Tolkien – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito del fascismo di ieri, di oggi e di altro ancora https://www.carmillaonline.com/2024/03/13/a-proposito-di-fascismo-di-ieri-e-di-oggi-e-di-altro-ancora/ Wed, 13 Mar 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81425 di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la [...]]]> di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la ricerca storica che la memorialistica. Quest’ultima, più della prima, spesso di parte e attenta, come sostiene sempre nell’Introduzione Enrica Garzilli, a salvaguardare l’integrità morale e politica dei testimoni più che la realtà dei fatti narrati. Sottolineando che si preferisce qui usare il termine “realtà” piuttosto che “verità”, nel tentativo di limitare almeno in parte l’alto tasso di discutibile interpretazione soggettiva cui spesso si accompagna la seconda.

Per comprendere appieno le ragioni di questo pistolotto iniziale e di questa recensione, occorrerebbe sfogliare con attenzione i Paralipomeni della batracomiomachia di Giacomo Leopardi e, in tale testo ottocentesco, trovare la giusta epigrafe per commentare qualsiasi discorso che si occupi delle imprese degli attuali “fascisti” e “antifascisti” istituzionali che ammorbano con le loro velleità politiche e culturali l’aere mediatico, rendendolo, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, sempre più simile a un pantano. Allo stesso tempo immobile e mobile come le sabbie destinate a trascinare nella melma, fino a seppellirlo, qualsiasi ragionamento o tentativo di inquadramento dei problemi connessi ai primi due senza per forza cadere nella banalità e nell’irrazionalità delle ideologie immutabili e pregresse.

Pretesa veramente assurda, quest’ultima, all’interno di una società (“dello spettacolo”, sia sempre benedetta l’intuizione di Guy Debord) in cui il palco di Sanremo vale quanto il parlamento e un’affermazione fatta da uno dei presentatori o dei cantanti in gara quanto un decreto legge o una ponderata riflessione filosofico-politica. Avvicinando molto la situazione italiana attuale a quella già derisa dal poeta di Recanati, nei versi composti tra il 1831 e il 1837, anno della sua morte.

Anni in cui il poeta e filosofo italiano avrebbe portato alle estreme e più mature conclusioni la sua lunga e materialistica riflessione sulla condizione umana e le illusioni, spesso men che infantili, religiose e “ideali” che ne giustificavano ogni suo aspetto più meschino, prolungandone non solo le sofferenze, ma anche la condizione di sottomissione della società italiana dell’epoca sia alle risibili monarchie nazionali, senza mai discuterne l’intrinseca religiosità e inettitudine, che a quelle, ben più potenti, austro- borboniche che si erano spartite l’Italia da secoli.

La battaglia dei topi e delle rane, appoggiate queste ultime dai ben più temibili e “corazzati” granchi, si ispirava a un poema greco in 303 versi attribuito, senza prove concrete, a Omero e la cui altrettanto controversa datazione copre un periodo compreso tra il V e il I secolo a. C. Il poemetto classico serviva però a Leopardi per mettere alla berlina sia i presunti progressisti della causa nazionale, in Italia come in Francia, che i loro fieri e ultra-conservatori avversari insieme alle potenze straniere di cui difendevano gli interessi.

Topi, rane e granchi presi tutti insieme non fanno certo una gran figura, ma ad uscire con le ossa rotte sono proprio i primi, ovvero i progressisti, che sventolando propositi liberali e organizzando inconcludenti cospirazioni non fanno altro che rendere i loro avversari ancora più forti e “cattivi” e pagando per questo prezzi esagerati, in termini di vite e carcerazioni, considerati i risultati (non) raggiunti.

Urlano sempre al lupo oppure alla vittoria certa i topi, per poi, però, fuggire a gambe levate di fronte all’avversario o tremare di paura al solo pensiero di ciò che questo potrebbe fare una volta assiso al trono. Sono gli anni compresi tra il 1820 e il 1830, grosso modo, quelli di cui parla il grande e sarcastico materialista ottocentesco, eppure non si può fare a meno di pensare all’autentica “beata ignoranza” che anima e dà fiato ai dibattiti attuali sul pericolo fascista rappresentato dalle attuali forze di governo e alle richieste dell’antifascismo istituzionale per fargli fronte.

In realtà, però, dietro alle richieste fatte a nostalgici del fascismo di antica data di fare professione di antifascismo oppure, da parte avversa, quella di fare pubblica ammenda sulle foibe o di schierarsi, senza se e senza ma, con il sionismo di Netanyahu in nome del rigetto dell’antisemitismo o, ancora, con Zelensky e l’Ucraina contro il putinismo che i due avversari si rimpallano senza alcuna vergogna o senso del limite e del ridicolo, sta il fatto che i due contendenti costituiscono le due facce di una stessa medaglia di governo e/o politica in cui forze prive di identità alcuna, dopo un adeguamento pluridecennale al comando del capitale finanziario e alle necessità del capitale sovranazionale di salvaguardare i propri profitti e interessi, cercano di spartirsi poltrone e potere fingendo e rivendicando meriti e radici politiche e ideologiche di cui non costituiscono più nemmeno un lontano fantasma. Come dire che, da queste parti e lungo le sponde della sempiterna italietta non si aggirano più né il fantasma del comunismo né, tanto meno, quello del fascismo. Perlomeno, attualmente, nelle forme in cui si erano storicamente prospettati.

Aleggia invece, ovunque e su tutte le forze in campo, l’olezzo di un liberalismo, fasullo anch’esso in un paese in cui il peso della Chiesa non è mai diminuito in maniera significativa, che, identificatosi totalmente con i valori dell’Occidente e della Nato, non fa altro che spingere l’intera nazione nel baratro di un conflitto armato di cui gli stessi governanti e i loro avversari non intendono i fini e le ragioni, ma a cui si adeguano per mancanza di idee e prospettive. Una guerra ideologica dei topi e delle rane, per tacer dei granchi, dunque. E tutto questo costituisce il motivo per cui varrebbe la pena di leggere, o almeno sfogliare, l’opera di Enrica Garzilli pubblicata sul finire del 2023 .

Enrica Garzilli è specialista di indologia e studi asiatici, collaboratrice di ricerca e docente di sanscrito, buddhismo, induismo e diritto indiano all’Università di Delhi e a Harvard (1992-2016) oltre che di Religioni e culture dell’Asia e Storia del Pakistan e dell’Afghanistan alle Università di Perugia e Torino. Ha fondato ed è stata direttore della Harvard Oriental Series – OM. Collabora con numerose riviste e quotidiani nazionali e con la Rai in ambito politico, storico e geopolitico. Nel 1997 ha fondato l’Asiatica Association, un’organizzazione no profit che diffonde la conoscenza e lo studio delle culture asiatiche. Ha fondato e diretto le riviste accademiche online IJTS (Tantrism) e JSAWS (Gender Studies) (1995-2019).

Mussolini e Oriente segue con attenzione un tema che, come afferma l’autrice, è stato tutto sommato poco sviluppato nell’ambito della ricerca storiografica italiana, una volta escluso uno studio di Renzo De Felice pubblicato nel 19881 cui l’autrice paga tributo non soltanto nel titolo. Tema costituito dal tentativo mussoliniano di ampliare la presenza e l’influenza italiana in quelle che, allora, erano ritenute aree di pertinenza o appartenenza dell’impero britannico.

Se tale tentativo, senza mai nascondere le pose teatrali e gigionesche del Duce e confermandone le velleità imperiali richiamantisi a un sempre (ancor oggi) troppo poco sbiadito mito di Roma, finì da un lato nel ridicolo e dall’altro nella tragedia del secondo conflitto mondiale a fianco dell’alleato hitleriano, allo stesso tempo segnava una grande distanza di intenti, rispetto al presunto “fascismo” odierno. Soprattutto nel volersi confrontare con le potenze coloniali e imperiali che all’epoca ancora potevano spartirsi il mondo (Francia e soprattutto Regno Unito), senza accettarne supinamente (come invece accade oggi per la politica estera italiana, qualsiasi sia il colore del governo in carica dalle guerre balcaniche in poi, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti) le mire espansive e gli obiettivi politico-militari. Considerato che l’ultimo atto di autonomia, in contrasto con la politica americana nel Mediterraneo, in decenni recenti, è stato forse quello dell’incidente di Sigonella, nell’ottobre del 1985, che costituì un caso diplomatica tra Italia e Stati Uniti, ai tempi del primo governo Craxi con Giulio Andreotti agli Affari Esteri.

Su questo aspetto della politica estera italiana torneremo ancora più avanti, mentre ora, per ragioni di brevità si riassumeranno, molto sinteticamente, le vicende storiche, politiche e, talvolta, degne di una commedia che l’autrice descrive e inquadra grazie ad un’enorme mole di materiali storiografici e d’archivio, dando vita a una ricostruzione basata su documenti originali come, ad esempio, gli appunti inediti di Tagore, Mussolini e Andreotti.

Nel 1924 Mussolini accettò la proposta del «camerata samurai» Harukichi Shimoi di fare da testimonial per una bevanda analcolica giapponese. Due anni dopo la fotografia del Duce planava dai cieli nipponici su una folla entusiasta, che riconosceva nel Fascismo gli stessi valori fondanti del Bushido: “coraggio, lealtà, senso del dovere e dell’onore e la visione eroica dell’agire in nome di un ideale fino al sacrificio estremo”.

Se il legame tra l’Italia e l’Impero di Hirohito dopo il 1936 è noto, poco si sa in merito ad altre potenze dell’Asia che nutrivano verso il Duce una fascinazione altrettanto forte come l’India di Gandhi che, sebbene non approvasse «il pugno di ferro» con cui Mussolini governava, ne elogiava l’impegno in campo sociale, specialmente quello a favore delle classi rurali e delle categorie deboli come orfani, vedove, ragazze madri, riconoscendogli servizio e amore verso il popolo. Mussolini – che segretamente definiva l’India «il forziere del mondo» e mirava a controllarla – rappresentava per Gandhi, anche un importante alleato in funzione antibritannica.

Ancora meno noto è il legame con l’Afghanistan, punto nevralgico dell’Asia centrale, scacchiere su cui si erano scontrate nel “Grande Gioco” le maggiori potenze del tempo, Gran Bretagna e Russia, e di cui, nel 1921, l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza, stipulando accordi di collaborazione. Le mire internazionali di Mussolini erano affiancate da una vivace propaganda culturale. Fondamentale, in tale senso, è da considerare l’operato di personaggi come l’esploratore Giuseppe Tucci, portavoce del Fascismo in India e in Nepal, Gian Galeazzo Ciano, console d’Italia in Cina, Pietro Quaroni, ambasciatore a Kabul e abile tessitore di alleanze con i ribelli waziri.

Con alle spalle anni di ricerca, Enrica Garzilli ricostruisce così un grande affresco sulle operazioni di Mussolini nelle terre di quell’Oriente «fratello non di sangue», consegnandoci un’opera che inquadra gli anni del Ventennio secondo parametri scarsamente considerati prima. Una ricerca storiografica in cui il razzismo fascista si accompagna all’attenzione per le culture locali, soprattutto quando queste potevano essere fatte derivare dall’arianesimo e altre manfrine ottocentesche2 oppure ad un superiore spiritualismo che sempre aveva costituito un forte richiamo, come lo rimane ancora tutt’ora, per la Destra ispirantesi sia a Julius Evola che al tradizionalismo più arcaico. E di cui, tanto per attualizzare e chiarire il senso di quanto appena affermato, le controverse interpretazioni dell’opera di Tolkien e di Lovecraft costituiscono ancora la manifestazione epifenomenica nella critica letteraria.

In tale contesto di attenzione parziale alle culture e religioni ”altre” e, in particolare, ad una certa mistica visionaria di origine tibetana si manifesta una certa continuità ideologico-spirituale tra certi protagonisti delle battaglie delle “armate bianche” contro la vittoria dei soviet e delle armate rosse nella “Madre Russia”3 e lo “spiritualismo” di certa destra italiana fino a Gianfranco de Turris.

Personaggio centrale, per le vicende narrata dalla Garzilli e per la diffusione di una certa immagine dell’Italia fascista in Asia, è sicuramente quella di Giuseppe Vincenzo Tucci (1894 –1984) al quale l’autrice ha dedicato in passato una voluminosa e dettagliata opera di carattere biografico tutt’altro che priva di interesse4, soprattutto per chi voglia approfondire la storia dell’archeologia italiana in Asia e delle mire politiche che spesso hanno accompagnato le missioni archeologiche occidentale, ma anche russe, nei continenti extra-europei.

Lo studioso italiano più attivo nella propaganda e più coinvolto nelle attività del regime, quello che portò i nazionalisti bengalesi in Italia – con l’eccezione di Tagore5 invitato da Formichi – , fu Tucci, che della politica culturale fascista non fu solo un esecutore ma anche un instancabile ideatore. Da anni era determinato a dare corpo a un progetto: creare un’istituzione per diffondere lo studio della cultura asiatica in Italia, ovviamente diretta da lui, e promuovere gli scambi con l’Asia. […]
Tucci riconosceva a se stesso […], quando propose la creazione dell’IsMEO6, un duplice compito: «come orientalista e come diffonditore della cultura italiana». Con il sostegno di Gentile e in linea con la visione della poltica estera di Mussolini e la sua malcelata rivalità cion la Germania e la Francia scriveva che il suo scopo era quello «di creare in Italia una scuola orientalistica che potrebbe battere quelle straniere». Il 9 marzo 1931, infatti, inviò da Roma una relazione a Sua Eccellenza il Capo del Governo in cui si proponeva la creazione di un istituto con questi scopi, simile «all’Istituto Buddhista di Leningrado, alla Società degli amici dell’Oriente di Parigi o alla Società indiana di Berlino»7.

Orientalista, esploratore, storico delle religioni e buddhologo italiano, Giuseppe Tucci è stato autore di numerose pubblicazioni, articoli scientifici, libri ed opere divulgative. Ha condotto diverse spedizioni archeologiche in Tibet (sette tra la fine degli anni Venti e il 1939), India, Afghanistan ed Iran. Durante la vita, è stato unanimemente considerato il più grande tibetologo del mondo.

Aveva aderito al fascismo senza grande interesse politico ma, un po’ pirandellianamente, nella speranza che il regime finanziasse i suoi studi, le sue ricerche e spedizioni, in una visione della vita di carattere dannunziano in cui, come lui stesso affermava, «l’uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta». A differenza di Pirandello, le cui opere furono ritenute sempre troppo provocatorie per il regime, Mussolini decise di finanziarlo a fini politici, per diffondere l’immagine dell’Italia in Asia e prendere contatti con l’India in vista di un possibile disgregamento dell’Impero Britannico.

Tralasciando ora le esperienze di ricerca, la carriera, le convinzioni e le conoscenze, tra le quali occorre segnalare ancora quella di Mircea Eliade8, dell’alfiere dell’archeologia italiana in Asia centrale, occorre qui, con un salto temporale di due decenni, ricordare, che, nel dopoguerra il “santo patrono” della riapertura dell’IsMeo nel 1947, sotto la guida di Tucci, fu un ancor ventottenne Giulio Andreotti, allora già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Così, come afferma ancora l’autrice:

Vennero allestite mostre d’arte orientale a dir poco fastose che non avevano precedenti per la rilevanza dei pezzi esposti e per l’afflusso di pubblico: da campo di studi ristretto e sofisticato, riservato ai pochissimi che se lo potevano permettere, l’Oriente stava diventando un fenomeno di massa. E se l’attività dell’istituto dopo Mussolini si svincolò dall’azione politica e divenne più chiaramente culturale, ciononostante non smise mai di svolgere un lavoro di intelligence e di essere strumento di soft power9.

Il recensore deve qui scusarsi per aver saltato la narrazione delle imprese dell’imperialismo “straccione” italiano in Asia ed essere volato alle conclusioni che seguono, che si riallacciano, però, con quanto affermato all’inizio.
L’interesse di tutto il testo, che a volte simpatizza un po’ troppo per le imprese e gli ardori mussoliniani e in altre soffre di una certa pedanteria accademica, è proprio racchiuso nel tracciare la via che dalle politiche del Fascismo originario ha portato fino alle scelte dei governi italiani successive alla fine del Ventennio. Una continuità che se è spesso stata segnalata a livello di leggi, pratiche poliziesche e cariche amministrative, politiche e istituzionali, non è mai stata colta nella continuità di una certa politica estera nei confronti del Medio Oriente e dell’area mediterranea.

Non a caso la figura di Giulio Andreotti, dopo esser stata segnalata a proposito di Sigonella, è tornata nelle righe finali di questa fn troppo stringata recensione di un testo che meriterebbe ancora altre attenzioni e considerazioni. Questo per dire che se c’è stata continuità tra fascismo e governo italiano questa è stata anche in ambiti e pratiche di politica estera che tutti i governi italiani della cosiddetta Seconda Repubblica non hanno più perseguito, sia a Destra che a Sinistra. Dalla partecipazione alle guerre balcaniche, con i bombardamenti sulla Serbia, fino alla Prima guerra del Golfo e alle scelte odierne sia a riguardo dell’Europa Orientale che del Medio Oriente.

Da allora, non a caso l’IsMEO viene unito ad altro istituto nel 1995 e poi chiuso insieme a quello nel 2012 (come già è stato segnalato nella nota 6), tutti i governi hanno abbandonato le politiche, sicuramente neo-coloniali e subdolamente imperialistiche, che il regime aveva contribuito a definire, sulla base, però, di un più generale rinnovamento del capitalismo italiano, come sempre a spese della classe operaia, di cui, tanto per chiarire, l’azione di Enrico Mattei in Africa settentrionale fu ancora una conseguenza, ben lontana da quella prospettata sulla carta dall’attuale governo Meloni. Ampiamente in ritardo sull’azione russa e cinese nell’Africa Subsahariana, fino al farlocco voto parlamentare su Gaza o all’inutile e probabilmente controproducente missione Aspides nel Mar Rosso oppure alla comparsata della premier a Kiev in occasione della presidenza italiana del G7.

Razzismo e manganellate sono tranquillamente convissuti in Italia ben prima dell’avvento del governo di “destra”, e non soltanto per merito della Lega che, al massimo, per anni ha raccolto gli umori di una classe media e di una classe operaia indebolite e impoverite e, allo stesso tempo, ancora incapaci di rivoltarsi verso la mano che le tiene tuttora al guinzaglio. Mentre anche le manganellate a studenti ed operai sono state equamente distribuite, e talvolta in maniera molto più violenta delle attuali, dai governi di centro-sinistra. Dall’azione del governo Leone II nel 1968 contro i moti studenteschi a quello Rumor I successivo con gli scontri di Corso Traiano a Torino e, non potendo ricordare qui tutti gli eventi repressivi di cui furono protagonisti i governi di centro-sinistra, fino alle “quattro giornate di Napoli” del 2001 quando i maganellatori del governo di “sinistra” Amato II, il 17 marzo, servirono ai manifestanti del Global Forum l’antipasto di quello che sarebbe stato il G8 di Genova.

Non occorre procedere oltre, poiché sarebbe soltanto ridondante. Ma, per tirare le conclusioni, è necessario sottolineare come un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome, in cui la presunta borghesia nazionale ha finanziarizzato l’economia senza dar vita ad un’autonoma strategia d’impresa economica o politica e che ha colto nella globalizzazione soltanto il momento in cui poter abbassare i salari e svendere le imprese al miglior offerente, oggi finge una battaglia politica inesistente al suo interno soltanto per poter continuare a svolgere il ruolo di lacchè nei confronti di altre economie più potenti.

Tutto questo non vuole costituire, però, il solito piagnisteo sulla patria tradito oggi diffuso dai nazionalisti di sinistra o da un’estrema destra ridotta al lumicino che contesta le privatizzazioni. Piuttosto un invito a guardare negli occhi il nemico di sempre, il capitale nazionale e internazionale, spogliandolo di ogni orpello ideologico per sfidarlo là dove è più debole e risibile.

Il libro di Enrica Garzilli, pur nelle sue imperfezioni, oltre che a una rilettura non convenzionale di quelli che furono gli interessi geo-politici italiani in Asia, può fornire, indirettamente, strumenti per contestare e abbattere un gigante dai piedi di argilla, sia quando questo si appoggia sul piede destro oppure su quello di sinistra. Rivelando, allo stesso tempo e ancora una volta indirettamente, come la fascinazione per le dottrine filosofico-religiose asiatiche, basate sostanzialmente sulla liberazione, spiritualità e affermazione del soggetto e dell’individuo, appartengano pienamente all’immaginario di destra. Così come Tucci, Eliade ed altri, con la loro opera, hanno sempre finito col dimostrare.


  1. R. De Felice, Il Fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988.  

  2. In proposito si veda: M. Bernal, Atena nera. Le radici afro-asiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore, Milano 2011 e G. Semerano, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori Editore, Milano 2005.  

  3. Si vedano in proposito: V. Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi Edizioni, Milano 2012 e F. Ossendowski, Bestie, uomini e dei (prima edizione italiana 1925), Fratelli Melita Editori, Genova 1987. Si noti bene che nel titolo del secondo testo qui citato le “bestie” sono i comunisti, gli “uomini” i combattenti delle armate bianche e gli “dei” sostanzialmente coloro che stanno ai vertici del monachesimo tibetano, in particolare il Dalai Lama con i suoi insegnamenti “segreti”.  

  4. E. Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti, vol. I pp. LII + 685 – vol. II pp. XIV + 725, Asiatica Association, Milano 2012.  

  5. Rabindranath Tagore, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (1861 – 1941) è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Sostenitore dell’indipendenza dell’India almeno fin dal 1919, ha visto i testi di alcune sue poesie inseriti, prima, nell’inno nazionale dell’India nel 1950 e, successivamente, in quello del Bangladesh a partire dalla sua secessione dal Pakistan nel 1972. Dopo le aspre critiche rivolte al regime fascista, Tagore aveva perso il sostegno dato dal governo italiano all’Università Visva Bharati in cui insegnava. – NdR.  

  6. Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, nato nel 1933 e fusosi nel 1995 con l’Istituto italo-africano di Roma, dando vita all’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) posto in liquidazione coata amministrativa ne 2012. A dirigere l’IsMeo erano stati chiamati Giovanni Gentile (1933-1944), Giuseppe Tucci (1947-1978), Sabatino Moscati (1978-1979) e Gherardo Gnoli (1979-1995) – NdR.  

  7. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 542-543.  

  8. Mircea Eliade (Bucarest 1907 – Chicago 1986) è stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore, filosofo, mitografo e saggista romeno.
    Nel 1927 si impegnò attivamente nella “Nuova Generazione Romena” e i suoi articoli di questo periodo contribuirono a formare l’assetto teorico della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, movimento ultranazionalista di ispirazione fascista e antisemita. Dopo la laurea in filosofia (1928) vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta, tra il 1928 e il 1931, la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta, in casa del quale incontrò Giuseppe Tucci.
    L’esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell’India influenzarono profondamente il suo pensiero. La sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, fu pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne (che sarebbe poi diventato, dopo successive rielaborazioni, il saggio Lo yoga, immortalità e libertà). NdR.  

  9. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, op. cit., pp. 873-874.  

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Tolkien 2019: i mostri, gli eroi, i critici colpiscono ancora https://www.carmillaonline.com/2019/07/18/tolkien-2019-i-mostri-gli-eroi-i-critici-colpiscono-ancora/ Thu, 18 Jul 2019 21:13:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53677 di Franco Pezzini

Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford. Scritti e interventi su Tolkien, prefaz. di Edoardo Rialti, pp. 194, € 17, Eterea, Roma 2019

Senza piaggerie – di cui l’autore del libro non ha bisogno – studi come questo sono un esempio eccellente del tipo di critica oggi necessaria in materia di fantasy (e non solo, ma limitiamoci al particulare). Benvenute le opere compilative ad ampio raggio, che se felicemente realizzate possono essere preziose per inquadrare il fenomeno nella sua latitudine; benvenuto anche un certo approccio ruspante in chiave fandom. Ma [...]]]> di Franco Pezzini

Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford. Scritti e interventi su Tolkien, prefaz. di Edoardo Rialti, pp. 194, € 17, Eterea, Roma 2019

Senza piaggerie – di cui l’autore del libro non ha bisogno – studi come questo sono un esempio eccellente del tipo di critica oggi necessaria in materia di fantasy (e non solo, ma limitiamoci al particulare). Benvenute le opere compilative ad ampio raggio, che se felicemente realizzate possono essere preziose per inquadrare il fenomeno nella sua latitudine; benvenuto anche un certo approccio ruspante in chiave fandom. Ma se non andiamo a incalzare nel rispetto della relativa complessità i singoli testi, la genesi, le fonti, le convinzioni di un autore – anche quando non dice ciò che ci piacerebbe sentire, e tenendo distinti la sua soggettività storica e l’impatto di opere che vanno oltre lui – ci fermeremo alla rifrittura delle stesse banalità e dei soliti travisamenti. In un tempo come il nostro in cui la banalizzazione è premiata, e il successo diluviale di un genere popolare come il fantasy vede un inevitabile scarto tra quantità e qualità delle voci, sia in termini di narrativa che di riflessione sulla medesima (gli autori si propongono spesso come critici tramite web e social), Il fabbro di Oxford è un prezioso richiamo alla complessità.

Dove attenzione, non si sta denigrando il fantasy, come d’uso a suon di semplificazioni tra certi progressisti snob: è un genere che ha offerto anche opere di qualità altissima, talora squisitamente letteraria e capace – a prescindere dal divertimento del lettore, che può essere un valore – di sollevare anche grandi questioni individuali e collettive. La domanda può semmai riguardare, come sempre, le motivazioni con cui il singolo autore si avvicina a un genere e l’abilità tecnica che può vantare. L’originalità e lo spessore. La capacità di porsi domande e di impostarle sul piano narrativo. Il rapporto con le “mode” d’epoca (visto che il fantasy è palesemente di moda). Le stesse sfide sollevate da un genere che sembra più facile da gestire (in teoria non richiede ricerche complesse come il romanzo storico, né costruzioni logiche rigorose come il giallo classico, eccetera) e dove la riproposta continua di alcuni topoi – a ricalco di certi plot fiabeschi, di strutture mitiche eccetera – è forse più facilmente apprezzata dai fan. Dove il rischio di semplicismo si gioca anche nel rapporto con ideologie che sul feticcio dell’eroico amano condurre le danze: si pensi ai possibili – ma non necessari – cortocircuiti con certo neoceltismo, neoteutonismo eccetera di marca reazionaria. Aggiungiamo il fatto che una parte cospicua del fantasy più interessante prodotto all’estero fatica ad approdare in Italia, dove si tende a proporre in traduzione – da cui ovvie imitazioni – il classico usato sicuro. Rinvio sul tema agli itinerari battuti da Davide Mana, esperto di fantasy anglosassone.

Ma torniamo al punto di partenza. Per capire la vera originalità dei maestri di un genere occorre esplorare le pieghe delle loro opere: e nel caso di Tolkien il legame tra lo scritto e gli studi che portava avanti (il suo “lavoro”), le ruminazioni su valori e lettura della realtà, le riflessioni con amici intellettuali (e non), le esperienze familiari, belliche e professionali, è talmente coeso che difficilmente si può parlare di una vera fuga dalla realtà stessa. Semmai, come vedremo, di una tensione all’oltre da sé – previa però immersione nel sé – con un linguaggio amato e nobile, legato a letterature di un certo passato: e tali echi veicolano in modo efficace, grazie a una personalissima frequentazione quotidiana, un intero orizzonte interiore e relative urgenze. Senza colpa di nessuno, è chiaro che la verifica di impianto e motivazioni di legioni di scrittori fantasy che oggi in Italia premono sui social mostrerebbe situazioni un po’ diverse. E veniamo al volume.

Di fronte a una miscellanea, come è questo testo di Wu Ming 4, c’è chi può storcere il naso: e sbaglierebbe. I temi monografici della raccolta finiscono col risultare illuminanti a più ampio raggio; l’interesse non si esaurisce nella singola questione, ma getta luci sull’intero panorama senza pretendere di esaurirlo (cfr. la definizione del lavoro critico di C.S. Lewis citata da Edoardo Rialti nella bella prefazione); quelli che paiono “dettagli” rappresentano spesso essenziali distinguo.

Consideriamo quanto compulsivamente, da un lato, un’estrema destra italiota continui ad allungare le mani su autori come Tolkien, in chiave astorica e campando proprio di categorie ambigue (come il cosiddetto antimodernismo, macrocontenitore che guarda in realtà a posizioni diversissime, ma che fa gioco omologare a forza sotto l’ombrello del guru di Rivolta contro il mondo moderno). Le geremiadi sarcastiche e insieme lamentose circa una “guerra di Tolkien” che vedrebbe la sinistra – i soliti comunisti – intenta a mangiarsi, oltre ai bambini, anche i simboli, negando spazio alla relativa istanza, sono proclamate a colpi di banalizzazioni. Non ultime quelle sul valore autentico del simbolo: una dimensione fondamentale, ma da ravvisarsi e interpretarsi dove e come l’autore e la sua cultura specifica lo richiedono, non sulla base di categorie astratte e (sotto sotto) dell’ideologia dell’interprete. Un semaforo rosso non è un richiamo simbolico alla funzione militare di Dumézil o all’avanzata del comunismo.

E quanto per contro tra certa sinistra – o presunta tale – tenda a riproporsi la citata e vetusta critica snob che, svalutando a prescindere una serie di istanze come escapistiche e non entrando in profondità tra le pieghe delle esperienze letterarie, non aiuta a formare i lettori alla complessità. Beninteso, sul piano del gusto personale è legittima la varietà di pareri; e non ha neppure senso che il fantasy “alla Tolkien” debba dettare la linea di un genere in fondo molto più variegato. Ma torniamo alla complessità, su un autore di spessore che richiede comunque gli strumenti di una buona critica letteraria e di un bacino di studi specifici (come avviene in generale con l’analisi della letteratura alta) per poter essere affrontato efficacemente. Persino autori lucidi come il grande Michael Moorcock hanno tranciato su Tolkien giudizi non condivisibili e un po’ superficiali (sia pure in pezzi in sé brillanti e interessantissimi come questo, tradotto da Massimo Scorsone che – sia detto per inciso – per i Draghi Mondadori si avvia ora a presentare una bella edizione di romanzi moorcockiani). Letture come il presente saggio di Wu Ming 4 fanno insomma un gran bene non solo alla causa di Tolkien, del fantasy e in generale della letteratura ma, tanto più oggi, tanto più in questa Italia, sono una lezione preziosa per superare giudizi facili e premasticati.

In questo ideale prosieguo al bellissimo Difendere la Terra di Mezzo dell’autore (Odoya, 2013, nuova edizione 2018) troviamo testi d’interventi, lezioni, risposte a opere – di vario impatto pubblico – uscite sul tema tolkieniano. Materiale molto vario, dalla comunicazione accademica alla ripresa di contributi volutamente non “tecnici”: dove però il critico riesce a mantenere una coerenza anche stilistica con rigore di contenuti (ricchissimi) e limpidezza di forma. A smarcare dagli angolini chiusi del fandom attraverso lo sguardo a un intero panorama sulla letteratura del Novecento – con cui Tolkien dialoga o di cui almeno condivide crisi o reazioni – e insieme a fornire pagine dalle incalzanti argomentazioni e dall’inattaccabile comprensibilità.

Cercando di riconoscere un ordine virtuale al flusso con cui i contributi della raccolta sono proposti, potremmo accorparli in tre sezioni.

Una prima sezione riguarda in generale, potremmo dire, i ferri del mestiere di Tolkien: dove in poche pagine si offre conto della marcia in più di un simile titano. Vi troviamo Costruire con la materia nordica: citazione creativa, riscrittura, reinterpretazione, fulminante lezione di scrittura che identifica tre sofisticatissime chiavi del narrare tolkieniano, e fa capire anche meglio il tipo di distanza da imitatori privi di una certa coscienza letteraria. Segue un focus su Lo Hobbit come strano romanzo di formazione, che sgrana i topoi di un racconto esemplare mostrando l’intelligenza di utilizzo, le simmetrie, la capacità di rileggere originalmente. E infine il delizioso intervento “Do you believe in fairies?” che è a sua volta un pezzo di letteratura nel ricostruire l’innervarsi nell’opera di Tolkien di spunti, echi di scoperte archeologiche, dialoghi personali, reinvenzione di figure folkloriche, a dare il senso di una vertiginosa esperienza immaginale e di un panorama culturale densissimo. Chi pretenda oggi di scrivere romanzi “alla Tolkien” (posto che abbia un senso, il sottoscritto dubita) dovrebbe dedicare a queste pagine una ruminazione prolungata.

Una seconda sezione concerne, a proseguire il discorso sulla costruzione narrativa, alcune figure-chiave dell’opera tolkieniana. Si parte con Aragorn, il re che ritorna: il viaggio di un eroe moderno, di nuovo in fitto dialogo con opere letterarie molto frequentate da Tolkien (Beowulf ma non solo) e con sue esperienze personali, per esempio di guerra. Si passa poi a Beorhtnoth – La volontà di uno solo e la sventura di molti – nell’ambito della strana opera che lo riguarda, mix di analisi filologica e invenzione narrativa tessuti attorno a un poemetto medioevale anonimo e mutilo, La Battaglia di Maldon (X-XI sec.), che Tolkien aveva riletto criticamente a smontare una certa retorica bellicista anche contemporanea. Troviamo quindi L’ombra del guerriero: guerra e antimilitarismo nella Terra di mezzo, dove in questione è in generale la figura dell’uomo che combatte, anche se poi si prendono in considerazione i profili specifici di Faramir e dello stesso Frodo. A chiusura, Lúthien e le altre: i personaggi femminili: non molti di numero e non protagonisti (più per motivi letterari legati alla tipologia delle fonti che per un presunto maschilismo di Tolkien) ma di grande interesse. Si pensi a Galadriel, Éowyn, Arwen ma anche all’unico personaggio femminile negativo del Signore degli Anelli, cioè “Her Ladyship” – come la chiamano gli orchi – il mostruoso ragno Shelob.

Un ultimo gruppo di testi affronta temi monografici che hanno visto dibattiti più o meno vivaci. Così La riscossa della Contea o la rivolta moderna riprende la riflessione sulla politica, l’economia (merce, denaro), la categoria-rivolta nelle vicende che portano gli hobbit ad abbattere Saruman; I mostri, gli eroi e i critici demolisce con acutezza il saggio di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri: il fantasy come macchina mitologica (il Mulino, 2017) con le sue posizioni appunto semplificanti e superate; Un tomista nella Terra di Mezzo critica con motivazioni condivisibili – ma apprezzamenti anche positivi – gli esiti di un altro saggio, Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien di Claudio Antonio Testi (Edizioni Studio Domenicano, 2014), che innova con intelligenza il panorama delle letture cattoliche sull’opera tolkieniana, superando l’approccio confessionistico.

Lascio volutamente in chiusura, forzando l’ordine dell’indice, un cenno all’introduzione. Intitolata un po’ provocatoriamente Il demiurgo reazionario e siglata dalla citazione di una bozza di lettera di Tolkien, “Assegnare ‘etichette’ agli scrittori, vivi o morti, è un comportamento insensato, in ogni circostanza, un passatempo infantile per menti piccine”, eccetera: dove l’autore riprende qualche riflessione del libro precedente sulle banalizzazioni ormai storicamente inaccettabili, da sinistra come da destra, nell’approccio a quella che resta buona letteratura, “cioè quella che attraverso la finzione coglie frammenti di verità”. Banalizzazioni che convergono nell’equivoco, pur offrendo interpretazioni ovviamente diverse.

Affronta quindi il discorso sulla critica alla contemporaneità in Tolkien e sottolinea come l’opera di lui non fornisca mai “risposte didascaliche o fideistiche, ma sempre complesse”: un riflettere sofferto, ma fiducioso sul fatto che le grandi narrazioni possano aiutare a reagire alla perdita di senso del mondo. Da ciò la sua narrativa, dove emerge un’“ostilità per l’industria, il controllo statale, la perdita del rapporto con il paesaggio, il razzismo, la guerra e il militarismo, che sono fenomeni della storia contemporanea” (ciò che stronca una certa sua omologazione facile, fumogena, all’antimodernismo fascistoide). E con una tensione appunto sull’oltre da sé: “Per questo non dovrebbe meravigliare che nell’epoca del pensiero unico e del sé ipertrofico, dominata dall’eterno presente della merce e dalla catastrofe ambientale, quella narrativa continui a ispirare nuovi livelli di lettura”.

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Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 51 https://www.carmillaonline.com/2013/07/16/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-51/ Mon, 15 Jul 2013 22:01:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7240 di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000 Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a [...]]]> di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000
Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a rampognare, anche perché lo spunto è astuto. Io me la vedo così: un gruppo di executive in riunione al piano più alto di un grattacielo di L.A. Il più intelligentone fa sfoggio di cultura e annuncia che ha visto il film di un nebuloso regista tedesco, un film dove gli angeli possono sentire i pensieri della gente. “E vabbeh, ne faremo un remake”, dice il praticone della compagnia. Poi interviene il creativo (cioè il ladro della congrega): “E se usassimo l’idea del sentire i pensieri attribuendola a un uomo che può ascoltare cosa pensano le donne?”. Mmh, brusio in sala, rotelle che girano. Poi si fa avanti con prepotenza il maschilista della riunione, con voce gutturale e mano a sprimacciare il pisello: “Non dimentichiamo che capire cosa cacchio pensi il gentil sesso – se e quando pensa, ah ah – è da millenni la preoccupazione principale dell’uomo maschio di genere maschile, eh!”. Allora interviene il ragioniere: “Cioè di colui che tiene il borsellino e decide cosa si va a vedere al cine”. “Ma non rischiamo di farla sporca?”, chiede il timoroso. “No”, conclude l’ipocrita: “Diamo la regia a una donna!”. “Venduto!”, decide il capo. Taglio di montaggio ed ecco What Women Want nei cinema. La commedia parte un po’ lentamente, ma poi ha una mezz’ora centrale ruffiana quanto si vuole ma decisamente riuscita, col macho Mel Gibson che finalmente capisce cosa vogliono le donne e sfrutta l’indescrivibile vantaggio in affari (anche sentimentali/sessuali). Ovviamente siamo dalle parti di quel maschilismo paternalistico per cui le donne sono magnifiche creature inutilmente complicate, che dicono bianco per intendere nero etc. etc., ma la porcata ricattatoria è organizzata con sapienza criminale, lo ammetto. Però poi si getta la maschera e tutta la parte finale scade in un perbenismo moralista da far accapponare ulteriormente la pelle. Quell’antisemita sanguinario neocoglione di Gibson ha capito la lezione ed è diventato buonissimo, intuitivo, sensibile e rispettoso delle legittime richieste femminili. Trova l’amore di una collega (Helen Hunt) e l’affetto di una figlia che ancora quindici minuti prima voleva darla via con la fionda e adesso diventerà presumibilmente una vergine di ferro, comprensiva anche lei delle ansie paterne. E cosa potevo aspettarmi di meglio? Vabbeh, mi sta bene. (Diretta su Canale5; 19/12/04)

ddv5102505 – The Making Of Grace dell’amico Fritz, USA 2004
Me lo sono regalato a Natale, pur avendone già una copia (ma vuoi mettere? Questo ha le bonus tracks!) (L’industria discografica prospera sulla stupidità di gente come me, lo so): si tratta di Grace, l’unico clamoroso album di Jeff Buckley, pubblicato finché era vivo. E negli extra di questa Legacy Edition (termini che il marketing deve avere verificato misurando la salivazione di fessi come chi scrive) c’è anche un professionale documentario, firmato da Ernie Fritz che racconta la nascita di un capolavoro, probabilmente uno degli ultimi dischi “importanti” del rock. E il regista, già autore di altri documentari musicali e di videoclip, asseconda il fantastico materiale visivo e sonoro fornitogli dall’angelico Jeff e assembla diligentemente. Non c’è spazio per grandi invenzioni: la musica dice già tutto. Rimane solo il rimpianto per la perdita di un talento cristallino e una voce e una scrittura commoventi. Buckley era un genio multiforme, affamato di scoperte e invenzioni e riusciva a racchiudere in se stesso Dylan, Van Morrison, Edith Piaf, il padre Tim Buckley e Leonard Cohen, mediandoli con una sensibilità, che – a differenza del suo Pantheon di riferimento – capiva la potenza di un accordo amplificato. E dalla sintesi era nata una musica pulsante come il rock dei Pearl Jam, ma sorretta da un’immaginazione, una potenza e un lirismo originali e ineguagliabili. Nella sua semplicità, il documentario fa piangere di rabbia. Il santino è dietro l’angolo e il prodotto discografico non potrebbe certo ragionare in termini critici, ma quel 29 maggio 1997 in cui Jeff Buckley è affogato (mica droghe o altro: un banale e idiota bagno in un affluente del Mississippi) abbiamo veramente perso qualcosa. Rimane solo la musica. Splendida. (Dvd; 29/12/04)

ddv5103506 – L’imperfetto e necessario Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, USA 2004
Un presidente eletto con una frode palese. Menzogne e inadempienze del suo governo inetto che portano a due guerre sanguinose, pagate in contanti da chi consuma la benzina in Occidente e con la vita da chi sta in Medio Oriente. Gli investimenti che ripartono, la rielezione assicurata e guadagni stratosferici per chi commercia in armamenti e petrolio, casualmente in affari con chi risiede alla Casa Bianca. Michael Moore ci racconta con le armi del documentario l’intreccio vertiginoso di affari e politica che parte da Washington e arriva in quel posto a noi e ne viene fuori un film discreto se lo guardiamo da un punto di vista tecnico-narrativo (ha pause, divagazioni, banalità, contorcimenti, compiacimenti e scorciatoie), importantissimo però per il messaggio che porta al pubblico: ci stanno pigliando per il culo in maniera mortale. Non ci sono grandi novità né rivelazioni sconvolgenti, eppure s’è parlato di cinema di propaganda e di faziosità diffuse. Ammesso che sia fazioso far vedere lo sguardo ottuso di Bush (non ha altre espressioni, cosa si può fare?), ciò che viene raccontato è inoppugnabile nella sua basica linearità. Semmai è sconvolgente la palese partigianeria – questa sì – di chi rifiuta di confrontarsi con la materia proposta dal film. In questi giorni tutto il mondo assiste alla catastrofe del sud-est asiatico, sconvolto da uno tsunami che ha provocato (in previsione) oltre duecentomila morti. Pensose riflessioni sulla matrigna Anima Mundi, complessi di colpa, aiuti umanitari per le economie in ginocchio. Tanto bla bla e nessuno che faccia due conti e si renda conto che, dati alla mano, George W. Bush è già responsabile di mezzo tsunami, in Iraq. Le feste di Natale, gli auguri di Capodanno e – qui ci starebbe anche una colorita bestemmia – nessuno che si ricordi che anche noi siamo una nazione in guerra, con un corpo militare in azione in un paese occupato, senza sovranità reale. In Fahrenheit 9/11 Moore rinuncia ad essere in scena dall’inizio alla fine, limita il suo acre umorismo a poche battute e all’uso intelligente del montaggio e prova a realizzare qualcosa che faccia pensare. Che il film sia frutto di un work in progress è evidente dalla disarmonia delle parti, con l’urgenza dell’attualità che inseguiva lo script e non viceversa, ma il risultato – anche se puntualmente discutibile – è potente. Efficace, non so: nonostante gli incassi clamorosi, non è riuscito nel suo intento primario, impedire la rielezione del figlio di puttana. Ma Moore ha fatto quello che un artista dovrebbe fare, mettere la sua competenza al servizio di un’idea, cosa che in Italia sembra non sfiorare minimamente alcun supposto intellettuale. A proposito: lo tsunami ha risparmiato Emilio Fede e Max Ferrari (il gioviale direttore di Telepadania). Non è l’amore a essere cieco. È la Natura, cazzo. (Dvd; 29/12/04)

ddv5104507 – Emerson Lake & Palmer Master From the Vaults di Valente Cineasta Ignoto, Belgio 1970
Spettacolare esibizione degli ELP, subito dopo la pubblicazione del loro primo disco, registrata per la tivù. Mancando il repertorio, ogni brano è infarcito di improvvisazioni parossistiche e citazioni diffuse: una goduria per chi ama la musica avventurosa e tollera la disposizione circense del supergruppo. Sorretti dall’adrenalina e dall’esuberanza giovanile (e forse qualche stimolante più o meno naturale) i tre si producono in performance agonistiche, divertendosi un mondo. Su tutti spicca lo spaccone Keith Emerson (ma ve lo ricordate nella sigla di Odeon?) che qui trova il modo di montare il suo organo, di accoltellarlo, cavalcarlo, suonarlo al contrario, prenderlo a calci, gomitate e ceffoni, tirandone fuori suoni incredibili. La regia è buona, il montaggio figlio dell’epoca, la fotografia alla carlona: ma che importa? È la musica che conta, ed è eccezionale. Responsabile di cotanta meraviglia la tivù belga: per essere uno dei popoli più noiosi al mondo, c’è da dire che avevano gusti televisivi singolari e apprezzabili. Quest’edizione è abbastanza scrausa (pellicola rigata, scaletta rimontata in maniera opinabile) ma sembra che presto ne uscirà una versione filologica (che non mancherò di procurarmi, figuratevi). Tornando sulla terra: oggi, tale Roberto Dal Bosco, muratore mantovano ventottenne (“un timido”, secondo suo nonno), ha tirato sul collo del premier un treppiede fotografico. Per buona educazione, nessuno a sinistra di Eichman può dire ciò che pensa. Buon anno. (Dvd; 31/12/04)

ddv5105b508 – Il capolavoro The Fog of War di Ellis Morris, USA 2003, e poi Destra di governo e Sinistra televisiva
Premio Oscar 2004, il lacerante ritratto dell’ottantacinquenne Robert McNamara. Segretario della Difesa con Kennedy e Johnson, già presidente della Ford e poi della Banca Mondiale, McNamara è stato anche il cervello dietro i bombardamenti sul Giappone nel 1944 (che, quanto a vittime, altro che Nagasaki e Hiroshima…), era nella stanza dei bottoni durante la crisi dei missili a Cuba e ha avuto un ruolo controverso nell’escalation della guerra in Vietnam. Il vecchiaccio ha carattere da vendere: è lucido, cinico, intelligente e para ogni colpo predisposto dalla regia, umanamente comprensiva ma storicamente e politicamente per nulla accomodante. L’intervista diventa una seduta psicanalitica e si scava nella rimozione interiore, negli alibi, nel senso di colpa e anche nel desiderio di perdono e redenzione. The Fog of War riesce a farci commuovere di fronte a un uomo che ha deciso la vita (e la morte) di molti e ne è consapevole: Morris è bravissimo nell’organizzare il materiale, nell’incalzare il politico, nel sottolineare con immagini perfette ciò che ci viene detto. Un documentario coi controcazzi che parte da un uomo e diventa un trattato sulla natura umana, musicato con classe da Philip Glass. Intanto, qui da noi: La Russa e Gasparri fan cagnara parlamentare per la faccenda del treppiede. È gente che andava all’università con le spranghe, per dire. Calderoli invece teme un colpo di stato (ma l’avete già fatto voi, sveglione!) e – forse dimenticando quella cosina là… credo si chiami separazione dei poteri – ha chiesto al degno compare Castelli di disporre un’inchiesta sul magistrato che ha lasciato libero il blando attentatore. Calderoli ringrazi l’imponderabile Caso che l’ha portato ad essere ministro della Repubblica (!), perché in una società giusta sarebbe in coda ad aspettare un immeritato sussidio di disoccupazione. Dietro a Castelli, Gasparri e La Russa, ovviamente. E per questa bella Destra di governo, c’è sempre anche la Sinistra televisiva a ricordarci che non ne usciremo mai: il primo gennaio RaiTre ha trasmesso il Concerto di Capodanno della Banda Osiris, un programma divertente come un rastrello nelle gengive. Abilità strumentale indiscutibile e qualche invenzione orchestrale al servizio di un umorismo agghiacciante. La regia pare improvvisata ed è spesso fuori tempo e inquadra con allarmante frequenza la platea (semivuota) dove a 78 denti ride come una matta solo Serena Dandini, sponsor di un’operazione che dà la sensazione (sicuramente ingenerosa, ci mancherebbe) che a RaiTre, se fai parte della banda, hai svoltato, perlomeno per un po’. Qualche tempo fa, a Parla con me (egoriferito a partire dal titolo) Michele Santoro, sostenendo che la Sinistra non avesse ancora imparato a fare televisione, ha chiesto provocatoriamente alla Dandini: “Ma quando la Sinistra tornerà al governo, chi la farà la tivù? Tu?!”. E la dentona ha riso, senza comprendere la domanda. E intanto si ramazzano ascolti infinitesimali (in ragione di programmi fatti presuntuosamente male e brutti, non di chissà quali complotti berlusconiani o dell’Auditel), dimenticando che il destinatario finale dei programmi dovrebbe essere il pubblico, cioè la gente. Che in fondo in fondo gli fa schifo, comincio a credere, alla Dandini come ai DS. (Dvd; 2/1/05)

ddv5106509 – Kitsch e potenza sonora in The Song Remains the Same di Peter Clifton e Joe Massot, USA 1976, e il futuro di Israele e Palestina
Il Dirigibile di Piombo, nonostante abbia fregato i piani di volo ad alcuni musicisti meno fortunati (Willie Dixon, Small Faces, Jeff Beck, Spirit, bluesmen assortiti etc.), è stato innegabilmente il gruppo hard rock più fantasioso, potente ed evocativo che la storia ricordi, mantenendo con augusta spocchia il primato e senza cadere nelle trappole delle reunion celebrative e dei dischi inutili. Adesso, dopo anni di ricerche, masterizzazioni e ritocchi, è uscito un clamoroso doppio supporto chiamato immodestamente Dvd, ma se volete vedervi la sublime e abietta zozzura di questa band titanica durante gli anni d’oro, dovete procurarvi l’inadulterato The Song Remains the Same, controverso rock flick che li riprende in concerto al Madison Square Garden del ’73, lardellando il tutto con immagini di finzione girate in Inghilterra, Scozia e Galles. Queste sublimi vaccate raccontano in maniera obliqua l’estetica del gruppo: Tolkien, la mistica dei fuorilegge, gli ideali hippie, il ritorno alla natura, l’esoterismo… Prima di sentire gli Zepp in concerto passano 12 interminabili minuti in cui subiamo, nell’ordine: il manager Peter Grant che entra in scena sterminando una gang rivale di cui fan parte l’Uomo senza volto e l’Uomo Lupo, giuro; il boccoluto Robert Plant in location rurale con famiglia; John Paul Jones con grottesca acconciatura che racconta fiabe ai figli (spaventandoli a morte, direi); John Bonham che coltiva la terra; il luciferino Jimmy Page che suona la ghironda in un bosco incantato. Poi la musica parte ed è decisamente goduriosa. Ma per coprire i lunghi assoli la regia ci regala ulteriori genialate. In No Quarter c’è una confusa storia con un gruppo di cavalieri mascherati guidati da Jones che, poco prima, suonava un immenso organo da chiesa sembrando Herbert Lom in La Pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau. In The Rain Song tocca a Plant, cavaliere pellegrino per lande desolate fino all’assalto di un maniero da cui trae in salvo una vacua biondina. In Dazed and Confused Page scala una montagna per incontrare un vecchio se stesso, con tanto di lanterna come nella busta interna dell’album IV. Infine, durante il monumentale assolo di Moby Dick, vediamo Bonzo dilettarsi con un dragster e addestrare il piccolo Jason. Le riprese live, su un palco minuscolo e spoglio, non sono clamorose, la musica sí: Plant urlacchia, Page incanta con l’archetto, Bonzo squassa la batteria, Jones tiene le fila. Questi hanno scorticato il blues, con incursioni vichinghe in Kashmir, Giamaica, Marocco e Louisiana, e gli si perdona tutto, anche un prodotto cafone come questo film. In serata ho anche visto, su RaiTre, il documentario Promesse di Justine Shapiro e B.Z. Goldberg, ritratto a più voci di bambini israeliani e palestinesi, sovrastati da una realtà di guerra, paura e frustrazione. Tolta qualche ingenuità, si evitano il consolatorio e il piagnisteo e ne risulta un buon lavoro, non clamoroso, ma con momenti di tenerezza e squarci di verità. Ben scelti i protagonisti con Shlomo piccolo studioso della Torah, Moishe colono cazzoso, due gemelli laici, un corridore palestinese protagonista dell’Intifada, le figlie di un dirigente del FLP ancora in attesa di accusa formale e infine Mahmoud, il piccolo dal volto angelico che vuole diventare uno hezbollah e non crede che il regista (cui s’è affezionato, credendolo americano) sia un ebreo come gli altri e fornisce una sua teoria sugli ebrei ebrei, da combattere. Documentario non ideologico, da un lato tragico, ma anche capace di trasmettere la visione fiduciosa che può avere un bimbo. Ah: dopo che il senatore a vita Mario Luzi, ha detto cose di lancinante buon senso, Gasparri ne ha chiesto le dimissioni e Calderoli s’è così espresso: “Disconoscevo che il poeta Luzi esistesse al mondo”. Questi, il conflitto israelo-palestinese ce l’hanno in testa, altroché. (Dvd; 6/1/05)

ddv5107510 – L’incredibile Con Air, di un autentico cane, USA 1997
Questo film è uno tsunami di merda, così orrendo che, nella categoria dei film pacco, rasenta la perfezione: è tutto talmente fuori misura che diventa quasi bello. Ho detto quasi, eh? Cameron Poe (il tragico Nicholas Cage, calvo coi capelli lunghi) è finito in carcere perché ha ammazzato impulsivamente un ubriacone che importunava sua moglie incinta. Ha pagato il debito con la giustizia facendo flessioni, imparando lo spagnolo e l’arte degli origami (e fin qui siamo già a livello Top Secret). Il giorno in cui ottiene la libertà provvisoria lo imbarcano su un aereo dove c’è la peggio feccia delle carceri statunitensi, tra cui un John Malkovich psicopatico e uno Steve Buscemi maniaco pedofilo. Come è prevedibile (anche se mancano passaggi logici e abbondano voragini di sceneggiatura), l’aereo viene sequestrato e il nostro eroe deve far buon viso a cattiva sorte. Su di lui fa affidamento uno sceriffo che ha la faccia da cretino di John Cusack. Ovviamente finirà benissimo con una conclusione pirotecnica a Las Vegas. Tutto esageratissimo, battute atroci, improvvise manifestazioni di dolore o giubilo come se si recitasse in una filodrammatica del basso Piemonte, facce scolpite nel marmo e montaggio impazzito, senza senso alcuno se non dar l’impressione del movimento. Un filmaccio bestiale commesso da tale Simon West, al cui confronto una porcata immane come Armageddon fa la figura di un Bergman d’annata. Okay: e allora perché l’hai visto? Perché volevo ridere, ragazzi miei: come in tutti periodi di relativa vacanza, sono stordito dalla visione sadomasochistica dei telegiornali e le notizie più importanti di queste due settimane sono risultate: a) se i cadaveri italiani dispersi a causa dello Tsunami fossero o meno bruciati dai locali (impossibile dire se sì o no, ma tant’è ogni giorno il dubbio è stato riproposto per diversi minuti); b) se i bambini orfani ricoverati negli ospedali fossero rapiti (idem c.s.); c) il commento del Papa su qualunque argomento, dallo Tsunami all’arrivo dei saldi; d) i saldi, con inutili interviste ai passanti su cosa avessero comprato o meno e perché; e) varie ed eventuali marchette pubblicitarie. Per cui, credetemi, una schifezza come Con Air, alla fin fine, è quasi un elisir. (Diretta su RaiDue; 7/1/05)

ddv5108511 – Il deludente Giornata nera per l’ariete di Luigi Bazzoni, Italia 1972 e altre cose, tra cui: sono immortale!
Tanto, son vivo per miracolo: venerdì scorso, andando a Genova al matrimonio di Ferro, ho fatto un testacoda sulla Serravalle, dove cominciano le curve dopo Ronco Scrivia. Andavo neanche forte, ma si stava alzando una nebbia insidiosa e l’asfalto era umido. Barbara mi dice: cautela. Io rispondo da maschio cretino e poi, in curva, vedo davanti a me un banco di nebbia. Do una toccatina allo sterzo e la Ka diventa un toboga. Per fortuna non stacco il piede dalla frizione, perché facciamo qualche decina di metri all’indietro e una macchina ci supera mentre noi siamo contromano (ma marciando per inerzia nella direzione giusta). In quei pochi secondi non ho rivisto il film della mia vita ma ho pensato ai due nazisti dell’Illinois in volo nei Blues Brothers. Poi la macchina – senza mia volontà alcuna – ha attraversato le due corsie e s’è lentamente appoggiata alla massicciata sulla minima corsia di soccorso, graffiando giusto il paraurti. Potevamo schiantarci, essere investiti o semplicemente fermarci in mezzo alla strada e venire travolti, ammazzando qualcuno. Niente di tutto ciò: statisticamente siamo nell’altamente improbabile e ci sarebbero tutti gli estremi per un clamoroso ritorno alla fede cattolica. Dopo due minuti di mutismo agghiacciante, ci raggiunge un carro attrezzi. “Ma chi l’ha avvertita?”, chiedo. E il soccorritore: “Crede di essere il primo, stasera?”. Ci ha fatto fare inversione, il sant’uomo, e siamo ripartiti, in silenzio. Arrivati a Genova, abbiamo tremato tutta la notte. Poi la vita è ripresa come sempre, e così i film. Istigato da una golosa recensione di FilmTv mi son procurato Giornata nera per l’ariete, un giallo argentiano che risulta sconclusionato, lungo, impreziosito solo dalla notevole fotografia di Storaro. Franco Nero, come in fondo il resto del cast, presenta una pettinatura risibile. Belle e originali le location a Roma, mentre delude la partitura di Morricone. Un pacco di film, tutto sommato. In questi giorni abbiamo visto anche altre cose, ma mai col dovuto impegno che richiede una seria trattazione come quella cui vi ho abituato, o miei cari lettori. Per esempio, c’è passato distrattamente Demolition Man, dell’italiano Marco Brambilla in trasferta hollywoodiana, curioso esempio di fantascienza retrò, molto anni Trenta nella semplicità produttiva (registica e scenografica) e nell’approccio brillante. Prodotto ideale per famiglie, con poca violenza esplicita. Stallone e la Bullock sono espressivi come dei comò e Wesley Snipes è inaspettatamente azzeccato e meno litico del solito. La vera trovata è nel rappresentare una società del 2036 assolutamente addormentata, coi sensi uccisi dai divieti: sono vietati fumo, sale e alimentazione grassa e il contatto fisico è fuggito con orrore: ci si dà il cinque senza toccarsi e si fa l’amore solo virtualmente. Verrebbe naturale bestemmiare tutto il tempo, ma il turpiloquio è punito da onnipresenti rivelatori sonori e se si finisce nei criopenitenziari, durante il congelamento t’insegnano a fare la calzetta: Stallone che si lamenta perché sente la prepotente spinta a far la sartina rimane la cosa migliore di un film poverello e moscetto. Troppo raffinato per il grande pubblico, ma anche troppo sfigato per il pubblico colto. Non so che cos’abbia fatto dopo, il Brambilla, ma questo suo Demolition Man m’è simpatico come tutti i brutti anatroccoli. Decisamente odioso, invece, Qualcosa è cambiato con Jack Nicholson gigione nella parte del misantropo monomaniaco, omofobico e razzista. Ovviamente portato sulla retta via da un artista gay sensibilissimo e una cameriera umanissima col figlio malatissimo, Helen Hunt. La pappa intossicante si trascina per due ore e venti minuti in cui non riusciamo a schiacciare Off sul telecomando, totalmente irretiti dal crescendo di minchiate. Resistiamo nella speranza di un colpo di coda, e invece, Qualcosa è cambiato non cambia proprio un cazzo e la storia va a finire nel più prevedibile dei modi. Lacrimevole, falso, edificante e ipocrita – caratteristiche intuibili fin dai primi 5 minuti di visione -, questa stronzata ha fatto vincere due Oscar a Nicholson e alla Hunt ed è pure tenuto in gran conto da diversi critici. Anche se sono immortale, non valeva proprio la pena vederlo. (Vhs registrata da RaiUno; 19/1/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 51)

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