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Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, pp. 278, € 25,48. 

Il rapporto tra ecologia e marxismo non è mai stato molto semplice. I verdi si sono spesso cullati nell’illusione di uno sviluppo sostenibile compatibile con il capitalismo o hanno pensato l’ambientalismo come una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Ci sarebbe bisogno di una buona dose di critica dell’economia politica per svegliarsi da questi pallidi sogni, ma la diffidenza ha spesso prevalso nei confronti [...]]]> di Fabio Ciabatti

Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, pp. 278, € 25,48. 

Il rapporto tra ecologia e marxismo non è mai stato molto semplice. I verdi si sono spesso cullati nell’illusione di uno sviluppo sostenibile compatibile con il capitalismo o hanno pensato l’ambientalismo come una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Ci sarebbe bisogno di una buona dose di critica dell’economia politica per svegliarsi da questi pallidi sogni, ma la diffidenza ha spesso prevalso nei confronti del pensiero di Marx perché considerato intriso di produttivismo e dunque una sorta di gemello diverso del moderno sviluppo ecologicamente devastante.
La domanda sorge spontanea: Marx era davvero un produttivista? La risposta potrebbe sembrare scontata perché per il materialismo storico, comunemente inteso, lo sviluppo delle forze produttive rappresenta il lato positivo della storia che, arrivato ad un certo punto, rompe la gabbia dei rapporti di produzione e consente di passare ad un modo di produzione più progredito. Questo è accaduto con il passaggio dal feudalesimo al capitalismo e lo stesso accadrà quando il capitalismo sarà soppiantato dal comunismo. È incontrovertibile che Marx abbia sostenuto queste posizioni. Ma è tutto qui?
Kohei Saito, marxista giapponese che ha goduto di una inaspettata fama tra il grande pubblico del suo paese, sostiene che oltre il produttivismo c’è di più. Nel suo Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, argomenta che nella biografia intellettuale del rivoluzionario tedesco è possibile trovare le tracce di uno sviluppo teorico che pone le premesse, come indica il titolo del libro, di un comunismo della decrescita. Una tesi senz’altro originale e radicale che vale la pena di conoscere, anche al di là dei suoi possibili aspetti problematici. 

Due sono i passaggi fondamentali che, secondo l’autore giapponese, mettono in luce l’importanza fondamentale di concetti come metabolismo tra uomo e natura e frattura metabolica che pur appaiono sporadicamente nel corpus marxiano: negli anni Sessanta la formulazione del concetto di “sussunzione reale” e, nel periodo successivo al 1867, anno di pubblicazione del Capitale, le estensive ricerche di Marx sui sistemi precapitalistici e sulle scienze naturali.
Partiamo dal metabolismo. A differenza delle altre specie, i rapporti degli esseri umani con la natura possono assumere differenti forme che corrispondono ai molteplici modi di produzione che si succedono nella storia. Rimane il fatto che in ogni forma sociale il lavoro deve mediare il rapporto con la natura e che, quest’ultima, pone dei limiti invalicabili per quanto essi possano essere elastici. Si può dunque parlare di unità nella separazione per quanto riguarda il rapporto tra esseri umani e natura è ciò viene espresso nel concetto marxiano di metabolismo. Fonte di valori d’uso, cioè della  ricchezza effettiva, al pari del lavoro, la natura non può essere ridotta, come pretende la logica capitalistica, a mero veicolo della valorizzazione perché possiede “una sua indipendente finalità”, indifferente alla volontà umana. L’unità nella separazione implica la possibilità di una rottura, come accade con il capitalismo che, sempre secondo Marx, genera “le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita”.1 Il rivoluzionario tedesco ha in mente la cosiddetta legge della restituzione di Justus von Liebig: secondo il chimico tedesco è necessario restituire al suolo i nutrienti che la crescita delle piante tende a sottrargli, altrimenti la terra non può rimanere fertile e assicurare rendimenti durevoli. Per Marx l’agricoltura intensiva capitalistica, votata ai rendimenti di breve periodo, e la concentrazione della popolazione nelle città impedisce un sostenibile ricambio organico tra esseri umani e natura.
L’innovazione tecnologica è uno dei modi in cui il capitale cerca di superare la frattura metabolica che esso stesso provoca. Rimanendo all’agricoltura e facendo un salto temporale oltre il periodo in cui visse Marx, l’introduzione dei fertilizzanti chimici consente di rimediare alla perdita di fertilità dei terreni sottoposti a coltura intensiva. Di fatto si tratta di uno spostamento del problema che, alla lunga, produce più difficoltà di quante ne risolva (aumento di emissioni di anidride carbonica, inquinamento delle falde acquifere, maggiore vulnerabilità delle piante a malattie e insetti ecc.). In breve, la tecnologia sviluppata dal capitalismo non consente di arrivare a un’agricoltura sostenibile. 

Alla stessa conclusione si può arrivare, in termini più generali, attraverso la teoria di Marx. E qui torniamo alla distinzione tra sussunzione formale e reale che compare nei Manoscritti del 1861-1863 ed è poi sviluppata nel Capitale, mentre non ce n’è ancora traccia nei Grundrisse, scritti alla fine degli anni Cinquanta. In quest’ultimo manoscritto abbiamo, invece, il concetto di general intellect che scomparirà successivamente e che, non a caso, ha rappresentato spesso il punto di riferimento per chi ha cercato di pensare il passaggio al post-capitalismo attraverso lo sviluppo estremo delle forze produttive. Nei Grundrisse si ipotizza infatti uno sviluppo tecnologico che determina una produttività del lavoro tale da rendere obsoleta la misurazione della produzione attraverso il tempo di lavoro. Detto altrimenti, le forze produttive possono raggiungere un livello così alto da consentire la liberazione dal lavoro in un contesto di abbondanza materiale per tutti.
Lo scenario cambia, secondo Saito, quando appare il concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale e il conseguente concetto di “forze produttive del capitale”. Lo sviluppo tecnologico diventa inestricabilmente intrecciato con le finalità storicamente determinate del capitale, comando sul lavoro e produzione di plusvalore su scala sempre più ampia. 

In questo senso, dobbiamo capovolgere radicalmente la tradizionale visione del materialismo storico sulla relazione effettiva tra forze produttive e rapporti di produzione: «I rapporti di produzione determinano le forze produttive».2

La critica delle forze produttive, dunque,

rappresenta un cambiamento importante nella sua visione del progresso tecnologico sotto il capitalismo. Marx si rese conto che lo sviluppo capitalistico delle tecnologie non prepara necessariamente una base materiale per il post-capitalismo.3

Alla luce di questa nuova consapevolezza si possono comprendere, secondo Saito, i vasti studi cui Marx si dedicò dopo la pubblicazione del Capitale, documentati dai suoi numerosi quaderni composti di estratti dai libri letti e relativi commenti. La ricerca di Marx copre ambiti molto vasti come la geologia, la chimica, la mineralogia e la botanica e si occupa di problemi come l’eccessiva deforestazione il trattamento crudele del bestiame, lo sperpero della fonti di energia fossili e l’estinzione delle specie. Negli ultimi quindici anni della sua vita, egli riempì un terzo dei suoi quaderni di appunti, metà dei quali comprendono estratti da libri sulle scienze naturali. Contemporaneamente Marx, con un occhio attento all’agricoltura non capitalistica e ai sistemi di proprietà fondiaria, lesse libri sull’antica Roma, sull’India, sull’Algeria, sull’America Latina, sugli Irochesi in Nord america e sulla comune contadina russa.
La principale originalità dello studio di Saito sta, probabilmente, nel connettere questi due campi di indagine, legando strettamente l’abbandono da parte di Marx di ogni residuo eurocentrico e il superamento delle precedenti concezioni produttivistiche. Lo studio delle società non capitalistiche unito a quello delle scienze naturali mostra a Marx la possibilità di un ricambio organico tra umani e natura che sia al contempo egualitario e ecologicamente sostenibile. È importante, notare, infatti, che lo stato stazionario della produzione e la persistenza nel tempo delle tecniche impiegate sono alcune delle caratteristiche essenziali delle comuni agricole precapitalistiche strettamente connesse alle limitazioni nei confronti dell’appropriazione individuale delle terre e alle restrizioni relative al commercio dei prodotti al di fuori delle comunità di villaggio. Caratteristiche che, nel loro insieme, e consentono di realizzare un’economia circolare, rispettando la già citata legge della restituzione, per quanto ciò accada inconsapevolmente, cioè sulla base di tradizioni e consuetudini, e non a partire dalla conoscenza scientifica delle leggi naturali.

In altri termini,

non è soltanto che le vie al comunismo diventano plurali ma è la stessa idea del comunismo di Marx a cambiare significativamente negli anni Ottanta dell’Ottocento come risultato della sua riflessione cosciente sui precedenti difetti teorici e sulle unilateralità del materialismo storico.4

È chiaro che per questa nuova interpretazione dei testi marxiani non possono essere presentate prove definitive, ma soltanto indizi, per quanto consistenti. A sostegno della sua tesi Saito sottolinea come Marx all’inizio del 1868 legge l’opera del botanico e agronomo Carl Fraas sull’agricoltura sostenibile praticata dall’“associazione della marca” germanica e poi, visto che questo lavoro si basa sull’analisi dello storico Georg Ludwig von Maurer sulla medesima comune germanica, passa alla lettura di questo secondo autore. Da questa successione Saito conclude che “le questioni dell’ecologia e delle società precapitalistiche sono connesse sin dall’inizio”.5 Cita poi un una lettera a Engels in cui Marx parla dei due autori appena menzionati attribuendo loro “un’inconscia tendenza socialista” che implica anche la scoperta di “ciò che è più nuovo in ciò che è più vecchio”.6
Questi accenni potrebbero rimanere una mera curiosità se non venissero messi in connessione con quanto scrive Marx nel 1881, dopo aver approfondito lungamente i temi delle scienze naturali e delle società precapitalistiche. Nelle bozze preparatorie alla lettera a Vera Zasulic Marx descrive la comune russa come possibile “elemento di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico”.7 Ipotizza, inoltre, che la crisi del capitalismo finirà “attraverso il ritorno a una forma più alta di un tipo ‘arcaico’ di proprietà e produzione collettive”.8 In ogni caso Marx non è un romantico. La comune russa per sopravvivere e diventare la leva per la rigenerazione della società deve svilupparsi acquisendo la capacità di cooperare su scala più ampia e appropriandosi delle conquiste tecnologiche del capitalismo.

Attraverso questi elementi è possibile anche leggere retroattivamente alcuni passaggi dei testi marxiani. Quando, per esempio, Marx parla di regno della libertà nel III libro del Capitale non lo identifica con il dominio sulla natura che sarebbe in grado di introdurci in un mondo di abbondanza. Nel campo della produzione materiale la libertà può consistere solo nel fatto che i produttori associati governano razionalmente il metabolismo umano con la natura lavorando in condizioni degne dell’essere umano e, cosa rilevante ai fini ecologici, con il minimo dispendio di energia. Ma questo rimane pur sempre il regno della necessità. La vera libertà inizia solo quando, su questa base, è possibile sviluppare le capacità umane come fini a se stesse.
Interpretando queste posizioni alla luce delle preoccupazioni ecologiche dell’ultimo Marx è possibile sviluppare un concetto di ricchezza che vada al di là del suo aspetto meramente quantitativo e che dunque non richiede uno sviluppo indefinito delle forze produttive. Saito, a questo proposito, è ben consapevole che sta partendo da Marx per andare oltre Marx che, sebbene negli anni Sessanta abbia chiaramente fatto sue alcune istanze ambientaliste ante litteram, non ha mai parlato esplicitamente del comunismo come connotato da uno stato stazionario dell’economia e ancor meno dalla decrescita, neanche negli ultimi anni della sua vita.
Rimane il fatto che proprio a partire da Marx si può distinguere tra una scarsità socialmente indotta e una determinata dalla natura. La prima, che è consustanziale al capitalismo, può essere superata recuperando una dimensione collettiva e cooperativa, della ricchezza e della sua produzione. La seconda, invece, non può mai essere eliminata del tutto perché la natura presenta a qualunque società umana dei limiti che non possono essere oltrepassati, pena la catastrofe ecologica.
Di certo, finché consideriamo la merce come forma naturale della ricchezza non è possibile porre limiti alla crescita. Il vero problema non è costituito dalla potenziale illimitatezza dei bisogni umani perché il fine ultimo della merce è quello di soddisfare la brama illimitata di profitto del capitale che la produce piuttosto che i desideri e le necessità di chi la consuma. Nella merce, il valore d’uso è solo il necessario supporto del “valore che si valorizza” senza posa.
All’opposto di questo tipo di ricchezza, che si può pure moltiplicare all’infinito ma non cessa mai di essere scarsa, c’è quella che Marx nella Critica del programma Gotha definisce genossenschaftlicher Reichtum. Si tratta di un termine che, nota Saito, pur comparendo una sola volta è di grande importanza. Può essere tradotto come “ricchezza comune/cooperativa/comunitaria” e richiama le modalità di produzione, di distribuzione e di rapporto con la natura tipiche delle comuni agricole. Solo quando tutte le sorgenti di questo tipo di ricchezza scorrono con abbondanza “l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato”,9 sostiene Marx. Insomma il rivoluzionario tedesco non rinuncia mai all’idea che il comunismo debba essere un regno dell’abbondanza, ma ciò non richieda la soddisfazione di desideri illimitati e una crescita infinita delle forze produttive perché “l’abbondanza non è una soglia tecnologica, ma una relazione sociale”.10 In altri termini, “l’abbondanza della ricchezza comune riguarda la condivisione e la cooperazione attraverso la distribuzione sia della ricchezza sia degli oneri più equamente e giustamente tra i membri della società”.11

Queste discussioni possono apparire il frutto di una oziosa acribia filologica, ma occorre notare come la posta in gioco sia politicamente significativa. Finché l’ambientalismo sarà sinonimo di una limitazione generalizzata dei consumi in nome della sostenibilità ecologica difficilmente potrà diventare una prassi generalizzata delle classi subalterne in un mondo caratterizzato da una enorme sperequazione nella distribuzione della ricchezza. Per vincere la battaglia nel territorio conteso dell’immaginario collettivo occorre mettere in campo una concezione completamente diversa di benessere sociale che, basandosi sull’idea di ricchezza comune, sappia coniugare equità sociale e rispetto dei limiti naturali.
Marx certamente non basta, ma senza la sua critica dell’economia politica si fatica a capire come le catastrofi ecologiche e quelle sociali hanno la medesima radice, la produzione capitalistica che si sviluppa “solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio“.12 E si corre
 il serio rischio di rimanere teoricamente disarmati di fronte all’imbroglio rappresentato dal capitalismo green, ennesimo esempio di come la borghesia sia in grado di trarre profitto dai disastri che essa stessa produce. “Après moi, le déluge! è la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista”,13 sosteneva Marx. Oggi il diluvio è arrivato, non solo metaforicamente come dimostra il recente disastro in Emilia Romagna, ma il capitalismo è ancora qui con la sua infinita brama di profitto che gli impedisce di accettare qualsiasi limite, sociale e naturale, perché l’unico vero limite che la produzione capitalistica può riconoscere è il capitale stesso.

 


  1. Karl Marx, Il capitale, libro III, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 926. Il termine tedesco Stoffwechsel è tradizionalmente reso nelle traduzioni italiane con l’espressione “ricambio organico”, mentre Saito lo traduce con “metabolism”. 

  2. Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, p.156. Traduzione mia, come le successive. 

  3. Ivi, p. 80. 

  4. Ivi. p. 278. 

  5. Ivi, p. 200. 

  6. K. Marx, Lettera a Engels, 25 marzo 1868, cit. in K. Saito, cit. p. 201. 

  7. Karl Marx, Lettera a Vera Zasulic, 16 febbraio 1881, in K. Marx, Russia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 83. 

  9. Karl Marx, Critica del programma Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 17.  

  10. K. Saito, cit., p. 232 

  11. Ibidem. 

  12. Karl Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 553. 

  13. Ivi, p. 305. 

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