Troia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Troia brucia dopo una guerra senza fine https://www.carmillaonline.com/2023/03/30/troia-brucia-dopo-una-guerra-senza-fine/ Thu, 30 Mar 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76699 di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della guerra, quando non c’è più rispetto né degli dei né degli uomini: violenza cieca perpetrata ai danni di donne e bambini inermi. La persis, cioè la caduta e la presa di una città, nella fattispecie Troia, non è fatta di gesta epiche e valorose, di scontri in battaglia, di duelli ma di soprusi e violenze esercitate nei confronti di esseri umani indifesi. Come scrive Camerotto, “il racconto dell’Ilioupersis è testimonianza di ciò che è la guerra, non delle glorie, non delle prodezze memorabili degli eroi. Sono glorie maledette, lo sappiamo bene. Allora raccontare la persis è la disperazione che sta nei grandi occhi delle donne, delle Troiane, nei loro gesti, nelle emozioni tremende, nelle grida e nei pianti delle loro voci”. È un po’ come la guerra ‘al grado zero’: contiene tutti i suoi orrori, i genocidi, i massacri della popolazione inerme. E se il racconto della persis di una città è un motivo diffuso presso diverse culture antiche del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, le violenze perpetrate dai soldati nei confronti di una popolazione ‘nemica’ assediata e vinta riecheggiano in ogni tempo, fino alla modernità e alla contemporaneità. Quelle stesse violenze, oggi, non sono più raccontate dai dipinti su un vaso ma dai media che, quasi in tempo reale e in modo brutale, ci propongono immagini di genocidi e massacri, dal Ruanda all’Ucraina.

Alberto Camerotto riesce a spiegare i temi portanti del racconto della caduta di Troia, un autonomo blocco narrativo epico, in modo semplice ma non banale. Il suo saggio è strutturato come una grande narrazione in cui – a fianco di frequenti citazioni dagli autori analizzati (soprattutto Omero, Virgilio, Petronio, Quinto Smirneo e Trifiodoro), in greco e in latino, seguite dalla traduzione, e di un apparato di rigorose note di carattere filologico che dispiegano un’ampia bibliografia sull’argomento – incontriamo uno stile diretto e, per l’appunto, narrativo, caratterizzato da un periodare breve, con frequente punteggiatura, capace di creare nella mente del lettore immagini forti ed efficaci che lo accompagnano nel susseguirsi del racconto. L’analisi dello studioso si incentra quindi su “quattro motivi che fanno da punto di riferimento o da nuclei tematici della narrazione, attorno ai quali si aggregano gli altri motivi: la guerra infinita, l’inganno del cavallo di legno, la festa della liberazione, la persis della città”.

Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.

Nel racconto della caduta di Troia c’è un oggetto che spicca sopra tutti gli altri: è il gigantesco cavallo di legno che serve per la conquista e che costituisce il secondo nucleo tematico analizzato dall’autore. Il cavallo è altissimo, grande come un monte; il suo ideatore è Odisseo, mentre il costruttore è Epeo. Il cavallo rappresenta il trionfo del dolos, dell’inganno, l’unico modo per concludere una guerra di dieci anni. Esso, nei racconti di Virgilio e di Trifiodoro, assume anche connotazioni mostruose perché produce, appunto, un ‘parto’ mostruoso, i guerrieri che escono dal suo ventre: “c’è qualcosa di inquietante, è l’immagine spaventosa della vita che genera la guerra e la morte. Sono le contaminazioni che annunziano la persis”.

D’altra parte, contaminazioni inquietanti sono presenti anche nella descrizione della festa della città. I Troiani, infatti, introducono il cavallo in città convinti che si tratti di un dono dei Greci in occasione della fine della guerra e preparano una grande festa per accoglierlo. Gli avvertimenti di Laocoonte e Cassandra non vengono ascoltati e gli strepiti della festa si diffondono dappertutto travolgendo agni freno, ogni allarme, ogni resistenza. Nel momento in cui i guerrieri achei escono dal ventre del cavallo e cominciano ad uccidere i cittadini inermi, i cibi, il vino, le armi e il sangue, le grida di festa e quelle di dolore si mescolano in una inquietante antitesi: “Si muore come i maiali sacrificati nel banchetto infinito di un ricco signore, nella festa più grande” e “il vino rimasto nelle coppe si confonde col sangue”. La categoria della guerra si mescola con quella della festa: gli stessi oggetti (le tavole, i tizzoni dei bracieri, gli spiedi delle carni) che prima erano serviti per banchettare si trasformano in armi. Nella festa fa irruzione la morte: sembra di trovarsi di fronte al “vicinato” festa-carnevale-morte che Michail Bachtin intravede nel racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), nel momento in cui la stessa “Morte Rossa”, la terribile pestilenza, sterminando tutti i partecipanti di una festa in maschera, riesce a penetrare nel castello dove un gruppo di giovani nobili si era rifugiato illudendosi di sfuggire all’epidemia.

L’ultimo motivo su cui si concentra l’attenzione dello studioso è il momento della caduta vera e propria di Troia che, è vero, “è solo una notte. Ma è qualcosa di più terrificante di dieci anni di guerra. Sono necessarie altre categorie per interpretare ciò che avviene. È un altro racconto”. È un momento in cui “ogni figura diventa un simbolo dell’immaginario della persis. Si ripete sempre, a ogni nuovo racconto”. Ogni individuo diventa una metonimia della sanguinosa caduta della città: ad esempio, Deifobo sta per i difensori, Priamo per la città e per i vecchi, Astianatte per la sorte dei bambini, Cassandra per il destino delle donne. Sono nomi famosi ai quali il nostro immaginario può associare i genocidi di esseri indifesi di ogni tempo: Astianatte, il figlio di Ettore scagliato giù dalle mura di Troia da Neottolemo su consiglio di Odisseo (il quale, adesso, appare come un efferato criminale di guerra e non come l’eroe errante perseguitato dagli dei consegnatoci dall’Odissea), diventa l’emblema dei bambini vittime delle guerre; Cassandra, la figlia di Priamo, profetessa condannata a non essere creduta, delle donne vittime di stupri e violenze. Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.

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La Bellissima https://www.carmillaonline.com/2019/09/03/la-bellissima/ Tue, 03 Sep 2019 21:50:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54530 di Franco Pezzini

[In ottobre riprenderanno a Torino i corsi liberi, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: e tra l’altro la seconda stagione di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti. Si propone qui uno stralcio dal libro III: in preparazione del duello tra Paride e Menelao, gli araldi delle due parti corrono a sbrigare i compiti rituali.]

Ma a muoversi non sono solo araldi umani: Iri, la messaggera divina dea dell’arcobaleno, assume l’aspetto [...]]]> di Franco Pezzini

[In ottobre riprenderanno a Torino i corsi liberi, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: e tra l’altro la seconda stagione di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti. Si propone qui uno stralcio dal libro III: in preparazione del duello tra Paride e Menelao, gli araldi delle due parti corrono a sbrigare i compiti rituali.]

Ma a muoversi non sono solo araldi umani: Iri, la messaggera divina dea dell’arcobaleno, assume l’aspetto di Laodice, figlia di Priamo (qui e in VI 252 detta la più bella, mentre in XIII 365 il titolo sarà riconosciuto a Cassandra) e moglie di Elicàone figlio di Antenore, e si presenta a Elena «braccio bianco». In realtà non è chiaro il perché del suo arrivo, di solito è esplicitamente mandata da Zeus o altra divinità: il prosieguo fa escludere che a inviarla sia stata Afrodite (che del resto non pare appoggiarsi ai suoi servizi). Ci si può domandare se a inviarla – nella versione più antica – non sia stato Zeus, immaginando uno stralcio o slittamento di testi (per esempio la scena all’Olimpo piazzata ora all’inizio del libro successivo); la difficoltà è che, come abbiamo visto, il tenore formulare dei messaggi viene ripetuto più volte – mittente, araldo, destinatario – e qui non si ha nulla del genere. D’altra parte gli dei sono (anche, non solo) voce dei viluppi profondi e misteriosi dell’anima. E per aprirci idealmente le porte verso l’inconoscibile, inarrivabile interiorità di quell’Elena che troppo spesso verrà ridotta agli sguardi altrui (desideranti, abbacinati, storditi), mentre noi alla sua prima apparizione iniziamo a conoscerla dall’interno, ecco che qui si muove nientemeno che la messaggera degli dei. Il messaggio, potremmo dire, viene portato dalle profondità della divina Elena.

Certo, Laodice può essere «bellissima tra le figlie di Priamo», ma di fronte a sua cognata non c’è storia. E appare qui per la prima volta, virtualmente nella luce dell’arcobaleno che segna la fine di un temporale in natura e forse nell’anima, una figura che per migliaia d’anni gli uomini inseguiranno, circonfusa di numinosità e d’ambiguità, bellissima e pericolosa, da tutti desiderata e magari raggiunta ma in realtà inafferrabile nel suo profondo – anche perché forse incomprensibile a un certo tipo di sguardo e di quest.

Ancora una volta dobbiamo appoggiarci all’immaginazione, il Cieco non è interessato a descrivere l’ambiente – sappiamo solo che siamo in un interno, in una sala evocata asciuttamente come da una didascalia teatrale – e sono gli occhi degli ascoltatori a fare tutto. Nulla ci viene detto sulla struttura o gli arredi, anche se possiamo immaginare una stanza ariosa con le pareti dipinte (scene di donne coi vasi, gigli e scimmie azzurre, o invece scene marine con delfini), un po’ come a Creta da cui i Troiani avrebbero tratto elementi della propria cultura. Una sala dove Elena, come una dea del destino, sta tessendo

 

[…] una tela grande,

doppia, di porpora [altri leggono scintillante], e ricamava le molte prove

che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni di bronzo

subivan per lei, sotto la forza d’Ares.

 

Attenzione, quest’ultima formulazione con il riflessivo mostra che si tratta di una tormentosa riflessione di Elena. Le figure sotto le sue dita sembrano rivelarsi quelle delle vite che stanno precipitando nel suo cono d’ombra, la tela di un mistero che è tale anzitutto per lei. Ma insieme quella tela è un canto, è la stessa Iliade: se a raccontare l’Odissea, si ipotizzerà, potrebbe essere una donna, questa scena ci autorizza a pensare che ciò valga già per l’Iliade. Idealmente la Dea innominata – la Musa, ma in realtà non viene detto – invocata all’inizio del poema canta per voce di Elena, figura numinosa di incerto statuto; si potrebbe quasi dire che quella Dea è la stessa Elena. E il canto vede il passaggio dalle schiere in attesa del duello a quelle tessute come in un effetto di regia: non occorre una descrizione della sala, perché il focus è l’interiorità di Elena.

E ora la finta Laodice la invita («cara sposa», númphē, giovane donna sposata o da sposare) ad assistere ad azioni degne d’ammirazione di Troiani e Achei: prima si combattevano ma «ora stanno seduti in silenzio – la guerra è cessata – / appoggiati agli scudi, e l’aste lunghe sono infitte vicino». Però proprio con le lance si misureranno Alessandro e Menelao, lottando per lei, «e tu del vincitore sarai la cara sposa» (che bello, grazie): quindi le suscita in cuore una nostalgia del primo marito, dei genitori (Leda e il padre solo putativo Tindaro, visto che Elena è figlia di Zeus come più avanti si specificherà), della città che ha lasciato…

Forse è per questo che entra in scena una dea, esprimendo un teatro interiore che però non si esaurisce nella mera lettura poetica di sentimenti del momento da parte di chi non avrebbe migliori categorie psicologiche. C’è un fiato misterioso in certi passaggi sulla scena della nostra vita: non sappiamo perché proprio quella certa persona ci abbia detto in quel momento una frase che poi ci incalzerà nel tempo; non sappiamo come spiegare perché quel ricordo ci resti infisso e perché proprio in quel momento – e non in altri – sorga la nostalgia con conseguenze imprevedibili. Ci sono attimi in cui una voce tradisce qualche eco numinosa: al mistero dei sentimenti si abbina la risonanza di una nostra storia, di un nostro destino.

Così Elena, «Subito, di bianchi veli coprendosi, / mosse dalla stanza, versando una tenera lacrima»: e si lancia fuori, seguita dalle ancelle Climene occhi-grandi ed Etra figlia di Pitteo (che dovrebbe essere – i mitologi ne discutono – la madre di Teseo, rapitore di Elena bambina, deputata a sua custode e poi catturata a sua volta dai Dioscuri quando avevano recuperato la sorella). Eccole fuori dal palazzo e in fretta raggiungono le Porte Scee, letteralmente quelle “di sinistra”, citate varie volte nel poema e che si aprono direttamente verso lo schieramento acheo. In realtà la Troia dell’archeologia ha più porte, ma l’Iliade cita per esempio anche le Porte Dardanie, sulla cui collocazione si può discutere per la diversa direzione di Dardania secondo i mitografi. Tradizionalmente per le Scee si pensa a porte della cittadella fortificata, anche se in realtà la scoperta piuttosto recente di un’enorme città bassa (tanto estesa da far pensare alla grande città dell’epos, laddove la Troia inizialmente scavata sarebbe solo la rocca detta Pergamo) farebbe meglio collocare le Scee nella cinta esterna.

Ovviamente non si prende qui in considerazione – qualcosa si dirà in prosieguo – il dibattito su una qualche storicità dell’Iliade e dell’epos troiano come trasmessoci dal mondo greco, che vede affrontarsi due posizioni accademiche contrapposte più una quantità di intermedie. Lasciando alla ricerca quello che è il suo ambito, possiamo limitarci a considerare che una serie di emersioni archeologiche confermano elementi-chiave dell’epos: su altri è ovvio immaginare il libero lavoro dei poeti. Ma visto che la città scavata da Heinrich Schliemann (1822-1890), la Troia/Ilio evocata dal Cieco e la Wilusa dei documenti ittiti hanno buone probabilità di identificarsi, è legittimo almeno in chiave di ipotesi provare a far reagire assieme i dati.

Cos’hanno dunque visto, attraversando la città, Elena (velata, per non farsi riconoscere) e le ancelle? Non possiamo saperlo, non ci è narrato, Troia resta in gran parte perduta, invisibile. Alla luce di quanto detto, possiamo solo cercare d’immaginare. Saranno uscite dalla rocca – scopriremo che il palazzotto dove Elena vive con Paride sorge accanto alla reggia nella città alta, mentre per esempio Virgilio immaginerà la casa di Anchise e di Enea un po’ periferica; ma forse non hanno dovuto percorrere un lungo tragitto perché le Porte Scee possono trovarsi non dal lato della massima estensione della città bassa, ma di fronte a una strozzatura tra le cinte murarie sul lato sinistro, quasi a ridosso della collina della Pergamo. Comunque le case incontrate sarebbero edifici a uno o due piani, con tetti piatti a terrazza, qui e là cortili con animali e alberi. Dopo dieci anni di guerra e per la necessità di ospitare in città gli alleati è possibile che le case abbiano conosciuto forme di rioccupazione; e d’altra parte ci saranno le baracche dei contingenti di altri regni, forse a ridosso delle mura (i principi sono evidentemente ospiti nella città alta o comunque dei maggiorenti troiani). È dunque possibile che Elena attraversi una città lunare, dove la gente cerca di portare avanti la propria vita e svolgere le attività quotidiane nel sogno di una normalità ma come con una sospensione di fiato, in un clima rarefatto d’assedio dove si cerca di non pensare troppo e non ci si riesce.

Comunque eccola arrivare alle Porte – anzi, come si chiarirà dopo, sulla cima della torre che le sovrasta da un lato: e lì sono riuniti gli Anziani del Consiglio di Priamo. Di questi nomi la tradizione ricorderà qualcosa, ma non è facile capire quanto appartenga a elaborazioni tardive. C’è Pantoo, di cui più avanti si ricorderanno i figli, e che fonti postomeriche diranno sacerdote di Apollo, quindi una delle massime cariche della città. A detta di Servio sarebbe stato greco, sedotto in gioventù a Delfi – dove aveva un ministero sacro – e portato a Troia da un nipote di Priamo: il tipo era venuto a consultare ufficialmente la Pizia sull’opportunità di ricostruire sulle stesse fondamenta (hai visto mai che siano maledette) la città distrutta da Eracle & soci, e si era invaghito della bellezza del giovane al punto da dimenticare la missione. Per rimediare all’offesa recata all’oracolo, Priamo avrebbe nominato Pantoo sacerdote di Apollo a Troia. Un modo come un altro di far carriera.

C’è poi Timete, un personaggio complesso, legato a stretto filo alla rovina della città: ancora una volta però dobbiamo appoggiarci a fonti extra-iliadiche. Fratello o piuttosto cognato di Priamo per averne sposato la sorella Cilla, avrebbe avuto da lei un bimbo, Munippo, nello stesso giorno in cui al re e alla regina Ecuba nasceva Paride. Un sogno terribile di Ecuba, interpretato dall’indovino Esaco come relativo al bimbo che avrebbe portato la rovina di Troia, induceva a identificare e uccidere con la madre il piccolo nato in quel giorno: nel dubbio, a eliminare tutti i casi sospetti. Priamo avrebbe così fatto sopprimere moglie e figlio di Timete (poi tumulati nel santuario di Troo), ma non i propri e neppure Teano sorella di Ecuba e il suo neonato, Mimante. Ovviamente il figlio fatale era proprio quello del re, Paride… Dalle due vittime innocenti e dalle ombre che ne derivano anche su Priamo, per alcuni mitologi (non il Cieco, che tace sulla vicenda), verrebbe l’odio di Timete poi sfociato in un tradimento: e Virgilio (che per voce di Enea non prende posizione e si limita a citare il dubbio) mostrerà Timete premere perché il cavallo fatale venga portato in città.

Continuando l’elenco, troviamo Lampo, Clitio e Icetaone «rampollo d’Ares». Questi sono – verrà detto più avanti (XX, 237-238) figli di Laomedonte e fratelli di Priamo, padri di guerrieri che compariranno nel poema: a contraddire la versione secondo cui Eracle avrebbe sterminato anche tutti i figli maschi di Laomedonte meno Priamo (a meno che si intendesse quelli trovati in città al momento della sua presa). Un ulteriore fratello sarebbe quel Titono amato da Eos (l’aurora) – che avrebbe ottenuto per lui l’immortalità ma non l’eterna giovinezza – e padre del Memnone che parteciperà alla guerra di Troia e verrà ucciso da Achille.

Gli ultimi due anziani menzionati sono Ucalegonte e Antenore. Quest’ultimo merita un discorso a parte in altra sede, comunque è il diplomatico che per aver cercato di evitare la guerra verrà accusato di tradimento (e al codazzo di accusatori si aggiungerà anche Dante, tant’è); mentre l’enigmatico Ucalegonte nell’Iliade è citato solo qui, non ne risultano figli e non fa parte dei familiari diretti di Priamo. Virgilio mostra il rogo del suo palazzo la notte di Troia (di qui il passaggio nella lingua inglese come paradigma del vicino cui brucia la casa); ma una suggestione interessante sta nel nome, la cui etimologia tradizionale greca suona un po’ strana (“quello che non si preoccupa”) ed è meglio spiegata dall’onomastica anatolica. Precisamente con il protolidio Uhha- che ricorre spesso in nomi di persona dell’Anatolia nordoccidentale e tra l’altro evoca (in modo adeguato a un anziano) il significato di “nonno”, luvio hūha-, ittita huhha-. Ed evoca una storia straordinaria.

Un Uhha-Ziti era stato re di Arzawa, il regno dell’Anatolia occidentale subordinato agli Ittiti ma a capo di una rete di regni minori che almeno da metà del XVII sec. a.C. aveva recato gravi problemi ad Hatti, a tratti l’aveva addirittura sostituito come interlocutore internazionale di imperi quale l’Egitto e a tratti era ne tornato tributario o vassallo, pur sempre mordendo il freno. Nella seconda metà del XIV secolo a.C. la Grande Arzawa viene drasticamente ridimensionata con scorporo di territori, forse regnante lo stesso Uhha-Ziti, ma quel che rimane – Arzawa Minor, come gli ittitologi indicano la nuova entità – resta turbolenta. Così, all’ascesa sul trono ittita del nuovo labarna Mursili II appena ventenne (1321 a.C.), ad Apasa/Efeso il vecchio Uhha-Ziti cerca di approfittarne: uomo disinvolto, ha forse acquisito il potere usurpandolo, ed eccolo trascinare gli stati anatolici – i ribelli con lui, i lealisti con Hatti – in un conflitto su cui abbiamo alcune notizie. Compresa quella bizzarra, da racconto di fantascienza, di un meteorite caduto a un certo punto su Apasa ferendo lo stesso Uhha-Ziti alle ginocchia, con ovvia lettura di presagio favorevole per gli Ittiti. La guerra termina con la vittoria di Mursili e la fuga (“nelle isole attraverso il mare”, probabilmente tra gli alleati Ahhiyawa) del riottoso Uhha-Ziti, che muore poco dopo. All’epoca della caduta di Troia VII a, la regione Arzawa dipende ormai dal regno di Mira, che ha saputo recuperare nei confronti dell’impero ittita un rapporto sempre più paritario in clima di collaborazione: ma anche quest’area viene travolta dalle devastazioni attribuite dagli Egizi ai Popoli del mare, e più avanti vi si allargherà il regno lidio. Al di là di una trasfigurazione leggendaria dell’anziano Uhha-Ziti o di personaggi più recenti con nomi simili (è interessante lo strano silenzio del Cieco su questa figura, citata senza dettagli assieme ad altre di più solida tradizione), quel che è certo è che l’anziano Ucalegonte della corte di Priamo sembra recare nel nome una genuina eco micrasiatica.

E quei vecchi radunati sulla torre «[…] per la vecchiaia hanno smesso la guerra, ma parlatori / nobili erano», e il Cieco li paragona alle cicale che dal bosco «mandano voce fiorita» (letteralmente di giglio, cioè sottile). Ora vedono Elena venire verso di loro «e a bassa voce l’un l’altro dicevano parole fugaci»: in sostanza che non c’è da vergognarsi a soffrire a lungo dolori per una simile donna, «terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali! / Ma pur così, pur essendo sì bella, vada via sulla navi, / non ce la lascino qui, danno per noi e pei figli anche dopo!». Probabilmente di qui la scelta di altri autori di ascrivere esplicitamente alcuni di questi senatori (Pantoo, Clitio, soprattutto Antenore) al partito del “restituiamola subito” a inizio della guerra.

Priamo evidentemente ha sentito quei borbottii a bassa voce, ma non se ne preoccupa: e chiama Elena. Venga lì a sedergli vicino, «figlia mia, […] / a vedere il tuo primo marito, e gli alleati e gli amici: / non certo tu sei colpevole davanti a me, gli dèi son colpevoli, / essi mi han mosso contro la triste guerra dei Danai». Ed è con queste parole che il grande re di Troia si presenta. Parole affettuose, e la figura di Priamo presenta una sua grandezza: proprio a partire da quel chiamarsi accanto Elena nonostante i borbottii dei suoi consiglieri. Una grandezza però non priva di ambiguità: si pensi a quel sottilmente brutale «a vedere il tuo primo marito» (una sorta di messa alla prova di lei?) o al deprecare gli dei per un’azione che in fondo è stata volutamente portata avanti dal figlio Paride con conseguenze prevedibili. Se gli altri anziani vedono in Elena una figura straordinaria ma insieme uno straordinario pericolo, la noncuranza del re flirta con la fascinazione nazionalistica (la più bella donna del mondo è nostra, l’abbiamo noi); e anche più avanti non mancheranno venature equivoche. Del resto Priamo è figlio di suo padre Laomedonte, il re quaquaraquà che promette facilmente senza aver intenzione di mantenere e finisce malissimo; e si è almeno tentati di vedere un prototipo storico generico di Priamo in quei dinasti micrasiatici – compresi quelli di Wilusa – che intrattengono con disinvoltura relazioni pericolose sul piano internazionale.

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La stagione di Taltibio https://www.carmillaonline.com/2018/04/07/la-stagione-di-taltibio/ Sat, 07 Apr 2018 21:24:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44857 di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli [...]]]> di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli eventi narrati da Omero ai portavoce di una lettura ben altrimenti critica. Ma è un fatto che quel “come se”, con la riflessione sapienziale che si porta dietro, riguarda uno degli architravi del pensiero occidentale: non solo per le categorie fondamentali dell’assedio e del ritorno (sottolineate da Franco Ferrucci nel suo bel libro del 1974) che ormai fanno inespropriabilmente parte del nostro modo di leggere la realtà, ma perché a un livello anche più ampio e generale quella saga ha fornito materiale di riflessione per secoli. Come – restando al termine citato – in quelle ‘Troiane’ di Euripide che continuano a risuonare di salutare provocazione.

Un certo antimilitarismo emerge entro un po’ tutta l’opera del drammaturgo di Salamina, ma nel caso delle ‘Troiane’ (415 a.C.) il nesso con l’attualità è particolarmente pungente. La trama della tragedia è nota: caduta Troia, in un non-luogo fuori dalle mura seguiamo le vicende delle donne prigioniere degli Achei, in attesa di diventare serve o concubine – comunque schiave e deportate. Quattro donne spiccano nel gruppo, cioè Ecuba, la vecchia regina che ha visto morire massacrato su un altare il marito Priamo, dopo la progressiva strage dei figli; Cassandra la profetessa, che già presente cosa si profili all’orizzonte – per loro ma anche per i nuovi padroni; Andromaca vedova di Ettore, madre di quel piccolo Astianatte presto gettato giù dalle mura per estinguere la casa regnante; e infine Elena la Bellissima, causa almeno immediata della guerra. Ma se il contesto è quello (alla grossa) del 1200 a.C., la situazione messa in scena da Euripide richiama eventi assai più vicini. Infatti solo poco tempo prima (416 o 415 a.C.) Atene aveva deciso l’aggressione – con conseguente sterminio degli uomini e vendita in schiavitù di donne e bambini – all’isola di Melo, rea semplicemente di aver rifiutato di aderire alla lega delio-attica (a guida ateniese, ovviamente) ma disposta alla neutralità. Il contesto della guerra del Peloponneso non permetteva minuetti, ma quell’azione dal fetore di ragion di stato (l’inesorabilità della superpotenza, la sorte di chi non si allinea eccetera) aveva suscitato turbamento in città: ed Euripide, con la sua sincerità al vetriolo, porta il tutto davanti agli occhi dei concittadini – compresi quelli che materialmente hanno compiuto la strage e magari incassato le promozioni del caso. Rendiamoci conto, e pensiamo a qualche evento più vicino: con le ovvie differenze, un po’ come se i responsabili della macelleria alla Diaz andassero trulli trulli a vedersi qualche film d’azione e trovassero sullo schermo le proprie facce – più o meno mascherate o riconoscibili – con un giudizio nettissimo su quanto hanno compiuto.

Attraverso l’immagine delle donne delle città omerica si rende così voce alle schiave melie dei cortili delle case di Atene e di altre poleis dov’erano state vendute, ammutolite dallo shock e dagli stupri; ma insieme – e qui sta il valore universale dell’opera – a tutte le altre di sorte analoga, coro silenzioso e innumerevole nei secoli. I secoli prima di Euripide, ma ovviamente anche tutti i successivi: basti pensare alla rilettura di Jean-Paul Sartre (1964), con un occhio alla Guerra d’Algeria, ai volti moderni dell’imperialismo e a un’atomica che pare la prova provata che la guerra è sempre una sconfitta per tutti. E anche molto più avanti e nell’oggi, fino alle Troiane di quella guerra non ufficiale, “strisciante, clandestina, una guerra contro coloro che cercano di raggiungere i confini d’Europa per esercitare il diritto d’asilo. Contro persone che fuggono da guerre, da persecuzioni – politiche, religiose, razziali, anche di genere –, per cercare di raggiungere una terra dove vivere dignitosamente” (Luca Rastello, presentazione di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010 ma situazione non sostanzialmente cambiata): dove i soldati achei di turno sono per esempio i gendarmi di certi campi libici per migranti – o, con le differenze del caso, di certe località delle Alpi, teatro di drammi recenti – e i loro solerti colleghi/collaboratori di nazioni tanto sollecite sui diritti umani. Euripide sa bene di giocare con materiale scomodo: ed è per noi non semplicissimo entrare nella testa degli Ateniesi che quell’anno alle grandi Dionisie gli attribuiscono il secondo premio. Forse a fare i disinvolti e mostrare di non riconoscersi.

Una libera, splendida revisione della tragedia che attinge all’opera euripidea, alle riletture di Seneca e appunto di Sartre, ma con provocazioni da altri testi (passi di Mariangela Gualtieri, suggestioni di discorsi presidenziali americani, alcune parti scritte apposta), è stata messa in scena di recente a Torino: si tratta dello spettacolo Ossa, curato – adattamento, regia, in parte le scene – da Susanna Gianandrea e organizzato da Artisti Associati Paolo Trenta. Con passione, competenza e un’asciuttezza che valorizza la drammaticità, con originalità (ma non bizzarria) di soluzioni, la regista ha saputo sensibilmente evidenziare una serie di snodi per una lettura odierna. Non è entrata nei dettagli dei dibattiti dell’oggi, ma ha lasciato aperte le suggestioni nella loro latitudine ulcerante. Alcuni televisori mostrano strappi della vicenda – la distruzione della città, i massacri, le decisioni dei vincitori – in chiave di sobri, veloci servizi da telegiornale; un cumulo di panni sullo sfondo richiama gli abiti tolti a esseri umani lasciati nudi (fisicamente o simbolicamente) e le ossa stesse del titolo; le donne entrano in scena e progressivamente dismettono per lo stesso motivo mezze maschere da teschio; l’astrazione permette di lasciare trasparire libera l’eco da tutte le guerre della storia.

Quel che colpisce ed emoziona già a un primissimo livello è una concretezza (si passi il termine) anche molto fisica che gli attori sanno donare alle parti.

Partiamo dai due volti divini che nell’immaginario ateniese risultano in paradigmatica opposizione – da sempre, fin dal conflitto per assicurarsi il patronato sulla città –, cioè Atena e Poseidone. Ottimamente resi da Serena Inturri e Roberto Briatta (come due ingombranti candidati alle presidenziali americane in rapporto ai problemi dei paesi dipendenti) spiccano sulle loro tribune, concordando dall’inizio che quella dei Greci profanatori di templi sarà una non-vittoria. E quelle tribune – semplici parallelepipedi scuri – diverranno nella rappresentazione giacigli, sedili, strutture temporanee del campo di prigionia, come a ricordare continuamente tale profezia.

A sua volta di presenza fisica impressionante proprio nella sua fragilità, nella dignità pacata e dolente, controllata ma nel modo spontaneo di un’intera esistenza, è l’Ecuba di Irene Laganà (bravissima): e che proprio in quel trovarsi spezzata ma senza lacrime, in quell’aria provata che mantiene decoro e nettezza di parola giganteggia sugli energumeni in mimetica.

Davvero straordinaria – e ancora una volta estremamente fisica, fin nel suo finale trasporto fuori scena, rigida in un delirio di rabbiosa soddisfazione, “Sono la sposa del Sole…” – è la Cassandra di Maria Teresa Cavalli, che sa di divenire causa di morte e rovina per il regno più importante della Grecia. Prigioniera-amante di Agamennone, sarà la classica goccia che fa traboccare il vaso dell’ira della regina-moglie Clitemnestra, e dunque l’innesco per la mattanza al cuore della superpotenza nemica.

Serena Palma riesce a sua volta a reggere con intensità e sobria autenticità, senza quelle sbavature di melodramma che il contesto estremo poteva in teoria minacciare, la grande parte di Andromaca e in particolare la scena tanto difficile della sottrazione del figlio.

Quanto alla scintillante Elena di Delia Campia, sa trattenere tutta l’ambiguità dell’antica eroina: destinata certo – emblematico il sorriso torbido al capitolare di Menelao (Roberto Carelli) – a uscire dalla situazione meglio delle compagne, con quanto di equivoco ciò comporti, ma insieme irriducibile ai nostri facili giudizi. Del resto, come spiega a propria difesa, lei era una semplice pedina nel pacchetto della famosa gara di bellezza tra le tre dee, quando Paride aveva attribuito il frutto ad Afrodite, che gli prometteva appunto l’amore della donna più bella del mondo. Ma – continua – se il principe avesse scelto diversamente, premiando per esempio la dea-regina Era, Troia sarebbe diventata potentissima e tutta la Grecia sarebbe finita sotto il tallone dell’Asia: davvero Menelao & Co. avrebbero voluto questo? Un’ipotesi dal sapore di minacciosa ucronia per un pubblico ateniese i cui nonni se l’erano vista brutta coi Persiani… Ovvio, il personaggio resta molto ambiguo, ma è impossibile non ascrivere anche Elena a una situazione generale che vede la donna comunque prigioniera.

Fin qui una plasticità delle figure in scena, una fisicità con cui idealmente si contrappongono all’indefinitezza di uno spazio, di una sorte. Ma c’è anche una dimensione più sfuggente: qualcosa che lo spettatore antico coglieva più facilmente, noi dobbiamo invece sforzarci di ricostruire e in fondo qui può emergere per suggestioni simboliche. Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena trattengono infatti connotazioni – dimensioni, ombre più lunghe gettate dalle loro figure – tali da rendere ancora più spiazzante il dramma.

Ecuba non è semplicemente una regina ma la regina per antonomasia: Hekábē è il nome della Grande Madre frigia, la madre degli dei Kubaba/Cibele (per questo Ecuba ha tanti figli?) e potrebbe richiamare il nome stesso di Ecate, la regina dei morti (cui è associata in vari miti tramite il binomio mutazione in cagna & morte legato alla sorte dell’ex-sovrana). Se su un’epica micenea possiamo solo azzardare ipotesi, una proto-Iliade potrebbe aver visto metaforizzare in linguaggio mitico-religioso lo scontro tra popoli come battaglia dei loro dei: e forse la protettrice della città vinta era proprio una dea-regina Ecabe. Ma anche spiegando il nome diversamente (per esempio Hekábē come semplice titolo divino di ogni regina del luogo, a postularne una pluralità e chiarire così la presenza di genealogie stranamente divergenti su una figura tanto importante) resta il fatto di una dignità archetipica della figura. Vederla avvilita e prigioniera è insomma qualcosa di molto più forte di quanto superficialmente percepibile: in scena è una crisi generale, di paradigmi.

A sua volta Cassandra non è semplicemente una profetessa ma una posseduta dal dio, forse il massimo dio di Troia: quei discorsi che Atena e Poseidone intrecciano all’inizio – dati certi presupposti, i vincitori finiscono malissimo – Cassandra lo rende oggetto di rivelazione tra le prigioniere. Se consideriamo che nell’ambito del collasso dell’età del bronzo ad abbattere le città degli eroi omerici furono con ogni probabilità anche lotte intestine, guerre civili, convulsioni sociali, ci rendiamo conto di quale sia il tipo d’innesco esplosivo di cui Cassandra stia parlando. I vincitori conosceranno la guerra nelle loro famiglie, nei loro rapporti di coppia: fuor di metafora, chi permette certi orrori anche nell’oggi la divisione se la troverà in casa a devastargli la vita, non capirà, ma avrebbe solo dovuto ascoltare… Ridurre Cassandra a quella che sa il futuro e non le credono è dunque banalizzante: e la prigionia avvilita di una figura come questa rende ancora più esplosiva la rivalsa che annuncia.

Andromaca. Lei non è – almeno per quanto possiamo sapere – figura di una dea, né posseduta da qualche dio. Eppure assurge ad archetipo: la sua struggente scena di addio da Ettore nell’Iliade potrebbe costituire (si è ipotizzato) un testo autonomo, a un certo cucito lì da un Omero. Il fatto è che Andromaca è – per antonomasia – la sposa del guerriero: la sposa del soldato, di ogni soldato del mondo, quella che vede partire il compagno e resta con il cuore in gola ad aspettare. Trovarla tra le prigioniere è un memento non da poco al pubblico ateniese: se qualcosa non va come previsto, se la guerra (del Peloponneso o qualunque altra) finisce male quello diventa il ritratto di tua moglie. Vederla prigioniera in quel campo è insomma particolarmente scioccante.

E infine Elena: per cui torniamo alle dee, perché l’ambigua, equivoca, pazzesca creatura per il cui fantasma (in tutti i sensi possibili) la gente s’è ammazzata per dieci anni mantiene ben chiaro uno statuto superumano. Feltrinelli ha appena pubblicato un romanzo di impressionante, persino imbarazzante bellezza scritto da un autore molto giovane, La Splendente di Cesare Sinatti, che ha vinto il Premio Calvino 2016 e che aiuta a capire quanto Elena abbia ancora da dirci nella sua spiazzante numinosità. Non si tratta insomma soltanto – diciamo così – della prigioniera che in qualche modo se la sfanga: Elena è la dimostrazione vivente della fragilità dei vincitori, del loro scarso controllo di fronte alle emozioni e alla stessa bellezza.

E insomma eccole, queste quattro donne infagottate tra le altre prigioniere. Come recita la presentazione dello spettacolo, “Una madre, una figlia, una moglie e un’adultera si trovano insieme, prive di una qualsiasi speranza e denudate dei loro abiti e del loro ruolo sociale, obbligate dal nemico ad assoggettarsi ad altre culture e religioni. La loro unica arma è la parola, strumento di un’urgenza di raccontare le proprie storie alla ricerca di una legittimazione in quanto persone”. Una parola che non permetterà loro individualmente di salvarsi (tutte, lo sappiamo, avranno sorti più o meno tristi – anche Elena, alla fine linciata delle vedove dei morti sotto Troia) ma che testimonia l’irriducibilità di ogni singola voce a quel cumulo di panni morti, protesta le loro ragioni a una pubblica coscienza e le traghetta come provocazioni nel tempo. Intercettare quelle voci, farle risuonare ancora, strapparle allo spazio del non-logos – della chiacchiera privata o pubblica o semplicemente della tacita rimozione di quei non-luoghi di prigionieri e profughi – è oggi importante quanto nell’Atene di Euripide.

E poi ci sono gli altri, i vincitori. Vediamo in scena il vilain Ulisse (Gabriele Valente) portatore della ragion di stato, il citato Menelao diviso tra brutalità e fragilità, alcuni silenziosi soldati greci (Gian Piero Craveri e Mariangelo Filo Rubini), nelle divise – non è strano – di eserciti moderni. Ma soprattutto c’è Taltibio (Lorenzo Audisio, molto efficace), araldo di Agamennone e “impiegato della guerra”: gestore nervoso, preoccupato e solerte del fastidio rappresentato dagli sconfitti. Neppure lui ha ancora capito quel che incombe: cioè l’esplosione di un mondo, delle solidarietà comunitarie, familiari e generazionali, fin dal tessuto concreto delle singole vite. Chi ha vinto male è destinato a perdere tutto.

È inevitabile domandarsi chi sia oggi Taltibio, quali ne siano i volti. Non ha necessariamente una divisa addosso, perché certi accordi internazionali sono firmati da civili o presunti tali; e può notarsi persino un certo sgomitare per entrare in quella parte, sedere a quei tavoli, garantire – a dispetto, magari, di strombazzate proteste di cambiamenti – una sorda, assoluta e criminosa continuità. Nel panorama grigio della stagione in cui viviamo chi è Taltibio? Chiudiamo con questa domanda e teniamocela stretta in un esame di coscienza, perché può aiutare a non cadere in buonismi da salotto.

Il cast di Ossa, tutti davvero molto bravi, comprende poi anche Anco Orsini (Enea), Umberto Biagini (un Anchise commovente), Arianna Vagnoni, Antonella De Bonis e Rosy Trischitta (Troiane/reporter) e Chiara Talarico, il cui ruolo mitico di Danaide danzatrice finisce con l’evocare una quinta principessa assente dalla scene, Polissena massacrata sulla tomba di Achille. Immagine di tutte le assenti dalle ‘Troiane’ di tutte le epoche perché, semplicemente, sono state cancellate: sta a noi cogliere anche il loro sussurro.

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Violent femmes: The Beginning (I) https://www.carmillaonline.com/2013/08/15/violent-femmes-the-beginning-i/ Thu, 15 Aug 2013 21:28:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8450 di Franco Pezzini

Copertina VF con bandelle.inddLe dee del doppiogioco

In un bel volume uscito nel 2008 per i tipo Odoya, “Violent Femmes. Donne-spia da Mata Hari ad ‘Alias”’, la studiosa britannica Rosie White, Senior Lecturer alla Northumbria University di Newcastle, raccoglie dalla storia, ma soprattutto da narrativa e schermi, una ricca carrellata di figure femminili nel segno del segreto e (appunto) della violenza. Una violenza che però non si consuma nella dimensione emotiva o sensuale delle vecchie vamp squilibrate e squilibranti, ma accede a interessi razionali: non necessariamente condivisibili, certo, ma provocatoriamente non diversi da quelli perseguiti – [...]]]> di Franco Pezzini

Copertina VF con bandelle.inddLe dee del doppiogioco

In un bel volume uscito nel 2008 per i tipo Odoya, “Violent Femmes. Donne-spia da Mata Hari ad ‘Alias”’, la studiosa britannica Rosie White, Senior Lecturer alla Northumbria University di Newcastle, raccoglie dalla storia, ma soprattutto da narrativa e schermi, una ricca carrellata di figure femminili nel segno del segreto e (appunto) della violenza. Una violenza che però non si consuma nella dimensione emotiva o sensuale delle vecchie vamp squilibrate e squilibranti, ma accede a interessi razionali: non necessariamente condivisibili, certo, ma provocatoriamente non diversi da quelli perseguiti – sempre secondo stereotipi – dalla sezione maschile dell’umanità.

In effetti la qualifica professionale più corretta per una simile, variegata costellazione di personaggi è quella di agenti segrete: e il quadro della citata violenza è molto vario, abbracciando un arco ideale tra gli amabili cazzotti di Emma Peel e le pallottole della tormentata Nikita.

Le saghe di queste “donne violente” investono e mettono in crisi non solo le raffigurazioni convenzionali del rapporto tra i sessi, ma quello con la società e le istituzioni, esplorate nei loro giochi d’interessi e nei più imbarazzanti dietro-le-quinte: e conquistandosi ruolo di protagonista, sia pure all’interno di organizzazioni in gran parte maschili, “la figura della donna-spia mette a nudo una serie di contraddizioni che […] sono lo specchio delle contraddizioni in atto nel mondo reale” – come sintetizza Carmen Covito nell’introduzione.

La storia di questo peculiare (e niente affatto ingenuo) punto di osservazione corre da Mata Hari, figura archetipica di spia/donna fatale, attraverso un secolo di convulsioni dei modelli sessuali, sociali, politici: basti pensare al forte stacco tra l’ottimismo delle saghe di agenti segrete degli anni Sessanta e il clima ben diverso della cultura del sospetto postmoderna. Qualcosa insomma che appare emblematico di una continua, vertiginosa ridefinizione di modelli dell’immaginario in stretto rapporto con scelte, fedi e scetticismi dell’uomo della strada.

“Sebbene spie e spionaggio esistano sin dai tempi biblici, i resoconti popolari che hanno per protagonista l’agente segreto sono legati a un’inquietudine tipica del Ventesimo secolo intorno al tema dell’identità nazionale e personale” – così Rosie White, che àncora il preambolo del suo volume al fronte dell’identità sessuale delle spie maschili nella letteratura popolare inglese all’inizio del Novecento, prima fra tutti la Primula Rossa della Baronessa Orczy. Ma, appunto, agenti e spie esistono sin dai tempi biblici, se vogliamo usare questa espressione: e la storia pregressa delle violent femmes è assai più ricca di provocazioni di quanto spesso si pensi. Una galleria che senza forzature occorre far partire dall’alba della storia, visto che fin da età assai remote un’attività di intelligence – nei fatti o nella finzione narrativa – ha coinvolto a pieno titolo anche donne.

Se la rozza maschera della mulier chiacchierona, incapace di tenere il segreto, è da sempre un topos patriarcale, anche il carattere in apparenza opposto di attrice per natura teorizzato per esempio nell’Ottocento (intriganti le considerazioni di Bram Dijkstra nel classico Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico filosofico letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Garzanti 1988) ha in realtà origini antichissime: che la donna finga, inganni, illuda seguendo una peculiare e innata propensione del proprio sesso rappresenta un altro diffuso luogo comune, neppure scalfito dall’ipotesi che possa (semmai) trattarsi di possibili strategie di resistenza in contesti storico-sociali che non concedono alternative.

D’altra parte quelle stesse caratteristiche – finzione, inganno, illusione – giocate da figure maschili possono assurgere a qualità ammirate: e non è un caso che agli albori dell’intelligence in Occidente brilli la figura del mentitore Odisseo, che non solo dirige operazioni “coperte” o vi partecipa in prima persona, ma attorno a sé coagula una schiera di colleghi/trickster come l’arciladro Autolico (suo nonno), l’astuto Sisifo (attribuitogli da qualcuno per vero padre, invece del povero Laerte), l’ingegnoso Palamede (poi dal Nostro accusato falsamente di doppiogioco coi Troiani e giustiziato) e l’infiltrato Sinone. Non ci stupiamo allora, quando Odisseo penetra travestito in Troia durante l’assedio come un moderno James Bond, che finisca a confrontarsi con una donna essa pure ritratto dei più sfuggenti doppigiochi. A ricordare: “[…] l’ignorarono / tutti; io sola lo riconobbi, anche così conciato” è infatti la fulgente Elena, quando nell’Odissea Telemaco giunge alla corte di Lacedemone per recuperare notizie del padre.

La regina incalza: “e l’interrogai molte volte: e con astuzia eludeva. / Ma quando io lo lavavo e l’ungevo con l’olio, [dove le pratiche dell’ospitalità sconfinano nel brivido erotico del contesto noir] / e vesti gli posi addosso e giurai gran giuramento, / che non avrei scoperto ai Troiani Odisseo / prima che fosse tornato all’agili navi e alle tende, / allora tutto il piano degli Achei mi narrò” (Odissea, 4, 249-256, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi 1989). O almeno la parte del piano che in quel momento il prudentissimo re di Itaca poteva esporsi a spifferare a un’interlocutrice, giuramenti o meno, di relativa affidabilità. Calate le carte, fu in quella situazione che (secondo altre fonti) Elena gli avrebbe svelato quale copia del Palladio fosse autentica, permettendo una seconda incursione entro le mura con Diomede allo scopo di rubarla – onde indebolire magicamente Troia e, diremmo noi, fiaccarne il morale. Ma in quel dialogo insperato con l’agente degli Alleati Elena riuscì a contrattare anche la propria incolumità per il giorno della caduta della città? In ogni caso la donna che parla a Telemaco è ormai reintegrata da anni al posto di moglie, madre e sovrana, lasciandosi alle spalle sogni e scandali: ed è forse naturale che nel racconto enfatizzi il proprio appoggio all’agente greco, e la fiducia riposta in lei da un uomo saggio come Odisseo.

Per continuare: “Poi, dopo ch’ebbe ucciso molti dei Teucri col bronzo affilato, / tornò fra gli Argivi e molte notizie portò. / Allora le Troiane acuto singhiozzavano; invece il mio cuore / godeva, perché l’animo s’era già volto a tornare / indietro, in patria, e piangevo la colpa che Afrodite mi spinse / a commettere, quando dalla mia patria mi condusse laggiù, / la figlia mia abbandonando e il talamo e l’uomo / a nessuno inferiore per bellezza o per senno”. Cioè quel (non proprio travolgente) Menelao che le sta davanti, e lei ritiene prudente blandire: con una prova di eloquenza dai toni di spiacevole cinismo – il cenno al pianto delle Troiane – ma che rammenta per mielosa abilità la parlantina dello stesso Odisseo.

Si noti che qui Elena non menziona un paio di successivi episodi, nel segno del più funambolico doppiogioco, che mostrerebbero anche meglio alcune sue peculiari capacità. Anzitutto a favore dei Troiani quando, sotto il cavallo di legno che conteneva tra le costole i migliori guerrieri achei, avrebbe preso a imitare diabolicamente le voci delle loro mogli: col risultato di farli andare in crisi, costringendo addirittura Odisseo a ucciderne uno che aveva perso il controllo. Con un vertiginoso voltafaccia, sarebbe stata però sempre lei che, nella Troia in festa per la creduta partenza dei Greci, aveva trovato modo di segnalare con un fuoco dall’alto il via libera alla flotta appostata presso Tenedo. Episodi che nella loro contraddittorietà – esemplare è in tal senso l’Elena di Virgilio – la dicono lunga sulla complessità del personaggio.

È evidente che la maschera della donna alla deriva dei sensi (il potere di Afrodite che trascina alla colpa) non esaurisce Elena nel profilo di una vamp più trascinante di altre. Dimentichiamo la biondina belloccia di Troy: se proprio vogliamo offrire volto d’attrice a una delle espressioni in assoluto più emblematiche delle contraddizioni sessuali di una cultura patriarcale – che trattiene come le ombre di un mondo diverso, di dee e potestà femminili di spiazzante fulgore – meglio ricordare allora l’enigmatica Scilla Gabel dell’ottima Odissea televisiva di Franco Rossi, 1968, col trucco similegizio quasi memore della storia che vorrebbe la vera Elena custodita sul Nilo, mentre Achei e Troiani si accoppano per un fantasma. E registrare il commento di Barry Strauss, che nello studio La guerra di Troia, Laterza 2007, avvicina Paride ed Elena a Juan ed Evita Perón, permette di cogliere ulteriori sfumature del ritratto.

In effetti la figura della donna più bella del mondo è troppo complessa perché si pretenda di ricondurla a una cifra unitaria, e la psicologia del personaggio (peraltro cangiante, per più versi inafferrabile) muove da convulse riletture e razionalizzazioni di un contesto mitico arcaico, poi indefinitamente rievocato. L’eventuale profilo di ingrata doppiogiochista resta così circonfuso di ambiguità: e ogni versione reca in fondo un’Elena diversa, trattenendo mistero e contraddizioni in un provocatorio gioco d’ombre. Tuttavia in quella donna che sotto il cavallo, con mossa d’attrice consumata, simula voci di amiche e conoscenti udite tanti anni prima, o che invece sulla rocca di Troia segnala con archi di fiamma nella notte il via libera agli Achei, giocando il tutto per tutto di una partita che coinvolge vita propria e assetti politici, militari ed economici in un momento di collasso epocale, è in fondo lecito ravvisare almeno qualche rapporto con le violent femmes in discorso. E forse vedere proprio Elena col suo gioco di finzioni, inganni e illusioni quale archetipo femminile della categoria, in coppia con lo smaliziato collega Odisseo.

Se la maschera di colei che tradisce le porte è insomma congrua a un’immagine di intelligence come area del disinvolto doppio gioco, del tradimento dalle insondabili motivazioni, e che guarda a una realtà complessa di interessi e ragioni, Elena non è però certo l’unica a vantare una simile licenza. Nella storia arcaica di Roma, la figura di Tarpea (o Tarpeia) che apre le porte ai Sabini non è meno sfuggente: il desiderio avido di ciò che i ricchi nemici tengono al braccio sinistro, le armille d’oro per i quali la ragazza mercanteggia il tradimento, resta un’accusa colorita dell’improbabilità di certe oniriche motivazioni di fiaba. E come nelle fiabe Tarpea viene punita – schiacciata da qualcos’altro che i nemici tengono appunto al braccio sinistro, cioè i pesantissimi scudi. Se in generale nell’episodio si è individuata una filigrana mitica indoeuropea – una guerra di fondazione, conflitto simbolico originario tra i Romani espressioni delle prime due funzioni, religiosa e militare, e i Sabini della terza produttrice di ricchezza, in vista di una conciliazione alla base della Storia – anche il dettaglio di Tarpea è a ben vedere frutto di una razionalizzazione storicistica. Da un lato il personaggio può rispondere a un ruolo “critico” del plot indoeuropeo (nell’omologo conflitto tra Æsir e Vanir della mitologia norrena, Dumézil giudica corrisponderle l’enigmatica figura della maga Gullveig, su cui gli Æsir si accaniscono invano), ma dall’altro affonda radici in un culto ancestrale del Campidoglio. In accordo con la forma più arcaica della leggenda su una Tarpea vergine guerriera, il nome – di origine, pare, non latina ma sabina – doveva suonare *tarqueia, da tarqu-, “vincere” : la figura raffigurata nelle monete, che emerge a braccia sollevata da una catasta di scudi, e ancor prima la statua-trofeo che doveva spuntare da un cumulo di armi strappate al nemico, effigiava la dea tutelare del Mons Tarpeius (“monte della vittoria”), una delle due cime del Campidoglio. Era insomma questa sorta di Palladio la vergine che sorge dalla battaglia, la guerriera eponima del primissimo mito col suo tumulo di scudi: anzi forse tali spolie dei nemici coprivano la sede della Dea ancor prima della costruzione del tempio di Giove Capitolino – anche se di ciò nulla resta nell’età dei cronisti.

Non sappiamo se l’uso di precipitare dal precipizio meridionale del colle i rei di tradimento e altre gravi colpe contro la comunità (fino al I secolo d.C.) si colleghi a qualche arcaica forma sacrificale: ma anche nel caso di Tarpea indagare sul profilo di un personaggio che resta mitico significa indagare sui motivi simbolici e ideologici – compresi stereotipi e nervi scoperti – alla base di una o dell’altra riscrittura. Anche qui infatti le versioni si sprecano: se nella principale, di Tito Livio, Tarpea è la figlia di Spurio Tarpeio comandante della cittadella, una variante di tale Antigono, criticata da Plutarco, la vorrebbe figlia dello stesso re sabino Tito Tazio, rapita da Romolo e dunque in cerca di rivalsa: il che sembra cambiare parecchio il significato del “tradimento”, per quanto egualmente sanzionato dai congiunti sabini (per mostrare comunque, si immagina, un exemplum di rigore contro chi svende le porte della città).

In una terza versione, di Calpurnio Pisone e documentata da Dionigi di Alicarnasso, si tratterebbe invece di un piano per ingannare il nemico – il che addirittura capovolge il senso tradizionale del racconto, mutando la traditrice in improvvisata agente segreta di Roma intenzionata a privare i Sabini degli scudi (avrebbe chiesto direttamente quelli), e ahimè tradita dal messo inviato a Romolo. Si è osservato che una simile versione in chiave di revisionismo buonista appare piuttosto forzata; nondimeno Dionigi la preferisce perché il monumento funebre alla ragazza sul colle più sacro della città e le libazioni annue in suo onore gli parrebbero inconciliabili con la memoria di una traditrice. Visto che probabilmente si tratta di un’antica dea, il motivo ovviamente perde forza. D’altra parte il noto uso di precipitare proprio di lì traditori e criminali poteva militare a favore della lettura colpevolista, che semplificava le cose anche da un punto di vista ideologico: se la razionalizzazione romana storicizza il mito, spiegare una disfatta militare attraverso una traditrice aggiusta il quadro assai meglio della penosa storia di un’agente sfortunata (o pasticciona). Ma la suggestione resta.

Si diceva che il movente dell’avidità di Tarpea reca un forte sapore da fiaba: del resto nella filigrana del racconto i Sabini rappresenterebbero funzionalmente i portatori della ricchezza, ed è coerente con lo sviluppo simbolico e di exemplum (in negativo) mostrare almeno una figura che da questa ricchezza resti abbacinata fino al tradimento. Poi certo, le storie di true crime evidenziano come spesso i veri moventi e strategie criminali suonino assurdi, antieconomici e comunque improponibili per un narratore con pretese di “credibilità”: il che può suggerire cautela nel tranciare giudizi sui racconti tradizionali. Ma le fonti recano un altro possibile movente: invece che per desiderio di oro, Tarpea potrebbe aver tradito per una diversa forma di concupiscenza – non meno legata alla funzione di ricchezza/fertilità. Parliamo dell’attrazione fisica.

A colpire Tarpea con la sua avvenenza sarebbe stato il capo Sabino Tito Tazio, di cui – sostiene romanticamente Properzio – la Vestale Tarpeia si sarebbe invaghita di un amore doppiamente proibito; ma in un’ennesima variante, ancora documentata (con scetticismo) da Plutarco sulla base del racconto del poeta Similo, il fatale innamoramento di Tarpea non avrebbe riguardato il re e l’assedio dei Sabini, bensì il capo dei Celti Boi e una diversa vicenda bellica – alla luce di una tradizione letteraria ellenistica molto più interessata ai Galli che non ad arcaici popoli italici quali i Sabini. Dalla versione “gallica” di Similo deriva a sua volta probabilmente la storia pseudoplutarchea (pare farlocca) di una pseudo-Tarpea dell’Asia Minore, tale Demonice di Efeso, che avrebbe tradito la propria città consegnandola ai Galli dell’ennesimo Brenno per desiderio dei loro preziosi ornamenti.

Non occorre entrare in questa sede in letture molto analitiche che pure aprirebbero intriganti percorsi (come sul ruolo in Livio delle donne legate alle origini di Roma, che per vari motivi si aprono a clan diversi dal proprio – in direzione insomma orizzontale invece che verticale/patriarcale – per incorporare stranieri nel popolo romano). Basti invece considerare come anche stavolta una figura miticamente equivoca e con funzione narrativa di doppiogiochista e magari agente segreta finisca col rappresentare un efficace specchio degli imbarazzi comunitari – il rapporto con lo “straniero” (tanto più se indissolubilmente legato alla nostra storia), con l’idea di sconfitta, con le origini stesse di un’epopea costituzionale.

Se poi la lettura erotica del tradimento di Tarpea sembra di origine ellenistica (il responsabile potrebbe essere proprio Similo) e dunque il movente più antico pare quello della cupidigia, è però vero che la prima definirà un topos. Ancora Paolo Diacono, parecchi secoli dopo, lo ripropone per un’altra traditrice/apritrice di porte, Romilda, moglie del duca del Friuli Gisulfo (Historia Langobardorum, IV, 37). Assediata in Cividale dagli Avari che le hanno ucciso il marito (circa 610), la duchessa scorgerebbe dall’alto delle mura l’aitante e giovane capo nemico che passa in rassegna le truppe. A quel punto “meretrix nefaria concupivit” e gli manda un messaggino in cui, in sostanza, propone uno scambio: lui la sposa, e lei gli lascia in balia la città con tutti gli abitanti. Le conseguenze per Cividale saranno spaventose, ma a sua volta la dark lady pagherà cara l’idea: dopo una notte allegra con il giovane re finirà violentata da dodici Avari e poi impalata, con il compiaciuto commento “Talem te dignum est maritum habere”. Sia o meno vero il fatto, il racconto riecheggia in chiave di topos antifemminile le antiche storie citate. Certo, la Tarpea che per amore o lascivia tradisce Roma, e la Romilda che per lussuria (o paura?) tradisce Cividale si apparentano più alle femme fatale travolte dai sensi che alle agenti segrete di cui in discorso: ma i motivi del segreto, del tradimento comunitario, del doppiogioco e della simulazione collocano le loro storie in un bacino almeno contiguo.

Per trovare però un’agente segreta in senso più proprio – rapporto con un’organizzazione, periodici rendiconti, altalena iniziale di frustrazioni e poi successo – dobbiamo tornare, come ricordava opportunamente Rosie White, verso i tempi biblici: e fare insomma la conoscenza dell’agente filistea nome in codice Dalila.

 

(Continua.)

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