tribunale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Solidarietà a Giovanni Iozzoli https://www.carmillaonline.com/2024/05/10/solidarieta-a-giovanni-iozzoli/ Fri, 10 May 2024 18:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82543 di Redazione

Il giorno 7 maggio 2024 il Tribunale di Modena ha condannato Giovanni Iozzoli, scrittore, delegato sindacale e redattore di “Carmilla online”, al pagamento di circa 20.000 euro (tra risarcimento e spese legali) a favore dell’azienda Italpizza, colosso dell’export agroalimentare emiliano.

Italpizza si era sentita diffamata da un articolo di Iozzoli, pubblicato nel 2019, nel quale si raccontava della durissima vertenza sindacale che aveva costretto l’azienda, per diversi mesi, a un prolungato braccio di ferro con le sue maestranze. Al centro della vertenza il lavoro povero, precario, gli appalti interni e i contratti inadeguati: cioè l’eterna ricetta della “competitività” all’italiana.

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di Redazione

Il giorno 7 maggio 2024 il Tribunale di Modena ha condannato Giovanni Iozzoli, scrittore, delegato sindacale e redattore di “Carmilla online”, al pagamento di circa 20.000 euro (tra risarcimento e spese legali) a favore dell’azienda Italpizza, colosso dell’export agroalimentare emiliano.

Italpizza si era sentita diffamata da un articolo di Iozzoli, pubblicato nel 2019, nel quale si raccontava della durissima vertenza sindacale che aveva costretto l’azienda, per diversi mesi, a un prolungato braccio di ferro con le sue maestranze. Al centro della vertenza il lavoro povero, precario, gli appalti interni e i contratti inadeguati: cioè l’eterna ricetta della “competitività” all’italiana.

Il racconto di quella lotta, prodotto da Iozzoli, ha portato a una denuncia per diffamazione aggravata da parte di Italpizza; il primo grado di giudizio si è concluso con la pesante condanna emessa ai danni di un cittadino non tutelato da alcun ordine professionale – reo solo di aver osato criticare le politiche occupazionali e le relazioni sindacali, promosse da un gigante industriale.

Questo esito rappresenta l’ennesimo tentativo di soffocare la visibilità del conflitto sociale e l’interesse collettivo, che senza critica e presa di parola risulterebbero fortemente compromessi. Sentenze come queste hanno un solo effetto: inibire il lavoro d’inchiesta, di denuncia pubblica e di produzione culturale, qualora tocchino gli interessi di quei potentati industriali e finanziari che oggi rivendicano mano libera o possibilità di condizionamento – non solo nell’azione economica, ma anche nel governo dei territori, nel controllo dell’opinione pubblica e alla lunga, a questo punto, nel lavoro culturale.

Chiediamo alle forze politiche, sindacali, associative, alle espressioni della società civile, dei movimenti e della cultura, una presa di posizione chiara in difesa della libertà di parola: esprimere solidarietà a Iozzoli, in questo momento, vuol dire difendere la libertà di tutti e di tutte.

Raccontare il conflitto, i bisogni negati e le ragioni del lavoro, è oggi un imperativo civile a cui non ci si può sottrarre.

Chiamiamo a un pronunciamento pubblico a sostegno di Giovanni e del diritto di espressione.

Questo il link per esprimere solidarietà a Giovanni

ATTENZIONE: NON SONO RICHIESTE DONAZIONI
NON SI RACCOLGONO FONDI CON QUESTA PETIZIONE

Tra i primi firmatari:
Partito Rifondazione Comunista
Si Cobas
Potere al Popolo
Collettivo di fabbrica GKN
Modena Volta Pagina
Possibile
Movimento 5 stelle Modena
Daniele Dieci Segretario CGIL Modena
On. Stefania Ascari
Antonello Petrillo, sociologo – Unisob Napoli
Maurizio Braucci – Scrittore
Alberto Prunetti – Scrittore
Domenio Ciruzzi – Avvocato
Sergio Bologna – Saggista
Michele Riondino – Attore – Regista
Mario Santella – Attore – Regista
Valia Santella – Regista – Sceneggiatrice
Ascanio Celestini – Attore – Regista
Lorenzo Teodonio – SaggistaMarcello Anselmo – Saggista
Alessandra Cutolo – Regista
Banda Popolare Emilia Rossa
99 Posse
Osservatorio Repressione
Redazione Monitor
Redazione Jacobin Italia
Redazione Contropiano
Casa Bettola Reggio Emilia
Circolo Arci Civica 15/a Modena
Delegati Rsu di: Bosh, Ferrari, Cnh, Wam, Maserati, Annovi, Otis, Motovario, T-erre, Netscout, Pfb

 

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Amianto 1906 https://www.carmillaonline.com/2014/12/02/amianto-1906/ Tue, 02 Dec 2014 21:56:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19248 di Alberto Prunetti

sentenza 1906

 “Non dite che domani la giustizia vi farà vivi,

che sarà vendetta nei figli  la schiena piagata  dei padri”

(Franco Fortini)

[Nei giorni successivi al verdetto della Cassazione sul processo Eternit molti giornali hanno pubblicato i dettagli di una sentenza del tribunale di Torino del 1906 che dimostra la conoscenza della pericolosità dell’uso dell’amianto già ai primi del secolo scorso. Ringrazio il Centro di Documentazione Marco Vettori che mi ha fatto avere il testo completo della sentenza. Ho trasformato quel documento in [...]]]> di Alberto Prunetti

sentenza 1906

 “Non dite che domani la giustizia vi farà vivi,

che sarà vendetta nei figli  la schiena piagata  dei padri”

(Franco Fortini)

[Nei giorni successivi al verdetto della Cassazione sul processo Eternit molti giornali hanno pubblicato i dettagli di una sentenza del tribunale di Torino del 1906 che dimostra la conoscenza della pericolosità dell’uso dell’amianto già ai primi del secolo scorso. Ringrazio il Centro di Documentazione Marco Vettori che mi ha fatto avere il testo completo della sentenza. Ho trasformato quel documento in un testo narrativo, intervenendo in maniera chirurgica, omettendo certi passi un po’ legnosi per renderlo fruibile come se fosse un racconto. Un racconto che si chiude con una domanda: se si sapeva, quanto è stato fatto e da chi, perché si dimenticasse?] A.P.

 

 In nome di sua Maestà

Vittorio Emanuele III

Per grazia di Dio e Volontà della Nazione

Re d’Italia

 

Il tribunale Civile e Penale di Torino

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa della Società anonima The British Asbestos Company Limited, avente sede in Londra con succursale in Nole Canavese

Contro

Pich Avv. Carlo, residente in Torino, quale proprietario e direttore del giornale “Il Progresso del Canavese”

 

IL FATTO

Nella primavera del corrente anno 1906 scoppiarono diversi scioperi operai in parecchie manifatture. Fra coloro che scioperarono vi furono gli operai addetti a due fabbriche di lavorazione dell’amianto di Nole Canavese (TO), cioè la Bender e Martiny e la British Asbestos Company. Gli scioperi terminarono con la concessione di migliori condizioni di lavoro e il blocco di alcuni licenziamenti.

Il giornale “Il Progresso del Canavese”, stampato a Cirié e diretto dall’avvocato Carlo Pich, pubblicava una nota così concepita: “Noi siamo lietissimi che lo sciopero sia finito e siamo anche lieti che sia finito col trionfo delle giustissime domande operie. (…) A costo di suscitare gli sdegni della compagnia abbiamo sempre affermato che le domande operaie erano giuste dato il genere d’industria che annualmente fa un numero incredibile di vittime”.

Le parole spiacquero alla British Asbestos Company e al suo gerente Max Branus che scrisse al giornale chiedendo di “smentire l’avventata affermazione che la nostra industria faccia annualmente un numero incredibile di vittime: io sfido lei e chiunque altro a provare che ciò risponde al vero e sarei lieto che Ella avesse il coraggio di persistere in quella sua affermazione per aver campo di farne risultare giudizialmente la falsità assoluta”.

Aveva forse la coda di paglia il direttore dell’impresa inglese? Alle minacce verso la stampa, faceva seguire il paternalismo verso i “suoi” operai, che “cominciano a comprendere che i veri amici sono quelli che assicurano loro il pane quotidiano e non coloro che con fini reconditi li aizzano contro gli industriali e fomentano un lievito che potrebbe essere causa di danni irreparabili per queste vallate e per le loro famiglie”. Sarà la storia a dimostrare se a rovinare le vallate e le famiglie operaie piemontesi siano state le lotte degli operai o le fibre assassine che gli industriali hanno sparso a profusione.

Ma torniamo al documento. Le righe nervose della replica industriale apparvero sul “Progresso del Canavese” assieme a una controreplica redazionale. Con preveggente saggezza, il direttore del periodico scrisse: “Il nostro torto principale sembra quello di aver scritto che l’industria dell’amianto è più nociva delle altre e fa annualmente un considerevole numero di vittime. Ebbene, chiunque consulti le statistiche mortuarie di Nole troverà spesso queste parole: tisi, anemia, gastroenterite. Se poi si va a cercare la professione, si troverà con triste frequenza: operai ed operaie dell’amianto.”

Tutto questo indusse il direttore della filiale della British Asbestos Company a portare in giudizio per diffamazione il piccolo foglio del canavese. Aprendo un sentiero calcato in seguito dai signori dell’asbesto, il direttore della fabbrica di cemento-amianto preme sulla stampa appoggiandosi alle dichiarazioni di un medico compiacente, pronto a sostenere la tesi dell’innocuità dell’amianto: così il prof. Luigi Pagliani dell’università di Torino, “dopo aver premesso di essersi recato, dietro invito della British Asbestos C. Li., a visitare il di lei stabilimento di lavorazione dell’amianto per riconoscere se agli operai ed operaie addette all’opificio possa riuscire di danno il pulviscolo che si sollevi nella lavorazione stessa, afferma di aver constatato che i locali sono ampi e ben ventilati come non si può desiderare di meglio, che l’ambiente delle macchine non riceve pulviscolo di sorta, che il materiale usato è amianto di Siberia, del Canada e della Valtellina e tale da non dare pulviscolo fino come quello prima impiegato della Val di Susa o di Usseglio, che è anidro e di fattura vetrosa, mentre quello impiegato ora dà una polvere a fiocchetti così che dev’essere facilmente arrestato dalle prime vie respiratorie; che le condizioni degli operai sono tali da escludere qualsiasi dubbio d’influenza anche lontanamente dannosa da parte del lavoro”. Insomma, il Buon Pagliai giura più che su Ippocrate sulla voce del padrone e la sua scelta avrà un discreto seguito nei decenni a venire, confortata dalle pulizie di poco precedenti le visite guidate in azienda di medici e ispettori del lavoro, eseguite direttamente dagli operai, a cui si intima il silenzio pena il licenziamento.

Per fortuna non tutti i medici vedono quello che il padrone mette sotto i loro occhi. A sostegno delle sue tesi sulla pericolosità dell’amianto, l’avvocato Pich produce tre certificati medici (dottori Bellono, Borla e Borgogno) “dai quali sostanzialmente si evince che gli operai lavoranti a Nole nelle fabbriche per la lavorazione dell’amianto vanno soggetti a bronco-polmoniti dovute alle aspirazioni della polvere di quel minerale, la qual bronchite dice il dottor Bellono offre terreno favorevole allo sviluppo del bacillo della tubercolosi; e il dottor Borla aggiunge che questa è cosa da tempo risaputa, che cioè gli operai dove si lavora l’amianto si ammalano più facilmente, in confrono agli operai che frequentano altri stabilimenti (filatura, tessitura di lana e simili), di malattie croniche delle vie respiratorie, in conseguenza di enfisema e di tubercolosi polmonare”. Insomma, la medicina aveva centrato il problema. Certo le diagnosi erano ancora generiche, si prognosticavano malattie polmonari, si associava l’asbestosi alla silicosi e alla broncopolmonite, in assenza di tecniche di indagine più sofisticate. Ma il dato epidemiologico era già percepito, come del resto il nesso tra esposizione professionale, malattia e mortalità.

A quest’ultimo riguardo, il Pich si servì dei registri comunali che certificavano come nel piccolo centro di Nole “vi furono nel quinquennio 1902-1906 dieci morti, 7 per tubercolosi polmonare, 1 per bronchite, 1 per tifo, 1 per infortunio sul lavoro” tra gli operai dell’amianto. Molti di più di altri settori, senza dimenticare che il grosso, considerato il tempo di latenza della malattia, si sarà ammalato di cancro quando già Mussolini strabuzzava gli occhi e stringeva la pance dal balcone di Palazzo Venezia. Ma oltre alla nocività, questi stabilimenti erano pericolosi, con buona pace del medico e del direttore della British Asbestos, anche in ragione degli infortuni, che i documenti del sindaco di Nole provano aver raggiunto nel cinquennio 1900-1905 il numero di 50. Detto questo, il Pich si difende dalle accuse, dopo i dati scientifici ed epidemiologici, anche riportando la vox populi, suffragata però dal parere di quattro consiglieri comunali di Nove Canavese, “i quali affermano che l’opinione pubblica in quel comune considera l’industria dell’amianto nociva e pericolosa a causa della polvere e dei frequenti infortuni per gli operai ed operaie che vi lavorano”.

Alla luce di questi fatti, il Pich difende le ragioni del suo giornale, dato che nelle “tavole necrologiche del Comune di Nole appare con triste frequenza segnato il decesso di operai e di operaie dell’amianto”.

Il TRIBUNALE SI ESPRIME

Il Tribunale di Torino accetta la difesa del Pich. “Purtroppo disse il vero il Progresso del Canavese circa alla mortalità degli operai, salvo quell’iperbole dell’incredibile numero” (ma il peggio allora era lontano da venire e l’iperbole era forse calcolata in difetto). E poi si aggiunge: “ed è pur vero nella sua sostanza quanto [il giornale] scrisse in riguardo alla pericolosità della lavorazione dell’amianto”. E aveva ragione il giornale anche a denunciare la situazione degli stabilimenti dell’amianto, cosa che, secondo le pretese della British Asbestos, era invece “privato interesse nel quale nessuno ha diritto di intromettersi”, in quanto “dibattito privato fra lei ed i suoi operai”.

Quanto al senso comune del tempo, doveva essere più sensato di quello degli anni a venire, perché il tribunale riconosce che “quella della pericolosità delle lavorazioni in ambienti torbidi per polveri sospese nell’aria” è “cognizione comune a tutte le persone anche mediocremente colte”.

Oltre al senso comune, i giudici passano poi in rassegna la letteratura medica del periodo, cosa che risulta illuminante. Scrivono: “ (…) a cominciare dal 1700, quando il Ramazzini professore a Modena scriveva il suo De Morbis artificum diatriba, per venire al Sanarelli, al Revelli, all’Albrecht, al Giglioli, che scrissero in questi ultimi anni sulle malattie del lavoro, a giungere fino all’anno corrente in cui di esse si discusse a Milano nel Congresso internazionale per le malattie del lavoro, tutti coloro che come medici e come sociologi dell’igiene dei lavoratori si occuparono, riconobbero che ogni lavoro, ogni professione porta con sé morbi speciali, o quanto meno modifica l’organismo profondamente (…).”

“Riconobbero i più attenti che tra le industrie pericolose, che agiscono direttamente o indirettamente sulla mortalità o morbilità umana, vi sono quelle che indicarono col nome di polverose, e tra queste le industrie che sollevano polveri minerali, siano ad azione meccanica o chimica”.

“Scrissero ancora che fra le polveri ad azione meccanica sono più pericolose quelle provenienti da sostanze silicee, inquantoché per la costituzione delle particelle che le compongono vengono a ledere le vie degli apparati respiratori, quando non giungono fino al polmone, predisponendolo allo sviluppo della tubercolosi, facilitandone la diffusione, aumentandone la gravità.

Tutto questo sapendo lo scrittore del Progresso del Canavese poteva bene, senza colpa d’imprudenza o di leggerezza, scrivere che l’industria dell’amianto è pericolosa. (…) Poteva ben riportare quanto scrisse il professor Giglioli di Firenze, che per quanta buona volontà ci metta l’industriale (…) a prendere delle precauzioni, i danni dovuti alla polvere sono assai spesso una dolorosa necessità del mestiere che non potrebbe essere soppressa se non sopprimendo l’industria”.

Insomma, che l’amianto ammazzasse gli operai, che i lavoratori dell’asbesto avessero maggiori probabilità di morire rispetto ad altre categorie della classe popolare, secondo il tribunale di Torino era provato “in modo veramente irrefutabile”. Per questo il tribunale assolse il Pich e condannò la British Asbestos al pagamento delle spese processuali.

Tutto questo, “così deciso dal Tribunale di Torino il 22 ottobre 1906”.

La domanda allora non è quando si è saputo che l’amianto faceva male.

La domanda è perché, sapendolo nel 1906, per più di mezzo secolo, negli anni a venire si è dimenticato. Perché, quale tremendo lavoro di mortificazione della memoria, quale diluizione del rischio e del pericolo, quale immane frode ai danni del senso comune e di quello scientifico, quale deliberato attacco alla salute dei lavoratori è stato messo in cantiere, dai padroni dell’amianto, per continuare a fare impastare ai loro operai, destinati a morte prematura, cemento e asbesto. Per fare soldi in maniera tanto ignobile e impunita.

[Nota: questo post esce volutamente nel giorno del trentesimo anniversario della strage di Bhopal, forse il più grave disastro industriale di tutti i tempi. Quella notte, trent’anni fa, la succursale indiana dell’Union Carbide, che produceva pesticidi, liberò una nuvola tossica che uccise migliaia e migliaia di persone. Torneremo in futuro su quella vicenda che per gli italiani rimanda da un lato al caso della diossina di Seveso e da un altro al caso Eternit, almeno per le difficoltà dei familiari delle vittime a ottenere un riscontro attraverso le vie della giustizia istituzionale] A.P.

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Messico e ingiustizie: resta in prigione il Prof. Alberto Patishtán https://www.carmillaonline.com/2013/09/13/messico-e-ingiustizie-resta-in-prigione-il-prof-alberto-patishtan/ Thu, 12 Sep 2013 23:44:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9331 di Fabrizio Lorusso

patish 3La fabbrica dei colpevoli messicana non si ferma mai e il professore Alberto Patishtán ne è vittima da 13 anni, accusato e sentenziato ingiustamente per omicidio. Il primo tribunale collegiale del ventesimo circuito del Chiapas ha dichiarato infondate le prove con cui gli avvocati di Alberto Patishtán, professore messicano d’etnia tzotzil detenuto ingiustamente da 13 anni e condannato a 60 anni di reclusione per omicidio, volevano ottenere il riconoscimento della sua innocenza (link notizia Desinformémonos). La “fabbrica” è una scure inarrestabile, la giustizia dei più forti contro i più deboli, l’ingiustizia perpetrata col sostegno [...]]]> di Fabrizio Lorusso

patish 3La fabbrica dei colpevoli messicana non si ferma mai e il professore Alberto Patishtán ne è vittima da 13 anni, accusato e sentenziato ingiustamente per omicidio. Il primo tribunale collegiale del ventesimo circuito del Chiapas ha dichiarato infondate le prove con cui gli avvocati di Alberto Patishtán, professore messicano d’etnia tzotzil detenuto ingiustamente da 13 anni e condannato a 60 anni di reclusione per omicidio, volevano ottenere il riconoscimento della sua innocenza (link notizia Desinformémonos). La “fabbrica” è una scure inarrestabile, la giustizia dei più forti contro i più deboli, l’ingiustizia perpetrata col sostegno della legge, anzi, ormai senza nemmeno quello. Anche quando sbaglia, anche quando è palese, anche quando un paese si mobilita contro i suoi meccanismi perversi e ne dimostra le nefandezze, fuori da ogni ideologia, la fabbrica dei colpevoli non torna indietro perché sarebbe un ammissione di colpa, un’azione culturalmente inaccettabile.

Dunque è meglio affondare la lama e scavare, punire chi alza la voce, beffarsi degli scioperi della fame e del mondo che ti osserva, incredulo. Patishtán è un detenuto politico, discriminato per la sua appartenenza a un gruppo etnico indigeno e per la sua militanza politica nella comunità de El Bosque, Chiapas, di cui è originario.

E proprio in questo territorio del Messico profondo e (para)militarizzato, comincia l’odissea dell’attivista che è stato accusato dell’omicidio di sette poliziotti federali, avvenuto il 12 giugno del 2000, nella cosiddetta “strage di Simojovel” (a questo link un racconto dettagliato in italiano). Il 19 giugno il Profe viene praticamente sequestrato mentre va al lavoro da quattro poliziotti in borghese sprovvisti del mandato di arresto. Il giorno dopo viene preso anche due militanti legati all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, i fratelli Manuel e Salvador López González, anche loro accusato di aver preso parte all’imboscata-strage.

Patishtán è stato malmenato, umiliato, torturato e poi messo agli arresti domiciliari per 30 giorni mentre si “raccoglievano” le prove contro di lui. La presenza degli interpreti delle lingue indigene messicane è quasi un’utopia e “el Profe” non fa eccezione, quindi niente traduzione. Come spesso accade in questi casi, in pratica le condanne dell’attivista si basano sul racconto contraddittorio, nel senso che è stato cambiato in diverse occasioni, di un testimone che prima dice di “non aver riconosciuto nessun partecipante dell’imboscata” e poi sostiene di “aver visto il professore poco prima di perdere i sensi”.

Le prove presentate da Patishtán, che lo avrebbero scagionato dimostrando la sua NON partecipazione all’imboscata e il suo alibi, cioè la sua presenza a una riunione in un altra città chiamata Huitiupan, sono state rigettate. Alla fine non sono state “reperite” le prove contro i due attivisti zapatisti. Invece il Profe è rimasto in galera, ha affrontato processi viziati da numerose irregolaritò e da 13 anni la sua lotta contro l’ingiustizia e gli abusi è diventata un caso internazionale, una battaglia epica e disperata contro la fabbrica dei colpevoli e la burocrazia

Quindi il caso è chiuso in Messico e i motivi veri sono chiari, hanno poco a che vedere con il famigerato rispetto dello stato di diritto. Resta solo la possibilità di un ennesimo ricorso, presso la Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), che potrebbe esprimersi a favore de “el Profe”, come viene soprannominato l’attivista Patishtán, ed “obbligare” lo stato messicano a metterlo in libertà, sempre che le istituzioni decidano di ascoltare e applicare le risoluzioni della CIDH che spesso passano inosservate. patish libero

I tre magistrati del tribunale chiapaneco con sede a Tuxtla Gutiérrez, la capitale di questo martoriato stato meridionale del Messico, si sono espressi all’unanimità. Niente dubbi, niente perplessità. Fuori dal tribunale, già da vari giorni, c’era un picchetto di sostenitori e difensori della libertà di Patishtán che non si muoveranno da lì finché un funzionario non si sarà presentato per realizzare una chiara e dettagliata esposizione delle motivazioni della sentenza.

“Né Alberto Patishtán né noi come avvocati chiederemo un indulto all’esecutivo”, ha spiegato Lionel Rivero, avvocato difensore del Profe.  “La decisione è una porcheria per tutti i messicani e non ci arrenderemo” sostiene senza mezzi termini Trinidad Ramírez, del Fronte dei Popoli in Difesa della Terra, che si trovava nell’accampamento di protesta allestito a Città del Messico l’11 settembre scorso. Il Comitato per la Libertà di Patishtán continuerà a lottare per la sua liberazione, rispettando la volontà del professore. Andrea Spotti, in un articolo su Globalist dell’aprile scorso ha ben descritto il contesto della regione in cui si svilupparono e si sviluppano queste vicende:

“Siamo nel Chiapas degli anni successivi all’insurrezione zapatista e la tensione politica e (para)militare nella regione, dove i conflitti locali si moltiplicano, é assai alta. Ad El Bosque, un imponente movimento chiede la destituzione del sindaco Manuel Gómez, priista (membro del PRI, Partido Revolucionario Institucional, al governo attualmente in Messico) accusato di corruzione, nepotismo e abuso di potere; e Patishtán, come spesso accade ai maestri rurali – in molti casi veri e propri intellettuali organici delle loro comunità -, é il portavoce della protesta. Il governo, timoroso che la situazione possa degenerare dando vita a nuove sollevazioni, manda sul posto rinforzi della polizia federale. Durante uno dei pattugliamenti delle forze poliziesche, nei pressi del villaggio di Las Limas, avviene l’imboscata, effettuata da una decina di uomini a volto coperto armati di R-15 e di AK-47. 

Inizialmente, governo statale e federale puntano il dito contro le guerriglie dell’Ezln e dell’Epr (Esercito Popolare Rivoluzionario). Gli zapatisti, attraverso le parole del Subcomandante Marcos, rispondono invece indicando nei gruppi paramilitari legati al Pri  i probabili autori della strage, la quale sarà utilizzata come pretesto per intensificare ulteriormente la militarizzazione della regione. Dopo l’arresto di Patishtán, che scatena immediatamente vivaci proteste nella sua comunità (si arriverà fino ad occupare il palazzo municipale), vengono coinvolti nelle indagini anche due basi d’appoggio dell’Ezln, uno dei quali, Salvador López, sarà arrestato”.

patishtan-12Nel marzo scorso anche la Suprema Corte messicana, che in altri casi s’era dimostrata sensibile a ingiustizie macroscopiche e disposta ad annullare sentenze in base a eventuali vizi di forma dei processi, ha voltato le spalle al Profe ha rigettato il ricorso dei suoi avvocati contro le decisioni dei tribunali del Chiapas. Una recente decisione della Corte Suprema di Giustizia messicana, la quale ha stabilito un orientamento giurisprudenziale in materia di diritti umani, ha aperto la strada all’applicazione interna, a livello costituzionale, dei trattati internazionali che siano considerati migliorativi per quanto riguarda la protezione dei diritti dell’uomo rispetto alle norme vigenti in Messico. Ciononostante l’applicazione di tale orientamento, che potrebbe forse servire a Patishtán una volta ottenuta, eventualmente, una sentenza favorevole della CIDH, è stato depotenziato dalla stessa Corte Suprema con la previsione di eccezioni, casistiche e limiti che hanno fatto parlare addirittura di un retrocesso sul fronte dei diritti. 

In carcere l’attivista ha sempre cercato di rendersi utile, inegnando a leggere a a scrivere ai detenuti analfabeti o fungendo da interprete-traduttore per i compagni di cella che non parlano lo spagnolo. Progressivamente si avvicina agli zapatisti, partecipa alle mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita in prigione, si fa portavoce degli altri detenuti e nel 2006 entra a far parte della Otra Campaña, l’offensiva politica dell’EZLN, basata sulla VI Dichiarazione della Selva Lacandona, che irrompe nella campagna elettorale e denuncia la corruzione del sistema politico e di tutti partiti che lottano per il potere politico e il controllo dello stato. Sempre in quell’anno fonda

Nel 2006 entra a far parte de La Otra Campaña e fonda, insieme agli altri reclusi aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il collettivo La Voz del Amate che, collegando tra loro le iniziative di resistenza delle carceri del Chiapas con movimenti sociali esterni, negli anni ha fatto ottenere il rilascio di 137 prigionieri. Nell’ottobre 2012 ha subito un intervento chirurgico per l’asportazione di un umore benigno al cervello e ha vinto la battaglia contro il cancro. In questa breve video-intervista del luglio scorso El Profe parla di un’altra dura battaglia, delle sue sofferenze e dell’allontanamento dalla sua famiglia, ma soprattutto ricorda con dignità al Messico e al mondo che “a volte uno deve passare da queste situazioni affinché altra gente si accorga di quello che viviamo” e che il suo caso è solo “uno dei tanti tra quelli di persone che sono detenute ingiustamente in qualunque prigione, molte volte per non saper parlare spagnolo, per non avere soldi o per non saper leggere e scrivere”.

Segnalo due raccolte di firme per la libertà di Patishtán: 1) qui LINK e 2) Appello e firme di Amnesty International “Nessun giorno in più senza giustizia”: LINK

Documentario sul caso di Alberto Patishtán: LINK

Hashtag Twitter: #LibertadPatishtan

Comitato Città del Messico Twitter @TodosxPatishtan

 

 

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