Trans Adriatic Pipeline – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tutelare il gasdotto, soffocare il conflitto: tre sentenze contro il movimento No TAP https://www.carmillaonline.com/2021/03/21/tutelare-il-gasdotto-soffocare-il-conflitto-tre-sentenze-contro-il-movimento-no-tap/ Sun, 21 Mar 2021 09:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65471 di Alexik

“Espressioni come “una protesta pacifica” sono, dunque, non particolarmente utili per descrivere le nostre lotte.  “Protesta pacifica” non significa niente, perché dal punto di vista dello Stato e del Capitale, quando qualcuno si impegna in una protesta è, per definizione, non più in pace: l’atto di protestare è un rifiuto. È il rifiuto di uno status pacificato, è il rifiuto della pretesa che si debba accettare ogni cosa che viene imposta nel nome del progresso e dello sviluppo. Quando l’espropriazione viene contrastata dal rifiuto del soggetto, il soggetto diventa un [...]]]> di Alexik

“Espressioni come “una protesta pacifica” sono, dunque, non particolarmente utili per descrivere le nostre lotte.  “Protesta pacifica” non significa niente, perché dal punto di vista dello Stato e del Capitale, quando qualcuno si impegna in una protesta è, per definizione, non più in pace: l’atto di protestare è un rifiuto.
È il rifiuto di uno status pacificato, è il rifiuto della pretesa che si debba accettare ogni cosa che viene imposta nel nome del progresso e dello sviluppo. Quando l’espropriazione viene contrastata dal rifiuto del soggetto, il soggetto diventa un nemico.”

Potremmo partire dalle parole di Mark Neocleous, pronunciate proprio a Melendugno nell’ottobre 20181, per commentare le sentenze di tre procedimenti contro il Movimento No TAP, conclusi in primo grado il 19 marzo scorso con 88 condanne a pene variabili dai 3 mesi ai 3 anni abbondanti. Condanne raddoppiate, e a volte triplicate, rispetto alle richieste del PM, o inflitte anche a fronte della richiesta di assoluzione da parte del PM stesso.

Sanzionati, dunque, i “muri umani” eretti per impedire il passaggio dei mezzi del cantiere TAP, muri di persone indisponibili ad “accettare ogni cosa imposta nel nome del progresso e dello sviluppo”, come la costruzione di un’opera devastante, pericolosa, inquinante, climalterante.
Sanzionate le corna innalzate verso le truppe antisommossa e il dito medio contro l’elicottero in volo, i lanci di uova e di ciclamini, le violazioni dei fogli di via e le “inosservanze di provvedimenti dell’autorità”.
Condannati con il massimo edittale anche 17 compagne e compagni a cui  è stato negato lo status di parti lese, dopo essere stati braccati, feriti, umiliati, sequestrati mentre erano di ritorno dai cancelli del cantiere, dove avevano semplicemente intonato dei cori2. Inutile dire che nessuno procederà contro i loro aguzzini.

Per molti versi questa vicenda processuale infonde una persistente sensazione di dejavu, di cose già viste a circa 1.200 km a nord ovest, presso il Tribunale di Torino.
Per esempio, accomuna gli uffici giudiziari torinesi e salentini la costruzione di maxiprocessi “omnibus”, che raggruppano ipotesi di reato per  fatti commessi in diversi tempi e luoghi e, nel caso del maxiprocesso leccese,  anche completamente scollegati.
Potpourri giudiziari con tantissimi imputati, che tradiscono più la fretta di arrivare a condanna che la volontà di approfondire contesti, dinamiche e reali responsabilità.
Altro particolare comune è l’attrazione che esercitano i movimenti territoriali per i magistrati antimafia. Se Gian Carlo Caselli ha lasciato in Val di Susa un ‘ricordo indelebile’, il maxi processo No TAP ha potuto giovarsi sia di un PM che del giudice monocratico provenienti dai processi alla Sacra Corona Unita. Non si tratta probabilmente di un caso fortuito:

La nomina di un magistrato antimafia si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo… In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione3.

Nella stessa direzione si colloca la scelta delle aule bunker come location dei  processi contro i movimenti,  scelta atta a suggerirne l’equiparazione con le grandi organizzazioni criminali.
Anche a Lecce, come a Torino, ci sono testimoni che pesano come piume ed altri come montagne. Infatti, secondo le dichiarazioni del giudice monocratico, “la testimonianza di un pubblico ufficiale è da considerarsi già di per sé veritiera”.
Anche a Lecce, come a Torino, i procedimenti che tutelano le grandi opere dalle proteste popolari corrono “ad alta velocità”4. I tre processi contro il movimento No TAP, con 126 imputati, sono arrivati a sentenza di primo grado in appena 7 mesi, con udienze pressoché settimanali, addossando alla difesa un carico di lavoro immane, anche per la mole di materiale videoregistrato da consultare.
Mentre il calendario delle udienze contro il movimento, nonostante l’emergenza COVID-19, non ha subito modifiche, un altro processo, che vede imputata per disastro ambientale la multinazionale TAP e le aziende appaltatrici, è stato rinviato per pandemia.
Forse nella prospettiva di poter onorare anche questa volta l’antica tradizione italica della chiusura in prescrizione dei procedimenti che riguardano i reati ambientali.

Foto di Baba Paradiso.

A Torino il Tribunale ha fatto da tempo da apripista nel comminare condanne pesanti anche nei casi il cui l’opposizione alle grandi opere si è espressa attraverso modalità assolutamente “gandhiane”.
Emblematiche a proposito le carcerazioni di Dana, Fabiola, e prima ancora di Nicoletta, condannate per aver parlato al megafono o tenuto uno striscione durante una breve manifestazione sull’autostrada A32 .
Il Salento ha seguito l’esempio, e anche sulle condanne del 19 marzo contro il movimento No TAP è stato buttato il carico da 11. Divers* compagni e compagne potrebbero varcare nel tempo la soglia del carcere se la situazione non viene modificata nei successivi gradi di giudizio.
Molte delle condotte sanzionate, in altri tempi (sempre più lontani), probabilmente non avrebbero comportato nemmeno l’apertura di un processo.
Ma c’era bisogno di dare un segnale, perché il gasdotto vuole continuare la sua corsa verso nord, sotto le forme di “Rete Adriatica Snam”, e non tollera altri ostacoli.

Nel dicembre 2020 il Consiglio Europeo ha approvato “l’obiettivo vincolante di una riduzione interna netta di almeno il 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030“, da raggiungere  …. anche tramite “tecnologie di transizione come il gas”, avvallando in questo modo la prospettiva dell’utilizzo del gas come sostituto del carbone.
[Che, per inciso, oltre ad essere un combustibile fossile, è un gas serra molto più potente della CO2, e la sua estrazione e trasporto comportano emissioni fuggitive in atmosfera tali da renderne l’utilizzo più climalterante del carbone stesso.]
Non vengono messi a rischio quindi dal Green New Deal europeo (anzi!) i 32 progetti di interconnessione del gas considerati “di interesse comune” dall’U.E., compresi il TAP, l’EastMed  (dai giacimenti al largo di Israele e Gaza fino alla costa di Otranto) e la Rete Adriatica Snam.
Quest’ultima promette di solcare con un tubo di  120 cm di diametro pieno di gas le aree a maggior rischio sismico della penisola, come la Valle Peligna, i paesi dell’hinterland aquilano, quelli dell’Umbria, delle Marche e dell’Emilia, fino a Minerbio.
In pratica, sfiorando gli epicentri dei più forti terremoti che hanno interessato l’Italia dal 1997 a oggi.
Attualmente il processo di autorizzazione della Rete Adriatica Snam nel tratto Sulmona/Foligno è ancora fermo in attesa di un adeguato studio sulla sismicità, ma esperienza insegna che spesso non bastano le barricate di carta a fermare opere devastanti.
Quando si renderà necessario anche in Abruzzo, Umbria, Marche ed Emilia innalzare “muri umani” contro le ruspe, l’esempio della sentenza salentina rappresenterà un sinistro precedente.

Per questo è il momento di dare un segnale di controtendenza, dimostrando che anche davanti a queste squallide operazioni siamo uniti e solidali con chi subisce rappresaglie per aver difeso i territori, con i loro ecosistemi e comunità umane, in Salento come altrove.
E anche per gratitudine, perché non dimentichiamo che proprio grazie alla Carovana No TAP e all’intervento informativo dei compagni salentini, si è innescato a Minerbio (BO) quel processo di coinvolgimento e attivazione di realtà locali che ha portato al blocco di un pericoloso progetto di sovrappressione degli impianti di stoccaggio del gas gestiti dalla Stogit. E di questo va dato atto proprio a quei compagni e a quelle compagne che oggi subiscono la criminalizzazione giudiziaria.

Support the fight !

Avanti NO TAP !


  1. Mark Neocleous, What is Pacification?, intervento al workshop “Policing Extractivism: Security, Accumulation, Pacification”, Melendugno (LE), 5-6-7 ottobre 2018. QUI la traduzione in italiano. 

  2. Ne abbiamo già parlato su Carmilla nella puntata n.  5 di “Il nemico interno” 

  3. Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione, Comunella Fastidiosa, 12/03/21. 

  4. Sulla velocità dei processi contro il Movimento No Tav, si veda, su Carmilla, la puntata n. 6 di “Il nemico interno“. 

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Il nemico interno/5 https://www.carmillaonline.com/2020/09/10/il-nemico-interno-5/ Thu, 10 Sep 2020 05:14:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62695 di Alexik

Che cos’è la violenza ? Quanto ne è permeato il nostro ordinamento giuridico ? Il diritto penale è uno strumento per combatterla o per esercitarla? Domani a Lecce, in due luoghi diversi della città, avranno inizio in contemporanea le udienze per il maxiprocesso contro il movimento No TAP e quelle contro i vertici della società Trans Adriatic Pipeline.

Luoghi diversi, dicevo, perché 92 compagne e compagni salentini che in questi anni si sono oppost* alla devastazione del loro territorio verranno processat* nell’aula bunker attigua al carcere [...]]]> di Alexik

Che cos’è la violenza ?
Quanto ne è permeato il nostro ordinamento giuridico ?
Il diritto penale è uno strumento per combatterla o per esercitarla?
Domani a Lecce, in due luoghi diversi della città, avranno inizio in contemporanea le udienze per il maxiprocesso contro il movimento No TAP e quelle contro i vertici della società Trans Adriatic Pipeline.

Luoghi diversi, dicevo, perché 92 compagne e compagni salentini che in questi anni si sono oppost* alla devastazione del loro territorio verranno processat* nell’aula bunker attigua al carcere della città, mentre i 19 imputati di TAP e appaltatori si accomoderanno presso il tribunale di Lecce.

L’utilizzo delle aule bunker per i processi ai movimenti fa ormai parte di una tradizione consolidata, inaugurata nove anni or sono dalla magistratura di Torino che scelse l’aula bunker del carcere delle Vallette per il dibattimento a carico di due sindaci della Val Susa, inquisiti per una manifestazione No TAV.
Una decisione finalizzata evidentemente ad equiparare i movimenti per la difesa ambientale e sociale alla lotta armata di quasi mezzo secolo fa ed alla criminalità organizzata di ieri e di oggi, a cui l’aula in questione era destinata.
Quei sindaci vennero assolti, ma la criminalizzazione rimase.
Contro il movimento No TAV venne ancora ampiamente utilizzata l’aula bunker, così come gli strumenti della legislazione emergenziale sviluppati contro le organizzazioni armate ed applicati a un’opposizione popolare1.

La scelta della location ebbe un successo che riuscì travalicare i confini del Piemonte.
A Modena, come ci racconta su Carmilla Giovanni Iozzoli, l’aula bunker adiacente al carcere viene usata per i procedimenti contro gli operai e i sindacalisti del Si Cobas “colpevoli” di lottare alla Alcar Uno e all’Italpizza, in un territorio che ha fatto già da scenario al tentativo (fallito) della procura di trasformare le vertenze per la regolarità salariale in reato di estorsione, il riscatto della dignità del lavoro in attività delinquenziale.

Domani l’aula bunker del carcere di Lecce vedrà alla sbarra 92 compagne e compagni salentin*, riunit* in un maxiprocesso potpourri che accorpa tre procedimenti diversi, per fatti avvenuti in tempi e luoghi differenti.

La contestazione più frequente, con buona pace dei diritti costituzionali, riguarda il reato di manifestazione non preavvisata, attribuito a soggetti responsabili di aver “sventolato bandiere ed esibito striscioni con la scritta No TAP” , “usato il megafono per lanciare appelli e slogan“, “usato un fischietto per attirare l’attenzione dei passanti“.
Alcuni sono accusati di violenza per aver tentato di impedire il transito delle autovetture di TAP stendendosi sul cofano col proprio corpo, o ponendosi di fronte alle macchine.
E’ questa, dunque, la violenza, per gli esegeti del codice penale.

Fra gli imputati di domani vi sono anche i 52 che il 9 dicembre 2017, dopo un corteo contro il gasdotto, raggiunsero a piccoli gruppi attraverso le campagne uno dei cancelli posti a delimitazione dell’area di cantiere di San Basilio (Melendugno), fermandosi ad intonare dei cori di protesta.
Sulla via del ritorno vennero inseguiti nei campi dagli agenti in tenuta antisommossa, con lanci di lacrimogeni e con l’elicottero della polizia di Stato che calava bassissimo sulle loro teste.
Vennero catturati, ammanettati e costretti in ginocchio fra pietre e rovi, con i cellulari requisiti per impedire che chiamassero gli avvocati, aggrediti coi manganelli ad ogni tentativo di protesta.
Una delle ragazze inseguite dagli agenti, che era caduta rompendosi una gamba, rimase a lungo senza soccorso. L’ambulanza del 118, giunta a San Basilio su chiamata di altri manifestanti, venne infatti bloccata al varco e respinta dalle forze dell’ordine, che poi si preoccuparono di portare la compagna non all’ospedale ma alla questura di Lecce.
All’interno della questura, gran parte dei fermati vennero chiusi per ore nelle celle di sicurezza senza poter andare in bagno per molto tempo.
Le donne venivano accompagnate fin sulla soglia dei bagni da agenti di sesso maschile, e una delle compagne ha avuto modo di denunciare insulti sessisti e omofobi giunti a suo carico.
Solo dopo ore di attesa sotto la pioggia battente, gli avvocati presenti vennero informati del fatto che tutti i manifestanti sarebbero stati rilasciati, e che nei loro confronti sarebbe stata formalizzata una denuncia a piede libero per i reati di riunione non preavvisata, inosservanza dei provvedimenti dell’autorità ed accensioni pericolose2.
Con queste accuse andranno domani a processo, dovendo affrontare la violenza di un giudizio che li vede sul banco degli imputati e non su quello delle parti lese e, prevedibilmente, l’ulteriore violenza dell’impunità riservata ai loro aggressori.
Inutile dire che le loro denunce per il trattamento subito rimangono ancora “in fase di indagine e a carico di ignoti”, perché nel Belpaese – come altrove – l’obbligatorietà dell’azione penale è uguale per tutti, ma per qualcuno è più uguale che per altri.

Fra i militanti del movimento molti hanno già ricevuto pesanti sanzioni amministrative (soprattutto per blocco stradale) per aver tentato di ostacolare la costruzione di un’opera devastante, climalterante, platealmente speculativa.
Multe insostenibili per giovani disoccupati e precari o per chi vive del proprio lavoro, con mutuo e figli a carico, in una regione del sud e in tempo di crisi.
La repressione economica è una forma  di violenza ampiamente utilizzata contro i movimenti, secondo un copione ancora una volta sperimentato in Val di Susa3.
Una forma  di violenza particolarmente ricattatoria, nel momento in cui costringe a mettere su un piatto della bilancia la difesa della propria terra, e sull’altro quanto costruito col lavoro di una vita.
Al momento gravano sul Movimento No TAP € 240,000 per sanzioni amministrative a carico dei militanti e € 70,000 per spese legali.

Gravano le sanzioni comminate tramite i  decreti penali di condanna per le violazioni dei fogli di  via, distribuiti dalla questura a piene mani4.
Grava indirettamente il prezzo pagato da chi ha perso il lavoro a causa delle restrizioni nella libertà di movimento, visto che molti destinatari dei fogli di via da Melendugno lavoravano come dipendenti negli alberghi delle sue marine.

Ma al di là dei risvolti economici, al di là dei manganelli e delle restrizioni  alla libertà personale, la violenza più grande è quella degli uliveti espiantati, dei fondali marini distrutti, dei pozzi avvelenati, dei danni irreversibili causati alla Natura.
Alcuni aspetti di questa violenza saranno oggetto del processo contro i vertici di TAP: le violazioni delle prescrizioni della VIA, i lavori svolti in assenza di autorizzazioni ambientali, idrogeologiche, paesaggistiche ed edilizie, gli espianti irregolari.
L’inquinamento delle falde attorno al pozzo di spinta, avvelenate con nichel, arsenico, manganese, bromo e soprattutto cromo esavalente, un potente cancerogeno e genotossico5.
Tutte violazioni al vaglio di una magistratura che non ha comunque fermato il cantiere, attuate all’interno di una Zona Rossa sottratta al controllo popolare per decreto prefettizio, perpetrate davanti a un nutrito schieramento di forze dell’ordine che non solo non le ha bloccate, ma le ha difese manu militari contro una popolazione che voleva impedirle.
Non mi aspetto, dati i precedenti sull’impunità di chi inquina (dal disastro di Seveso all’Ilva di Taranto …), che qualcuno paghi per tutto questo.
Il diritto penale ambientale è strutturato per tutelare il profitto, e non nei tribunali otterremo giustizia.
Ma nel coltivare la capacità di una risposta dal basso, a partire dalla abilità del Movimento di trasformare il terreno della criminalizzazione giudiziaria in una occasione di lotta, in un momento di verità.

 

Sostieni la Cassa di resistenza No TAP !

Ci siamo.

L’11 settembre partirà il maxi-processo contro 92 attivisti notap, colpevoli di aver lottato per difendere un territorio e un ideale.
Quasi cento imputati riuniti in un’aula bunker, di massima sicurezza, come fosse uno di quei processi che fanno la storia dell’avvocatura Italiana.
E noi, in quell’aula, la faremo davvero la storia!
Perché continueremo a camminare a testa alta, rivendicando i diritti di un intero territorio, perché non ci tireremo indietro davanti a chi cerca di imporre un modello di sviluppo anacronistico e imposto.
Perché siamo sempre più convinti di non essere nel torto.
Tutto il territorio é a processo quel giorno.
Tutta quella popolazione che, unita, continua a dire NO a chi vuole costringerci a un sistema estrattivista che non ci appartiene.
Lo stesso 11 settembre andranno a processo anche i vertici di TAP e le ditte esecutrici dei lavori, per reati a nostro giudizio ben più gravi.
E noi saremo presenti anche a quel processo, perché la nostra lotta non si ferma davanti a nulla, la nostra lotta va avanti sempre più forte.
Non si potrà mai processare la voce di una lotta che cerca di difendere il futuro.
Il nostro crimine è soltanto quello di essere in grado di sognare…

Movimento No TAP

 


  1. Per approfondire: Livio Pepino (a cura di), Come si reprime un movimento: il caso TAV. Analisi e materiali giudiziari, Quaderni del Controsservatorio Valsusa, Edizioni Intra Moenia, 2014. 

  2. Avv. Elena Papadia, Difendere i Difensori della Terra. un dossier sulla repressione dei movimenti salentini, opuscolo dell’Associazione Bianca Guidetti Serra, ottobre 2018, pp.56. 

  3. Per approfondire: Prison Break Project, Ultimi  sviluppi  della  criminalizzazione  delle  lotte:  la “repressione  economica, p. 9, luglio 2015. 

  4. Alcune sentenze, come questa, ne hanno ratificato l’illegittimità. 

  5. Agostino di Ciaula, Il rilascio di cromo esavalente da opere realizzate nel cantiere TAP impone la rapida adozione di misure finalizzate alla tutela di ambiente e salute, ISDE, 12 agosto 2019. 

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Estrattivismo pandemico https://www.carmillaonline.com/2020/07/09/estrattivismo-pandemico/ Thu, 09 Jul 2020 07:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61231 di Alexik

Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il cemento degli spazi urbani. Toccavamo con mano, durante il lockdown,  la dimostrazione di come sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura cominciasse a riprendersi ciò che è suo. Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che avevamo [...]]]> di Alexik

Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il cemento degli spazi urbani.
Toccavamo con mano, durante il lockdown,  la dimostrazione di come sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura cominciasse a riprendersi ciò che è suo.
Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che avevamo vissuto solo una fragile tregua nell’aggressione del capitale agli ecosistemi e ai territori, un rallentamento che precede la rincorsa.
Ed anche che come tregua aveva fin troppe eccezioni.

Segnali provenienti da tutto il mondo ci avvertivano che gran parte delle attività di maggiore impatto sull’ambiente e sulle comunità non solo stavano proseguendo ‘as usual’, ma approfittavano della pandemia per espandersi e riorganizzarsi.
Segnali che andavano tutti nella stessa direzione, delineando una dimensione mondiale del fenomeno, con una serie di caratteristiche ricorrenti, come  – per esempio – l’inclusione sistematica nell’elenco dei ‘servizi essenziali’ di attività ad altissimo impatto ambientale e sociale.

Molti settori impattanti non hanno conosciuto fasi di arresto, ed hanno continuato ad operare anche quando si sono trasformati in fulcri di contagio, trasmettendolo  alle comunità dei territori dove operavano.
Il lockdown non li ha colpiti, ma piuttosto li ha sottratti al controllo delle popolazioni e dei militanti, costretti in casa e privati della libertà di  movimento, e sempre più soggetti ad aggressioni favorite dal coprifuoco: violenze poliziesche, arresti arbitrari e, soprattutto in America Latina, esecuzioni extragiudiziali.
In generale la militarizzazione dei territori, dispiegata in tutto il mondo con il pretesto della pandemia, è stata un poderoso deterrente per le proteste sociali e ambientali, facendo da copertura per la violenza selettiva contro gli attivisti, dispensando cariche e sgomberi su presidi e manifestazioni.
Una violenza che non potrà che intensificarsi, perché ciò che si prepara per il futuro è un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento della Natura, che ci verrà venduto come l’unica scelta possibile per ‘riattivare l’economia’ di fronte alla recessione mondiale che viene.

La devastazione ambientale è … un “servizio essenziale”?

Una molteplicità di governi ha esentato dal blocco della produzione per l’emergenza Covid le imprese estrattive, minerarie e petrolifere, la costruzione di grandi opere e di infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi o per la produzione di energia, sebbene non abbiano nulla a che fare con il soddisfacimento dei bisogni immediati delle popolazioni colpite dalla pandemia.

In Italia è stata inserita fra i ‘servizi essenziali’ la costruzione del  gasdotto TAP/Snam, grazie alla libera interpretazione del dettato del DPCM del 22 marzo, che dava il via libera al proseguo delle attività di trasporto e distribuzione del gas.
Una misura che, a buon senso, si riferiva alle reti distributive già esistenti e funzionanti, ma che con una evidente forzatura è stata estesa anche ai cantieri in corso d’opera.
Sulla “essenzialità” di un nuovo gasdotto, va detto che nel solo mese di aprile 2020 i consumi di gas in Italia sono calati di oltre il 23%,  circa 1,3 miliardi di metri cubi in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, seguendo un forte trend negativo  già visibile dal novembre scorso.
Comunque,  in piena pandemia, i lavori di avanzamento nelle province di Lecce e di Brindisi sono continuati a pieno ritmo, spiantando altri uliveti, aprendo voragini, attingendo dal sottosuolo enormi quantità di acqua, inquinando le falde, e tuttora continuano in spregio ad ogni normativa visto che il 20 maggio scorso al TAP è scaduta anche l’Autorizzazione Unica.

Torchiarolo (BR), ex uliveto, ora cantiere SNAM.

Il cantiere è andato avanti nonostante fosse stata  messa in quarantena una delle navi utilizzate da TAP per l’analisi dei fondali, è proseguito nonostante l’infortunio mortale di un giovane operaio, e nonostante la richiesta di sospensione per motivi di sicurezza da parte di sette sindaci salentini, motivata dall’avvicendarsi nei turni di centinaia di lavoratori, le cui condizioni sono state così descritte da un operaio ai microfoni RAI:

Quelli della sicurezza hanno le mascherine a norma, noi lavoriamo con la carta igienica e il rischio di contagio è altissimo: in uno spogliatoio siamo 10-15 operai e non abbiamo nemmeno i 20 centimetri di distanza uno con l’altro”.

Dello stesso tenore la denuncia di due deputate del gruppo misto:

Guanti e mascherine non a norma indossate anche per due tre giorni, operai che arrivano settimanalmente dal Nord, spogliatoi con 20 persone senza protezioni, distanze di sicurezza non rispettate, controlli farsa della Asl, che avvisa preventivamente i dirigenti sul giorno dei controlli, così da renderli perfettamente a norma”.

Uscendo dal Belpaese e attraversando l’oceano, una simile declinazione del concetto di ‘servizio essenziale’ la ritroviamo  in Messico, dove il governo progressista presieduto da Andrés Manuel López Obrador ha ritenuto – nel paese latinoamericano con il più alto numero di morti di Covid (più di 25mila) dopo il Brasile – che la priorità nazionale fosse quella di autorizzare a colpi di decreto l’inizio dei lavori per la costruzione del  ‘Tren Maya’.
Si tratta di una linea ferroviaria ad alta velocità lunga circa 1.500 kilometri che dovrebbe avere lo scopo di far scorazzare i turisti attraverso cinque Stati messicani, da Palenque a Cancun, con prezzi prevedibilmente al di fuori della portata della maggior parte degli abitanti dello Yucatan.

L’operazione è ad altissimo impatto ambientale e sociale in termini di esproprio di terre, espulsione e delocalizzazione delle comunità (prevalentemente indigene), deforestazione, prosciugamento delle sorgenti, distruzione di  habitat ed ecosistemi, interruzione e sbarramento dei percorsi degli animali selvatici e dei collegamenti fra i villaggi.
Il tracciato della linea ferroviaria vorrebbe impattare su 709 siti archeologici,  attraversando 15 aree naturali protette, fra cui la Reserva de la Biosfera de Calakmul (Campeche), riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio mondiale dell’umanità, dove vive l’80% delle specie vegetali dello Yucatan. Assieme alla Reserva de Sian Ka´an (Quintana Roo), anch’essa minacciata dal Tren Maya, ospita centinaia di specie animali.1

Tutto questo viene messo a rischio da un’infrastruttura enorme, che sarà finanziata per il 90% da capitali privati (in buona parte internazionali), costruita ad uso e consumo degli interessi degli appaltatori e dei settori immobiliare, turistico (resort, grandi catene alberghiere), agroindustriale ed energetico.
Un’infrastruttura che promette devastazioni maggiori, perché è solo un tassello di un progetto di interconnessione  più vasto della stessa penisola, e che comprende aeroporti, autostrade, assieme a nuovi gasdotti, raffinerie ed alla costituzione di Zone economiche speciali, aree deregolamentate e defiscalizzate dove è massimo l’arbitrio contro i lavoratori e la natura.

Sulla popolarità di una simile opera, probabilmente lo stesso López Obrador nutriva qualche dubbio, tanto da volerne affidare la realizzazione di ampi tratti direttamente all’esercito.
Infatti il progetto ha incontrato una fiera opposizione popolare, con in prima fila l’EZLN e i movimenti indigeni, anticapitalisti e antipatriarcali, che per ora hanno segnato un punto a favore: qualche giorno fa un tribunale ha accolto la richiesta del popolo Maya Chol, determinando la sospensione definitiva di «qualunque opera che non sia di puro mantenimento delle vie già esistenti», per l’intero periodo di emergenza sanitaria.

Il Tren Maya è rimasto temporaneamente in sospeso, ma il Messico presenta altri fronti aperti.
Il Governo infatti è tornato alla carica con il Corridoio Transistmico, un mega progetto di trasporto merci intermodale che dovrebbe collegare il Golfo del Messico all’Oceano Pacifico attraverso l’istmo di Tehuantepec.
Si tratta di un sistema interamente finalizzato all’integrazione e allo scambio sul mercato mondiale, che attraverserà gli stati di Oaxaca e Veracruz.
Il corridoio, che prevede una linea ferroviaria AV, strade, porti, la costruzione di un gasdotto,  l’ampliamento della raffineria di Minatitlan, lo sviluppo di 10 nuove aree industriali e l’istituzione di una ‘Zona franca’, oggi viene sbandierato dal ministero dello sviluppo economico messicano come la via per uscire dalla crisi causata dal Covid-19.

Ma i militanti delle comunità sanno bene che il corridoio non è la via d’uscita, ma la crisi:

Le persone vedranno e saranno colpite da tutti i problemi e dai rischi che una strada ad alta velocità genera, con l’interruzione del traffico di persone e animali. Le strade bloccheranno i sentieri naturali.
Tutta l’infrastruttura che deve essere costruita attorno a una ferrovia prenderà il controllo della terra delle persone, rovinerà la loro vita naturale e li impoverirà di più. Approfondirà la disuguaglianza economica nell’area. Pochi, pochissimi, ne trarranno beneficio, e la stragrande maggioranza, ancora una volta, vedrà deprezzare il valore della propria attività e della propria terra, che servirà solo da piattaforma di passaggio
”.

Così come le comunità Zapotecos e Ikoots, riunite nella Asamblea de Pueblos de Istmo en Defensa de la Tierra, sanno che il megaprogetto, la cui costruzione verrà presidiata dalla Guardia Nazionale per garantire la serenità degli imprenditori, “porterà una nuova ondata di violenza, repressione, saccheggio, spoliazione, militarizzazione e guerra per i beni naturali”.
E le comunità Ikoots conoscono la violenza: l’hanno appena subita a San Mateo del Mar (Oaxaca), che dista solo 30 km da Salina Cruz, uno dei terminali del corridoio.

Un’epidemia di violenza

Il 21 giugno scorso, militanti dell’Unione delle Agenzie e delle Comunità Indigene Ikoots, mentre si avviavano a una riunione, si sono fermati presso ciò che sembrava un posto di blocco sanitario per il Covid-19, e invece era un’imboscata. Attaccati con armi da fuoco per ore da un gruppo armato legato ad un politico locale, in 15 sono stati assassinati, anche dopo esser stati torturati, lapidati, bruciati vivi. Molti sono rimasti feriti.
La comunità  ikoots ha una lunga storia di lotte e di opposizione ai grandi parchi eolici, lotte che hanno intralciato anni fa molti interessi speculativi nella regione.
Ma negli ultimi tempi, le aggressioni contro gli ikoots sono aumentate nel contesto dell’inizio di lavori per il corridoio, in particolare l’ampliamento dei frangiflutti e delle scogliere del porto di Salina Cruz, ai quali si oppone la maggioranza delle comunità poiché questo implicherebbe l’irreversibile alterazione dell’ecosistema lagunare, sul quale basano la loro vita e la loro cultura ancestrale. (Continua)


  1. Ana Esther Cecena, Josué Vega, Avances de Investigacion, Tren Maya, Observatorio Latinoamericano de Geopolitica, dicembre 2019, pp. 52. 

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Vivere e studiare i conflitti in difesa della terra https://www.carmillaonline.com/2018/09/20/vivere-e-studiare-i-conflitti-in-difesa-della-terra/ Thu, 20 Sep 2018 07:30:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48830 di Alexik

Dal 5 al 7 ottobre si terrà a Borgagne (frazione di Melendugno – LE)  il workshop internazionale “Policing Extractivism: Security, Accumulation, Pacification”. Ricercatori universitari e militanti dei movimenti territoriali provenienti da vari paesi della vecchia Europa e delle Americhe raggiungeranno il Salento per condividere teorie, ragionamenti ed esperienze. Al centro del dibattito l’uso dei poteri di polizia all’interno del processo estrattivista e la critica delle politiche securitarie al servizio dell’accumulazione per spossessamento.

La scelta del luogo dell’incontro non è casuale: è un omaggio alla comunità resistente di Melendugno che [...]]]> di Alexik

Dal 5 al 7 ottobre si terrà a Borgagne (frazione di Melendugno – LE)  il workshop internazionale “Policing Extractivism: Security, Accumulation, Pacification”.
Ricercatori universitari e militanti dei movimenti territoriali provenienti da vari paesi della vecchia Europa e delle Americhe raggiungeranno il Salento per condividere teorie, ragionamenti ed esperienze.
Al centro del dibattito l’uso dei poteri di polizia all’interno del processo estrattivista e la critica delle politiche securitarie al servizio dell’accumulazione per spossessamento.

La scelta del luogo dell’incontro non è casuale: è un omaggio alla comunità resistente di Melendugno che lotta contro il progetto della Trans Adriatic Pipeline.
Riunirsi a Melendugno è un atto di solidarietà e di deterrenza.
Un messaggio rivolto a chi ha costruito zone rosse e imposto stati di assedio in quel piccolo comune salentino. Un messaggio che dice: “noi siamo qui, vi guardiamo, denunceremo ciò che succede nelle aule delle università del mondo”.
La scelta del luogo è anche una dimostrazione di rigore scientifico: studiare i conflitti dove essi si determinano.
Permette di verificare, attraverso l’osservazione partecipata, come l’estrattivismo si manifesti  anche nel Bel Paese secondo i suoi meccanismi classici:
– l’appropriazione, diretta o indiretta, da parte di grandi interessi privati delle risorse presenti sui territori, che vengono distrutte o sottratte alla fruizione delle comunità locali;
– il condizionamento della democrazia e l’intervento dello Stato a favore degli interessi economici multinazionali;
– il controllo dello spazio pubblico, attraverso l’uso della forza e della repressione contro il dissenso delle popolazioni.

Che si tratti di miniere, di gas e petrolio, di ‘infrastrutture strategiche’ o di agroindustria, questo format si ripete in tutto il mondo, con qualche sfumatura differente qualora il modello sia imposto da governi neoliberali o ‘progressisti’.
Cambia però immensamente l’intensità della violenza a seconda che ci si trovi – riprendendo la definizione di Raul Zibechi1-  nella “zona dell’essere” o del “non essere” .

L’ultimo rapporto di Global Witness ha contato 207 difensori della terra e dell’ambiente morti ammazzati nel 2017, quasi tutti in America Latina, Asia e Africa,  principalmente perché si opponevano all’estensione delle monocolture e dell’estrazione mineraria. Il dato non comprende i ferimenti, le mutilazioni, gli stupri, lo spostamento forzato di intere comunità.
Contemporaneamente nella “zona dell’essere” – quello che una volta era il così detto primo mondo – si assiste al restringimento degli spazi di agibilità politica dei movimenti (shrinking spaces) e ad una osmosi sempre maggiore fra le logiche di guerra e quelle di gestione del conflitto interno.

Sarà il tema degli “shrinking spaces”  ad aprire il workshop di Borgagne, con un focus sull’Italia.
Italo di Sabato, grazie al monitoraggio condotto da anni dall’Osservatorio Repressione, si occuperà della panoramica generale.
Lo seguiranno l’avv. Elena Papadia con un dossier sulla repressione dei movimenti salentini per la difesa della terra, e Xenia Chiaramonte che si soffermerà  sulla criminalizzazione giudiziaria del movimento No Tav e sugli strumenti di resistenza e di contro-condotta sperimentati dai militanti della Valsusa.2

Ben Hayes, del Transnational Institute, introdurrà il tema della guerra presentando il “War and Pacification Project”, un progetto che ricostruisce i nessi fra militarizzazione, security e globalizzazione.
Gli interventi di Mark Neocleous, Guillermina Seri, Mia Tamarin e Tia Dafnos si articoleranno attorno al concetto di “pacificazione”, declinandolo sia in termini generali, che in riferimento alle esperienze di America Latina, Palestina e Canada.
Pacificazione intesa come riduzione delle popolazioni riottose ad una “sottomissione pacifica” attraverso un’azione combinata di “forza e politica”: la forza per distruggere il nemico, la politica per costruire un nuovo ordine ideologico sopra le ceneri del vecchio.3

Di applicazione delle logiche di guerra ai conflitti interni si parlerà anche nelle sezioni “Law and the enemy” grazie ai contributi teorici di Michele Carducci e dei Prison Break Project sul diritto costituzionale e penale del nemico.
Rhys Machold e Brendan McQuade affronteranno il tema delle polizie, sia in termini di organizzazione che di globalizzazione delle conoscenze degli apparati di sicurezza.

Molti interventi analizzeranno le realtà di singole aree o paesi.
Largo spazio avrà l’America Latina, con il contributo accademico di  Juan Kornblihtt su rendita terriera e lotta di classe, e con la presenza di María del Carmen Verdú e David Velazco che interverranno rispettivamente in rappresentanza della Coordinadora Contra le Represiòn Policial e Institucional (AR), e dell’Observatorio de Conflictos Mineros de America Latina (PE).
Kevin Blowe, William Jackson e Noelie Audi-Dor analizzeranno le misure repressive contro gli attivisti antifracking e antigas in UK, mentre Elena Gerebizza di RE:Common si occuperà dei regimi dittatoriali e autoritari sul percorso dei gasdotti SCP e TANAP (Azerbaigian, Georgia e Turchia).
L’estrattivismo petrolifero di casa nostra, dalle trivellazioni in mare alle operazioni dell’ENI, verrà trattato da Enzo Di Salvatore e Laura Greco (A Sud). Al Salento sarà dedicato l’intervento di Nicola Grasso sulle pressioni per la sostituzione degli uliveti tradizionali con impianti superintensivi, come esempio di estrattivismo agroindustriale .
In chiusura, Simona Fraudatario offrirà una panoramica sui diritti umani violati dalle attività minerarie ed agroindustriali in Asia, Africa e Nord America attraverso le sentenze del Tribunale Permanente dei Popoli.

Il workshop vedrà la partecipazione di movimenti dalla Valsusa e dall’Abruzzo, di compagni antinucleari dalla Francia e ‘Gas attivisti’ da Germania ed Inghilterra. Ovviamente non mancheranno i salentini: oltre agli organizzatori No Tap, ci sarà chi ha lottato contro gli espianti degli ulivi, contro  la costruzione di follie stradali come la 275,  contro l’inquinamento di Taranto, di Cerano e di Avetrana, contro la privatizzazione dell’acqua.

Le fasi seminariali si concluderanno con un’assemblea pubblica per esporre le relazioni finali e poter meglio abbracciare la popolazione di Melendugno, presso il Nuovo Cinema Paradiso alle h. 16.00 di domenica 7 ottobre.
QUI il programma dettagliato.

Organizzano: Transnational Institute, Università del Salento-Cedeuam, Movimento No TAP, Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia

Per info: workshopborgagne@gmail.com.


  1. Raul Zibechi, La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina, pp. 103. 

  2. A questo proposito è consigliabile la lettura di: Xenia Chiaramonte, Alessandro Senaldi, Criminalizzare i movimenti. I No Tav fra etichettamento e resistenza, in ‘Studi sulla questione criminale, X, n. 1, 2015, pp. 105-144. 

  3. Mark Neocleous, La lógica de la pacificación: guerra-policía-acumulación, Athenea Digital – 16(1): 9-22, marzo 2016. 

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Una Carovana si aggira per l’Italia https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/carovana-si-aggira-litalia/ Thu, 21 Dec 2017 16:41:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42401 di Alexik

E’ in viaggio, lungo tutto il percorso del gasdotto, la Carovana  di solidarietà e di informazione NoTAP/No Snam, frutto della collaborazione di decine di associazioni che denunciano da anni la pericolosità economica e ambientale dei progetti di costruzione della Trans Adriatic Pipeline e della Rete Adriatica Snam. È  partita da Melendugno il primo dicembre, rompendo lo stato d’assedio imposto al piccolo paese salentino attraverso il rilancio della contraddizione sul piano nazionale. Perché è una questione nazionale la devastazione di centinaia di km di natura, il rischio per le [...]]]> di Alexik

E’ in viaggio, lungo tutto il percorso del gasdotto, la Carovana  di solidarietà e di informazione NoTAP/No Snam, frutto della collaborazione di decine di associazioni che denunciano da anni la pericolosità economica e ambientale dei progetti di costruzione della Trans Adriatic Pipeline e della Rete Adriatica Snam.
È  partita da Melendugno il primo dicembre, rompendo lo stato d’assedio imposto al piccolo paese salentino attraverso il rilancio della contraddizione sul piano nazionale.
Perché è una questione nazionale la devastazione di centinaia di km di natura, il rischio per le popolazioni, lo sperpero di denaro, la politica delle grandi opere imposte con la militarizzazione dei territori.

La Carovana è già approdata a Brindisi, un’area massacrata da decenni di petrolchimico e centrali a carbone su cui incombe il progetto Eagle LNng Terminal & Pipeline, un nuovo gasdotto che dovrebbe partire da un terminale di rigassificazione in Albania per approdare sulla spiaggia di Lendinuso.
Ha proseguito per Pisticci, vicina ai territori di Ferrandina e Salandra interessati dal progetto  della Geogastock, un sito di stoccaggio che prevede la compressione di milioni di metri cubi di gas nei pozzi dismessi dell’ENI. Su Pisticci aleggia anche il progetto EastMed, presentato di recente dal ministro israeliano dell’Energia, Yuval Steinitz, in visita in Italia. Riguarda un gasdotto sottomarino capace di trasportare circa 12 miliardi di metri cubi di gas naturale da Israele alla costa ionica fra Pisticci e Metaponto.

Dopo aver sostato a Campobasso, domani la Carovana farà tappa a Sulmona, dove la Snam ha previsto una centrale di compressione per imprimere al gas della Rete Adriatica nuova spinta verso nord. Oltre ovviamente al passaggio del gasdotto, seguendo un tracciato in piena zona sismica di primo grado, che toccherà anche Onna, L’Aquila, Norcia, lambendo Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, tutti paesi interessati dei terremoti devastanti degli ultimi anni e che potranno venir attraversati da infrastrutture a rischio di incidente rilevante.
È questo il concetto di ‘rilancio delle aree terremotate’ di cui si riempie la bocca ogni delegazione in visita ufficiale, in rappresentanza di governi che non sanno nemmeno garantire le casette.

La Carovana si fermerà nuovamente a Norcia il 5 gennaio. Sarà il 13 a Fiastra (MC), il 19 a Bologna, il 20 a Minerbio (BO), il 25 a Crema e il 26 a Milano, per unire territori solidali, discutere dell’impatto della grande opera e delle alternative di politica energetica.

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Alla canna del gas/2 https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/alla-canna-del-gas2/ Thu, 21 Dec 2017 06:15:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42328 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

Con un emendamento a sorpresa alla legge di bilancio, il Governo Gentiloni  ha provato tre giorni fa a rendere la Trans Adriatic Pipeline (TAP) “opera di interesse strategico nazionale”. Non ho capito bene però se si riferisse all’ ‘interesse strategico nazionale’ dell’Azerbaigian o  della Turchia. O forse agli interessi strategici della British Petroleum, della azera Socar, della russa Lukoil, della Turkish Petroleum Overseas Company… Oppure a quelli dei grandi fondi di investimento, che vedono nella creazione di un mercato finanziario del gas una [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente]

Con un emendamento a sorpresa alla legge di bilancio, il Governo Gentiloni  ha provato tre giorni fa a rendere la Trans Adriatic Pipeline (TAP) “opera di interesse strategico nazionale”.
Non ho capito bene però se si riferisse all’ ‘interesse strategico nazionale’ dell’Azerbaigian o  della Turchia.
O forse agli interessi strategici della British Petroleum, della azera Socar, della russa Lukoil, della Turkish Petroleum Overseas Company…
Oppure a quelli dei grandi fondi di investimento, che vedono nella creazione di un mercato finanziario del gas una nuova occasione speculativa.
O probabilmente al loro insieme.
Per capire di chi siano questi  ‘interessi strategici’ proviamo a partire dalla ridente Repubblica caucasica da dove il gas dovrebbe iniziare il suo percorso.

L’Azerbaigian è un democrazia democraticamente posseduta dagli Aliyev da più di 50 anni.
Heydar Aliyev, padre della patria e dell’attuale presidente, raggiunse i vertici del potere dell’allora Repubblica Socialista Sovietica già negli anni ’60, con ruoli di rilievo nel Ministero degli Interni e nel Partito.
Aveva iniziato la sua carriera molto giovane tra le fila del NKVD, ai tempi in cui il Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del  (Commissariato del popolo per gli affari interni), l’organo preposto alle purghe staliniane, era ancora presieduto da Lavrentij Pavlovič Berija.
Si fece dunque le ossa in quell’ambiente per poi attraversare indenne la destalinizzazione salendo i gradini del NKVD  azero  fino alla presidenza nazionale. Nel ’69 divenne Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Azerbaigian, fino al  1982, quando Jurij Andropov  lo promosse al ruolo di Vice-Primo Ministro dell’Unione Sovietica.
Gli anni di Gorbaciov ne interruppero l’ascesa, ma Heydar riemerse dopo l’indipendenza dall’URSS, quando un colpo di stato lo rilanciò al potere.
Subito dopo l’Assemblea Nazionale Azera, prudentemente, lo confermò alla presidenza della giovane repubblica, e lì rimase fino al 2003, anno del suo passaggio a miglior vita.

Alla sua morte la presidenza del paese venne ereditata dal figlio Ilham che la detiene tuttora, coadiuvato dalla consorte Mehriban Aliyeva, nominata dal marito alla vicepresidenza.
Intendiamoci: qui non si vuole insinuare che  l’Azerbaigian sia una dittatura ereditaria.
Il paese ha il sistema elettorale più efficiente del mondo, tanto che una app governativa informa i cittadini sui risultati del voto già dal giorno prima delle elezioni.

1997. Heydar Aliyev in visita al Pentagono accanto al ministro della difesa USA William Cohen.

Sul piano economico la gestione degli Aliyev ha posto come primo obiettivo della repubblica indipendente la messa a profitto delle risorse energetiche del paese tramite l’apertura del settore ai capitali occidentali.
Nel 1994 la State Oil company of Azerbaijan Republic (SOCAR), la compagnia petrolifera pubblica presieduta all’epoca dal solito Ilham Aliyev, concluse un accordo con undici compagnie straniere (europee, nordamericane, giapponesi e turche) per la creazione della Azerbaijan International Operating Company1,  una struttura permanente finalizzata all’attivazione di joint venture ed alla concessione dei diritti di sfruttamento sui giacimenti di idrocarburi del paese.
Subito dopo la sua formazione l’AIOC si è aggiudicata il cd ‘contratto del secolo’, cioè lo sfruttamento dei pozzi offshore di Azeri-Chirag-Guneshli.
La maggioranza relativa nella compagnia è tuttora detenuta dalla British Petroleum, che ha quote consistenti anche nella proprietà degli oleodotti South Caucasus Pipeline e Baku-Tbilisi-Ceyhan, e nel consorzio per lo sfruttamento del gas di Shah Deniz, quello che dovrebbe scorrere attraverso la Trans Adriatic Pipeline.
Accanto alla BP (28,8%), il consorzio Shah Deniz comprende la russa Lukoil (10%), la Turkish Petroleum Overseas Company (19%), la SOCAR (16,7), la malese Petronas (15,5%,) e l’iraniana NIOC (10%). All’Azerbaigian restano le royalties, le assunzioni negli impianti, ed i profitti della SOCAR.

L’apertura dell’economia azera all’investimento estero è stata accompagnata da passaggi di ordine politico/militare, quali la partnership con la Nato e l’invio di contingenti in Kosovo, in Afghanistan  ed in Iraq2.
Passaggi che hanno agevolato l’accesso dell’Azerbaigian ai ‘salotti buoni’ della politica e dell’economia internazionale (manca solo il WTO), accreditando il paese come partner affidabile per la progettazione delle grandi opere infrastrutturali finalizzate, almeno nelle intenzioni (soprattutto quelle degli Stati Uniti), ad escludere la Russia e l’Iran dai corridoi energetici diretti in Europa.
Intenzioni non del tutto andate a buon fine, visto che Baku ha riservato qualche fettina della torta ai propri vicini, per mantenere un certo equilibrio.

2017. Carlo Calenda a Baku con Ilham Aliyev.

Comunque è comprensibile che, data la sua disponibilità nella gestione condivisa delle risorse e la sua importanza geostrategica, le potenze occidentali siano propense a perdonarle qualche difettuccio.
Come la bizzarra abitudine di rapire gli oppositori riparati all’estero, infilandogli un cappuccio nero in testa e pestandoli vistosamente, o quella di radere al suolo con le ruspe le sedi delle associazioni per la difesa dei diritti umani, oppure la tendenza ad arrestare i giornalisti impegnati nelle inchieste sulla corruzione dell’establishment.

Su quest’ultima questione i Panama Papers – i documenti riguardanti 214.000 società offshore finiti nelle mani del Consorzio Internazionale dei Giornalisti d’Inchiesta – aprono visuali interessanti.
Raccontano per esempio come nel 2006 Ilham Aliyev abbia consegnato le concessioni di sfruttamento delle miniere d’oro del paese a due società offshore intestate alle sue figlie.
Raccontano come il ministro delle finanze azero Fazil Mammadov abbia creato a Panama, con l’intermediazione dello studio Mossack Fonseca, due società sotto il controllo di Mehriban Aliyeva, first lady e attuale vicepresidentessa.

Le flametowers a Baku.

Raccontano come ad una di queste società, la FM Management, sia stato conferito il 51% delle azioni della AtaHolding, la più importante holding azera, i cui interessi variano dal settore bancario alle telecomuncazioni, passando per le miniere d’oro fino al petrolio e al gas (valore stimato nel 2014 intorno ai 490 miliardi di dollari).
Insomma, i proventi delle principali attività del paese vengono dirottati a Panama City o alle Isole Vergini.
Quello che resta viene indirizzato verso architetture gigantesche e stravaganti, i cui cantieri hanno sventrato intere zone del centro di Baku con poco riguardo per le sessantamila persone chi vi abitavano.
Nella testimonianza del 2012 di un attivista:“La demolizione delle abitazioni avviene senza alcuna decisione della corte, non è possibile avere accesso al progetto urbanistico e non esiste alcuna procedura di appello per chi si oppone all’ordine delle autorità”.
Al posto delle case nascono grandi alberghi, boutique esclusive, negozi di design e concessionari della Ferrari.

Ci spiega Re:Common: “In teoria i proventi di petrolio e gas dovrebbero essere veicolati in un fondo (il SOFAZ) atto a facilitare la transizione economica del Paese una volta terminate le riserve di combustibili fossili. Il tutto a “garanzia delle generazioni  future”. All’atto pratico le cose non stanno così. Per esempio, se si leggono i dati del 2010, a fronte di 7,2 miliardi di dollari di entrate ci sono da registrare ben 6,6 miliardi in uscite. Soldi in buona parte investiti in progetti edilizi dai costi gonfiati. Opere che, come dimostrano indagini giornalistiche, sono in buona parte legate all’elite che governa il Paese, compresa, ovviamente, la famiglia Aliyev.”3

Insomma, la cleptocrazia degli Aliyev riuscirebbe a far sembrare un dilettante anche il più navigato democristiano.
Forse è per questo che la leadership politica azera riscuote la più totale ammirazione di un esponente dell’UDC come Luca Volontè.
Sentimento ricambiato, a quanto pare, dal momento che un lobbista azero, un certo Suleymanov, gli ha donato due milioni e 390mila euro tramite versamenti di società anonime collocate in Belize, Seychelles e British Virgin Island.

Luca Volontè.

In realtà i milioni dovevano essere 10, ma la magistratura milanese ha inquisito Volontè per riciclaggio, provocando una brusca interruzione dei trasferimenti.
Volontè era il presidente del gruppo del Partito Popolare Europeo al Consiglio d’Europa nel gennaio 2013, proprio nel periodo in cui si doveva mettere ai voti una risoluzione di condanna dell’Azerbaigian per 85 detenzioni politiche, presentata dal deputato tedesco Strasser.
Una condanna che avrebbe rischiato di interferire pesantemente sulle negoziazioni in corso per la costruzione della Trans Adriatic Pipeline.
La risoluzione venne respinta con il fondamentale aiuto di Volontè,  che si adoperò per farla bocciare dal gruppo che rappresentava.
Votarono contro anche il Presidente dell’Assemblea del Consiglio d’Europa Pedro Agramunt ed altri 124 deputati.
Evidentemente i lobbisti azeri sanno usare argomenti persuasivi.
A detta di Gerald Knaus, Presidente dell’European Stability Initiative: “Alcuni  funzionari  del  Consiglio  d’Europa  mi  hanno  raccontato  di  delegazioni  estere  di deputati che arrivano in hotel in Azerbaigian e le prostitute entrano nelle stanze dove ci  sono  anche  le  telecamere.  A  questo  punto  li  hai  in  pugno.”4
I vecchi metodi del NKVD funzionano sempre a meraviglia.  (Continua)


  1. L’AIOC è tuttora partecipata, oltre che dall’azera Socar, dalla British Petroleum, dalle americane Chevron, Devon Energy, Exxon Mobil e Amerada Hess, dalle giapponesi Inpex  e Itochu, dalla norvegese Statoil  e dalla Turkish Petroleum Overseas Company. 

  2. Nel 1999 l’Azerbaigian inviò un contingente di soldati nell’ambito della missione Kosovo Force (Kfor) Vennero ritirati  nel marzo 2008 per contestare il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, considerata come un precedente pericoloso per le evoluzioni politiche in Nagorno-Karabakh.  Baku contribuisce con 90 uomini all’International Security Assistant Force (Isaf) in Afghanistan. Dal 2004 al 2008 ha partecipato all’operazione Iraqi Freedom (Oif) in Iraq, con un massimo di 250 soldati. Ma soprattutto l’Azerbaigian si è rivelato determinante sotto il profilo logistico, avendo concesso insieme alla Georgia il diritto di transito e di sorvolo e l’uso delle strutture di rifornimento per le forze aeree occidentali impegnate nelle missioni Isaf e Oif. In: Gabriele Natalizia, Daniel Pommier Vincelli, Azerbaigian. Una lunga storia, Passigli Editore, 2012, pp. 126/127. 

  3. Elena Gerebizza, Luca Manes, Alla canna del gas. Le relazioni pericolose tra Europa e Russia per lo sfruttamento dei giacimenti azeri, RE:Common, 2015, p. 6. 

  4. Paolo Mondani, Cataldo Ciccolella, Caviar Democracy, Report, 21/01/16. 

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Alla canna del gas https://www.carmillaonline.com/2017/11/18/alla-canna-del-gas/ Sat, 18 Nov 2017 06:05:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41703 di Alexik

Domenica scorsa, in piena notte, il paese di Melendugno (LE) è stato messo in stato d’assedio per imporre manu militari la ripresa dei lavori del gasdotto TAP. Un’ordinanza prefettizia ha consegnato per un mese intero l’abitato e le campagne all’arbitrio di un nutrito schieramento  di polizia e carabinieri. Circondata la zona di San Basilio, sede del cantiere della Trans Adriatic Pipeline, sequestrati per 12 ore gli attivisti del presidio di protesta, ostruiti con alte cancellate gli accessi alle campagne circostanti, mentre le camionette sbarravano il transito verso [...]]]> di Alexik

Domenica scorsa, in piena notte, il paese di Melendugno (LE) è stato messo in stato d’assedio per imporre manu militari la ripresa dei lavori del gasdotto TAP.
Un’ordinanza prefettizia ha consegnato per un mese intero l’abitato e le campagne all’arbitrio di un nutrito schieramento  di polizia e carabinieri.
Circondata la zona di San Basilio, sede del cantiere della Trans Adriatic Pipeline, sequestrati per 12 ore gli attivisti del presidio di protesta, ostruiti con alte cancellate gli accessi alle campagne circostanti, mentre le camionette sbarravano il transito verso la marina di San Foca, isolata dal resto del paese.
Impossibile raggiungere il cimitero nel mese dei morti, e gli uliveti carichi di frutti nel momento del raccolto. Posti di blocco ovunque fermavano chi andava al lavoro, i mezzi della nettezza urbana, e perfino lo scuolabus.
Non poteva passare nessuno, tranne i veicoli della multinazionale.

Il pretesto dell’ordinanza faceva riferimento alla ‘possibilità di infiltrazioni anarco-insurrezionaliste’, ma la rappresaglia è stata rivolta contro il paese intero, colpevole di essersi opposto alla grande opera strategica.
Ma strategica per chi?

La Trans Adriatic Pipeline (TAP) è la parte finale del ‘Corridoio Sud’, un gasdotto lungo quasi quattromila chilometri, che parte dal giacimento azero di Shah Deniz 2.
TAP è la prosecuzione della  South Caucasus Pipeline (SCP), il tratto dall’Azerbaigian alla Georgia, e della Trans Anatolian Pipeline (TANAP) – ancora in costruzione – che attraverserà la Turchia fino al confine greco di  Kipoi.
Da Kipoi la pipeline si snoderà lungo 878 chilometri. Toccherà la massima altitudine a 1800 metri tra i rilievi albanesi e la massima profondità a 820 metri sotto il livello del mare.


Se nessuno la ferma, approderà in Salento, a San Foca, rovinando una delle spiagge più belle del litorale e le attività umane (pesca, turismo) che garantiscono il reddito di chi ci vive.
Poi proseguirà a terra spiantando uliveti fino alla centrale di decompressione, circondata da torce inquinanti.
Torce a freddo che produrranno atmosfere esplosive: una bomba piazzata in mezzo ai 27.000 abitanti dei comuni di Melendugno, Vernole, Calimera e Castrì, ed a 800 metri dalle case più vicine.
La TAP avrà il suo termine a Melendugno, ma il gas continuerà la sua corsa, convogliato per  55 km (con l’espianto di altre migliaia di ulivi) fino a Brindisi per confluire nella costruenda Rete Adriatica SNAM.
La Rete Adriatica, che dovrebbe raccogliere anche il metano di altri due gasdotti (il Poseidon e l’Eagle LNG Terminal & Pipeline) risalirà la penisola per 687 km fino a Minerbio (BO), attraversando nel percorso zone altamente sismiche, già interessate dai disastrosi terremoti degli ultimi anni.
Per amplificare l’effetto del prossimo sisma la SNAM ha già previsto la costruzione di una bella centrale di compressione del gas presso Sulmona.
Oltre il nodo di Minerbio, il gas verrà canalizzato verso la Svizzera attraverso Passo Gries e verso l’Austria, a Tarvisio1.
Insomma è un gas da esportazione.

Che l’obiettivo non sia principalmente il mercato italiano è evidente, dato che i consumi nazionali (ben lungi da tornare ai livelli pre-crisi), si aggirano intorno ai 70 miliardi di m3 l’anno, mentre la capacità di importazione attraverso le infrastruttura già esistenti  raggiunge già ora i 140 miliardi di m3 l’anno.
I supporters del progetto sostengono che l’aumento dell’offerta del gas determinerà una diminuzione del prezzo a vantaggio dei consumatori, usando la stessa retorica che aveva accompagnato a suo tempo la costruzione di un’altra infrastruttura “strategica”, il rigassificatore Olt di Livorno.
Realizzato da privati, ma rimasto di fatto inutilizzato, il rigassificatore è stato soccorso da una sorta di assicurazione, finanziata dalle bollette, che copre gran parte dei mancati incassi in caso di inattività: nel 2015 ci è costato 83 milioni di euro.
Proprio un bel ‘vantaggio’ per i consumatori !
Le infrastrutture definite come ‘strategiche’ godono infatti del cd ‘fattore di garanzia’, che comporta che gli eventuali mancati incassi dei privati vengano risarciti attraverso un aumento della bolletta del gas.
Una misura rivendicata dal presidente della ‘Autorità per l’energia e il gas’ Guido Bortoni: “Le infrastrutture strategiche rispondono a un interesse generale: è giusto perciò che il loro costo sia in parte sostenuto anche nelle tariffe”.
Chissà se il fattore di garanzia’ verrà applicato anche a TAP e Rete Adriatica, in nome ‘dell’interesse generale’.
Ma, continuiamo a chiederci, l’interesse generale di chi ?

Dell’Europa che ha bisogno di gas‘, ci dicono.
Le stime di Gazprom e dell’ENI prevedono infatti una domanda europea di gas naturale in forte crescita: dai 478 miliardi di m3 del 2014 ai 632 del 20352.
Ma … l’interesse generale che ci viene sbandierato ad ogni nuova conferenza sul clima, non dovrebbe consistere nell’abbandono dei combustibili fossili per scongiurare l’irreversibilità del riscaldamento globale ?
Con estrema naturalezza, i rappresentanti dei governi delle potenze industriali fingono periodicamente di interessarsi al contrasto dei cambiamenti climatici, proprio mentre rinforzano le politiche energetiche che li determinano.
Non pagheranno loro il prezzo delle inondazioni, della siccità, della desertificazione, dello scioglimento dei ghiacciai, dall’innalzamento degli oceani, dei conflitti e delle migrazioni epocali che tutto questo comporta.

18 maggio 2016: Calenda e Tsipras inaugurano la Trans Adriatic Pipeline a Salonicco.

Dunque, dicevamo: l’Europa avrà bisogno di gas.
E non di un gas qualsiasi, ma di gas indipendente !
E’ infatti ormai una questione prioritaria rompere il giogo della sottomissione energetica nei confronti di Mosca, dimostrando orgoglio e intransigenza nella strategia della fermezza a fianco dell’alleato ucraino!
La preoccupazione in tal senso è così alta che la Germania ha ratificato il raddoppio del North Stream, il gasdotto che già unisce direttamente, attraverso il Baltico, Vyborg, in Russia con Greifswald nella Repubblica Federale.
Il progetto Nord Stream/2, sostenuto da diverse compagnie europee (fra cui l’anglo-olandese Shell, le tedesche Uniper e Wintershall – controllata dalla Basf – la francese Engie e l’austriaca Omv) permetterà alla Germania, all’Olanda, alla Gran Bretagna, alle Repubbliche Ceca e Slovacca, all’Austria e all’Italia di non interrompere gli approvvigionamenti di gas russo qualora Mosca provveda, nel 2019, a chiudere definitivamente a Kiev i rubinetti.

Dettagli come questo inducono il sospetto che tutta questa retorica antirussa in fatto di gas sia solo un’immensa cortina di fuffa.
Fin dall’inizio, la Trans Adriatic Pipeline ci è stata spacciata come una modalità indispensabile di diversificazione delle fonti energetiche che ci avrebbe permesso di alleggerire la dipendenza da Mosca, grazie all’apporto degli immensi giacimenti azeri.
Il fatto è che probabilmente i giacimenti azeri non sono poi così immensi.
Secondo Simon Pirani, Direttore di ricerca dell’Oxford Institute Energy Studies intervistato da Report:
Il Consorzio Tap dichiara che arriveranno 10 miliardi di metri cubi di gas per poi passare a 20. Ma non capisco dove prenderà quest’altra parte di gas. Sappiamo che i giacimenti attuali nel 2023 saranno in declino…. L’Azerbaigian ha da poco chiesto alla Russia di importare del gas per soddisfare i propri bisogni. Se non ne ha per sé, quanto ne avrà da esportare in Europa?“.
Non è dunque impossibile che dal TAP scaturisca l’odiato gas russo, comprato e rivenduto dagli azeri, come del resto non è impossibile che il gas russo arrivi tramite il Turkish Stream, il gasdotto dalla Russia alla Turchia attualmente in costruzione, che si andrà ad intersecare con la TAP all’altezza di Kipoi, sul confine turco/greco.

Pirani continua dicendo: “Se poi vogliamo parlare di prezzo, secondo le nostre stime, sia il gas russo che quello liquido proveniente dagli Stati Uniti costeranno meno del gas che arriverà dall’Azerbaigian“.

In pratica, gran parte degli argomenti utilizzati per farci accettare la costruzione della Trans Adriatic Pipeline non hanno fondamento: dalle necessità del mercato interno, al calmieramento dei prezzi, all’indipendenza da Putin.
Se dunque non è il supremo interesse nazionale a giustificare l’assedio di Melendugno, in difesa di quali interessi prefetto e questore hanno disposto cotanto spiegamento di forze? (Continua)

 

 


  1. Snam Rete Gas, Piano di realizzazione di nuova capacità e di potenziamento della rete di trasporto. Anno Termico 2015/2016, p. 25. 

  2. Demostene Floros, Dal South al Turkish Stream: Ankara gioca la carta russa, in ‘Limes’ n. 5/2015, pp. 136/137. 

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Il nemico interno https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/il-nemico-interno/ Wed, 29 Mar 2017 21:59:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37339 di Alexik

Minniti“Ritenuta la  straordinaria  necessità  ed  urgenza  di  introdurre strumenti  volti  a  rafforzare  la  sicurezza  delle  città  e   la vivibilità  dei  territori  e  di  promuovere  interventi  volti  al mantenimento del decoro urbano” …

È particolarmente istruttivo soffermarsi sul testo del Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città mentre scorrono in sottofondo le immagini degli espianti degli uliveti di Melendugno, per l’avvio dei cantieri del “Trans Adriatic Pipeline”.

E’ illuminante come alcune centinaia di dipendenti del Ministero dell’Interno si siano fatti interpreti, con la semplicità e [...]]]> di Alexik

Minniti“Ritenuta la  straordinaria  necessità  ed  urgenza  di  introdurre strumenti  volti  a  rafforzare  la  sicurezza  delle  città  e   la vivibilità  dei  territori  e  di  promuovere  interventi  volti  al mantenimento del decoro urbano” …

È particolarmente istruttivo soffermarsi sul testo del Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città mentre scorrono in sottofondo le immagini degli espianti degli uliveti di Melendugno, per l’avvio dei cantieri del “Trans Adriatic Pipeline”.

E’ illuminante come alcune centinaia di dipendenti del Ministero dell’Interno si siano fatti interpreti, con la semplicità e l’immediatezza propria della comunicazione non verbale dei manganelli, del contenuto profondo dei concetti enunciati dal Decreto, quali “sicurezza”, “vivibilità  dei  territori”, “decoro”, “benessere delle comunità territoriali”, e della loro articolazione pratica nell’ambito delle politiche di governo.

Melendugno3

Melendugno (LE), 28 marzo 2017.

Le cariche sui sindaci, inoltre, raffigurano plasticamente cosa si intenda per ‘collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza’, qualora i primi cittadini non vogliano ridurre il proprio ruolo a meri persecutori di mendicanti e poveracci in genere, ma pretendano (temerari!) di rappresentare i bisogni e i desideri della gente che li  ha eletti.
Può sorgere il dubbio, invero, che il senso di tali concetti sia stato frainteso, ma io credo che invece i tutori dell’ordine ne abbiano dato una rappresentazione corretta, almeno nell’accezione più cara all’attuale ministro degli Interni (ed anche a tanti suoi predecessori), alla compagine politica che lo esprime ed agli interessi economici che essa rappresenta.

Comunque, il trattamento riservato ai manifestanti di Melendugno da parte della polizia in assetto antisommossa e la messa in stato d’assedio del paesino del leccese non è di per se una novità. Qualcuno ci è già passato prima che toccasse ai salentini.

La sperimentazione valsusina

A 1.200 km a nord ovest,  la Val di Susa ha rappresentato, negli anni, un campo di sperimentazione delle strategie di contenimento delle lotte popolari. Un test per l’uso di strumenti repressivi di eccezione, un tempo rivolti contro i militanti di organizzazioni politiche ribelli, e poi estesi nella loro applicazione ad un’intera popolazione civile all’interno di una determinata area.

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Chiomonte (TO), cantiere TAV, giugno 2015.

Strumenti che vanno dalla costante militarizzazione del territorio, all’uso di una particolare violenza contro i dimostranti, ad un eccezionale accanimento giudiziario.
Alla fine del 2015 si contavano circa 1000 imputati e 200 condanne nei procedimenti aperti contro il movimento valsusino, procedimenti che godono di una corsia preferenziale rispetto a quelli istruiti per reati ben più gravi.
Presso la Procura di Torino può infatti accadere che un processo per lo stupro di una bambina si concluda, dopo 20 anni, con la prescrizione, mentre per reati anche bagatellari commessi da militanti No Tav si proceda d’urgenza.
Sono di uso comune nei processi contro i No Tav “la dilatazione del concorso di persone nel reato, l’uso massiccio (e talora indiscriminato) delle misure cautelari, un insieme di forzature (grandi e piccole) in indagini e processi, il ricorso a fattispecie di reato (a dir poco) sovradimensionate con evocazione finanche della finalità di terrorismo, la particolare cura nella gestione dei processi sulla stampa (oltre che negli uffici giudiziari)”1.

violenze Val di Susa2

Manifestante ferita a Coldimosso (TO), durante una manifestazione contro il Tav, 17 febbraio 2010.

La sproporzione fra i criteri di giudizio utilizzati emerge nella sua plateale nudità quando la stessa Procura sostiene l’accusa di terrorismo per i manifestanti inquisiti per il danneggiamento di un compressore, mentre archivia sistematicamente le denunce per le gravi lesioni, anche permanenti e fortemente invalidanti, subite dai militanti No Tav nel corso di cariche e fermi2, stabilendo una singolare gerarchia di importanza fra ‘l’incolumità’ delle cose e quella delle persone.
Tutto questo, negli anni, è stato preceduto e accompagnato da un’intensa opera di denigrazione e criminalizzazione mediatica del movimento, finalizzata alla preparazione del terreno e della base di consenso necessaria all’esplicarsi dell’azione repressiva3.

In Val di Susa, in sintesi, si è andato sperimentando quanto il trattamento di una popolazione dissidente potesse avvicinarsi a quello riservato ad una popolazione ‘nemica’.

Non si tratta di un’esagerazione: nel 2011 l’ultimo colpo di coda del morente governo Berlusconi, fu quello di definire – sul modello delle disposizioni già in atto per le discariche napoletane – il cantiere della Lyon Turin Ferroviaire come ‘Area di interesse strategico nazionale’, cioè area ‘ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato’.
L’applicazione cioè,  di un diritto penale di eccezione a base territoriale, “un modello normativo eccezionale a cominciare dal requisito che legittima tutto il sistema in deroga: la proclamazione dello stato di emergenza, adottata con decreto del Consiglio dei Ministri, al di fuori di qualsiasi controllo parlamentare”.4
Una logica militare a tutti gli effetti scelta, non come si vuol in genere far credere, dai temibili black bloc ma dallo Stato, per contenere l’indisponibilità di intere popolazioni a subire politiche di devastazione ambientale.

Nel 2014, con l’art. 37 del Decreto ’Sblocca Italia’ , il modello viene esteso dal Governo Renzi anche ai cantieri di costruzione del “Trans Adriatic Pipeline”, a cui si attribuisce carattere di priorità nazionale e di interesse strategico … nel senso ovviamente dell’interesse strategico della Snam, della British Petroleum, della azera Socar, della belga Fluxys, della spagnola Enagas, della svizzera Axpo, soci del consorzio T.A.P. (!!!)

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Melendugno (LE), in difesa degli ulivi, 28 marzo 2017.

Dunque, l’apparato normativo atto a reprimere i difensori degli ulivi salentini è già stato ampiamente predisposto, e questo ben prima dell’arrivo al dicastero degli Interni di Domenico ‘Marco’ Minniti.
Ma se l’obiettivo è la costruzione e persecuzione del ‘nemico interno’ e la gestione del dissenso con logiche di guerra, il neoministro  presenta ottime referenze.

L’uomo giusto al posto giusto.

Figlio di un pilota dell’aeronautica militare e uomo di provata fede atlantica, Marco Minniti, dal governo D’Alema in poi,  ha collezionato una lunga serie di incarichi governativi con deleghe ai servizi segreti, alla cooperazione con la Nato, al coordinamento di operazioni durante la guerra dei Balcani, alla promozione dell’industria bellica. Tutte attività a stretto contatto e in perfetta sinergia con ministri della difesa, capi delle forze armate, centri di intelligence, manager delle holding belliche5.
Di lui WikiLeaks ricorda come sia riuscito a rassicurare l’ambasciata USA sulla riconferma dell’acquisto da parte dell’Italia dei caccia F-35 (un pacco e un salasso)
, dopo l’elezione di Prodi nel 2006.
Ammiragli, generali, ex capi di Stato Maggiore, funzionari dei servizi e della NATO, ex prefetti, ex magistrati, ex comandanti delle teste di cuoio, consiglieri militari, analisti della CIA, hanno fatto parte delle sue frequentazioni nell’ambito della Fondazione ICSA, il centro studi sui temi d’intelligence e dell’analisi militare da lui fondato nel 2009 assieme a Francesco Cossiga.

Rignano

Roma, sede della Regione Puglia, 9 marzo 2017.

E chissà se non sia stato proprio Cossiga il suo mentore in tema di ordine pubblico, a cui ispirare i suoi primi atti da neoministro. Atti come lo sgombero del Grande Ghetto di Rignano (FG), conclusosi con due lavoratori maliani  – Mamadu Konate e Nouhou Dumbia – bruciati vivi.
Questa la ricostruzione dei fatti da parte di Campagne in lotta, ‘sin dalle prime ore, gli abitanti del Ghetto hanno raccontato la responsabilità delle forze dell’ordine in quell’incendio, considerando le fiamme che hanno distrutto le baracche come una strategia di sgombero.
 Quella accidentale, è la versione su cui invece concordano la stampa e le istituzioni coinvolte’.

Davanti a tanto orrore, passa anche in secondo piano la gestione delirante dell’ordine pubblico di sabato scorso, in occasione del corteo Eurostop, preceduto da fogli di via, da una intensa campagna di terrore sul presunto arrivo del terribile blocco nero, e dall’enunciazione (molto cossighiana) dell’intenzione di infiltrare agenti in borghese fra i dimostranti.
La prima manifestazione nazionale di movimento dell’era Minniti ha dovuto rinunciare a 120 compagne/i (tre pullman) sequestrati per tutto il giorno in un centro di identificazione – alla faccia del diritto costituzionale di manifestare – e sopportare l’accerchiamento di una parte del corteo, prima spezzato dalla polizia in due tronconi, e poi assediato senza via d’uscita nel tentativo di provocarne la reazione.

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Chiomonte (TO), giugno 2015.

A tali ‘innovazioni’ nella gestione della piazza, se ne aggiungono altre, proprio oggi, in diretta dal presidio di Melendugno: “Praticamente stiamo cercando di fronteggiare un esercito. Sul posto c’è: polizia, carabinieri, finanza, addirittura i contractor, quelli che pagano per combattere in Iraq, e persino la marina militare“.
Come già succede da tempo nel cantiere TAV di Chiomonte, in tutti le ‘aree di interesse strategico nazionale, ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato’ 
 i militari vengono impiegati in funzione di ordine pubblico … ma i paramilitari fino ad ora non li avevamo ancora visti !

Torniamo al Ministro. Il contenuto dei suoi raccapriccianti decreti in materia di Immigrazione e di Sicurezza urbana è stato in parte già analizzato da Antigone sulle pagine di Carmilla, sottolineando l’impatto nefasto che tali provvedimenti avranno sulle esistenze di chi vive faticosamente già ai margini.
Ma i decreti Minniti non colpiscono il povero solamente nell’esercizio del suo diritto al movimento, alla fruizione degli spazi della città e, in definitiva, nella sua capacità di sopravvivenza individuale (esercizio dell’accattonaggio, di piccoli commerci), ma anche nella sua possibilità di reazione ed organizzazione collettiva.

Bologna, sfratto, 7 marzo 2017.

Bologna, picchetto antisfratto, 7 marzo 2017.

Per esempio un capitolo intero del Decreto sulla sicurezza delle città viene destinato all’ampliamento delle prerogative del prefetto di disporre il concorso della forza pubblica nello sgombero di occupazioni ‘arbitrarie’ di immobili.
Chi occupa una casa, chi si organizza per resistere ad uno sfratto dovrà subire d’ora in poi un maggior livello di violenza, e questo non riguarda solo i classici ceti ‘marginali’, ma ampie fasce di ex ceto medio proletarizzato dalla crisi che non riesce più a sostenere mutui o affitti.
Ovviamente, le disposizioni sugli sgomberi valgono anche per gli spazi occupati non abitativi.

Ulteriori disposizioni possono colpire direttamente chi lotta attuando, per esempio blocchi ferroviari o picchetti, in quanto  ‘chiunque  ponga  in  essere condotte che limitano la  libera  accessibilità  e  fruizione  delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto  pubblico  locale,  urbano  ed extraurbano, e delle relative pertinenze’ può essere soggetto a sanzione pecuniaria e ordine di allontanamento, fino al divieto di accesso per sei mesi dal luogo della lotta.
Ma più in generale, i patti sottoscritti da prefetto e sindaco possono rivolgersi contro fenomeni generici di ‘turbativa del libero utilizzo degli spazi pubblici‘, e in questa definizione può ricadere qualsiasi tipo di protesta.
Dulcis in fundo, un emendamento della Carfagna ha introdotto nel decreto la possibilità dell’arresto in flagranza in differita (entro 48 ore) per reati avvenuti in occasione di manifestazioni pubbliche ripresi da telecamere e in immagini fotografiche, estendendo ai presidi e cortei quanto già previsto per gli stadi.

Che si tratti dunque di gestione militare della piazza, o della creazione di una sorta di ‘diritto amministrativo del nemico’ (il potere di ordinanza dei sindaci contro determinati soggetti sociali) da affiancare a quello penale, l’obiettivo è sempre quello di colpire le figure conflittuali o potenzialmente tali in vista di un aggravamento della crisi.
Prevedono, evidentemente, che essa si evolverà in maniera particolarmente grave, se affinano strumenti così sproporzionati rispetto alla reale entità del conflitto e della capacità di organizzazione di chi si oppone.
Prevedono, evidentemente, che l’estendersi dell’esercito industriale di riserva non si incontrerà mai più con nessuna rivoluzione industriale in grado di assorbirlo, e si attrezzano per rispedirlo altrove.
Prevedono, evidentemente, che il capitale in crisi di valorizzazione, spingerà gradualmente l’espropriazione oltre i limiti posti dal minimo vitale di masse sempre più consistenti di persone (nel suo piccolo, l’esempio salentino significa questo: famiglie di olivicoltori rovinate, nuova carne da emigrazione), e si attrezzano per neutralizzarne la reazione.
Loro si attrezzano. E noi ?


  1. Livio Pepino, La Val Susa e il diritto penale del nemico, in ‘Quaderni del Controsservatorio Valsusa n. 1’, Intra Moenia Edizioni, 2014.  

  2. Sull’argomento si consiglia la visione del documentario ‘Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa’. Qui il trailer. 

  3. Per i dettagli: Xenia Chiaramonte, Alessandro Senaldi, Criminalizzare i movimenti. I No Tav fra etichettamento e resistenza, in ‘Studi sulla questione criminale, X, n. 1, 2015, pp. 105-144.  

  4. Carlo Ruga Riva, Diritto penale, regioni e territorio. Tecniche funzioni e limiti, Giuffrè, 2012, p. 187. 

  5. Per il curriculum dettagliato: Antonio Mazzeo, Marco Minniti. Quest’uomo è una sicurezza, 20 gennaio 2017. 

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