile effetto sul modo in cui gli Stati Uniti e l’Unione europea affrontano determinate questioni. Queste includono controversie commerciali, extraterritorialità legislativa degli Stati Uniti e regolamenti sulla concorrenza.
Ancora una volta, l’allontanamento tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei è durato diversi anni, perché la nuova amministrazione è entrata in carica determinata a non lasciare che le alleanze esistenti limitassero la libertà d’azione dell’America. In effetti, il documento sulla strategia di sicurezza nazionale dello scorso settembre fa solo riferimenti di passaggio alla NATO e all’Europa occidentale.

E questo è il momento in cui si spiega, almeno parzialmente, il comportamento a dir poco ambiguo tenuto dalle istituzioni finanziarie e dalle diverse amministrazioni americane nei confronti della Russia.

Gli investimenti passati in Russia forniscono un caso di studio perfetto di questa dinamica. Gli investitori hanno commesso l’errore di interpretare la vittoria di Boris El’cin sul candidato del Partito Comunista nel 1996 come un segno che la Russia era sicura per gli affari. Dal momento che i comunisti erano cattivi, El’cin deve essere buono, giusto? Inoltre, gli Stati Uniti avevano un chiaro interesse per la stabilità (a quasi tutti i costi) della nazione perché la Russia era allora il più grande arsenale nucleare del mondo. A dire il vero, la natura capricciosa del sistema legale russo ha scoraggiato molti investimenti aziendali e ha impedito a molte aziende occidentali di farsi del male. Tuttavia, molti occidentali e capitali occidentali affluirono, rendendo Mosca una delle città più costose del mondo.
Dopo il default, la svalutazione e la moratoria del debito del 1997, la Russia è passata dall’essere percepita come l’opportunità di investimento più brillante del mondo ad essere la peggiore. La nuova percezione ha preso una presa così salda che gli investitori hanno quasi completamente perso la ripresa russa del 1999-2000. A quel tempo, l’aumento dei prezzi del petrolio, la nomina di Vladimir Putin a primo ministro nell’agosto 1999, la sua assunzione della presidenza nel gennaio 2000 e la sua successiva elezione alla carica nell’agosto 2000 si combinarono per trasformare il panorama economico e politico della Russia. Le agenzie di rating hanno notato il miglioramento solo verso la fine del 2000; Standard & Poor’s, ad esempio, ha aumentato il debito estero russo a lungo termine da SD (default) a C solo nel dicembre 2000. E il mercato azionario non ha preso atto della posizione molto migliorata della Russia fino al 2001.
Oggi (2003, NdA) la tentazione è quella di presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre abbiano portato a un’inversione dell’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia e, insieme ad esso, a una forte riduzione del rischio di fare affari lì. Sbagliato di nuovo, su entrambi i lati dell’ipotesi. Gli Stati Uniti vedevano la Russia come un partner strategico prima degli attacchi.
Nel maggio 2001, l’amministrazione ha pubblicato un report sulla politica energetica globale che implicava che gli Stati Uniti stavano cercando di diversificare le loro importazioni di energia per ridurre la dipendenza da regimi instabili in Medio Oriente. La Russia era chiaramente uno dei beneficiari previsti della nuova politica degli Stati Uniti.

Ma l’attacco dell’11 settembre e la successiva guerra con l’Iraq avrebbero reso la Russia strategicamente meno importante per gli Stati Uniti. Con la scommessa (poi persa) sulla rimozione dei talebani afghani e di Saddam Hussein, il governo degli Stati Uniti pensava che il Medio Oriente sarebbe diventato più stabile sotto il proprio controllo e che ciò avrebbe ridotto il fabbisogno statunitense di petrolio russo.

All’indomani dell’11 settembre, il governo russo si era saldamente allineato con gli Stati Uniti. Ma quell’allineamento è stato il risultato della frettolosa valutazione di Putin degli interessi economici e dell’influenza diplomatica della Russia, specialmente nella sensibile Comunità degli Stati Indipendenti, vicino all’Afghanistan. Alcune visite ai vicini dell’Asia centrale della Russia hanno mostrato al presidente russo che il suo paese non aveva abbastanza influenza per impedire che si sviluppasse una considerevole presenza americana mentre la guerra contro i talebani si avvicinava. Allo stesso tempo, il personale del Cremlino ha convinto Putin del valore economico di un rapporto migliore con gli Stati Uniti.
Gli storici arriveranno a riconoscere che l’allineamento era puramente temporaneo. Alla fine del 2002, i russi erano diventati ben consapevoli che la loro influenza sugli Stati Uniti sarebbe diminuita una volta iniziate le ostilità in Iraq, cosa che costituiva esattamente il motivo per cui erano così contrari alla guerra durante i negoziati delle Nazioni Unite all’inizio di quest’anno. Inoltre, il governo aveva poco da perdere, ma molto da guadagnare, dalla disapprovazione degli Stati Uniti.

Con l’affermazione di Putin, nelle elezioni presidenziali del 2000, erano «ormai lontani i giorni inebrianti di El’cin, quando l’Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare erano visti come la fonte del successo economico e della verità politica».
Se il cambiamento nella politica energetica degli Stati Uniti aveva creato nuovi incentivi per partecipare all’industria energetica russa nel 1999, con una legge costituita per incoraggiare gli investimenti stranieri nello sviluppo energetico russo proteggendo le società straniere in alcune joint venture dalle onerose tasse russe, i cambiamenti geo-politici successivi di fatto hanno decisamente ridotto la funzione degli accordi precedenti. Mentre, nel settore energetico, i passi successivi intrapresi dal governo russo su alcune questioni care agli investitori stranieri, in particolare, l’accordo di condivisione della produzione, avrebbe reso gli investimenti in quel paese «un gioco tutto o niente».

Il nuovo disordine mondiale si era già affacciato alle porte, dalle crisi latino-americane all’ondata di radicalismo islamico che avrebbe reso meno stabili le aree mediorientali, tanto da far sì che fin che Putin aveva condotto la seconda guerra cecena (1999-2009), conclusasi con il ristabilimento dell’ordine della Federazione russa in quell’area precedentemente resasi indipendente con il sanguinoso conflitto del 1994-1996, gli Stati Uniti e l’Occidente in genere ebbero ben poco da dire sui crimini commessi dalle forze russe e dai loro alleati in quell’area. Nonostante le denunce di una giornalista davvero coraggiosa e anti-putiniana come Anna Politkovskaja (1958-2006), poi freddata da diversi colpi di pistola nell’androne del palazzo in cui viveva nel 20061, avessero cercato di far aprire gli occhi sia su ciò che avveniva in quell’angolo del Caucaso che sulla corruzione imperante nel sistema economico-politico russo. Gravi silenzi di allora che rendono ancora più sospetta la forsennata criminalizzazione attuale di Putin e del suo regime2.

Ma, a ben guardare, fu proprio anche in quegli anni di “disinteresse americano per l’Europa” che si andò a definire la politica della Nato nei confronti dell’ex-Patto di Varsavia.
Esclusa infatti la DDR che sarebbe entrata nell’Alleanza Atlantica subito dopo la riunificazione tedesca, soltanto nel 1999 l’avrebbero seguita Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca3, nove anni dopo che, il 9 febbraio 1990, il segretario di Stato americano James Baker aveva promesso a Mikhael Gorbachev che, con la garanzia della Germania unificata, la giurisdizione della Nato non si sarebbe spostata di un pollice verso Est.

Come si rileva dall’editoriale dell’ultimo numero di «Limes»:

Un pollice sono 2 centimetri e 54 millimetri. Trent’anni dopo, l’Alleanza Atlantica è avanzata di circa cinquecento chilometri dall’Elba al Bug, quasi duemila se consideriamo l’intero fronte dal Mar Baltico al Mar Nero. Cammin facendo ha inglobato tre stati ex-sovietici – Estonia, Lettonia, Lituania (nel 2004) – che insieme a Norvegia e Polonia affacciano direttamente sulla Russia.
[…] Baker esprimeva il punto di vista prevalente a Washington sotto George Bush senior: impedire che la perdita dell’impero europeo comportasse la disintegrazione dell’URSS, con relativa dispersione di 35 mila testate atomiche a disposizione dell’Armata Rossa. L’ultimo difensore dell’Unione Sovietica è il presidente degli Stati Uniti. Lo testimonia il suo sferzante monito al parlamento ucraino, il 1° agosto 1991, in cui su suggerimento di Gorbachev denuncia «il nazionalismo suicida» degli ucraini (cosa che l’anno dopo gli costerà il voto etnico degli slavi americani e forse la rielezione).
[…] Come scriverà poco tempo dopo l’ambasciatore americano a Mosca, Robert Strauss, «l’evento più rivoluzionario del 1991 per la Russia potrebbe non essere stato il collasso del comunismo, ma la perdita di qualcosa che i russi di ogni parte politica considerano parte del proprio corpo politico, e molto prossimo al cuore: l’Ucraina»4.

E’ chiaro che con premesse del genere sarebbe stato in seguito buon gioco per Putin giustificare l’invasione di territori limitrofi, prima la Georgia nel 2008 poi l’Ucraina a partire dal 24 febbraio scorso, sventolando la rinnovata minaccia atlantica nei confronti della Russia, esattamente come aveva iniziato a fare fin dal 10 febbraio 2007 nel suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, sintomo di una politica estera che, comunque, tra il 1991 il 2007, la potenza dell’Est, sia con Gorbachev che con El’cin e Putin, aveva condotto con la speranza di rientrare nel gioco europeo. A dimostrazione non soltanto di come le cose siano volte in altra direzione, ma anche del fatto che nello scontro attuale si sia di fronte ad una guerra tra due opposte fazioni imperialiste, prima ancora che a una per la libertà o meno del popolo ucraino.

Il quale, abbastanza spudoratamente, è stato incitato fino ad ora sia da i suoi governanti, che non hanno mai rifiutato di includere le milizie fasciste e neonaziste nei ranghi dell’esercito regolare, sia dai paesi europei e dagli Stati Uniti a combattere una guerra per procura, destinata a causare migliaia di vittime e milioni di profughi tra i civili, pur di riuscire ad intrappolare l’esercito e lo Stato di Putin in un pantano destinato, nelle intenzioni di chi lo ha pensato, a svolgere la stessa funzione di indebolimento che ebbe la guerra afghana per l’ex-URSS.

Progetto più facile a dirsi che a realizzarsi, poiché se è pur vero che le tecnologie e le tattiche belliche messe in campo dai russi appaiono, dopo due settimane e nonostante i lenti ma progressivi successi ottenuti sul campo, in difficoltà rispetto alle armi, soprattutto i missili portatili Javelin5 e Stinger, fornite dagli americani, con relativo addestramento e con largo anticipo rispetto all’esplodere della guerra in corso. I secondi, in particolare, autentico terrore per gli elicotteri, come hanno già sperimentato le forze della coalizione occidentale in Afghanistan, che proprio a causa di quest’ultima arma dovettero rinunciare quasi da subito alle missioni elitrasportate diurne. Armi che, inoltre, hanno messo in difficoltà anche le missioni aeree russe che, hanno spesso dovuto abbassarsi troppo per colpire gli obiettivi, pagandone la conseguenze in termini di perdite di velivoli6.

Detto questo, però, occorre ricordare che nel settore di un possibile scontro intercontinentale o nucleare le armi russe probabilmente risulterebbero oggi più avanzate di quelle a disposizione degli U.S.A. e della Nato7. Come dimostrato dall’utilizzo, per la prima volta, in Ucraina dei micidiali missili ipersonici Kinzhal che possono portare sia testate tradizionali (da 480 kg di esplosivo.) che nucleari. Da qui la scommessa su una “guerra di terra” convenzionale in cui gli alleati occidentali vorrebbero forse impantanare il gigante russo che, anche se su un territorio considerato patrio o nazionale si affida ancora a livello di movimenti di fanteria alle tattiche applicate dalle campagne napoleoniche fino a Stalin (tattica vincente non si cambia), in occasione di una guerra allargata potrebbe avere a disposizione un arsenale decisamente più moderno ed efficace.

Lasciando da parte le oziose discussioni sul fatto che l’avanzata russa voglia o meno risparmiare i civili, almeno in parte, occorre ricordare che fin dalle teorizzazioni del generale italiano Giulio Douhet, primo teorico della guerra aerea moderna intesa come guerra totale in cui gli obiettivi civili sono di fatto obiettivi militari a tutti gli effetti (aree industriali, infrastrutture, ospedali), sono state massicciamente applicate da tutte le forze aeree moderne e da quelle occidentali in primo luogo fin dalla seconda guerra mondiale, appare chiaro che si tratta di una pericolosa scommessa di cui è facile perdere il controllo.

Sia per un sempre possibile errore nella traiettoria di un missile o di un proiettile d’artiglieria oppure per una scelta di Putin che, vedendosi in decisiva difficoltà, potrebbe davvero alzare il tiro e la portata della posta in gioco. Motivo per cui non basta nascondersi dietro la scusa degli aiuti senza intervento diretto, soprattutto dopo che la Cina è stata minacciata, in caso di aiuti militari ai russi, di essere considerata cobelligerante. Affermazione statunitense e Nato che apre la porta ad un altro quesito tutt’altro che secondario in una situazione delicata come quella attuale: gli eventuali aiuti cinesi costituirebbero cobelligeranza, degna di essere non solo deprecata ma anche punita con pesanti sanzioni, e quelli europei o americani all’Ucraina no? Bel problema, purtroppo risolvibile più sul campo di battaglia economico e militare che in un’aula di tribunale internazionale.

Sia anche perché alcuni alleati, come si diceva in apertura, non sono troppo soddisfatti delle scelte adottate fino ad ora dagli Stati Uniti e dal Consiglio europeo. Come la scelta di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca di manifestare una più aperta solidarietà a Zelensky, che ha infastidito sia Germania che Italia e Stati Uniti (almeno apparentemente), ha dimostrato, senza contare la costante spinta britannica a ricostituire una sorta di protettorato militare sui paesi baltici così come già era avvenuto al termine del primo conflitto mondiale8. A conferma dell’ipocrisia del governo inglese, così ben disposto a fomentare e armare la guerra, ma che fino ad ora è stato quello che ha accolto il minor numero di profughi ucraini sul proprio territorio nazionale.

Innanzitutto dovrebbe preoccupare la proposta polacca di una missione di peace keeping internazionale in Ucraina, considerato che nella base militare ucraina di Yavoriv, pesantemente bombardata dai missili russi il 12/13 marzo, si custodivano armi e lavoravano istruttori militari e mercenari stranieri pur essendo la stessa definita come Centro internazionale per la pace e la sicurezza (Ipsc, nell’acronimo in inglese). Base militare dove a settembre si erano svolte le esercitazioni militari ucraine in coordinamento con la Nato, Rapid Trident- 2021. Manovre andate avanti fino al 1° ottobre9. Proposta polacca che, nella sua intima essenza, nasconde inoltre l’antica rivalsa di riconquista della Galizia, di cui la capitale sarebbe Leopoli oggi ucraina, da sempre rivendicata come parte del territorio polacco dai nazionalisti di Varsavia.
Mentre la vicina Ungheria, pur appartenente anch’essa alla Nato, ha rifiutato di far transitare sul suo territorio qualsiasi tipo di aiuto militare diretto all’Ucraina.

Senza allargare il discorso all’infinita frammentazione territoriale delle nazionalità racchiuse tra i confini dei paesi che vengono definiti centro-europei, ma che pencolano da secoli tra Est e Ovest, tra mondo slavo e mondo tedesco, occorre segnalare che a distanza di più di un secolo dalla Conferenza di Versailles, che sotto l’egida del presidente americano Woodrow Wilson ridisegnò gli assetti territoriali che erano precedentemente appartenuti agli imperi asburgico, guglielmino, ottomano e zarista, quei territori costituiscono ancora un esplosivo mix di nazionalità, odi, rivendicazioni, rivalità di cui le recenti manifestazioni in Serbia a favore dei serbo-bosniaci o dei serbi del Kosovo (qui e qui) non costituiscono altro che un pallido esempio ciò che potrebbe rivelarsi ben più catastrofico delle guerre balcaniche degli anni ’90.

Due guerre mondiali sono partite dalle rivalità mai sopite in quell’area e ancora una volta questo fattore potrebbe precipitare nel nuovo disordine mondiale come tragico elemento dirompente nel cuore dell’Europa.
In questo senso il riarmo tedesco e la circolare di allerta destinata pochi giorni or sono alle forze armate italiane affinché si tengano pronte e in completa efficienza in previsione di “esercitazioni di warfighting” e l’approvazione dell’aumento al 2% del Pil per le spese militari italiane oppure, ancora, l’affermazione di Emmanuel Macron secondo il quale la Francia dovrebbe prepararsi ad “una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente”, non fanno certo ben sperare per il futuro.

Così come un’eventuale missione di peace keeping delle Nazioni Unite, come conseguenza della dichiarazioni sulle intenzioni e i comportamenti criminali di Putin e del suo “Stato canaglia”, portate aventi da chi, come Biden, rappresenta nazioni che hanno altrettanto le mani sporche da secoli del sangue di donne, bambini e innocenti, non rappresenterebbe altro che una scusa, nemmeno troppo occultata, per un intervento militare diretto sul campo. Con tutte le possibili conseguenze già elencate prima.

E sono tutte queste contraddizioni, più o meno sotterranee o più o meno aperte, che hanno anche ingarbugliato le diplomazie europee, ormai ampiamente fuori gioco e superate da quello di Israele, Turchia o di uno degli oligarchi più importanti della cerchia di Putin, Roman Abramovič, che ha continuato a volare da una capitale all’altra dei due paesi quasi affiancando l’operato di Lavrov su altri fronti diplomatici.

L’Europa procede in ordine sparso, tenuta insieme soltanto dal decisionismo americano che, dopo il disastro afghano e soltanto per ora, segna un punto a proprio vantaggio, costringendo all’angolo sia la diplomazia europea che l’iniziativa militare ed economica di Putin, ma senza raggiungere con certezza nessun altro obiettivo che quello di sfruttare ulteriormente un’alta guerra in favore dell’industria degli armamenti, mai secondaria nemmeno nei ragionamenti dell’articolo della «Harvard Business Review» con cui si è aperto questo lungo intervento.

Raytheon, una delle principali compagnie di difesa del mondo, ha scelto di strombazzare la sua identità americana piuttosto che minimizzarla. Raytheon ritiene che il successo sul fronte militare sia una buona notizia per l’azienda e i suoi prodotti: dal momento che gli Stati Uniti sono un vincitore, anche Raytheon, come naturale estensione della sicurezza degli Stati Uniti, sarà un vincitore. Questa tattica trasforma la potenziale responsabilità di far parte dell’odiato impero in una risorsa. Certo, sarebbe difficile per un’azienda come Raytheon de-americanizzare il proprio marchio. Ma unirsi alla squadra vincente è certamente una tattica praticabile per qualsiasi azienda la cui base di clienti includa i governi nazionali.10.

Sicuramente anche all’epoca della caduta di Costantinopoli qualcuno avrà affermato che la ruota della Storia o del destino stava tornando indietro, ma in realtà quell’evento modificò per sempre la Storia, indipendentemente da come giri e in quale direzione la grande ruota dell stessa (ammesso che esista). Il Mar Mediterraneo perse la sua centralità per i commerci e questi si spostarono decisamente verso gli oceani, creando le potenze marittime atlantiche e 118 anni dopo, a Lepanto, l’apparente vittoria cristiana sulla flotta ottomana non cambiò di una virgola il sistema che si era intanto andato affermando. Anzi furono proprio alcune nazioni europee a dovere allearsi con i Turchi per dirimere i propri contrasti. Esattamente come fece il regno di Francia per cercare di risolvere manu militari le rivalità con la Spagna.

Qualsiasi possano essere le ulteriori conseguenze del conflitto ucraino o gli accordi che lo rallenteranno o fermeranno, una nuova età di guerre allargate e radicali cambiamenti si è aperta e l’unico spiraglio per la salvezza della specie e per coloro che si oppongono a questo modo di produzione delirante, che ci ostiniamo a chiamare capitalismo, non potrà essere altro che quello rappresentato dall’opposizione ad ogni guerra e dall’appoggio fornito ai lavoratori, ai giovani, alle donne e ai disertori che si scontreranno prima di tutto con i loro governati per rovesciarne, in ogni angolo del mondo e in ogni paese, l’imperio e la fasulla e sanguinaria retorica nazionalista e guerrafondaia.
Poiché la nostra pace significa disertare la loro guerra.

(6 – continua)


  1. Di Anna Politkovskaja sono stati pubblicati in Italia: La Russia di Putin, Adelphi, Milano 2005; Per questo, Adelphi 2009; Diario russo 2003-2005, Adelphi 2007; Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006; Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin, Arnoldo Mondadori, Milano 2007; Un piccolo angolo di inferno, Rizzoli, Milano 2008  

  2. Soprattutto in Italia, dove vale la pena di ricordare la fitta rete di interessi stabilitasi intorno al gas russo, in particolare durante il berlusconismo (qui)  

  3. Seguite nel 2004 da Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovenia e Slovacchia; nel 2009 da Croazia e Albania; nel 2017 dal Montenegro e nel 2020 dalla Macedonia del Nord  

  4. Il silenzio di Puškin, in La Russia cambia il mondo, «Limes» n° 2/2022, pp. 16-17  

  5. L’FGM-148 Javelinè un’arma anticarro portatile, in servizio nelle forze armate statunitensi. L’arma utilizza un sistema di guida automatica ad infrarossi, che permette all’operatore di cercare copertura immediatamente dopo avere sparato. Il sistema è composto da un lanciatore riutilizzabile (CLU, Command Launch Unit) e da un missile HEAT a combustibile solido, che è in grado di superare le difese e le corazze reattive dei moderni carri attaccandoli dall’alto, dove la corazza è più sottile. Il personale di lancio è di norma costituito da due persone, ma può essere lanciato anche da una persona singola. Il bersaglio viene individuato in fase di puntamento, ed è agganciato e seguito autonomamente dal missile, senza che siano necessari altri interventi da parte del personale che lo ha lanciato (“lancia e dimentica”) per mezzo del calore emanato dal bersaglio stesso; il puntamento è facilitato dall’elettronica dell’arma che, oltre ad una funzione di zoom, include anche una di visione notturna.  

  6. Anche se su tutti questi aspetti sarebbe comunque bene tener conto da quanto espresso qui dal Generale Fabio Mini  

  7. Si veda in proposito. Franco Iacch, La stabilità strategica USA-Russia vale più della crisi ucraina, in «Limes» n° 2/2022, cit., pp. 221- 229  

  8. Si veda in proposito: Evgenij Jurevič Sergeev, La Gran Bretagna e gli Stati baltici dal 1918 al 1922 in Davide Artico – Brunello Mantelli, Da Versailles a Monaco. Vent’anni di guerre dimenticate, UTET 2010, pp.14-34  

  9. Fonte: «La Stampa» 13 marzo 2022  

  10. The New World Disorder, op. cit.  

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Il nuovo disordine mondiale /4: Si vis pacem, para bellum https://www.carmillaonline.com/2022/03/05/il-nuovo-disordine-mondiale-4-si-vis-pacem-para-bellum/ Sat, 05 Mar 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70769 di Sandro Moiso

Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi. ( Domenico Quirico, Con le armi consegnate a Kiev siamo già in guerra con Mosca, «La Stampa», 3 marzo 2022)

Scrivere di guerra durante un conflitto in [...]]]> di Sandro Moiso

Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi. ( Domenico Quirico, Con le armi consegnate a Kiev siamo già in guerra con Mosca, «La Stampa», 3 marzo 2022)

Scrivere di guerra durante un conflitto in atto, soprattutto nel corso di uno dalle dimensioni e dalle possibili disastrose conseguenze come quello attuale, implica una grave responsabilità, non solo di ordine politico ma ancor più di carattere morale e civile.
Oggi, sotto il bombardamento continuo di una quantità enorme di missili, disinformazione, proiettili, propaganda, immagini di dolore, fake news e autentica merda ideologica, da qualsiasi parte in conflitto provengano, lo implica ancor di più poiché già il solo scriverne con il distacco necessario per non cadere nelle trappole della propaganda embedded rischia di segnare una cesura incolmabile tra la realtà del dolore e della sofferenza sul campo (sia civile che militare) e l’ancor relativa situazione di pace illusoria e privilegio di chi scrive a distanza.
Detto questo, però, occorre lo stesso contrapporsi al conflitto e al suo allargamento, mantenendo uno sguardo che non sia né da tifoseria calcistica, né tanto meno caratterizzato dall’indifferenza travestita da radicalismo, ma che proprio per questi motivi non può fare uso di un linguaggio del tutto asettico.

Nell’Introduzione alle Leggi di Platone, il cretese Clinia individuava nell’azione di chi aveva preparato la popolazione cretese a combattere su un terreno impervio la condanna della «stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabilì tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori»1. E’ da questo testo che deriverebbe la locuzione latina di cui si è tanto abusato, senza in realtà mai comprenderla pienamente, come si vedrà poco oltre.

Troviamo dunque in un filosofo antico, vissuto tra V e il IV secolo a.C., anche se poi l’autore avrebbe usato l’affermazione di Clinia per poter sviluppare un discorso di diverso carattere, un’affermazione di estrema modernità sul ruolo ultimo degli Stati e della loro funzione: quello della guerra e del guerreggiare, per difendere proprietà, ricchezze, sicurezza, ma anche per ampliare il proprio dominio e i propri possedimenti. Dimostrando, come avrebbe intuito già Michel Foucault fin dagli anni ’70 rovesciando un’altra celebre affermazione, questa volta di Carl von Clausewitz, che «la politica non è altro che una continuazione della guerra in altre forme».

«Se vuoi la pace, quindi, prepara la guerra», anche se la formulazione latina appare in Vegezio, alla fine del IV d.C., come Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum, letteralmente “Dunque, chi aspira alla pace, prepari la guerra”2. Cosa che non modifica il senso della frase, ma che conferma come i discorsi sulla pace e sulla guerra siano intrinsecamente legati. Non in contrapposizione, come potrebbe apparire ad un primo sguardo superficiale, ma in profonda unità di intenti poiché, nella logica degli Stati e della loro azione reale, la garanzia della pace può fondarsi soltanto sul monopolio della forza e della violenza. Come, per esempio, il cosiddetto “equilibrio del terrore” ha dimostrato per decenni

Idea, quella dell’ottenimento della pace attraverso la guerra e il potenziamento delle forze armate e del loro uso, che non segna soltanto l’azione putiniana in Ucraina, ma anche la disordinata e rabbiosa reazione dell’Occidente alla stessa. Per ora più marcata forse in Europa che non negli Stati Uniti. Non a caso, forse, l’uso ufficiale della massima latina apparve, in contesto moderno, prima corredando la stampa del documento del 1892 che celebrava l’alleanza tra la Russia zarista e la Francia in funzione anti-tedesca, mentre, successivamente, sul portone di ingresso della fabbrica Deutsche Waffen und Munitionsfabrik (DWM) passò a identificare le cartucce prodotte da questa con il nome di Parabellum.

Infatti nelle attuali scelte, apparentemente “irresponsabili”, dei governi europei e di quello italiano concorrono alcuni fattori di carattere geopolitico e strategico che non possiamo certo dimenticare.
Il primo è quello del timore europeo di rimanere, in un contesto già di crisi, schiacciati tra gli interessi americani, russi e cinesi, Prova ne sia, non soltanto la decisa azione militare russa, ma la scelta, evidente, degli Stati Uniti di non intervenire direttamente sul fronte Ucraino, non per ragioni di pericolo di conflitto nucleare, come si afferma da parte del governo americano che pur non lo esclude del tutto, ma per fare in modo che si sviluppi in Ucraina una situazione di tipo afghano, in cui siano destinati ad impantanarsi all’infinito tanto gli sforzi bellici di Putin quanto le relazioni economiche e diplomatiche tra alcuni paesi europei (Germania per prima) e la stessa Russia, Con tutte le conseguenti ricadute di carattere energetico ed economico, oltre che geopolitico sulle politiche interne ed estere della UE. Per gli Stati Uniti, nella sostanza, due piccioni con una fava: indebolimento dell’euro e della sua economia concorrenziale a quella del dollaro e del made in USA e del colosso militare russo. Per l’Unione Europea un incubo da cui uscire ad ogni costo. Anche a quello di scatenare una guerra di cui non è difficile prevedere le tragiche conseguenze.

A riprova delle intenzioni statunitensi nei confronti della guerra ai confini orientali d’Europa può essere utile seguire il ragionamento sull’invio di aiuti americani nei confronti dell’Ucraina svolto dalla politologa Jessica Trisko Darden, in un articolo tratto da «The Conversation», che dopo aver dettagliatamente elencatoato l’ammontare degli aiuti americani, principalmente militari, in quell’area nel corso degli ultimi anni, conclude

Consegnare armi a un paese in guerra può sembrare ragionevole, ma questo afflusso di armi può intrappolare un paese in conflitto. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, la proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro, come quelle distribuite in Ucraina, può prolungare i conflitti armati, ostacolare l’attuazione degli accordi di pace e mettere in pericolo le forze di pace e i civili locali. In breve, le armi inviate oggi per aiutare l’Ucraina potrebbero rendere il paese più violento negli anni a venire.
C’è anche il rischio che, una volta superata l’attuale crisi, le armi leggere possano essere vendute dai civili. Queste armi potrebbero finire altrove in Europa o cadere sotto il controllo delle milizie che operano in Ucraina, incluso il battaglione di estrema destra Azov3.

In tale contesto, come si è già sottolineato in un articolo precedentemente pubblicato su «Carmilla on line» il 3 marzo, il riarmo tedesco non denuncia solo il tentativo di trarre un vantaggio economico e produttivo ballando sull’orlo del baratro, ma anche quello di fornire il vero centro del capitalismo europeo di una forza militare indipendente, che non sia costretta a dipendere dalla NATO oppure dalla forza militare francese o, peggio ancora, britannica.

L’altro fattore è riconducibile a quel complesso di eventi che, come si è già detto, hanno segnato negli ultimi vent’anni, prima quasi impercettibilmente e poi in maniera sempre più evidente, il declino del dominio occidentale sul pianeta. Dimostrando che la tanto glorificata globalizzazione ha indebolito, più che rafforzato tale posizione di rendita economica, politica e militare.

Da qui la frastornante campagna di demonizzazione non solo dell’avversario russo, ma anche di qualsiasi altro possibile “dissidente” dal precedente ed oggi frantumato ordine imperiale.
Come ha dimostrato, per esempio, la votazione alle Nazioni Unite dei giorni scorsi, durante la quale, nonostante gli sforzi propagandistici dei governi e dei media occidentali, durante la quale:

Solo quattro paesi si sono chiaramente schierati con la Russia nel voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’Ucraina: Bielorussia e Siria, Corea del Nord ed Eritrea hanno votato contro la risoluzione che chiede la fine dell'”aggressione” della Russia.
Minuscolo rispetto ai 141 sostenitori della risoluzione. Ma il gruppo di paesi che sostengono la Russia, almeno nelle gradazioni, nella guerra in Ucraina o non si posizionano chiaramente contro l’invasione, non è affatto così piccolo.
Sebbene l’approvazione della risoluzione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sia stata estremamente chiara, 34 paesi non vi hanno aderito astenendosi. Dodici paesi non hanno votato.
Mentre l’UE e gli Stati Uniti, così come alcuni altri paesi occidentali, hanno imposto sanzioni di vasta portata alla Russia, alcuni stati sono guidati dai loro profondi legami politici ed economici – o addirittura accolgono con favore qualsiasi cosa che danneggi gli Stati Uniti o la NATO4.

Tra gli astenuti Cina e India, che da sole comprendono quasi la metà della popolazione mondiale e coprono un ruolo ormai importantissimo nell’economia internazionale e nella produzione di acciaio e componenti elettronici dei settori tecnologici più avanzati, e la Turchia che dovrebbe rappresentare il baluardo della NATO sul fianco sud, come si sarebbe detto un tempo. A dispetto di una propaganda governativa e giornalistica che vorrebbe vendere ancora una volta l’idea di un intero mondo schierato contro le forze del male, non vi può esser dubbio che l’Europa e l’Occidente iniziano a sentire puzza di bruciato per il proprio grande avvenire ormai dietro le spalle.

Cosa che il quotidiano tedesco «Handelsblatt» torna a rimarcare in un editoriale posto sulla prima pagina del 4 marzo:

Alla fine della prima settimana di guerra in Ucraina, ci sono molte incertezze e una certezza: la Russia sta mostrando all’Europa una nuova vulnerabilità. Costringe gran parte del continente a invertire la tendenza, le cui conseguenze difficilmente possono essere sopravvalutate.
Il presidente russo Vladimir Putin gode ancora di sostegno nel mondo. Ma non tutti i sostenitori lo fanno per pura convinzione.
Lo storico Niall Ferguson vede l’Occidente in un nuovo confronto tra blocchi di potere e in un’intervista, spiega che l’Europa è rafforzata, ma la prova di resistenza deve ancora venire – se la Cina mette in discussione l’attuale ordine mondiale5.

In maniera ancor più ampia, e discutibile, affronta la questione Francis Fukuyama, uno dei principali teorici del liberalismo odierno, sul supplemento settimanale del «Financial Times» del 4 marzo:

L’orribile invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio è stata vista come un punto di svolta critico nella storia del mondo. Molti hanno detto che segna definitivamente la fine dell’era post-guerra fredda, un rollback dell'”Europa intera e libera” che pensavamo fosse emersa dopo il 1991, o meglio, la fine di The End of History. Ivan Krastev, un astuto osservatore degli eventi a est dell’Elba, ha recentemente dichiarato sul New York Times che “Viviamo tutti nel mondo di Vladimir Putin ora” […] Anche se non possiamo ancora sapere come evolverà tale situazione […] l’attuale crisi ha dimostrato che non possiamo dare per scontato l’attuale ordine mondiale liberale.
[…] Il liberalismo è sotto attacco da qualche tempo, sia da destra che da sinistra […] non solo a causa dell’ascesa di potenze autoritarie come la Russia e la Cina, ma anche a causa della svolta verso il populismo, l’illiberalismo e il nazionalismo all’interno di democrazie liberali di lunga data come gli Stati Uniti e l’India.
[…] L’India liberale di Gandhi e Nehru viene trasformata in uno stato indù intollerante da Narendra Modi, primo ministro indiano; nel frattempo negli Stati Uniti, il nazionalismo bianco è apertamente celebrato all’interno di parti del partito repubblicano. I populisti si irritano per le restrizioni imposte dalla legge e dalle costituzioni: Donald Trump ha rifiutato di accettare il verdetto delle elezioni del 2020 e una folla violenta ha cercato di rovesciarlo direttamente prendendo d’assalto il Campidoglio. I repubblicani, piuttosto che condannare questa presa di potere, si sono in gran parte allineati dietro la grande bugia di Trump.
[…] Come siamo arrivati a questo punto? Nel mezzo secolo successivo alla seconda guerra mondiale, c’era un ampio e crescente consenso sia sul liberalismo che su un ordine mondiale liberale. La crescita economica è decollata e la povertà è diminuita quando i paesi si sono avvalsi di un’economia globale aperta.
[…] Ma il liberalismo classico è stato reinterpretato nel corso degli anni e si è evoluto in tendenze che alla fine si sono rivelate auto-minatorie. A destra, il liberalismo economico dei primi anni del dopoguerra si è trasformato durante gli anni 1980 e 1990 in quello che a volte viene etichettato come “neoliberismo”. I liberali comprendono l’importanza del libero mercato– ma sotto l’influenza di economisti come Milton Friedman e la “Scuola di Chicago”, il mercato è stato adorato e lo stato sempre più demonizzato come nemico della crescita economica e della libertà individuale. Le democrazie avanzate, sotto l’incantesimo delle idee neoliberiste, hanno iniziato a tagliare le spese per lo stato sociale e la regolamentazione, e hanno consigliato ai paesi in via di sviluppo di fare lo stesso sotto il “Washington Consensus”. I tagli alla spesa sociale e ai settori statali hanno rimosso i cuscinetti che proteggevano gli individui dai capricci del mercato, portando a grandi aumenti delle disuguaglianze nelle ultime due generazioni.
Mentre parte di questo ridimensionamento era giustificato, è stato portato agli estremi e ha portato, ad esempio, alla deregolamentazione dei mercati finanziari statunitensi negli anni 1980 e 1990 che li ha destabilizzati e ha portato a crisi finanziarie come il crollo dei subprime nel 2008. Il culto dell’efficienza ha portato all’esternalizzazione dei posti di lavoro e alla distruzione delle comunità della classe operaia nei paesi ricchi, che hanno gettato le basi per l’ascesa del populismo negli anni 2010. […] Questi cambiamenti hanno poi prodotto il loro contraccolpo, in cui la sinistra ha incolpato la crescente disuguaglianza del capitalismo stesso, e la destra ha visto il liberalismo come un attacco a tutti i valori tradizionali.
In questo vuoto sono entrati regimi autoritari illiberali. Quelli di Russia, Cina, Siria, Venezuela, Iran e Nicaragua hanno poco in comune [ma] Hanno creato una rete di sostegno reciproco […]
Al centro di questa rete c’è la Russia di Putin, che ha fornito armi, consiglieri, supporto militare e di intelligence praticamente a qualsiasi regime, non importa quanto terribile per il suo stesso popolo, che si oppone agli Stati Uniti o all’UE. Questa rete si estende nel cuore delle stesse democrazie liberali. I populisti di destra esprimono ammirazione per Putin, a cominciare dall’ex presidente degli Stati Uniti Trump, che ha definito Putin un “genio” e “molto esperto” dopo la sua invasione dell’Ucraina. Populisti tra cui Marine Le Pen ed Eric Zemmour in Francia, l’italiano Matteo Salvini, il brasiliano Jair Bolsonaro, i leader dell’AfD in Germania e l’ungherese Viktor Orban hanno tutti mostrato simpatia per Putin, un leader “forte” che agisce con decisione per difendere i valori tradizionali senza riguardo
[…] Anche se è difficile vedere come Putin possa raggiungere i suoi obiettivi più grandi di una Grande Russia […] C’è anche il pericolo di un’escalation dei combattimenti per dirigere gli scontri tra NATO e Russia mentre montano le richieste di una zona “no-fly”. Ma sono gli ucraini che sosterranno il costo dell’aggressione di Putin, e loro che combatteranno per conto di tutti noi.
I travagli del liberalismo non finiranno anche se Putin perde. La Cina aspetterà dietro le quinte, così come l’Iran, il Venezuela, Cuba e i populisti nei paesi occidentali6.

La lunga citazione può servire a far riflettere sul fatto che lo stesso autore del celebre La Fine della storia, pubblicato per la prima volta nel 1992 dopo la caduta del muro di Berlino, deve fare i conti con il fallimento dell’idea del trionfo del liberalismo e del capitalismo occidentale su scala planetaria. Mentre, allo stesso tempo, nel riformularne i possibili sviluppi futuri indica quali sono i motivi di tale fallimento e i nemici da combattere per chi voglia mantenere in vita l’ormai scompaginato nuovo ordine mondiale sventolato fin dai tempi di Bush Sr.
Può servire, inoltre a comprendere dove affondano le radici di un PD che, in un parlamento di servi, è attualmente il partito più guerrafondaio, nelle dichiarazioni di tutti i suoi leader e ministri che fanno a gara per fare dimenticare le origini dell’ex-PCI e superare i concorrenti di destra e di estrema destra nel soffiare sul fuoco dell’odio anti-putiniano e antirusso.

Preparare la guerra, oppure farla, per mantenere la pace e, soprattutto, difendere ad ogni costo quelli che sembravano i diritti acquisiti di un Occidente invecchiato, impoverito, indebolito e moribondo, questa la parola d’ordine implicita in tante roboanti, e spesso false, affermazioni mediatiche e politiche di questi giorni. Mentre ci troviamo, forse, davanti alla fine di una Storia e all’inizio, sanglant, di un’altra. Motivo per cui, anche se certamente non si può essere a favore di alcuno dei nuovi fronti imperiali in lotta, non si può neppure essere indifferentisti, poiché per comprendere il possibile percorso di un rovesciamento dello stato di cose presenti non ci si può opporre al movimento reale delle società e della Storia, ma comprenderne conseguenze e nuove contraddizioni. Per anticiparle, sfruttarle e non rincorrerle all’infinito, come eterne emergenze.

Però, per tornare al discorso iniziale, si potrebbe dire che per la popolazione civile coinvolta in un conflitto le devastazioni portate da una guerra costituiscono un’effettiva e prioritaria emergenza cui solo il ritorno più rapido possibile ad una situazione di pace può costituire la risposta. Ed è vero, motivo per cui vedere il capo del governo ucraino incitare tutti i cittadini ad opporsi agli invasori russi oppure richiedere armi, aiuti militari sul campo e istituzione di una no-fly zone sull’intera ucraina ad opera delle forze NATO non convince certo della sua reale volontà di proteggere o salvare i civili.

Al di là delle discriminazioni viste già in atto nella fuga dei profughi, tra i quali quelli di origine africana, asiatica o mediorientale vengono ostacolati nel poter utilizzare autobus e treni per fuggire oltre che alle frontiere dell’Europa di Visegrad, ciò che occorre sottolineare è che se si vuole la pace per i propri cittadini non vi è altro strumento che quella di richiederla, accettando tutte le condizioni del nemico. Esattamente come fecero i dirigenti bolscevichi a Brest Litovsk, il 3 marzo 1918, nei confronti delle armate austro-ungariche, germaniche, ottomane e bulgare.

Pace senza se e senza ma, che costò ai firmatari russi la Polonia Orientale, la Lituania, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia. Complessivamente strappando alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione), privandola del 75% della produzione del carbone e del ferro, del 32% della produzione agricola e di circa 5.000 fabbriche, ma firmata per sospendere un conflitto di cui quasi nessuno in Russia voleva la continuazione.

Intanto, qui in Italia, dalla piattaforma della manifestazione nazionale svoltasi a Roma il 5 marzo i sindacati confederali, per prendervi parte, hanno imposto che fossero depennate la maggior parte delle formulazioni più importanti (disarmo, neutralità attiva, l’opposizione agli “aiuti” militari europei, la solidarietà con la società civile ucraina e russa, il No all’allargamento della NATO, la volontà di avere un’Europa liberata dalla armi nucleari dall’Atlantico agli Urali), anche se poi la CISL ha comunque comunicato il suo rifiuto a parteciparvi.

Mentre si è aperta la caccia alle teste dei cronisti meno embedded, come nel caso di Marc Innaro corrispondente RAI da Mosca di cui il PD, prima della cessazione dei servizi RAI dalla Russia, ha richiesto la rimozione/rotazione, e anche le parole di uomini di religione importanti vengono “censurate” nel momento in cui, come è successo con l’ex-vescovo di Ivrea Monsignor Bettazzi in un’interviata al Tg Regionale del Piemonte, fanno affermazioni poco consone alle politiche bellicistiche attuali7 tagliandone le affermazioni che riguardano, sostanzialmente, l’uscita dalla NATO e dalla stagione infinita delle alleanza militari “difensive”.

Per tutto questo, dunque, e per molte altre ragioni si rivela ancora più necessario continuare a scrivere e discutere di questa guerra e di tutte quelle che ancora verranno.

(4 – continua)


  1. Platone, Le Leggi, Libro I, 2  

  2. Vegezio, Epitoma rei militari  

  3. Jessica Trisko Darden, Taking the measure of US aid for Ukraine. The US weapons being sent to help Ukraine today might make the country more violent in the years to come, «The Conversation» 2 marzo 2022  

  4. «Handelsblatt», 3-4 marzo 2022  

  5. Il Nuovo Ordine Mondiale: l’Occidente è abbastanza forte? Miliardi per i militari e un punto di svolta in politica: la guerra di Putin getta l’Occidente in una nuova realtà. E la Cina sta prestando molta attenzione a come reagiscono l’UE e gli Stati Uniti, «Handelsblatt», 4 marzo 2022  

  6. Francis Fukuyama, Putin’s war on the liberal order, «Financial Times Weekend» 4 marzo 2022  

  7. qui  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Erdogan. Storia di un uomo e di un paese https://www.carmillaonline.com/2021/06/03/erdogan-storia-di-un-uomo-e-di-un-paese/ Thu, 03 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66544 di Giovanni Iozzoli

Cristoforo Spinella, Erdogan. Storia di un uomo e di un paese, Meltemi, Milano, 2021, pp. 208, € 16,00

Fenomenologia di un autocrate, si potrebbe intitolare, questo interessante saggio di Cristoforo Spinella, che affronta in modo sistematico e rigoroso, la storia e la figura dell’uomo che da vent’anni è al centro della politica turca. Certo, si tratta di un autocrate un po’ speciale, un talento politico perverso e poliedrico che si fa fatica ad incasellare nelle categorie della contemporaneità: fonda sul revanscismo islamico la sua ascesa, ma non è ascrivibile a [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Cristoforo Spinella, Erdogan. Storia di un uomo e di un paese, Meltemi, Milano, 2021, pp. 208, € 16,00

Fenomenologia di un autocrate, si potrebbe intitolare, questo interessante saggio di Cristoforo Spinella, che affronta in modo sistematico e rigoroso, la storia e la figura dell’uomo che da vent’anni è al centro della politica turca. Certo, si tratta di un autocrate un po’ speciale, un talento politico perverso e poliedrico che si fa fatica ad incasellare nelle categorie della contemporaneità: fonda sul revanscismo islamico la sua ascesa, ma non è ascrivibile a nessuna delle correnti del moderno islamismo politico post-11 settembre; ha stabilito con la maggioranza dei turchi un rapporto verticale e diretto di consenso, ma non si può ricondurre al ciclo populista tradizionale; ha molto in comune con Putin, ma non è figlio come lui degli apparati di Stato, anzi ha costruito la sua carriera nella contrapposizione ad essi. Insomma, un anomalo animale politico che usa (e getta) tutte le etichettature che la storia ha provato ad affibbiargli: da esempio virtuoso di un islam conservatore e liberale, coccolato dalle cancellerie europee e alfiere dell’integrazione turca nell’Unione, a spauracchio dittatoriale – Draghi dixit – che spaventa e irrita l’Europa, più per la mano sul rubinetto dei profughi che per le minacce alla vita democratica del suo paese.

Spinella racconta il “romanzo di formazione” del giovane Recep: come in tutte le biografie delle persone che contano, è difficile districare l’agiografia dalla verità storica. Certo è che – argomento costante del leaderismo populista – Erdogan ha sempre insistito sulle sue origini genuinamente proletarie: un “turco nero”, cioè un figlio della Turchia anatolica profonda, rurale, non occidentalizzata, cresciuto a Istambul in un quartiere di immigrati interni; una identità che si costituisce in opposizione al mondo dei “turchi bianchi” – le elite urbane europeizzate, che respingono l’eredità ottomana e sbandierano un laicismo autoritario, spesso inquinato da privilegi di classe e difesa dello status quo.

La vita del futuro capo dello Stato si svolge nei primi anni tutta intorno al rione popolare di Kasimpasa, intrico di vicoli su una collina che degrada a picco verso il Corno d’Oro, a margine della zona occidentalizzata di Beyoglu. Piazza Takshim non è lontana, il rifugio dei “turchi bianchi” di Nisantasi poco più in là, ma sembra un altro mondo. Il giovane Erdogan lo impara presto, portandosi dietro il corollario di astio e ambizione di rivincita sociale verso quei concittadini che non solo sono più ricchi, ma soprattutto li vedono come subalterni, estranei, istambulioti di serie B, quando li guardano: un’ostilità che animerà sempre il fantasma di apparire un parvenu, anche quando mezzo secolo dopo, gli eredi di quegli stessi ricchi industriali, finanzieri e commercianti correranno magari a lui per mendicare favori. E poi, in quei kemalisti lui percepisce un animo corrotto dall’alcol e dai vagheggiamenti parigini, per nulla assistito dalla fede in Allah e dall’amore per il popolo; per lui insomma non sono i veri turchi. E di dimostrarlo, rovesciando questi rapporti di forza, se ne farà una missione nella vita. (p. 36)

L’autore racconta efficacemente della lunga gavetta politica, intessuta di rapporti sul territorio e immersioni nell’infimo popolino della Istambul più profonda. Diventato responsabile del neonato partito islamico Refah, piccolo, ininfluente e sempre sulla soglia della censura militare, Erdogan si da ad un attivismo totale:

La leggenda più diffusa narra di un instancabile porta a porta di un quartiere, che non si fermava neppure sulle soglie dei viali della perdizione di Beyoglu. Anzi, sarebbe stato proprio lì, nella case da gioco e in quelle di tolleranza, tra i bar dove scorrono fiumi di raki e i peccaminosi locali della vita notturna, che intorno ai trentanni Tayyp inizia a darsi da fare per cercare di salvare le anime e, sulla strada della retta via, raccattare voti (…) Ad ogni modo l’idea di fondo è chiara e risulterà vincente: senza uscire dalle solite cerchie e dalla marginalità sociale, e con un sistema scolastico e statale che faceva pochissime concessioni al proselitismo islamico, difficilmente si sarebbero potute cambiare le cose. Bisognava partire dalla strada, per arrivare alle urne. (p. 40)

Il giovane Erdogan impara a guidare con maestria la macchina del consenso:

teorizza e divulga un populismo antelitteram, in cui per avvicinarli, e convincerli, i militanti si adattano agli elettori. Le donne hanno un ruolo chiave: velate o capo scoperto, a seconda delle porte a cui devono bussare, e del pubblico da convincere, sotto la sua gestione del partito ottengono forse per la prima volta un ruolo cruciale e pubblicamente riconoscibile nel movimento. (p. 43)

Dopo anni di scavo sotterraneo, incunenadosi dentro una dei frequenti stalli del quadro politico kemalista, Erdogan arriva a conquistare la poltrona ambitissima di sindaco di Istambul, nella primavera del ’94, per soli 100.000 voti di differenza, avviando una amministrazione di cui resterà traccia nella memoria diffusa:

A guidarlo ha un’ideologia – una fede direbbe lui – ma quando bisogna ritirare la spazzatura e affrontare gli ingorghi stradali conta fino ad un certo punto. Spesso e volentieri, soprattutto dietro le quinte, si affida ai tecnici, mentre i suoi assessori pii e magari meno preparati restano il volto pubblico delle riforme. Ecco allora che durante la sua sindacatura si si costruiscono decine di chilometri di  nuove condotte per portare l’acqua là dove arrivava poco o poco pulita, si comincia ridurre l’onnipresente riscaldamento a carbone incrementando l’uso del gas naturale, autobus e metro iniziano a funzionare meglio. (p. 55)

Spinella insiste per smentire l’idea che questo genere di populismo viva nel regno delle emozioni o delle suggestioni: c’è una materialità delle condizioni popolari, che fanno da sfondo ai discorsi identitari o sovranisti; c’è un’attenzione alla propria condizione percepita dalla masse, magari per la prima volta; e senza questa base, assai concreta, il consenso “religioso” o nazionalista, sarebbe destinato a durare poco. Peron, Kaczynski o Orban, l’ascesa dei populisti marca una invarianza di fondo: alla base di questi successi c’è sempre un blocco sociale che si disgrega e uno nuovo che si rifonda e assegna la rappresentanza dei suoi interessi a una nuova classe dirigente che narra se stessa in termini di sana catarsi e incarnazione dell’interesse generale e nazionale.

Mentre Erdogan tesseva la sua trama egemonica, gli osservatori delle cancellerie occidentali – strumentalmente amanti del kemalismo, o meglio dell’idea rassicurante, modernizzatrice e tradizionalmente atlantista che si erano fatte di esso – non percepivano la crisi e il marciume della vecchia turchia “laica” e militare: decenni di corruzione, autoritarismo, golpismo militare e mafia – stavano consegnando nelle mani della nuova classe dirigente erdoganiana un paese desideroso di rivalsa, di orgoglio nazionalista e pronto a coltivare velleità di sviluppo economico da grande potenza.

Erdogan esibisce negli anni, uno spregiudicato eclettismo nelle alleanze, nel lessico, nell’agenda politica, nel posizionamento: il pragmatismo – spesso del tipo più cinico – è la cifra di quest’uomo e del ciclo politico che incarna da due decenni. Si dimostrerà, ad esempio, sapientemente pragmatico nella scelta di accettare stoicamente il carcere, a causa di un discorso pubblico che incitava a reimpugnare l’identità ottomana, intuendo che la reclusione lo consacrerà eroe del dissenso:

Erdogan pronuncia le parole che gli costeranno la galera il 12 dicembre 1997 durante un comizio a Siirt (…) Quel giorno di dicembre 1997, Erdogan dice: i minareti saranno le nostre baionette, le cupole i nostri elmetti, le moschee le nostre caserme e i fedeli i nostri soldati. La voce è sua, le parole – pur con qualche licenza interpretativa – di Mehmet Zya Gokalp, poeta turco del primo novecento e aedo del nazionalismo islamico.(…) Il sindaco di Istambul viene accusato di istigazione all’odio e alla violenza razziale e religiosa (…) Subisce anche una interdizione dai pubblici uffici che durerà fino al 2003. L’ingresso in prigione, il momento teoricamente più difficile, lo individua già come una tappa fondamentale del suo percorso verso il potere. Dalla prigione uscirà quattro mesi dopo, il 24 luglio, passando da una porta sul retro, nuovamente atteso da un valanga di sostenitori. (…) Come fosse già un uomo di Stato. (p. 58)

Sarà altrettanto pragmatico nella scelta di presentarsi a Europa e Usa, ancor prima di diventare premier, come alfiere della democratizzazione, in un paese chiave dell’assetto atlantico:

Sembra tornare ad essere l’alleato Nato che mancava in un paese che rischiava di sfuggire di mano, e nonostante un opinione pubblica non poco recalcitrante sul tema. Diventa anche lo spot perfetto per dire che con l’Islam si può continuare a collaborare anche nel post 11 settembre e che le guerre dell’America non sono poi di religione. Già nel dicembre 2003 , era solo il leader dell’AKP e non della Turchia , che ufficialmente lo considerava ancora ineleggibile, Erdogan viene invitato alla Casa Bianca da George Bush (p. 71)

E poi arriva la storia di oggi, ben descritta dall’autore: la crisi di Gezi Park, in cui Erdogan schiaccia senza ritegno le opposizioni di piazza; il tentativo del grande accordo di pace con l’arcinemico Ocalan, che finirà con una pioggia di fuoco sui territori curdi e la messa fuorilegge dell’HDP, secondo partito del paese; la crisi siriana, in cui sostiene il jhiadismo anti Assad e marcia indisturbato sulle trincee dell’autonomia confederale curda; e il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, che gli darà l’occasione di rovesciare le alleanze internazionali, stroncare l’ex potente alleato Gulen, fare piazza pulita dei residui militari a lui ostili, e stringere una cappa di repressione sulla società turca che ancora perdura e su cui regge molto del suo potere. E, tornando all’oggi, conviene citare un frammento della bella introduzione di Alberto Negri:

Ci sono diversi modi di guardare un paese. Cristoforo Spinella, giornalista esperto, corrispondente dell’Ansa da Istambul (…) ha scelto di farlo con una biografia di Erdogan che è anche quella di un’intera nazione in tutte le sue sfaccettature, come in un mosaico bizantino. Attraversa l’attualità, ma inevitabilmente anche una storia millenaria e le sue radici profonde. C’è lo sguardo d’insieme su un ventennio al potere del reis turco, ma ci sono anche i dettagli della sua vita, setacciati separando, anche con ironia, l’agiografia ufficiale dal reale. Uno è fulminante. In un’intervista al quotidiano Milliyet, del 14 luglio 1996, sette anni prima di andare al comando nel 2003, Erdogan, allora sindaco di Istambul dichiara: la democrazia è come un tram: quando raggiungi la tua fermata scendi. Da quel tram Erdogan è sceso da un pezzo e non si può dire che non fossimo stati avvertiti, nonostante la sua capacità di dissimulazione. Ma il suo progetto di egemonia politica e culturale sulla società turca, sia pure già radicato, non è detto che possa proseguire all’infinito e senza ostacoli. La Turchia riserva sempre delle sorprese. (p. 9)

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