totalità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-seconda-parte/ Tue, 16 Jul 2024 04:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83180 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria.  Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che

l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1

Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.

Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.

È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3

Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?

Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4

In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.

A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.

La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11

Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.
Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, ed in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché ad essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.

In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico.  Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.
Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e razzializzata risvegliato dai populismi fascistoidi.  Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.

La prima parte è stata pubblicata venerdì 12 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024 (p. 19. 

  2. A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, p. 55. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 495. 

  4. Ivi, p.493. 

  5. Ivi, p.285. 

  6. Ivi, p. 512. 

  7. Ivi, p. 389. 

  8. Ivi, p. 284. 

  9. Ivi, p. 287. 

  10. Ivi, p.285. 

  11. Ivi, p. 292. 

  12. A. Negri, Marx oltre Marx, cit. p. 29. 

]]>
I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/12/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-pima-parte/ Fri, 12 Jul 2024 04:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83172 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla fondamentalmente a sé stesso “attraverso qualsiasi strumento o idea a portata di pensiero, pronto a scatenare un flusso di coscienza in grado di proiettare su carta possibilità e interrelazioni che potevano o non potevano rilevarsi importanti per i suoi studi più ragionati”. In questo testo, scritto tra il 1857 e il 1858, troviamo dei “passaggi in cui Marx getta alle ortiche ogni cautela” dando spazio a “intuizioni geniali, drammatiche e spesso sbalorditive per le possibili implicazioni”.1
Insomma, i Grundrisse possono certamente letti come un testo preparatorio al Capitale, che vedrà la luce un decennio dopo, ma ci offrono anche di più. Perché si spingono oltre le conclusioni del Capitale, opera in cui Marx costringe sé stesso a un rigore metodologico che gli impedisce di anticipare qualsiasi risultato fino a che lo svolgimento del ragionamento non abbia ancora posto tutti gli elementi necessari per trattare l’argomento. Rigore senz’altro condivisibile. Peccato che Marx abbia realizzato solo una piccola parte del suo immane progetto di lavoro e questo ci privi di molte delle conclusioni cui voleva arrivare.

Per quanto spesso dispersivi, i Grundrisse hanno comunque un focus ben definito e cioè “l’elaborazione esatta del concetto di capitale” che risulta necessaria poiché, ci dice Marx,

questo è il concetto fondamentale dell’economia moderna, così come il capitale stesso […] è il fondamento della società borghese. Dalla comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre sé stesso.2

È attorno a questa problematica che Harvey concentra la sua lettura del testo. Una problematica che ci porta subito a un’altra questione fondamentale.

Marx intende indagare la formazione e il funzionamento del capitale in quanto “totalità”. Si tratta di un aspetto dell’approccio marxiano ampiamente ignorato nei commentari contemporanei. Ho il sospetto che su questo punto siano in parte da biasimare Foucault e il post-strutturalismo, nel loro ridurre ad anatema ogni discorso totalizzante e, di conseguenza, ogni evocazione del concetto stesso di totalità.3

Harvey sostiene che “’Totalità’ è la parola chiave. Leggere e costruire una teoria economico-politica interpretando il capitale alla stregua di una totalità in evoluzione è qualcosa di enormemente proficuo”.4 Marx riprende questo concetto da Hegel ma lo rielabora in profondità. La totalità del capitale, infatti, non è né prestabilita né predefinita, non è né fissa né determinata quanto a estensione nello spazio e nel tempo. È una rete di prassi sociali storicamente determinate e di rapporti costruiti e sviluppati nel tempo attraverso l’attività umana, costantemente assorta in un processo di crescita e trasformazione, in continuo “divenire”. La totalità del capitale è caratterizzata fondamentale dalla fluidità.
Questa fluidità di significato nello spazio e nel tempo spinge Harvey a chiedersi come poter leggere le categorie di base marxiane nel contesto del nostro presente. Dal momento che la totalità viene trasformata, anche l’apparato concettuale che usiamo per rappresentarla dovrà in qualche modo mutare. È il genere questioni che vengono al pettine quando si parla, per esempio, di finanziarizzazione dell’economia. Prendiamo, insieme a Harvey, il caso della Cina degli ultimi due decenni. Il suo rapidissimo processo di urbanizzazione ha richiesto la costruzione di un sistema finanziario che fosse adeguato al capitale fisso e alla formazione del fondo di consumo. Esattamente come ci si poteva aspettare a partire dalle categorie marxiane. Queste, però, prevedono anche un ruolo subordinato del capitale creditizio rispetto alle esigenze quello propriamente industriale. E qui emerge, secondo Harvey l’esigenza di un aggiornamento concettuale perché bisogna riconoscere che il sistema finanziario dagli anni Ottanta in avanti è emerso come il vero padrone della circolazione e dell’accumulazione del capitale, come il sistema nervoso centrale adeguato ai bisogni della circolazione e dell’accumulazione tipici della totalità costituita dal capitale contemporaneo.
Il punto di vista della totalità, secondo Harvey, ci aiuta a evitare alcuni schematismi che hanno talvolta caratterizzato la riflessione del marxismo. Qui basterà accennare, senza avere la possibilità di svilupparle, due questioni. In primo luogo, se è vero che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è ritenuta da Marx “la legge più importante della moderna economia politica”5 è altrettanto importante sottolineare che essa ha a che fare con il connesso aumento della massa del valore. “Dalla prospettiva della totalità Marx evidenzia come sia la crescita assoluta del capitale (cioè la massa del valore) a definirne l’essenza”,6 commenta Harvey. In secondo luogo, “L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione all’interno della totalità concepita in termini marxiani è una caratteristica centrale e fondamentale nella teoria del capitale”.7 Non si tratta di negare la centralità della produzione, perché questa è la sfera dove si genera il plusvalore. Ma, prosegue Harvey, valore e plusvalore esistono solo in potenza finché non vengono realizzati attraverso la vendita delle merci sul mercato.

Torniamo, dunque, al concetto di totalità che, per quanto riguarda il capitale, può essere considerata come un ecosistema isolato in funzione del suo studio, ma immerso in un ambiente più ampio, quello della formazione sociale borghese di cui costituisce il motore fondamentale, la forza trainante. Un’altra utile analogia, suggerita dallo stesso Marx, è quella con il corpo umano, costituito da diversi processi di circolazione autonomi e indipendenti, eppure compresi nella logica organica di un unico sistema. Applicare una struttura gerarchica a questi processi, sostiene Harvey, non ha senso perché il collasso di ognuno di loro minaccerebbe l’intera totalità. Allo stesso modo il capitale è costituito da differenti e interrelati processi di circolazione che riguardano lo scambio delle merci, il denaro in quanto tale, la capacità lavorativa, il denaro in quanto capitale, il capitale fisso e il capitale produttivo di interesse.

Il capitale è definito valore in movimento, ed è attraverso quest’ultimo che ogni singolo momento è collegato all’altro. Nessuno dei momenti all’interno della totalità del capitale può essere quindi compreso, nella visione marxiana, indipendentemente dai rapporti prevalenti fra loro.8

Il capitale è, per dirla direttamente con le parole dei Grundrisse, un “sistema organico” il cui “sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinarsi tutti gli elementi della società, o nel crearsi a partire da essa gli organi che ancora gli mancano”.9 Ma nel pensiero di Marx questo tipo di considerazione non mette capo ad una concezione organicistica della società, se con essa intendiamo una visione che si basa sulla interrelazione armoniosa tra le parti, tipica del pensiero politicamente conservatore. Al contrario, continuando a utilizzare le parole dei Grundrisse, il capitale è “contraddizione in processo”, “contraddizione vivente” perché pone da sé stesso i suoi specifici limiti e al tempo stesso tende a superare ogni limite. L’esempio forse più significativo in questo senso è la dinamica che lo porta a ridurre il tempo di lavoro ad un minimo (attraverso la meccanizzazione del processo produttivo e la conseguente diminuzione di manodopera a parità di investimento) mentre pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.

La totalità del capitale non si limita a riprodurre sé stessa. Bisogna infatti considerare, come ripetutamente sottolineato da Harvey, che la circolazione del capitale non è un semplice circolo, ma, utilizzando direttamente le parole dei Grundirisse, “una spirale, una curva che si amplia”.10 Tornando a Harvey,

se il capitale è denaro usato per fare altro denaro, e alla fine del giorno dovrà risultare più capitale monetario che all’inizio, è evidente che la totalità, per sopravvivere, dovrà mantenersi in uno stato ininterrotto di espansione infinita.11

Per Marx è chiaro che “quanto più alto è lo sviluppo del capitale, tanto più esso appare come ostacolo alla produzione”. Ma il capitale non si può fermare di fronte a nessun tipo di crisi dovendo “ricominciare da capo il suo tentativo, a partire da un grado superiore di sviluppo delle forze produttive ecc., con la prospettiva di un collasso sempre più grave in quanto capitale”.12 Il capitale ovviamente produce soluzioni alle sue crisi, ma anche esse si rivelano contraddittorie. Senza alcuna pretesa di sistematicità, se ne possono citate alcune di cui Harvey parla prendendo spunto dalle pagine dei Grundrisse per trattare di temi di attualità (come gli capita spesso in questo testo): l’enorme espansione del capitale finanziario, l’espansione geografica del capitale (quello che Harvey definisce “spatial fix”), il consumo improduttivo nella forma di investimenti nell’urbanizzazione e in ogni genere di infrastrutture fisiche, ma anche delle spese militari.
A dire il vero, nota Harvey, l’economia bellica è trattata da Marx solo attraverso pochissimi commenti. Il marxista britannico, però, cita una breve ma significativa digressione in cui l’autore dei Grundrisse afferma essere un’ovvietà il fatto che dedicando risorse alla guerra “dal punto di vista economico è come se la nazione buttasse a mare una parte del suo capitale”.13 Un accenno importante perché prefigura la volontà di costruire una teoria più generale su questo argomento. Una teoria, commenta Harvey, in grado di spiegare come “Ogni tendenza verso la sovraccumulazione […] può essere risolta incanalando e dissipando il capitale in investimenti inutili e in campagne militari”.14

In ogni caso l’incessante espansione del capitale generalizza e intensifica il suo dominio nella forma che propriamente gli si addice, quella dei “rapporti di dipendenza materiale in antitesi con quelli personali”15 tipici di sistemi precapitalistici. Questo significa che “Gli individui [sono] dominati da astrazioni mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri”.16 Non si tratta di un dominio delle idee, come quello che viene chiamato spesso in causa quando si vuole spiegare l’affermazione dell’ideologia thatcheriana, e più in generale neoliberista, con la sostituzione di una concezione statalista keynesiana con il pensiero filo-imprenditoriale di Hayek e Friedman. Questa è una prospettiva idealistica che ragiona come se “la dissoluzione di una determinata forma di coscienza” fosse “sufficiente ad uccidere un’intera epoca”17. Dal punto di vista storico-materialistico di Marx, invece, occorre identificare quali forze di classe e quali origini sociali si nascondano dietro queste astrazioni. “Perché l’astrazione o idea non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio”18 sugli individui. Sono specifiche pratiche sociali e condizioni storico-materialistiche, per esempio, che “pongono” (per dirla alla Marx) l’esistenza del valore in qualità di astrazione capace di governare l’azione sociale. Così come accade per la gravità, il valore non lo si può vedere o misurare direttamente, ma la sua esistenza viene confermata chiaramente dai suoi effetti. Questo ha delle conseguenze politiche di importanza tutt’altro che secondaria.

Se siamo governati dalle astrazioni, come Marx insiste a dire, l’unico obiettivo dell’agire umano che abbia un senso è prendersela con quei processi che le producono in modo tale da renderli infine irrilevanti: esattamente ciò che l’ideologia e la politica capitalista si rifiutano di prendere anche solo in considerazione. D’altra parte, contemplare una lotta di classe contro le astrazioni sembra anche parecchio complicato.19

Ma delle vicissitudini della lotta di classe di fronte alla totalità capitalistica ci occuperemo nella seconda e ultima parte di questo articolo.

La seconda parte sarà pubblicata martedì 16 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024, p. 24. Per le precedenti citazioni vedi p. 12. Harvey ha pubblicato anche due commentari dedicati rispettivamente al primo e al secondo volume de Il capitale, successivamente raccolti in un unico volume: A Companion to Marx’s Capital: The Complete Edition, Verso Book 2018. Del primo è disponibile una traduzione italiana: Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La Casa Usher 2014. I commentari di Harvey nascono dalle sue lezioni che sono disponibili in video sul sito Intenet https://davidharvey.org/

  2. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi 1976, p. 285. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p.15. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 767. 

  6. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 448. 

  7. Ivi, p. 2017. 

  8. Ivi, p. 44. 

  9. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 227. 

  10. Ivi, p. 213. 

  11. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 199. 

  12. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 384. 

  13. Ivi, p. 54. 

  14. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 82. 

  15. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 96. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 529. 

  18. Ivi, p. 96. 

  19. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 433. 

]]>
Immaginare la fine del capitalismo con Fredric Jameson https://www.carmillaonline.com/2022/11/19/immaginare-la-fine-del-capitalismo-con-fredric-jameson/ Fri, 18 Nov 2022 23:10:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74752 di Fabio Ciabatti

Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25.

Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25.

Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale moderna e modernista. La citazione conclude la prefazione, firmata dallo stesso critico americano, al testo di Marco Gatto, intitolato Fredric Jameson.1 Il libro ripercorre sinteticamente le fasi più rilevanti dell’avventura intellettuale di un autore capace di produrre testi fondamentali, in ambito marxista e non solo, come Marxismo e forma, L’inconscio politico e Postmodernismo. Opere in cui si sostanzia “l’esperimento materialista di Jameson” che, sintetizza Gatto, consiste nello “sforzo di capire il presente attraverso le forme e le rappresentazioni dell’immaginario”.2
Il senso ultimo di una lettura dialettica dei fenomeni culturali consiste, secondo Jameson, nel mettere in luce la relazione profonda che essi intrattengono con una storia che li contiene e surclassa. Cosa accade a questo approccio, quando, con l’avvento del postmodernismo, possiamo sostenere, utilizzando la formula suggerita da Marco Gatto, che la spazialità sostituisce la temporalità? In questo articolo si cercherà di ritagliare un percorso di lettura attraverso il testo di Gatto per abbozzare una risposta a questa domanda, cercando di non fare torto alla densità concettuale della sua ricostruzione di un percorso intellettuale quanto mai complesso.

Possiamo iniziare col notare che, nel mettere in relazione storia e immaginario, Jameson combatte su due fronti. Da una parte, contro la riduzione della realtà a linguaggio, pone l’accento sul contenuto storico-materiale dell’opera d’arte, sottolineando che un’adeguata descrizione dell’evoluzione letteraria sia possibile a condizione che “il contenuto, materiale grezzo disponibile, non sia visto soltanto come cianfrusaglia inerte, ma come ciò che favorisce o impedisce lo sviluppo della forma letteraria che ne fa uso”.3   Dall’altra parte, la sua “metodologia dialettica [è] capace di demistificare la tendenza, propria di certo marxismo, a scorgere una relazione omologica, e dannosamente statica, tra il testo e la realtà storica”.4 In breve, il testo letterario non è mero riflesso di una realtà sottostante, ma “atto simbolico” che elabora attivamente quella stessa realtà.
La natura dell’atto simbolico non è manifesta, ma va ricostruita attraverso l’interpretazione che “presuppone sempre, per Jameson, l’esistenza di una ‘mistificazione’ o di una ‘rimozione’ da ricondurre a una qualche pratica intellettuale di contenimento”.5 La ricostruzione dei nessi tra atto simbolico e materiale grezzo evidenzia la necessità di concepire l’oggetto testuale come una sorta di freudiana “formazione di compromesso” che dissimula la relazione implicita del testo stesso con una totalità più ampia. Una relazione  che occorre recuperare in sede analitica, scardinando la pretesa autonomia dell’opera d’arte.
Ciò avviene nell’ambito di tre orizzonti interpretativi che ampliano progressivamente il contesto di riferimento. Il testo letterario si costruisce come “risoluzione immaginaria di una contraddizione reale” nell’ambito della storia politica di breve periodo, come frammento dei grandi discorsi collettivi di classe nell’ambito dello scontro tra questi soggetti collettivi, come campo di forze attraversato dalle tensioni determinate dai distinti sistemi di segni che corrispondono univocamente a ciascuno dei differenti modi di produzione (quello egemonico e quelli arcaici, residuali o emergenti) simultaneamente presenti in un dato momento storico.

Occorre sottolineare che per Jameson la critica letteraria non può limitarsi esclusivamente alla demistificazione.

Il testo certamente produce il riflesso di una direzione ideologica o il rispecchiamento di certi valori dominanti. Ma la sua azione simbolica non può esaurirsi nell’aderenza passiva a certe precondizioni. Come abbiamo già detto, il fatto estetico è una risposta; e di per sé ciò implica un contrasto o un’elaborazione potenzialmente imprevedibili.6

Jameson, per essere ancora più chiari, 

senza rinunciare alla critica demistificante, insiste sulla costruzione di un senso condiviso e di una collettività nuova, diversa. Non è un caso che L’inconscio politico si chiuda con un richiamo all’utopia.7

A questo punto torniamo alla questione sollevata all’inizio per notare che è proprio questo impulso utopico che non sembra più rintracciabile nell’epoca postmoderna, così come descritta dallo stesso Jameson. La dimensione storica, che apre all’utopia, appare infatti congelata quando una spazialità priva di barriere e confini si presenta come la cifra dominante della nostra epoca: con la globalizzazione del capitale e la mondializzazione del web il postmodernismo  sembrerebbe annunciare la fine della storia. Il capitale, data la sua intrinseca tendenza all’accumulazione senza fine, si caratterizza da sempre come un progetto, benché portato avanti da un soggetto non antropomorfo, finalizzato a riplasmare il mondo intero a sua immagine e somiglianza. Il capitale, detto altrimenti, è da sempre una totalità in costruzione, ma in epoca postmoderna ambisce a presentarsi come una totalità già compiuta.
Lo spazio totalizzante del capitale contemporaneo è contrassegnato dalla molteplicità e dalla frammentazione con la conseguente disgregazione delle forme collettive e condivise di vita sociale e culturale. Ogni insieme umano diventa un aggregato provvisorio, un surrogato di comunità, un volubile sciame digitale. Non va meglio all’ego borghese moderno perché il postmodernismo ne decreta la fine annullando l’esperienza come acquisizione progressiva di conoscenza. L’individuo postmoderno, potremmo dire, non ha più una storia e men che meno una storia che possa essere raccontata come un romanzo di formazione. L’individuo si muove, per così dire, soltanto in orizzontale attraversando l’“iperspazio” postmoderno con fluidità, apparentemente senza traumi, accumulando esperienze effimere incapaci di consolidarsi come tappe di un qualche tipo di sviluppo che procede per gradi.
Tutto ciò non può essere disgiunto da un processo di mercificazione sempre più pervasiva che approfondisce una tendenza propria della modernità capitalistica, ma con una significativa differenza: la produzione estetica si è oramai integrata nella produzione di merci in generale. Ciò contribuisce a generare l’illusione ottica di una totalizzazione culturale onnipervasiva. Se tutto diventa cultura, i rapporti tra struttura e sovrastruttura, tra natura e cultura, tra corpo e mente si trasformano in un modo profondamente disorientante.
Il disorientamento, però, non giunge ai suoi esiti estremi perché la suadente brillantezza della merce, che satura lo spazio postmoderno, promette un risarcimento edonistico all’individuo spaesato e favorisce una forma di euforia compensatoria al soggetto che ha smarrito sé stesso. A prevalere è dunque una nuova tonalità emotiva ilare e leggera, grazie al dominio dell’immagine sulla parola, dell’apparenza epidermica sul fondamento concreto, del simulacro sull’oggetto reale e della superficialità sulla profondità. 

Ma condannare moralisticamente il postmodernismo non avrebbe alcun senso per Jameson. E’ necessario piuttosto mettere in evidenza il nodo politico che esso pone: l’estrema difficoltà di rappresentare filosoficamente la realtà postmoderna in modo sistematico. Per usare direttamente le parole di Jameson, oggi ci troviamo di fronte alla “incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa della grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata, nella quale ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali”.8  Detto altrimenti, il postmodernismo oppone una sostanziale “resistenza ideologica nei confronti del concetto di totalità”.9
Per un pensiero dialettico non è però possibile rinunciare a una qualche rappresentazione della totalità. Senza di essa non si dà la possibilità di pensare fino in fondo le contraddizioni fondamentali del proprio tempo e dunque la capacità di immaginare un futuro realmente diverso che sia in grado di superarle. Senza totalità non si dà utopia. Per dirla con le parole di Marco Gatto, per Jameson “Pensare la totalità (e rappresentarla) significa considerare il punto di vista sul presente scatenato da una dimensione superiore, che è quella del futuro (e delle sue possibilità)”.10
Non sorprende dunque che dopo Postmodernismo Jameson torni sull’utopia. Come aveva già sostenuto, ogni coscienza di classe, ogni ideologia in senso forte è per sua stessa natura utopistica perché esperienza e coscienza, nella lotta, dell’unità di un determinato gruppo sociale che rimanda, anche se solo allegoricamente, alla possibilità di una concreta vita collettiva in una società senza classi. Perciò, anche al di là dell’esplicito impegno alla realizzazione di un programma utopico, è possibile rintracciare una pulsione utopica oscura ma onnipresente che trova modo di affiorare in superficie in tante forme ed espressioni camuffate. Per esempio, ricorda Jameson, gli spazi utopici sono descrivibili come “un’oasi territoriale immaginaria all’interno dello spazio sociale reale”.11 La differenziazione spaziale e sociale tipica della frammentazione postmoderna non spinge in una direzione simile? Detto altrimenti, una quantità di sottosistemi originariamente semiautonomi, i distinti livelli sociali definiti in termini culturali, religiosi, razziali, di genere ecc., non sono forse portati a rivendicare la propria immaginaria autonomia? A ritagliarsi, cioè, una nicchia utopica che si pretende al riparo dallo spazio sociale reale?
L’ideologia,  insomma, è  una pratica narrativa che permette al soggetto di sperimentare una serie di vive e reali contraddizioni attribuendo loro una qualche forma, seppur embrionale, di significato condiviso. Questa necessità non viene meno nel tardo capitalismo ma la sua soddisfazione è tutt’altro che scontata perché il sistema ideologico postmodernista lavora alla produzione di “un individuo privo di ancoraggio spazio-temporale e dunque disorientato anche e soprattutto sul piano ideologico-rappresentazionale”.12 La contraddizione, motore della storia, non viene risolta ma addomesticata attraverso strategie di contenimento. Il tutto si gioca, potremmo dire, sulla capacità del sistema di continuare a offrire con sufficiente persuasività quelle compensazioni edonistiche e euforiche che danno espressione a una nuova e contraddittoria idea di libertà: una libertà “fondata su un’accettata costrizione a esprimersi, esporsi, rappresentarsi”13 dietro la quale, però, si può rintracciare “una gratificazione utopica che straripa dalla repressione in atto”.14

Ma, ci chiediamo, la tonalità emotiva ilare e leggera del postmodernismo può sopravvivere in un periodo contrassegnato da lockdown e razionamenti? Negli anni ruggenti della globalizzazione, della finanziarizzazione e della digitalizzazione abbiamo assistito ad un crescita economica che, sebbene fragile, era reale e come tale poteva puntellare i toni entusiastici dell’ideologia postmodernista. Oggi i nodi vengono al pettine perché pandemie e guerre non sono fattori esterni, ma l’esito di contraddizioni interne allo sviluppo del tardo capitalismo. Di fronte alla malattia e ai bombardamenti la materialità dei corpi riemerge alla faccia della pretesa della loro completa culturalizzazione, la fisicità delle fonti energetiche e delle relative infrastrutture di trasporto si fa beffe della pretesa smaterializzazione dell’economia digitale. Con questo, però, non vogliamo sostenere che siamo fuori dal postmoderno. La molteplicità, la frammentazione e lo spaesamento segnano ancora la nostra esperienza anche se la tonalità emotiva dominante si fa, per così dire, bipolare: di fronte allo sradicamento degli individui la compensazione euforica si alterna con una di segno opposto che dà sfogo a passioni tristi e rancorose.
In questo contesto rimane prezioso l’approccio dialettico di Jameson che, assumendo la frammentazione del postmoderno, rifiuta di farsi sistema, ma senza rinunciare a una rappresentazione della totalità. A tal fine, non si tratta semplicemente di rinviare alla determinazione in ultima istanza della marxiana struttura, operazione che comunque continua ad avere una sua valida ragion d’essere per il critico americano. Occorre piuttosto, riprendendo la lezione di Benjamin, rispondere alla frammentazione postmoderna con “uno studio specifico del ‘fatto in sé’ … e della sua ricchezza, capace di cogliere, nella datità singolare del testo o del fenomeno preso in esame, sia il momento generale della produzione sia quello individuale della rappresentazione (base e sovrastruttura, insieme; nel loro contraddittorio dualismo)”.15 Potremmo azzardare l’ipotesi che le immagini dialettiche di cui parla il filosofo berlinese possono rappresentare i nodi di quella mappa concettuale invocata da Jameson per ricostruire una qualche rappresentazione, o forse sarebbe meglio dire approssimazione, della totalità. Una costellazione di fattori concreti e fenomeni interrelati.
Diversamente dalle sue origini, la dialettica stessa deve essere concepita “in termini utopici, come una modalità di pensiero del futuro”,16 sempre provvisoria e costitutivamente irrealizzabile. Erede del pensiero moderno e delle sue ambizioni deve fare i conti con un nuovo contesto storico in cui

non è certo la descrizione di Marx dell’‘essenza’ del capitalismo a essere cambiata (e neppure la descrizione delle ‘determinazioni’ del pensiero approntata da Hegel), quanto piuttosto, a essere precisi, quell’‘apparenza oggettiva’ del mondo del capitalismo globale che sembra parecchio lontana dalla vita esteriore del periodo vittoriano o del nascente modernismo vissuto da Marx”.17

Pensiero della totalità che non vuole farsi sistema, metodo che non vuole trasformarsi in automatismo, la dialettica di Jameson non ci offre facili vie di fuga dallo scintillante pantano del postmoderno. Di sicuro ci invita ad abbandonare molte delle certezze che, nel bene e nel male, avevano dato forza e attrattiva a una vera e propria visione del mondo che si voleva alternativa totalizzante a quella dominante. Ma, con altrettanta certezza, mantiene una vocazione rivoluzionaria aiutandoci a immaginare una possibile fine del capitalismo perché, come sostiene Marco Gatto in conclusione del suo volume, non rinuncia mai al compito “di mostrare la disintegrazione laddove sussista l’unità e l’unità laddove sembri profilarsi un confuso paesaggio di rovine”.18


  1. M. Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, edizione Kindle, p. 9. 

  2. Ivi, p. 19. 

  3. F.  Jameson, La prigione del linguaggio, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 41. 

  4. M. Gatto, op. cit., p. 48. 

  5. Ivi, p. 55. 

  6. Ivi, p. 70. 

  7. Ivi, p. 67. 

  8. F. Jameson, Postmodernismo, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 95. 

  9. F. Jameson, Postmodernismo, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 94. 

  10. M. Gatto, Frederic Jameson, ed. cit., p. 126. 

  11. F. Jameson, Il desiderio chiamato utopia, cit. in. M. Gatto, op. cit., p. 116. 

  12. M. Gatto, Frederic Jameson, ed. cit., p. 115. 

  13. Ivi, p. 94. 

  14. Ivi, p. 113. 

  15. Ivi, p. 145. 

  16. F. Jameson, Jameson on Jameson: Conversation on Cultural Marxism, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 133. 

  17. F. Jameson, Valences of the Dialectic, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 138. 

  18. M. Gatto, op. cit, p. 146. 

]]>
L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema https://www.carmillaonline.com/2021/11/27/lopera-aperta-di-marx-un-pensiero-della-totalita-che-non-si-fa-sistema/ Fri, 26 Nov 2021 23:10:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69271 di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là [...]]]> di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.

Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta,  c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo. 

Sforzo prometeico per abbracciare un insieme di relazioni tendenzialmente “totale” e nel contempo necessità di ritorni, ripartenze, modifica degli strumenti analitici per la comprensione della realtà del capitale in perpetuo mutamento.1

Detto altrimenti il pensiero di Marx è un pensiero della complessità, intendendo questa  categoria in due delle sue principali accezioni:

“complessità” come realtà multiforme, complicata, e “complessità” come realtà “complessiva”, un insieme costituito da parti intenzionalmente legate. … . Le parti non possono essere comprese se non nella prospettiva del tutto, e il tutto senza opera di ricerca empirica, teoricamente fondata, sulle specificità delle singole parti.2

Una complessità che possiamo vedere con chiarezza quando Marx si dedica allo studio di alcune aree coloniali e di marginalità nello sviluppo del capitalismo-mondo. Posto di fronte alla domanda del ruolo della comunità rurale russa per lo sviluppo del socialismo, Marx non fa predizioni sul corso necessario della storia, ma risponde con una serie di frasi ipotetiche. Solo se si fossero realizzate alcune condizioni storico-politiche per l’evoluzione della comunità di villaggio in un contesto di più alta civiltà si sarebbero potute materializzare traiettorie storiche diverse da quelle studiate nel caso del first comer (l’Inghilterra) e che erano servite come base per la costruzione del modello astratto marxiano.

Né la dissoluzione dell’obscina, né il suo sviluppo “come elemento rigeneratore” sono iscritte in una “fatalità” storica, bensì in una contingenza storica in cui operano elementi di determinismo, i diversi lineamenti di una storia di lungo periodo, e altri di volontarismo: le scelte politiche possibili.3

Nell’approccio di Marx, dunque, non abbiamo solo a che fare con la storia, ma anche con il presente come storia. Un presente il cui studio ci  permette di conoscere il  ventaglio di possibilità che ragionevolmente ci si può attendere dalle logiche dei processi in atto.
Ciò detto, non bisogna mai dimenticare che il Marx della maturità è soprattutto un economista politico. Tutto sta nel comprendere la peculiarità della sua concezione di questa materia. L’ambiente economico è sicuramente il primo piano del capitalismo, ma non è “disincarnato”. La riproduzione di rapporti sociali è comprensibile solo tramite l’indagine delle specifiche relazioni tra i membri della “società borghese”, gli “uomini in carne ed ossa”, e la catena delle mediazioni che li collega ai processi di accumulazione. Senza mai dimenticare il ruolo decisivo assegnato alla riproduzione delle forme ideologiche e di coscienza necessarie alla prosecuzione del processo di valorizzazione del capitale. La filosofia non è la strada principale per la critica marxiana delle categorie analitiche dell’economia classica, ma per questa critica rimane importante la “propedeutica dei concetti” e dunque l’utilizzo di una qualche forma di  pensiero filosofico, principalmente di tipo epistemologico.
Solo grazie a una concezione così articolata è possibile porre all’economia “questioni  di senso”, cosa che sarebbe insensata per la stragrande maggioranza degli attuali economisti. In questo contesto, per esempio, si può porre il problema dell’alienazione. Una questione che il giovane Marx pone in termini filosofici, ma che non scompare, pur tramutandosi, nel maturo critico dell’economia politica. Non bisogna però considerare l’alienazione come una situazione di scissione da un astratto ente generico, da una natura umana intesa in senso essenzialistico. Essa, piuttosto, va intesa come lo scontro, lo iato che si apre, all’interno della stessa modernità, tra le spietate logiche dell’accumulazione capitalistica e le potenzialità di realizzazione individuale e collettiva dischiuse dallo sviluppo delle forze produttive promosso dal capitale. Leggere il presente come storia apre alla comprensione delle diverse possibilità di emancipazione che si danno nel nostro mondo per le quali, però, non c’è alcuna garanzia di realizzazione. Consente di vedere lo scarto tra attualità e potenzialità del nostro presente. 

Da quanto fin qui detto appare chiaro che l’idea, spesso ripetuta, del marxismo come Bibbia del movimento operaio è quanto di più lontano possa esserci dagli obiettivi e dal metodo scientifico di Marx. Eppure questa idea è al tempo stesso vera se consideriamo la storia effettiva di un movimento che, nel momento della sua nascita, sentiva il bisogno di una conferma “scientifica”, di una garanzia “in ultima istanza” del suo “giusto” operare nella storia. E con questo arriviamo al secondo punto relativo al rapporto tra Marx e la storia cui abbiamo accennato all’inizio. Questo uso spesso distorto delle categorie di Marx si inscriveva comunque in un processo di crescita delle organizzazioni operaie e di consolidamento della loro autoconsapevolezza. Un processo che rientrava senza dubbio negli intendimenti di Marx. Il fraintendimento della sua opera, paradossalmente, era sempre  una forma di marxismo.
Alla fine dell’Ottocento, quando la maggioranza dei partiti socialisti si stavano costituendo dandosi un’identità “marxista”, il clima culturale e politico favoriva le logiche dell’“assoluta opposizione”. In molti paesi d’Europa nei loro confronti erano in vigore leggi fortemente restrittive, fino alla completa messa fuori legge. Anche i socialdemocratici  tedeschi, con una struttura solidissima e molti parlamentari tra le loro fila, si trovavano nella condizione di una nazione separata all’interno dello Stato. Non sorprende dunque che si sviluppasse una sorta di socialismo “integrale” che si proponeva di  elaborare strumenti concettuali a partire da una propria filosofia, una propria economia politica, una propria sociologia ecc. Un processo di separazione culturale di cui l’asse portante era il marxismo inteso non come una teoria del capitalismo, ma come una concezione complessiva del mondo che consentiva di individuare le tappe per l’affermazione del socialismo all’interno della società capitalistica.

I protagonisti del marxismo diventano movimenti sociali, movimento operaio organizzato, partiti socialisti, comunisti, poi addirittura “Stati socialisti”. Si tratta di marxismo strutturato che risponde a precise contingenze storiche. Semplificando, ma non troppo, si può dire che ciascuna delle “strutture” che ha necessità di assumere una “identità” marxista, s’inventa il marxismo di cui ha bisogno.4

Infine, a partire dalla rivoluzione russa, evento del tutto interno alla Grande guerra, il comunismo del Novecento assume per decenni le caratteristiche del “comunismo di guerra”. E la stessa lettura de Il capitale è soggetta alle leggi belliche. La correttezza della strategia politica e, talvolta, anche delle svolte tattiche, doveva essere dedotta direttamente dall’analisi scientifica. Arrivati a questo punto una “errata” interpretazione di Marx poteva portare alla fucilazione. Con il farsi stato del marxismo assistiamo ad uno scarto decisivo rispetto alla storia precedente che forse andrebbe sottolineato con maggiore forza di quanto faccia l’autore. La miscela instabile tra disciplinamento e autoemancipazione che aveva spesso caratterizzato le organizzazioni operaie, soprattutto quelle più strutturate, non regge più. Una funesta parodia del pensiero marxiano diviene instrumentum regni.
Rimane però il fatto che, a partire dalle vicende tragiche del comunismo di guerra, non si può ridurre la storia del comunismo stesso a una sequela di crimini. In questo modo, sottolinea Favilli, si dimenticherebbe che il pensiero critico ha potuto condizionare le tendenze totalizzanti e disumanizzanti dell’accumulazione capitalistica solo perché si è fatta resistenza reale, antitesi concreta al sistema dominante attraverso la storia del movimento operaio nelle varie forme politiche, sindacali, addirittura istituzionali. Insomma, nella storia dei comunismi sono presenti sia i momenti peggiori sia quelli migliori della storia umana: Gulag ed emancipazione.

L’incontro tra marxismo e movimento operaio, nelle molteplici forme in cui si è dato, non è il frutto di una necessità storica, ma il risultato di una possibilità. Anche se, a posteriori, possiamo dire si sia trattato di un’evenienza molto probabile, date le variabili in campo. Variabili che entrano in gioco in un preciso contesto, nazionale e internazionale. Per questo il ruolo del marxismo nel prossimo futuro non potrà essere, con ogni probabilità, quello del passato. Inutile invocare a ogni piè sospinto la ricostituzione di un autentico partito comunista quale deus ex machina in grado di risolvere tutti i nostri problemi.  Questo, però, non significa affermare che il pensiero di Marx non potrà avere alcun ruolo.
Conviene a questo punto seguire Favilli nella sua ricostruzione dell’evoluzione del pensiero politico di Marx che, dalla concezione quarantottesca di un partito d’avanguardia, passa, con l’adesione all’Internazionale, al tentativo di elaborare un quadro di riferimenti concettuali capace di allargare gli orizzonti del movimento reale, senza sovrapporsi alla sua effettiva esperienza. La forza dei testi scritti da Marx per l’Internazionale consisteva proprio “nella naturalità con cui venivano a coniugarsi il vissuto operaio nell’organizzazione di classe, la valorizzazione della sua esperienza, e gli orizzonti generali dell’emancipazione”.5
Resistenza e azione politica diventano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana sull’organizzazione operaia. Si trattava di un modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale che proponeva una “concezione forte di democrazia partecipativa, fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva”.6 Questo Marx, nota l’autore, potrebbe sembrare oggi quello più inattuale di fronte alla “crisi del soggetto della trasformazione, alla scomparsa della classe generale, e alla metamorfosi dell’attore sociale di massa in spettatore”.7 In effetti oggi l’antitesi ha perduto il nucleo centrale aggregante, la classe operaia dell‘Occidente industriale. L’antitesi però non è scomparsa e, soprattutto, non sono scomparse le condizioni per una sua ricostruzione.

Ora è possibile che la contraddizione capitale lavoro possa non essere percepita come centrale nel contesto della società liquida, ma è certo che nel suo ambito la ricostruzione dell’antitesi può avere funzione aggregante sull’intero panorama delle contraddizioni esistenti.8

Nel mondo contemporaneo assistiamo all’intrecciarsi di due differenti strati temporali: i flussi finanziari e informativi veicolati dalle reti informatiche globalizzate si intersecano con il ritorno su larga scala di forme di sfruttamento selvaggio non dissimili da quelle  sperimentate durante gli albori del capitalismo, quando la logica totalitaria dell’accumulazione non era contrastata da un’antitesi sufficientemente forte. Anche per questo c’è un elemento in comune tra il nostro presente e l’inizio della modernità nei riguardi della costruzione di questa antitesi: “senza la ‘resistenza’ non si inizia nessun percorso”. Oggi, come allora, la resistenza è necessaria contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo pensiero unico. Allora gli scioperi falliti, gli anacronismi di chi difendeva modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico crearono le organizzazioni nuove e il nuovo spirito collettivo. Nel capitale-totale del nostro tempo ci sono numerosi semi di quella stessa pianta e anche qualche germoglio. Non possiamo sapere quali daranno frutti. Sappiamo solo che in passato è successo e che certe condizioni di fondo del nostro lungo presente sono rimaste immutate. Per immaginare le possibilità che si aprono nel nostro futuro, dunque, possiamo certamente cercare di comprendere gli elementi di determinismo rintracciabili nella storia di lungo periodo, ma senza mai dimenticare il carattere in ultima istanza irriducibilmente antideterminista della storia.


  1. Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, p. 142. 

  2. Ivi, p. 356. 

  3. Ivi, p. 342. 

  4. Ivi, p. 233. 

  5. Ivi, p. 307. 

  6. Ivi, p. 310. 

  7. Ivi, p. 310. 

  8. Ivi, p. 526. 

]]>