Trotsky – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

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Gli altri volti della Rivoluzione: considerazioni di un antimarxista https://www.carmillaonline.com/2022/01/30/gli-altri-volti-della-rivoluzione-riflessioni-di-un-antimarxista/ Sun, 30 Jan 2022 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70321 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro

Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)

Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro

Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)

Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego Gabutti che anche la Storia non sia altro che un aspetto, forse il più antico e meglio conservato, della narrazione letteraria e che come tale vada trattata.

I due aspetti, il politico come una delle tante espressioni dell’ immaginario e la Storia come uno dei generi letterari possibili, si intrecciano profondamente infatti nella monumentale opera in due volumi, di cui si recensisce qui il primo, dedicata alla ricostruzione dei percorsi del marxismo e delle sue rivoluzioni attraverso aforismi letterari e filosofici, recensioni di saggi e di romanzi, divertite e divertenti analisi di testi che da sempre dovrebbero costituire il “canone” marxista, che si accavallano nelle sue pagine, non concedendo al lettore un attimo di tregua (ma in compenso regalandogli numerosi motivi per sorridere oppure riflettere su “verità” date troppo spesso per scontate).

Un’opera che se, nei suoi tratti essenziali, potrà infastidire più di un lettore, da un altro lato potrebbe rivelarsi davvero necessaria e stimolante in ambienti sinistresi in cui, ancora e forse soprattutto oggi, il dibattito sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche rifiuta troppo spesso il peso avuto nello stesso dall’autentica controrivoluzione staliniana e dagli eccessi ideologici, che ebbero però risvolti drammatici nelle scelte politiche, sociali e culturali che ne derivarono, di coloro che dissero di ispirarsi a Marx e ancor più al marxismo-leninismo (non importa qui se di stampo bolscevico o maoista). Una sinistra che, fingendo si averlo digerito e superato, così come aveva già fatto il PCI nei confronti dello stesso retaggio storico, ogni qualvolta si approccia allo stalinismo afferma che ormai qualsiasi diatriba che lo riguardi è un fatto meramente ideologico. Appartenente ad un passato ormai morto e sepolto.

Cosa che ha fatto sì che nel nostro paese qualsiasi riferimento ad un possibile binomio lager-gulag sia ancor considerato da molti come lesivo della dignità rivoluzionaria bolscevica e leniniana. E che, peggio ancora, ha contribuito al fatto che ad appropriarsi del ricordo delle vittime italiane dello stalinismo in URSS sia stata spesso più la Destra che la Sinistra, la quale ultima dopo averle negate per decenni attraverso la voce dei rappresentanti del PCI ha finito poi, senza alcun timore di rendersi ridicolmente colpevole, di cercare di nasconderle sotto il tappeto rappresentato dal paragone con un dramma, quello della Shoha, che, nella vulgata ufficiale, qualsiasi altra violenza dovrebbe superare in termini di unicità e nefandezze.

A farne le spese sono stati alcuni dei più importanti scrittori del ‘900: Aleksandr Isaevič Solženicyn che, solo per citare un intellettuale ex-organico del più grande partito comunista dell’Occidente, Umbero Eco all’uscita delle sue prime opere in Italia definì come un «Dostoevskij da strapazzo»; oppure Varlam Tichonovič Šalamov che con le sue memorie del Gulag non ha mai trovato il dovuto spazio sulle pagine di riviste e webzine che si vorrebbero radicali oppure, ancora, Gustaw Herling, polacco e autore della drammatica testimonianza contenuta in Un mondo a parte, la cui prefazione alla raccolta dei Racconti di Kolyma di Salamov è stata respinta dall’editore Einaudi, pochi anni or sono, poiché tracciava il paragone di cui si è parlato più sopra tra lager nazisti e gulag sovietico, mentre nel 1965 il quotidiano del PCI «Paese sera» ne aveva chiesto l’espulsione dall’Italia, dove viveva, proprio a causa della sua testimonianza sul Gulag, ritenuta ancora allora, nove anni dopo il XX congresso del Partito sovietico che aveva aperto uno spiraglio sui crimini di Stalin, falsa e blasfema.

Fermiamoci qui, soltanto per dire che i motivi per leggere l’ultima raccolta di saggi e recensioni di Gabutti potrebbe rivelarsi utile soprattutto per i giovani che soltanto adesso scoprono una storia narrata troppe volte con l’enfasi della leggenda e del mito, ma priva di molti elementi tesi a disvelarne completamente i volti, anche quelli orrendi e insopportabili della Rivoluzione e delle sue promesse troppe volte non mantenute. Un dichiarato antimarxista potrebbe, in tal senso, rivelarsi più utile di tanti “marxisti” che sicuramente hanno conoscenze meno approfondite della materia, dei fatti e dei testi (di cui tanti dichiarano l’avvenuta lettura senza mai averla realmente fatta).

Lo stesso titolo, tratto dai versi di una poesia di Vladimir Vladimirovič Majakovskij che i marinai, secondo la leggenda aurea dell’Ottobre, avrebbero cantato nei giorni dell’insurrezione1, gioca sulle illusioni e l’immaginario, tra ciò che si vorrebbe e ciò che realmente è oppure è stato in ogni sommovimento rivoluzionario degno almeno di questo nome. In un contesto in cui, oltre agli interpreti principali si muovono una miriade di figuranti, controfigure, terroristi, intellettuali (più o meno raffinati), cospiratori, prime donne e donne di malaffare, bohémien, banditi, dittatori e grassatori, poeti, resurrezionisti, baroni sanguinari, Kafka e Lovecraft (sì, anche loro) in una girandola di cui è impossibile, in una recensione, rendere pienamente e dettagliatamente conto.

A fare una classifica di questo vasto compendio di testi, opere ed idee che si sarebbero volute rivoluzionarie si potrebbe dire che, dopo il trattamento riservato loro dalla penna di Gabutti, Marx ed Engels ne escono con diversi lividi e lesioni da codice giallo, mentre Lenin, Stalin e lo stesso Trotsky, invece, con le ossa fracassate ancor più che rotte, così come l’esperienza bolscevica nel suo insieme e quella dei socialisti rivoluzionari prima, durante e dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Anche per gli anarchici sono riservati sonori schiaffoni e brusche tirate d’orecchie e soltanto Amadeo Bordiga sembra cavarsela con qualche scappellotto sul coppino, forse per personale e antica simpatia dell’autore per lo stesso e la sua lingua letteraria che non aveva nulla da invidiare a quella di Gadda (l’altro ingegnere colto e letterato della cultura italiana) in termini di ricchezza ed inventiva.

Il tutto senza mai dimenticare la contraddizione derivante dal fatto che, in origine:

Per Marx la guerra allo «zarismo, gendarme d’Europa» non era solo un chiodo fisso. Era il chiodo fisso. Trascurando la stesura del Capitale, tra il 1863 e il 1864 Marx lavorò ai Manoscritti sulla questione polacca, che dopo un lunghissimo oblio vennero ripubblicati proprio nei giorni di Solidarność, al principio degli anni ottanta, quando l’URSS minacciava un intervento militare in Polonia. Marx sapeva che fin dai tempi di Caterina II, «sincera democratica» (come si sarebbe detto un secolo dopo in langue de bois stalinista) e grande protettrice degli enciclopedisti, non c’era che una politica estera russa, la stessa che i sovietici avrebbero adottato, due secoli più tardi, in Ungheria e Cecoslovacchia: l’intervento dell’esercito russo ovunque una ribellione minacciasse la tenuta dell’Impero. Nel 1863, quando scrisse i suoi appunti sulla questione polacca, era scoppiata a Varsavia l’ennesima insurrezione antirussa2.

Cosa che a lungo gli studiosi sovietici, escluso David Borisovič Rjazanov poi condannato a morte il 21 gennaio 1938, in esito ad un processo superficiale, dal Collegio Militare della Corte Suprema dell’URSS, cercarono di nascondere e sminuire, insieme agli scritti di Engels contro la politica degli zar.

Però, a ben guardare, vi sono alcuni eventi che, nonostante qualche eccesso di idealismo romantico secondo l’autore torinese, escono dal libro in altra maniera: la Comune di Parigi e l’insurrezione di Kronštadt, insieme alle motivazioni dell’insurrezione dei marinai della corazzata Potëmkin. Con le ossa rotte, ma soprattutto a causa dello scontro impari tra utopia e realtà autoritaria dello Stato, qualunque esso sia (capitalista, zarista, bonapartista o bolscevico poco cambia), o del Partito.

Siamo nel marzo del 1871 e via con la leggenda: i borghesi fuggono dalla città, sparisce l’esercito, dio è morto, il governo va in fumo, via le chiese, via la servitù del lavoro, o la va o la spacca, niente più polizia, libertà o morte. Comincia la grande avventura della Comune detta di Parigi. È festa grande e così sono tutti presenti. Gli anarchici, gli studenti sfaccendati, i gazzettieri, la teppa, i membri della Prima Internazionale, che qualche anno più tardi Zola celebrerà in Germinale, i seguaci del grande cospiratore Louis-Auguste Blanqui e la pasionaria Louise Michel in persona, i bottegai spremuti dal fisco, i soldati e gli ufficiali che sono passati al popolo, dirà Marx, «disertando il campo della borghesia» […] È una scena originaria, anzi una première: le altre rivoluzioni moderne, quella russa come quella cinese – la Comune di San Pietroburgo come quella di Canton – saranno solo una nota a piè di pagina di questo mese di guerra feroce, classe contro classe, il socialismo contro tutti, il capitale pure. Circoscritto quanto si vuole, senza che si diffonda oltre le mura della città, la Commune è un dramma che si recita su scala ciclopica ed è all’interno di questo dramma storico, nel suo microcosmo, che il regista e romanziere francese Jean Vautrin muove le pedine e tira le fila del Grido del popolo, un perfido feuilleton alla Éugene Sue, ma scritto nella lingua di Céline e di Leo Malét, che si dipana attraverso le strade di Parigi dove dilagano le barricate, lampeggiano i fucili, si fucilano i traditori e le spie, s’indicono e si sciolgono le assemblee […] . Seguono avventure atroci, scannamenti, immersioni nella Parigi del crimine e dei peggiori bordelli, frequentazioni a rischio di ghenghe assassine e corti dei miracoli […] C’è la materia bruta e canagliesca di cui sono fatti i feuilleton, le tinte forti, gli sguardi feroci, gli strippamenti, le passioni erotiche divoranti. Be’, a pensarci è la stessa materia di cui son fatte anche le rivoluzioni, altra cosa, com’è noto, dai pranzi di gala3.

Per quanto riguarda la rivolta dei marinai della corazzata Potëmkin, invece:

Casus belli fu la carne per il borsch, la tradizionale zuppa russa e ucraina. Brulicante di vermi, invereconda, i marinai rifiutarono di mangiarla, per quanto certificata dal medico di bordo come ottima e abbondante. Gli ufficiali, che erano a tutti gli effetti dei poveri pazzi, gente che in nessun altro esercito dell’epoca avrebbe avuto mostrine né (tanto meno) mano libera, s’impuntarono: mangiare il borsch, vermi e tutto, o essere puniti. Uno degli ufficiali puntò il fucile. Ne risultò una sparatoria e il marinaio Afanasij Nikolaevic Matjusenko, figlio di contadini, frequentatore di circoli clandestini fin quasi dall’infanzia, che capeggiava la rivolta, uccise l’ufficiale, che sotto la minaccia delle armi ancora prometteva rappresaglie. «Non ne avrai l’occasione» – disse Matjusenko – «Ora ti mando a fare il mozzo dall’ammiraglio Makarov», e sparò. Stepan Osipovic Makarov, contrammiraglio russo, era morto un anno prima a Port Arthur insieme al suo equipaggio quando la corazzata Petropavlovsk era saltata su una mina giapponese. Ormai non si tornava più indietro: l’ammutinamento, che nei piani dell’organizzazione segreta dei marinai (la cosiddetta Centalka) avrebbe dovuto coinvolgere tutta la flotta contemporaneamente, scoppiò prima del previsto sulla Potëmkin, e così sia. Molti ufficiali, compresi quelli che riuscirono a gettarsi in mare, e che per lo più furono uccisi a fucilate mentre tentavano di raggiungere le banchine a nuoto, vennero brutalmente massacrati, secondo l’uso delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni asiatiche. S’unì agli ammutinati l’ufficiale di macchina, un nazionalista ucraino, che odiava lo zar almeno quanto l’odiava Matjusenko. Un paio di ufficiali vennero utilizzati per le loro competenze tecniche dal Comitato del popolo che aveva assunto il comando della nave. Poi la Potëmkin, un’icona futurista fusa nell’acciaio dei cannoni e dei lanciasiluri, nave corsara della rivoluzione, ammainò la bandiera zarista dal pennone, issò quella rossa e cominciò la sua odissea attraverso il Mar Nero, tra battaglie e fughe e inseguimenti, fino all’olocausto finale.
[Lo zar] ordinò che a Odessa, dove la corrazzata ribelle era attraccata, gli scioperi e le manifestazioni di solidarietà con gli ammutinati fossero soffocati con la forza. Ne risultò l’ennesimo massacro. In poche ore si contarono quasi 1300 morti. Ne seguì l’ammutinamento, quasi subito rientrato, d’una seconda corrazzata, la Georgij Pobedonosov, che per qualche ora affiancò la Potëmkin nel porto d’Odessa. Segnali d’ammutinamento serpeggiavano in tutta la flotta del Mar Nero. In un’occasione, quando la flotta circondò il porto d’Odessa per farla finita con la nave che inalberava la bandiera rossa, nessun ufficiale osò dare l’ordine d’aprire il fuoco, nel timore di scatenare così la rabbia e la ribellione dei propri marinai. Fu la flotta a ritirarsi, poi la Potëmkin lasciò Odessa per Costanza, in Romania, dove sperava di potersi approvvigionare. Ma le autorità rumene non concessero nulla, né cibo né carbone, e la corazzata corsara, che aveva minacciato di bombardare la città qualora le sue richieste fossero state ignorate, lasciò Costanza senza sparare un colpo. Ormai il sogno di trasformare la flotta nell’avanguardia della rivoluzione democratica russa era svanito. Anche la stampa internazionale, passati i primi entusiasmi, non vedeva più di buon occhio l’avventura rivoluzionaria della : gli ammutinamenti sono malvisti da tutti i regimi, e questo ammutinamento in particolare costituiva un pessimo esempio per le masse anarchiche e socialiste sparse in tutti i continenti, e particolarmente minacciose nei paesi democratici. Dopo essere tornata in acque russe, sempre tenuta d’occhio a distanza dalla marina zarista, che sognava di prenderla per fame, la nave ribelle tornò a Costanza e si consegnò alle autorità rumene, che avevano garantito, ignorando le proteste zariste, asilo politico agli insorti.
[…] Soltanto quando Matjusenko, il leader contadino della flotta, che dopo aver vissuto per qualche tempo a New York e Parigi era tornato in Russia per svolgere attività clandestina, fu arrestato due anni più tardi a Nikolaev, in Ucraina, lo zar pretese che nel suo caso la pena di morte fosse ripristinata. Matjusenko morì impiccato. Nicola II «e ultimo» e il suo regime non gli sopravvissero a lungo4.

Destinato altrettanto ad avverarsi sulla pelle dei propri persecutori fu l’ultimo radiogramma lanciato nell’etere dai marinai di Kronštadt insorti, quando ormai tutto era scritto e stabilito, diretto a un loro antico tribuno:

«Ascolta. Trotsky!» profetizzano quelli di Kronštadt. «Fino a quando tu potrai sfuggire il giudizio del popolo, ti sarà facile fucilare in massa gli innocenti. Ma è impossibile fucilare la verità. Essa finirà col farsi strada. E tu e i tuoi cosacchi sarete obbligati a rendere conto delle vostre infamie». Colpito dalla maledizione dei marinai, senza più uomini da mandare all’assalto, Trotsky lascerà, di lì a pochi anni, la Russia sovietica, i killer di Stalin alle calcagna5.

Marinai che erano insorti, pur avendo alle spalle una ben radicata storia politica:

Nel 1918, all’epoca in cui i socialrivoluzionari di sinistra, stanchi di portare acqua al mulino leninista, provocano l’ammutinamento simultaneo di molti reggimenti contro il comando bolscevico, il Soviet di Kronštadt si schiera con i comunisti […] La nuova opposizione, a Kronštadt, si è formata lentamente, faticosamente, quasi controvoglia. È solo quando gli operai di San Pietroburgo entrano in sciopero che Kronštadt perde la pazienza. Mandano una delegazione nella capitale per condurre un’inchiesta nelle fabbriche. «Visto che siete di Kronštadt», urla un operaio, «quelli che tirano sempre in ballo per spaventarci, e volete sapere la verità, eccola. Noi moriamo di fame. Non abbiamo scarpe né vestiti. A tutte le nostre richieste le autorità rispondono con il terrore. Abbasso la dittatura comunista! Vogliamo Soviet liberamente eletti. Soltanto loro possono toglierci da questo imbroglio!». Pochi giorni dopo Kronštadt è in rivolta6.

Come ricorda ancora Gabutti, citando Boris Souvarine, autore di una delle più importanti biografie critiche di Stalin: «Per una sinistra ironia della storia la Comune di Kronštadt soccombette il 18 marzo 1921, cinquantesimo anniversario della Comune di Parigi»7.
Tutto questo e molto altro è possibile leggere e apprendere in questo primo volume di Mangia ananas, mastica fagiani, in maniera tale che per il lettore interessato e curioso non rimane altro che attendere l’uscita del volume successivo, Dai Processi di Mosca al «disgelo» e a Pol Pot.


  1. «Mangia ananas, mastica fagiani, / più non ti resta, borghese, un domani», aveva scritto in gloria della rivoluzione. Un «distico», annota M. a suo proprio margine nel 1927, che «divenne la mia poesia preferita» dopo che «i giornali pietroburghesi dei primi giorni dell’ottobre scrissero che i marinai avevano dato l’assalto al Palazzo d’inverno canticchiando questi due versi»  

  2. D. Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol. I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, p. 118  

  3. D. Gabutti, op. cit., pp.107-108  

  4. Ibidem, pp. 146-148  

  5. Ibid., p. 301  

  6. Ibid, pp. 299-300  

  7. p. 294  

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L’armata a cavallo (che non cambiò i destini del mondo) https://www.carmillaonline.com/2020/09/23/larmata-a-cavallo-che-non-cambio-i-destini-del-mondo/ Wed, 23 Sep 2020 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62642 di Sandro Moiso

Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, MILLENOVECENTOVENTI. La “marcia sulla Vistola” e la rivoluzione alle porte d’Europa, traduzione a cura di Fabio Pellicanò, Circolo Internazionalista Francesco Misiano, supplemento a Pagine Marxiste n° 48, gennaio 2020, pp. 160, 10 euro

Isaak Babel’, giornalista e scrittore sovietico, nel 1940, quando fu fucilato nella prigione di Butyrka a seguito di un ennesimo processo farsa, pagò duramente l’onesta descrizione della campagna militare in Polonia durante la guerra civile russa fatta nei racconti contenuti nella sua opera più famosa: L’armata a cavallo (titolo originale “La cavalleria rossa”). [...]]]> di Sandro Moiso

Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, MILLENOVECENTOVENTI. La “marcia sulla Vistola” e la rivoluzione alle porte d’Europa, traduzione a cura di Fabio Pellicanò, Circolo Internazionalista Francesco Misiano, supplemento a Pagine Marxiste n° 48, gennaio 2020, pp. 160, 10 euro

Isaak Babel’, giornalista e scrittore sovietico, nel 1940, quando fu fucilato nella prigione di Butyrka a seguito di un ennesimo processo farsa, pagò duramente l’onesta descrizione della campagna militare in Polonia durante la guerra civile russa fatta nei racconti contenuti nella sua opera più famosa: L’armata a cavallo (titolo originale “La cavalleria rossa”). Testo, pubblicato in prima istanza nella rivista LEF di Vladimir Majakovskij nel 1924, che era il risultato delle osservazioni fatte sul campo dallo scrittore che era stato assegnato, come giornalista, alla prima armata a cavallo del Feldmaresciallo Semën Michajlovič Budënnyj, diventando così testimone diretto della campagna di Polonia che cercava di portare la rivoluzione comunista fuori dalla Russia. In quell’occasione l’Armata Rossa penetrò fin quasi a Varsavia, ma fu infine respinta nella battaglia del 1920 svoltasi in prossimità della capitale polacca.

Anche l’autore del testo qui recensito, Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, finì col pagare con la vita nel 1937, tra le altre cose, le posizioni sostenute nel corso di quella campagna militare e la critica alle scelte militari dell’incipiente stalinismo. Ma con una non piccola differenza, rispetto al primo: egli aveva diretto, in qualità di generale dell’Armata Rossa, le operazioni sul fronte polacco ed era stato testimone degli errori politico-militari che avevano minato la riuscita di una campagna militare che avrebbe potuto cambiare le sorti della storia d’Europa e del mondo, se le armate sovietiche fossero riuscite a congiungersi con la classe operaia tedesca ed occidentale nei turbolenti anni del primo dopoguerra.

A Tukhachevsky, già sottotenente dell’esercito zarista, dopo la Rivoluzione era stato affidato il comando della I Armata che combatté sui principali fronti della guerra civile. La sua carriera militare fu notevole: capo di stato maggiore dell’Armata Rossa nel 1924, fino al più alto grado, quello di maresciallo dell’Unione Sovietica. Nonostante le divergenze d’opinione su questioni di carattere militare e politico mantenne sempre ottimi rapporti – ufficiali e personali- con Trotsky, nei confronti del quale mai espresse giudizi sfavorevoli o critiche, ignorando così le pressioni del partito. Arrestato nel maggio 1937 nel corso delle grandi purghe staliniane, Tukhachevsky venne condannato per spionaggio con false prove ed eliminato.

La pubblicazione italiana del testo, curata dal Circolo Internazionalista Francesco Misiano, in occasione del centenario di quella guerra, riproduce sia le conferenze tenute dal generale sovietico per il Corso di Complemento dell’Accademia militare di Mosca dal 7 al 23 febbraio del 1923 che una lettera dello stesso Tukhachevsky a Zinov’ev del 18 luglio 1920, in cui veniva tracciata una prima e importante valutazione politica delle ragioni del fallimento dell’offensiva sul fronte occidentale.

Il lettore, infatti, troverà tra le sue pagine, oltre ad un’ attenta disamina sulla questione Crisi, guerra e rivoluzione in Marx, Engels e Lenin e sullo specifico della guerra russo-polacca contenuta nella Postfazione curata dai militanti del Circolo Misiano, la possibilità di riflettere su alcune problematiche di carattere sia storico che politico che a cent’anni di distanza non hanno ancora perso significatività.

Quelle di carattere storico riguardano la superficialità con cui negli ultimi decenni, ma forse anche già da prima, si è guardato a quella guerra, interpretandola soltanto come un primo passo dell”imperialismo’ sovietico nei confronti della Polonia, prima, e del resto dell’Europa centrale poi.
In questa dominante vulgata la Polonia del Maresciallo Józef Klemens Pilsudski, che dopo l’entrata in vigore della Costituzione parlamentare nel 1921 e la vittoria elettorale dei democratico-nazionali nel 1922 avrebbe, nel 1926, preso il potere con un proprio partito di ispirazione fascista (Sanacja – Risanamento), abolito il Parlamento e assunto poteri pienamente dittatoriali che avrebbe poi mantenuto fino alla sua morte nel 1935, di solito interpreta il ruolo della giovane e orgogliosa nazione, tutta unita al suo interno, che lotta contro l’aggressione del gigante vicino.

In realtà, prima e durante la guerra con le armate rosse, il paese fu sconvolto da lotte operaie che furono duramente represse e da una ribellione serpeggiante fin nelle file dell’esercito. Motivo per cui, durante lo stesso conflitto, almeno un reggimento tentò di passare, al completo di armi e bagagli, sotto il comando dell’Armata Rossa.

Smontata questa impostazione patriottarda della resistenza polacca al “dilagare” delle armate sovietiche, il passo successivo sarà dunque costituito dall’esame degli errori militari e politici che contribuirono al rallentamento prima e alla sconfitta poi dell’offensiva rivoluzionaria verso il cuore dell’Europa occidentale e della sua ribollente, all’epoca, classe operaia.

E qui militare e politico si intrecciano inequivocabilmente, come d’altronde avviene quasi sempre in ogni guerra, poiché molto spesso gli errori compiuti sul campo derivano da scelte operate lontano dal fronte e intorno ai tavoli della politica.
Nelle settimane dirimenti per l’offensiva, inutili furono i richiami e gli ordini di Tukhachevsky affinché tutti gli sforzi e tutte le forze disponibili sul fronte della Vistola fossero concentrate nel tentativo di prendere Varsavia. Una parte dello Stato Maggiore sovietico, tra cui lo stesso Budënnyj, preferì non dare ascolto alle richieste del comandante delle operazioni, per puntare invece tutte le altre risorse disponibili nel tentativo di conquistare la città di L’vov (Leopoli), obiettivo assolutamente secondario, se non inessenziale, rispetto alle ragioni della campagna rivoluzionaria voluta dagli stessi Lenin e Trotsky.

Qualunque fossero le scelte di carattere personale operate dagli altri generali (tattiche oppure semplicemente legate a motivi di invidia e rancore personale nei confronti del nascente astro di Tukhachevsky), si manifestò proprio in quel momento l’inizio del contrasto tra due differenti concezioni delle finalità della stessa rivoluzione russa.
La prima, fatta propria da Lenin, Trotsky e dallo stesso Tukhachevsky, intendeva la rivoluzione dei Soviet come un primo passaggio verso una rivoluzione internazionale permanente, destinata ad essere esportata anche con le armi o, come si diceva allora, “sulla punta delle baionette”, al fine del rovesciamento su scala mondiale, o almeno europea, del capitalismo.
La seconda, che si rivelò poi vincente con l’ascesa di Stalin ai vertici del potere, intendeva invece ciò che era successo dal febbraio del ’17 in poi come un movimento indirizzato alla creazione del “socialismo in un solo paese”. Sostanzialmente una rivoluzione nazionale il cui compito sarebbe stato quello di rendere indipendente e potente la nascente Unione Sovietica.

E’ facile capire come, su un fronte in movimento, qualsiasi ritardo possa trasformarsi in disfatta per gli eserciti che avanzano e in motivo di rafforzamento per quelli schierati a difesa dell’obiettivo principale che i primi intendevano raggiungere, così, nel giro di poche settimane, l’offensiva fallì, trasformandosi in disfatta.
E qui occorre aggiungere un paio di altre considerazioni.

La prima è che quella offensiva nulla ebbe a che spartire con l’espansionismo sovietico nei confronti dell’Europa centrale e germanica alla fine del secondo conflitto mondiale, compresa la scelta di lasciare massacrare gli insorti polacchi dalle truppe naziste, dopo che i primi avevano già liberato Varsavia dalle truppe tedesche, molto meglio armate, nell’estate-autunno del 1944.
Tanto meno con gli interventi militari a favore dei paesi e dei partiti fratelli (Berlino Est 1953 – Ungheria 1956 – Praga 1968 – Polonia 1981). Operazioni militari e interventi repressivi che invece servirono a manifestare in pieno il volto imperialista del “socialismo in un solo paese” .

La seconda è data dal fatto che, pur tenendo conto delle scelte autoritarie del governo rivoluzionario e del ruolo di comandante svolto da Tukhachevsky nelle operazioni nei confronti dei rivoltosi di Kronstadt e di Tambov, il tentativo di sfondare in Occidente era dettato dal sincero convincimento che soltanto con la partecipazione degli operai e dei comunisti occidentali ad un allargamento internazionale della Rivoluzione questa avrebbe potuto affermarsi in maniera stabile e, forse, definitiva. In un momento in cui in Europa, dalla Germania all’Italia del Biennio Rosso, le insurrezioni e le acque della rivolta sociale erano tutt’altro che placate.

Ed è proprio nella lettera a Zinov’ev che possiamo ritrovare alcune considerazioni, svolte dal generale sovietico, utili ancora oggi, esattamente ad un secolo di distanza, ed estremamente significative per cogliere appieno il significato delle scelte politiche e militari di Tukhachevsky:

La guerra civile, che non fu una piccola guerra né una guerra partigiana, ma una guerra civile vasta, materialmente logorante, durata due anni e mezzo, ci colse di sorpresa per ciò che riguardava le sue proporzioni.
Per ciò che riguarda un esercito proletario regolare, in generale il complesso dei membri del nostro partito non era preparato.
Questa nostra mancanza di preparazione alla guerra fa sentire ancor oggi le sue conseguenze. Il principale motivo di questi errori sta nel fatto che non sono stati studiati né la forma teoretica né i mezzi per resistere alla borghesia nel periodo della rivoluzione socialista. La strategia e la tattica delle guerre civili da una parte e di quelle imperialiste e nazionali dall’altra non sono eguali (per ciò che concerne le forme e i mezzi) neppure in una stessa epoca. E’ necessaria un’indagine sulla teoria della guerra civile: questo tipo di guerra interessa più di ogni altro la classe operaia e quindi il Partito comunista, come elemento attaccante; e quindi essi devono studiarla […]1

I principii fondamentali della strategia della guerra di classe cioè della guerra civile su cui si dovranno basare tutti i calcoli e che sono nettamente diversi dai principi fondamentali della strategia della guerra imperialistica sono i seguenti:

1) La guerra si potrà concludere solo con l’instaurazione dell’universale dittatura del proletariato, perché la borghesia mondiale non permetterà all’isola socialista di vivere in pace.
2) Da questo primo principio segue che lo Stato, una volta soggetto al potere della classe operaia, non dovrà proporsi in guerra uno scopo politico conforme alle sue forze armate e mezzi militari, bensì creare forze bastevoli alla conquista degli stati borghesi in tutto il mondo.
3) La fonte da cui l’esercito trarrà i suoi uomini sarà il proletariato di tutto il mondo, senza riguardo per le nazionalità.
4) Non vi sarà mai pace sulle frontiere tra l’isola socialista e lo Stato borghese. Esse saranno sempre un fronte, sia pure in forma latente.

[…] La guerra civile mondiale non deve coglierci completamente di sorpresa. La classe operaia deve essere addestrata a combatterla […] Mi sembra che la situazione non permetta indugi2.


  1. Lettera a Zinov’ev, compresa in M.N.Tukhachevsky, Millenovecentoventi, pag. 95  

  2. Lettera, op. cit., pp. 96-97  

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Tроцкий la serie https://www.carmillaonline.com/2019/01/03/t%d1%80%d0%be%d1%86%d0%ba%d0%b8%d0%b9-la-serie/ Wed, 02 Jan 2019 23:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50459 di Maurone Baldrati

L’anno scorso, in occasione della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia ha prodotto una miniserie in otto puntate su Trotsky. Pare che vi sia stato un input personale di Putin, di indagare e rappresentare questa fase storica con “coraggio”. Con coraggio? Dipende dai punti di vista. Uno storico di Mosca, Ilya Budraytskis, la pensa così: “Questa interpretazione (putiniana ndr) si riassume nella criminalizzazione della rivoluzione stessa come fenomeno politico. La rivoluzione si presenta come un risultato della combinazione di odiose ambizioni umane, la brama di potere, l’egoismo, la lussuria, e le macchinazioni di [...]]]> di Maurone Baldrati

L’anno scorso, in occasione della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia ha prodotto una miniserie in otto puntate su Trotsky. Pare che vi sia stato un input personale di Putin, di indagare e rappresentare questa fase storica con “coraggio”. Con coraggio? Dipende dai punti di vista. Uno storico di Mosca, Ilya Budraytskis, la pensa così: “Questa interpretazione (putiniana ndr) si riassume nella criminalizzazione della rivoluzione stessa come fenomeno politico. La rivoluzione si presenta come un risultato della combinazione di odiose ambizioni umane, la brama di potere, l’egoismo, la lussuria, e le macchinazioni di nemici stranieri, che supportano tali ambizioni, e le utilizzano per la distruzione dello Stato russo”.

In effetti la vicenda, avventurosa, psicologica, onirica, drammatica e spettacolare, stupisce e inquieta: Lenin, per esempio, è rappresentato come un piccolo uomo vanesio, avido solo di potere e di successo. Avversario storico di Trotsky fin dal II congresso del POSDR (Partito Operaio Social Democratico Russo) del 1903, si allea con lui perché è costretto, ma arriva a ricattarlo e a minacciarlo perché deve essere chiaro che è lui, e solo lui il leader. E la rivoluzione è soprattutto opera dei leader che, teorizza lo stesso Trotsky, devono assurgere al ruolo supremo, il ruolo di semidei. Solo così le masse li seguiranno.

La rivoluzione del ’17, preparata da una lunga opera di propaganda, di scioperi e insurrezioni che sfoceranno – dopo il massacro del gennaio 1905 a Pietroburgo, quando la Guardia Regia aprì il fuoco su una folla di manifestanti disarmati – in un primo tentativo rivoluzionario nello stesso anno, in questa serie ha al centro soprattutto un aspetto: un cinismo totalizzante, un obiettivo da raggiungere a ogni costo, col calcolo, col tradimento se è necessario, con l’esecuzione dei disertori, che sono “dettagli”, effetti collaterali. Addirittura con finanziamenti di paesi nemici, paesi capitalisti che hanno come unico obiettivo la destabilizzazione della Russia attraverso la rivoluzione. Infatti dietro le quinte complottano personaggi ambigui, un trafficone che agisce per conto di uomini d’affari tedeschi e si muove, vestito come un damerino della Belle Epoque, tra i socialisti rivoluzionari e gli operai, suggerendo, manovrando, costruendo l’immagine dei leader come un moderno influencer politico.

D’altra parte la situazione era drammatica. C’era la guerra, il paese dei Soviet era allo stremo, inoltre le potenze occidentali avevano tentato un’invasione e infiltravano continuamente agenti provocatori e spie. Tutti aspetti che non entrano nella serie, che si concentra soprattutto sugli intrighi, i personaggi, e due aspetti che sembrano irrinunciabili nelle serie moderne: sesso e violenza. Per dire, Trotsky ci dà dentro come un riccio, con la moglie Natalja, con l’amante quando è il capo (e il fondatore) dell’Armata Rossa, e addirittura in Messico nel 1940, durante l’esilio, con Frida Kahlo, anche se è curvo e malato. La violenza, poi, è praticamente obbligatoria: siamo o non siamo nel cuore della dittatura comunista? Quando il treno della rivoluzione, nel 1917, in piena guerra civile, finisce il carbone e si ferma in una sterminata tundra innevata, non resta che prelevare le croci di legno di un cimitero. Poi, quando arriva un drappello di povera gente imbacuccata per fare visita ai propri defunti, e si infuria per quell’oltraggio, per toglierseli di torno i militari non trovano di meglio che sterminarli tutti. E Trotsky, alla domanda dello spietato commissario del popolo che ha dato l’ordine: “Che facciamo di loro?” indicando i cadaveri degli uomini, delle donne e dei bambini, li guarda con la sua faccia di pietra e dice: “Andiamo”.

Il treno della rivoluzione è un piccolo capolavoro della serie, che cura molto i dettagli, gli arredi, gli scenari. Enorme, nero, potente e minaccioso, con le bandiere e la stella rossa incastonata sul frontale, sfreccia per l’Unione Sovietica col suo pennacchio di fumo nero. A bordo c’è lui con la sua guardia personale, tutti fighettoni vestiti con impeccabili completi di cuoio nero, che oltre a ricordare il comandante del Partigiano Johnny evocano i guerrieri punk di un mondo postapocalittico.

Proprio questi aspetti per così dire epici, che richiamano una certa, tragica grandeur, fanno di Tроцкий un prodotto affascinante, una grande opera pop, nonostante le innumerevoli inesattezze e addirittura le falsificazioni. Come quando Trotsky va incontro al suo assassino, un giornalista, e lo provoca fino a farsi uccidere perché ormai ha capito che è tutto finito, e i morti che ha sulla coscienza lo perseguitano. In realtà sappiamo che l’assassino era un sicario di Stalin, Ramon Mercader, fratello di Maria, seconda moglie di Vittorio de Sica e quindi zio di Christian, che aveva pianificato con cura l’omicidio, portando con sé una piccozza col manico segato, mentre qui la piccozza (col manico intero) è appesa al muro della casa.

Il personaggio è complesso, ossessionato dalla propria missione, liberare il mondo dalla schiavitù capitalista, per la quale è disposto a sacrificare la propria vita e quella dei suoi cari. I suoi comizi, i suoi discorsi, in piedi su carretti e tavoli improvvisati, sono alti, forti e senza una sbavatura. Chi non conosce la storia non può che subire il fascino di questa epopea e dei suoi eroi, un coacervo di positività e negatività, eroismo e meschinità, guerra, tragedia e avventura; chi invece l’ha studiata si stupirà per le soluzioni adottate, forse si arrabbierà, ma una volta iniziata non la mollerà e sarà disposto a passare una notte in bianco pur di vedere le otto puntate di seguito. Non si fermerà, come non si è fermata la rivoluzione.

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Proletkult: il comunismo viene dallo spazio https://www.carmillaonline.com/2018/11/02/proletkult-il-comunismo-viene-dallo-spazio/ Thu, 01 Nov 2018 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49462 di Luca Cangianti

Denni è una giovane dai capelli biondissimi, però sembra un ragazzo e dice di venire da un pianeta comunista. Anche lì hanno avuto re, feudatari e capitalisti. Ma sono cose di un passato remoto. Adesso non c’è più proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere della scienza e della tecnica ha ridotto il lavoro a un’attività residuale di tipo organizzativo che viene svolta senza che si sviluppino processi d’identificazione. Su Nacun vale ciò che Karl Marx scrisse nell’Ideologia tedesca: “nella società comunista, in cui ciascuno [...]]]> di Luca Cangianti

Denni è una giovane dai capelli biondissimi, però sembra un ragazzo e dice di venire da un pianeta comunista. Anche lì hanno avuto re, feudatari e capitalisti. Ma sono cose di un passato remoto. Adesso non c’è più proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere della scienza e della tecnica ha ridotto il lavoro a un’attività residuale di tipo organizzativo che viene svolta senza che si sviluppino processi d’identificazione. Su Nacun vale ciò che Karl Marx scrisse nell’Ideologia tedesca: “nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.” Tale somiglianza con le prefigurazioni marxiane, tuttavia, vale solo nella forma, perché su Nacun gli animali non sono trattati come cose, né utilizzati come nutrimento. Il comunismo nacuniano inoltre non è una società irenica, che “non esiste un mondo dove tutti sono gentili” e “l’unica società pacificata è quella morta”. Su quel pianeta ad esempio per risolvere il problema della scarsità di risorse alcuni vogliono invadere la terra che è in uno stadio di sviluppo sociale ancora primitivo ai loro occhi. Altri sono “interplanetaristi” e non sono d’accordo nel trattare gli umani come questi trattano i “loro” conigli.

Bogdanov (a destra) gioca a scacchi con Lenin sotto lo sguardo di Gorkij (col cappello di traverso) e Anatolij Lunačarskij (seduto a fianco di Lenin). Villa Monacone, Capri, 1908.

In Proletkult, il nuovo romanzo di Wu Ming, Denni, come i protagonisti delle Lettere persiane di Montesquieu, ci aiuta a vedere il mondo con lo sguardo candidamente critico dell’alieno. L’originalità dell’operazione sta tuttavia nell’ambientare il viaggio della comunista venuta dallo spazio nell’Unione sovietica del 1927. È l’anno in cui si festeggia il decennale della rivoluzione, Lenin è morto e il suo corpo è stato imbalsamato. Molti rivoluzionari sono passati dalle barricate ai faldoni dei ministeri e sorseggiano whisky di pregio; quelli più intransigenti sono stati messi in condizione di non nuocere e il potere è finito nelle mani di quel ceto impiegatizio perfettamente descritto nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Queste mezze maniche piccole piccole hanno ottenuto distinzione sociale e privilegi; adesso vogliono goderseli in pace. Stalin è il loro garante, mentre gli oppositori, “Trockij, Kamenev e Zinov’ev denunciano lo strapotere del partito sui soviet, ma sono stati loro a costruire il partito. Hanno ottenuto esattamente ciò per cui hanno lavorato: una gerarchia di militanti di professione, un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario e conservatore. Il fatto che oggi cadano vittime della loro creatura è l’ironia della Storia.” A parlare in questo modo è la trasposizione letteraria di un personaggio realmente esistito: Aleksandr Bogdanov, direttore del primo istituto russo specializzato nella trasfusione del sangue. Si tratta di un uomo solo che sente su di sé il peso del fallimento di un’epoca, ma anche la persona che in gioventù fu bolscevico della prima ora, rapinatore di convogli postali, medico di trincea, filosofo, critico di sinistra del leninismo, scrittore di fantascienza e fondatore dell’Organizzazione culturale-educativa proletaria (in breve: Proletkult). Questo movimento, con il suo mezzo milione di iscritti superava in numero quelli del partito comunista russo, incoraggiava i lavoratori a scrivere opere teatrali, romanzi e poesie, prefiggendosi di superare la mentalità borghese. Secondo Bogdanov, infatti, “se gli operai conquistano le fabbriche, ma non hanno una nuova cultura per organizzarle, finiranno per dipendere dagli ingegneri e dai tecnici che già lavoravano per i vecchi proprietari, oppure ne imiteranno l’opera, con risultati peggiori, e così la pretesa rivoluzione non produrrà un reale cambiamento, se non in peggio.”
In Proletkult Wu Ming usa frasi brevi e un linguaggio cinematografico molto diverso dal fanta-argot dell’Armata dei sonnambuli, ma l’orizzonte euristico è lo stesso: la rivoluzione e il suo opposto correlato, la reazione. “Ne è valsa la pena?” ci si interrogava con rabbia nell’opera del 2014; “il mondo poi l’abbiamo cambiato davvero e in meglio”? – ci si continua a chiedere malinconicamente nel romanzo appena dato alle stampe – “il sacrificio è valso la pena”?

Denni si dice figlia di una nacuniana e di un terrestre che non ha mai conosciuto. È alla ricerca del padre perché lui sarebbe stato su Nacun e potrebbe dire a coloro che vogliono invadere la terra se gli abitanti di questo pianeta abbiano abbandonato l’arretratezza dei vecchi rapporti sociali, se insomma grazie alla rivoluzione abbiano intrapreso “la via giusta”. Forse così l’invasione e le sue orribili conseguenze potrebbero essere sventate, o forse è solo il frutto dell’immaginazione di una ragazza traumatizzata. L’incontro con Denni obbliga Bogdanov a fare i conti con la sua storia e con i fantasmi di una rivoluzione che ha generato una nuova forma d’oppressione. In questo viaggio avvincente, sulle tracce di un uomo che non si trova e di ricordi struggenti, il romanzo ripercorre le vicende teoriche e umane di coloro che osarono assaltare il cielo. Terminata la lettura alcuni alzeranno lo sguardo alle stelle con terrore, altri con speranza.

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Comunisti contro Stalin https://www.carmillaonline.com/2017/04/12/comunisti-contro-stalin/ Tue, 11 Apr 2017 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37569 di Luca Cangianti

Copertina_libro_BrouePierre Brouè, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, AC Editoriale, 2016, pp. 398, € 15,00.

Cercarono fino alla fine di rompere il silenzio, di denunciare l’atrocità che si stava per compiere. In viaggio verso i campi di concentramento praticarono lo sciopero della fame, srotolarono striscioni e cercarono di coinvolgere la popolazione delle città che attraversavano. Sui battelli che li deportavano verso regioni remote, si riunirono in assemblea e firmarono risoluzioni di protesta da inviare al comitato centrale del partito e alla Terza internazionale. In [...]]]> di Luca Cangianti

Copertina_libro_BrouePierre Brouè, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, AC Editoriale, 2016, pp. 398, € 15,00.

Cercarono fino alla fine di rompere il silenzio, di denunciare l’atrocità che si stava per compiere. In viaggio verso i campi di concentramento praticarono lo sciopero della fame, srotolarono striscioni e cercarono di coinvolgere la popolazione delle città che attraversavano. Sui battelli che li deportavano verso regioni remote, si riunirono in assemblea e firmarono risoluzioni di protesta da inviare al comitato centrale del partito e alla Terza internazionale. In una bottiglia inserirono un messaggio e la lanciarono nelle acque dello stretto di La Pérouse. Sulla tundra ghiacciata, mentre marciavano a gruppi di cento, sapendo di andare incontro alla fucilazione, cantavano L’internazionale. I giudici, la polizia segreta e il partito li avevano schedati con la sigla Krtd, cioè “controrivoluzionari terroristi trotskisti”, ma loro si definivano “bolscevico-leninisti” per rivendicare il comunismo dei primi anni della rivoluzione, di contro alla degenerazione verificatasi con l’ascesa al potere di Iosif Stalin.
Finalmente è stato pubblicato in italiano Comunisti contro Stalin di Pierre Brouè, lo storico e attivista francese scomparso nel 2005, famoso per le sue ricerche sul movimento comunista internazionale. Il libro, uscito in edizione originale nel 2003, è basato sul materiale reso disponibile con l’apertura degli archivi sovietici. Scopo dichiarato dell’opera, costruita intorno alle biografie di circa 700 oppositori, è sottrarre all’oblio la vita e i nomi delle migliaia di comunisti sovietici massacrati negli anni trenta dello scorso secolo.
L’epiteto di “trotskista” finì per essere rivolto contro chiunque criticasse l’involuzione autoritaria che aveva distrutto la democrazia dei soviet, vietato qualsiasi forma di libertà politica e consegnato il potere a una casta di grigi impiegati di partito, interessata alla difesa del proprio status, dei propri magazzini speciali e di tutti gli altri privilegi ai quali non aveva accesso la maggior parte della popolazione lavoratrice, affamata e sfiancata dai ritmi della produzione taylorista. Tra i comunisti antistalinisti sovietici non troviamo quindi solo i veri e propri seguaci di Lev Trotsky, raggruppati nell’Opposizione di sinistra, ma anche appartenenti ad altre correnti quali ad esempio l’Opposizione operaia, i decisti e i neopopulisti.
Secondo le stime dello stesso Stalin gli oppositsionneri dovevano essere circa 30 mila, ma grazie a fonti ufficiali di polizia Brouè riesce anche a tracciare alcune linee sociodemografiche: il 44% erano operai d’officina e il 25% ex operai ascesi a incarichi di responsabilità. L’85%, inoltre, aveva meno di 35 anni e le donne erano numerose. Quanto ai dirigenti delle varie correnti dell’opposizione, si trattava prevalentemente di rivoluzionari della prima ora: “Non sono uomini dell’apparato, ma militanti di massa. Hanno conosciuto la clandestinità e la prigione, ma anche l’emigrazione e i vasti orizzonti del movimento internazionale. Meno funzionari che trascinatori d’uomini, più tribuni o agitatori che amministratori, più scrittori che estensori di circolari… Credono ancora alla rivoluzione mondiale, all’avvenire socialista dell’umanità intera. Credono nella forza delle idee, nella fecondità del loro confronto, nella convinzione che nasce da questo combattimento. Hanno fiducia nel loro partito, che vogliono riconquistare e togliere dalle grinfie del suo apparato, per riportarlo alla purezza dei suoi anni rivoluzionari.” Gli oppositsionneri furono progressivamente allontanati dalla vita politica negli anni venti, poi arrestati, torturati, messi gli uni contro gli altri e infine sterminati nella quasi totalità. La storia dei comunisti antistalinisti sovietici si conclude infatti con la sepoltura di migliaia di cadaveri nelle fosse comuni di Magadan e a Vorkuta.

Dopo il crollo dell’Unione sovietica questi eventi potrebbero sembrare d’interesse unicamente documentario o peggio costituire l’ennesimo sostegno alla tesi secondo la quale ogni aspirazione rivoluzionaria è condannata a trasformarsi in gulag. Trotsky nella Rivoluzione tradita cercò di spiegare l’involuzione del potere sovietico con il sottosviluppo e l’isolamento dell’Urss, con il fallimento della rivoluzione mondiale e la stanchezza delle masse sovietiche provate dalla guerra mondiale, prima, e civile, poi. Rosa Luxemburg, invece, intravide i germi della degenerazione già nei primi anni successivi alla rivoluzione quando, per contrastare l’aggressione delle potenze imperialiste, il partito bolscevico accentrò nelle proprie mani tutto il potere statuale. Dopo quegli eventi, la democrazia rivoluzionaria sovietica non fu più riattivata e chi, come i marinai di Kronstadt nel 1921, iniziò a reclamarla, fu trattato da controrivoluzionario e represso nel sangue.
Il partito di Stalin non può essere semplicisticamente ricondotto a quello di Lenin, sia per quello che quest’ultimo andò elaborando nei suoi ultimi anni di vita riguardo allo sviluppo della burocrazia, sia perché tra il partito del 1917 e quello degli anni ’30 c’è la cancellazione politica e fisica di una generazione di rivoluzionari. E tuttavia sarebbe utile interrogarsi se già nei primi anni successivi alla Rivoluzione d’ottobre alcune restrizioni della libertà possano aver avuto un effetto mutageno sulla struttura delle istituzioni sovietiche. Coloro che giustificarono i metodi autoritari si appellarono all’eccezionalità del momento che avrebbe reso necessario l’accentramento incondizionato del potere nelle mani di una élite e la persecuzione del dissenso, altrimenti avrebbe trionfato la reazione. Il paradosso è che la sospensione della democrazia dei soviet ha portato esattamente alla morte delle istituzioni rivoluzionarie e, dopo una lunga parabola di accumulazione originaria durata settant’anni, ha finito per reintrodurre il capitalismo in tutti i suoi aspetti, consegnando la proprietà dei mezzi di produzione proprio a quella casta di burocrati che ne curava già la gestione ai tempi dell’Urss.

La recente pubblicazione in italiano di Comunisti contro Stalin è un buon modo di celebrare la rivoluzione del 1917 nell’anno del suo centesimo anniversario: da un lato ci restituisce il nome e la storia di chi denunciò la degenerazione del potere sovietico in nome della stessa rivoluzione, dall’altro fornisce nuovi dettagli su un processo che, lungi dall’essere un unicum storico, riguarda tutte le esperienze – non solo passate – che imboccano la via dell’irrigidimento statale piuttosto che quella dell’espansione e dell’approfondimento rivoluzionari. Una formazione economico-sociale postcapitalista che non riesca a diventare egemone instaurando una gestione dal basso della vita politica ed economica è destinata a subire l’accerchiamento del perdurante capitalismo, a produrre nuove caste di gestori del potere, e infine a degenerare.

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