Todd Phillips – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’alieno, il pipistrello e il clown tragico. Transiti identitari e impotenze visive https://www.carmillaonline.com/2022/08/28/lalieno-il-pipistrello-e-il-clown-tragico-transiti-identitari-e-impotenze-visive/ Sun, 28 Aug 2022 20:52:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73308 di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano (e che in essi si esprimono): la minaccia e la rassicurazione, l’alterità e l’identità» (p. 123).

In queste righe che aprono il capitolo dedicato alle due serie di film che Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022) [su Carmilla], sceglie come terreno privilegiato di analisi di quei processi di crisi che investono e di cui danno consapevolmente conto i film negli ultimi decenni del vecchio millennio, ponendosi al contempo come avvisaglie della contemporaneità più recente, esplicita la centralità che ha assunto il rapporto alterità/identità in un periodo storico segnato da grandi trasformazioni sia a livello materiale che di immaginario.

Alien e Batman anziché collocarsi nettamente all’interno delle polarizzazioni minaccia/rassicurazione ed alterità/identità, transitano tra di esse trovando nell’ibridazione la loro specifica connotazione costitutiva, inoltre, continua Canova, l’alieno e il pipistrello sembrano aver bisogno l’uno dell’altro:

Alien trova cioè in Batman la figura mitopoietica necessaria a bilanciare la sua ambigua minacciosità con un’altrettanto ambigua rassicurativà, mentre per Batman vale esattamente l’opposto. Nel rapporto chiasmico che le lega, le due figure danno vita dunque a un sistema di compromesso, o a una coincidentia oppositorum: per certi versi, sostituiscono a loro volta l’aut aut del moderno con l’et et del postmoderno. E perimetrano un territorio immaginario in cui fra minaccia e rassicurazione (ma anche fra identità e alterità, fra visibilità e invisibilità, fra riproposta delle forme classiche e crisi dei processi di significazione) non c’è più contrapposizione esclusiva, ma solo e sempre coabitazione inclusiva (p. 124).

Si tratta di serialità tipicamente postmoderne, costruite sulla mescolanza e sulla contaminazione di codici e linguaggi, che, rifuggendo la logica fordista della catena, optano per la reticolarità, costruite come sono attorno a “un mostro senza volto” (Alien) o a un “eroe mascherato” interpretato di volta in volta da attori differenti (Batman). Sono serie fondate su criteri di

flessibilità, multidimensionalità e pluricorporeità (sia attoriale sia testuale) […] in cui tra un episodio e l’altro non c’è più, necessariamente, né ripetizione né sviluppo diegetico […] in cui “la differenza eclissa la norma” in un processo di ottimizzazione del “marchio di fabbrica” che ha bisogno di espandersi in ogni direzione, di dilatarsi al massimo. E di autoriprodursi incessantemente, in ogni modo e in qualsiasi direzione. (pp. 126-127).

La questione della riproducibilità, del resto, è ricorrente in entrambi casi; nel caso del mostro alieno questa si palesa con la sua ossessione riproduttiva che lo pone alla costante ricerca di corpi entro cui poter generare la propria discendenza, nel caso dell’eroe oscuro di Gotham City si insite invece sul suo stato di orfano che si trova ad agire da “macchina celibe” improduttiva.

Canova ricorda come, negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico» (p. 128). Evidentemente, continua Canova, si è trattato di processo di rimozione di comodo destinato a durare poco, visto che già sul finire degli anni Settanta l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e ciò, soprattutto nella cultura statunitense, si colloca all’interno di quel progressivo eclissarsi della figura del nemico esterno. Per certi versi è proprio nel venir meno «di un oggetto esterno su cui scaricare e a cui attribuire la responsabilità delle proprie paure persecutorie [che] la società occidentale le proietta in un mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien» (p. 129).

Di fatto, nell’immaginario degli ultimi due decenni Alien “eccita” le fantasie di alterità e negozia la loro controllabilità sociale. Dà una forma all’Altro e lo rende visibile, ma segnala anche il pericolo che si annida nel nostro ostinarci a volerlo vedere. Di fronte a un pantheon cinematografico sempre più sguarnito di eroi, Alien offre al contempo un appagamento al bisogno inconscio di minacciosità e una garanzia che quella minaccia non diverrà mai reale (pp. 130-131).

La serie Alien, esplicitando sin dalle modalità con cui si compone il titolo del primo film (da una serie di brevi linee bianche) il suo rifarsi a un meccanismo generativo che prevede l’identico produrre il diverso e il differente generarsi a partire dall’uguale, si inserisce all’interno dell’archetipo del mostro proteiforme. La serie Batman deriva invece dall’archetipo dell’ibrido (uomo/pipistrello, roditore/volante ma è tale anche per la sua transcodificabilità e flessibilità multimediale).

Non è difficile vedere come entrambe le serie palesino un «legame metaforico (e metalinguistico) con la dimensione della filmicità» (p. 132): Batman diviene tale dopo essere restato orfano di ritorno dal cinema, pertanto la sua scelta può essere vista come «risposta nemesiaca a un dolore immeritato che ha interrotto il piacere conseguente a un consumo scopico» (p. 132), Alien, invece, «emerge dalle tenebre in cui è sepolto quando un raggio di luce fende la caverna in cui giace […] e si proietta direttamente sul suo organismo» (p. 132).

Seppure in maniera diversa, Alien e Batman sono due figure di transito identitario: il primo «cerca di sfuggire alla sua alterità fecondando il corpo di una donna che renda la sua progenie simile a lei, ma si vede continuamente respinto nella sua corsa verso l’identico dai rifiuti che riceve e dall’orrore che provoca, tanto da essere ogni volta rigettato all’indietro, verso le regioni buie e oscure dell’informe» (p. 133), il secondo, invece, controlla i suoi spostamenti tra i suoi due estremi identitari potendo contare sulla reversibilità.

Un’ulteriore metamorfosi di Batman deriva dalla sua rilettura gotica e spettrale dell’archetipo che lo conduce nel «buio di una città che sembra essere immersa nella stessa luce sporca e malata del pianeta di Alien, che comincia a proiettare nel cielo il suo marchio luminoso» (p. 134), quasi a rimandare a quella proiezione archetipa che, da bambino, di ritorno dal cinema, ha indirizzato il suo destino al desiderio di vendetta.

Se in Alien tutti sono in qualche modo stranieri che abitano i diversi luoghi in una situazione di transito, gli abitanti di Gotham City, città priva di estranietà rispetto a cui costituirsi identitariamente come differenza, intrattengono con il luogo relazioni di appartenenza e di identificazione, facendo tutti parte della medesima razza-cultura. In tale realizzazione del sogno occidentale autocentrico e solipsistico, la

figura minacciosa dell’Altro inteso come barbaro, diverso o straniero che preme ai confini e minaccia di entrare, secondo quella sindrome invasiva che costituisce la vera fobia epocale della società occidentale di fine millennio, nel mondo finzionale di Batman è esclusa a priori. L’Altro, a Gotham City, non viene da fuori, nasce da dentro. Emerge all’improvviso dalle viscere della città, appare nel buio livido delle sue notti. E la sua alterità è tanto più traumatica quanto più è avvertita, appunto, come endogena: quanto più marca ed evidenzia cioè una frattura che spacca in due un corpo etnico-sociale apparentemente coeso, rivelando il ritorno della differenza laddove sembrava non dovesse esserci che identità (p. 142).

Analogamente Alien e Gotham City si mostrano entità informi e mutevoli che adottano rapporti mimetici nei dei confronti dei corpi con entrano in contatto: «Alien assume la forma dei corpi in cui penetra, Gotham City si fa imprimere una forma da coloro che lottano per il suo dominio» (p. 144). Mentre «Gotham City è il luogo dell’Identico che genera al proprio interno l’Altro (architettonico, antropologico, etico, segnico), il cosmo di Alien è il luogo dell’Altro che si riplasma perennemente all’insegna dell’Uguale» (p. 146).

Entrambe le serie, sottolinea Canova, operano un indebolimento delle forme codificate e consolidate della della figura del viaggio. In Batman, pur trovandosi sempre nello stesso luogo, si ha l’impressione dell’altrove, di essere di volta in volta in luoghi diversi, in Alien, pur non essendo mai nello stesso posto, è come se lo si fosse in quanto i luoghi si presentano uguali. «L’estetica postmoderna della rovina (architettonica in Batman, meccanico-metallica in Alien) serve dunque ai creatori di Batman per produrre una spazialità differenziata ed eterogenea nei territori dell’Identico, mentre viene usata dai creatori di Alien per omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici» (p. 148).

L’uomo-pipistrello e l’alieno tentano di sottrarsi allo sguardo altrui, di essere ridotti ad oggetto scopico. Il primo lo fa sia sul piano iconico (mascherandosi) che su quello diegetico (intervenendo nel racconto per impedire agli altri di fotografarlo o di filmarlo), il secondo agisce sul piano scopico (occultandosi).

L’inafferrabilità visiva dell’alieno, sottolinea Canova, non è però dovuta alla sua particolare conformazione fisica e iconica, che si scoprirà mutevole pur conservando sempre una componente animalesca sessualmente marcata irriducibile alla razionalità tecnica con cui si trova a fare i conti. La sua inafferrabilità è sopratutto cinematografica:

Alien è un mostro instabile o indecidibile non per le sue intrinseche caratteristiche teratologiche […] quanto per le modalità con cui viene messo in scena. Risulta instabile nella misura in cui diventa oggetto scopico. Allora si sottrae alla vista, sfugge e si nasconde, elude le trappole della tassonomia percettiva. E porta sullo schermo il trauma della inidentificabilità del visibile. Non basta vederlo per conoscerlo, per capirlo, per dargli una forma. La sua apparizione segna lo scacco della vista, è un evidente sintomo della sua crisi (p. 156).

Alien palesa come il limite dello sguardo non risieda soltanto nel fuoricampo; anche ciò che si fa intercettare dallo sguardo può non lasciarsi comprendere. «Alien è il sintomo esplicito di una frattura fra il vedere e il conoscere: la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certifica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità» (p. 156).

Alien sfugge al dominio dello sguardo sia per le modalità con cui è messo in scena visivamente che perché ogni sua apparizione diegetica manda in tilt i dispositivi tecnologici della visione. Nel suo continuo e simultaneo apparire-sparire è possibile scorgere «uno dei segni più radicali del disagio attraverso cui lo sguardo filmico svela a se stesso il proprio collasso epocale, e ne prende atto (o lo esorcizza) cercando – ancora una volta – di metterlo in scena » (p. 159)

Alien è anche un soggetto scopico inquietante, oltre che sfuggente: oltre a sottrarsi allo sguardo umano ne mette in campo uno proprio, “altro”, disorientante. L’intera serie è disseminata di sguardi senza padrone non attribuibili a qualche personaggio e nemmeno interpretabili come visioni diegetiche di un narratore esterno. Ad inquietare nella serie «non è tanto un differente modo di vedere, quanto il fatto che non è mai del tutto chiaro chi sta vedendo o guardando per noi. È la scoperta che la radicale alterità di cui Alien è portatore si esprime in uno sguardo del tutto simile al nostro (o a quello che i modi di rappresentazione e la retorica del cinema ci hanno abituato a percepire come “nostro”)» (p. 161).

I meccanismi di negoziazione fra Altro e Identico, attorno a cui ruota la problematica della definizione identitaria, sono riconducibili ai nemici di Batman ed a quelli di Alien, in particolare Ripley, che viene presentata come una novella Artemide, divinità della guerra e del parto allo stesso tempo, icona combattiva e chiamata a svolgere funzioni di maternità surrogatoria in difficile equilibrio tra l’umano e il bestiale. Come Artemide, Ripley vive ai margini, abita spazi liminali sulle frontiere dell’Altro, proprio come Batman che mascherandosi si fa altro da sé per rapportarsi con un’Alterità caratterizzata da una sorta di aspirazione frustrata al godimento. I suoi antagonisti, infatti, si presentano come creature infelici che esorcizzano il godimento negato simulandolo in maniera teatrale e narcisista smisurata:

diventano “altri”, insomma, nel momento in cui ambiscono a uscire dall’ordine quotidiano del dovere e della responsabilità per entrare anche solo virtualmente nel regime del godimento. È questo che Batman trova intollerabile in loro: il fatto che vivano come occasione gaudiosa quella stessa maschera che egli sente come scissione sofferta e dolorosa. In loro, insomma, Batman punisce tutto ciò egli non sa, non può e forse non vuole essere (p. 167).

Le due serie non presentano alcuna evoluzione del racconto, non presentano alcuno sviluppo:

“mettono in forma” una sofisticata dialettica fra l’Altro e l’Identico, poi (meglio: nello stesso tempo) attuano anche su di sé – sul proprio organismo seriale – quel farsi altro da sé che hanno tematizzato sul piano funzionale. Il che significa rappresentare un equilibrio e nello stesso tempo renderlo precario. Eccitare una pulsione e contemporaneamente inibirla. Evocare una forma e simultaneamente visualizzare un sintomo di crisi nei suoi processi di significazione (p. 174).

Ed è proprio «in questo equilibrio tensivo tra messa in forma e deformazione, tra iconofilia e iconoclastia, tra sfiguramento ed epifania della figura, che Alien e Batman acquistano un rilievo strategico nello scenario del cinema contemporaneo e danno voce a un conflitto e a un destino davvero – a modo loro – epocali» (p. 176).

Se c’è un «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7), scrive Canova nel capitolo aggiunto alla nuova edizione de L’alieno e il pipistrello, questi è Joker. Ed è proprio lui a togliere la scena a Batman nel Joker (2019) di Todd Phillips, eroe mancato che per un momento si trova a dare il volto-maschera alle frustrazioni e alla rabbia di una società alla deriva ma che non saprà/vorrà sfruttare l’occasione per farsi eroe di una rivolta collettiva nel momento in cui si viene a trovare tra una folla in tumulto che potenzialmente potrebbe trasformare il disagio individuale in desiderio collettivo di rivolta.

Quello messo in scena da Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix, è soltanto l’ultimo di una serie di Joker che hanno tentato di scalzare la figura di Batman da Gotham City. Ne Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan, ad esempio, Joker (Heath Ledger) è presentato come un personaggio interessato al collasso della ragione, all’implosione di ogni forma di convivenza civile e, soprattutto, scrive Canova, mira

a dimostrare che in ogni essere umano, compresi gli eroi che lo combattono, alligna una cattiveria immotivata e radicale come quella di cui lui stesso è espressione: di fronte alla paura, ogni essere umano può diventare un mostro, ogni individuo che si ritiene “offeso” può mostrare il lato più oscuro di sé e rivelarsi peggiore di chi è responsabile dell’offesa […] Joker produce l’orrore come forma precipua di disgregazione sociale, come sfida all’idea stessa di giustizia (p. 211).

Nel fare della giustizia una questione centrale del film, Nolan «produce volutamente nello spettatore una sensazione vorticosa di caos e di vertigine, in cui a volte sfuggono i nessi causali fra azione e reazione, ma in cui quel che risulta chiaro – dall’inizio alla fine – è proprio la confusione in cui precipita l’idea stessa di legge e di legalità. Nessuno è del tutto “giusto”, nel Cavaliere oscuro. Neppure Batman» (pp. 211-212)

Ne Il cavaliere oscuro, costruito com’è sulla dualità, se tutte le individualità che si ergono a protagonisti escono sostanzialmente sconfitte, i cittadini asserragliati sui battelli minati tentano invece di affrontare l’emergenza e la paura attraverso una convivenza civile, lasciando intendere, scrive Canova, di poter fare a meno di supereroi.

Il decennio che separa il film di Nolan da quello di Phillips conduce «in un mondo completamente cambiato e in cui la convivenza civile sembra minata alla radice dal serpeggiare del rancore, del risentimento e dell’indignazione per l’ingiustizia dilagante» (p. 213).

Nel suo film Phillips mette in scena l’ultima di una lunga serie cinematografica di incarnazioni dell’archetipo del “clown tragico” che pur vedendosi respinto nella sua professione è al contempo condannato a una risata priva di una corrispondenza emotiva che non gli permette la rimozione del comico. Il Joker che ride suo malgrado è un eroe mancato che si accontenta di combattere la sua battaglia individuale «per l’eliminazione del sorriso e della risata dal mondo» (p. 215). Già, perché nel soffocante spazio concentrazionario quale è diventata, o è sempre stata, la città in cui vive (viviamo), ridotta a una successione di scale, corridoi, cunicoli, tunnel e anfratti vari, c’è davvero poco da ridere.

 

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Nemico (e) immaginario. Anestesia di solitudini nella gamification contemporanea https://www.carmillaonline.com/2020/01/27/nemico-e-immaginario-anestesia-di-solitudini-nella-gamification-contemporanea/ Mon, 27 Jan 2020 22:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57622 di Gioacchino Toni

«la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. […] È nostro dovere badare prima a noi stessi» Margaret Thatcher

A proposito del film Joker (2019) di Todd Phillips, Jack Orlando [su Carmilla] descrive il personaggio come «l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità. […]  Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in [...]]]> di Gioacchino Toni

«la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. […] È nostro dovere badare prima a noi stessi» Margaret Thatcher

A proposito del film Joker (2019) di Todd Phillips, Jack Orlando [su Carmilla] descrive il personaggio come «l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità. […]  Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in quanto individuo psicopatologico, ma in quanto soggetto alienato, straccio da piedi della società, produttore/consumatore deumanizzato». Si tratta pertanto di un prodotto della contemporaneità: un essere alienato del tutto disumanizzato cresciuto in balia di «una violenza strutturale e sistemica, subita sulla pelle giorno dopo giorno» insieme ad altri milioni di individui.

Sulla deriva a cui il sistema vigente ha condotto gli esseri umani si è soffermato anche il cinema di Yorgos Lanthimos, seppur lontanissimo da Todd Phillips per stile e storie narrate. Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino hanno recentemente dedicato il libro Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos (Mimesis, 2019) al cineasta greco che, con alle spalle sei lungometraggi – Kinetta (2005), Kynodontas (2009), Alps (2011), The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017), La favorita (2018) –, prodotti nel giro di poco più di un decennio, ha dato prova di autorialità realizzando opere che palesano uno stile originale – contraddistinto da «limpide geometrie, sguardo cinico, realismo paradossale, a un passo dal surreale» (p. 8) – del tutto riconoscibile e che non ha mancato di ispirare diverse produzioni nazionali. Secondo gli autori del volume, l’autorialità di Lanthimos si è mostrata capace di raccontare la deriva di un presente piegato al cinismo ed alla follia neoliberista in diverse sue sfaccettature, con un occhio di riguardo allo statuto ed al ruolo dell’immagine nella contemporaneità:

cosa mette in forma, Kinetta, se non la distorsione di una realtà indifferente che, per essere sentita, deve essere messa in scena, passare per il re-enactment, per la posa? Non è forse un testo critico sul nostro rapporto con le immagini di oggi, tra selfie su Instagram e ossessione per il cinema (e la tv) del reale? Di cosa racconta Kynodontas, aggiornamento di El Castillo De La Pureza di Arturo Ripstein (1973), se non di un potere che riduce il sapere, limita il lessico, agisce sul linguaggio per governare e farsi amare? Ricorda qualcosa o qualcuno? E Alps? Non è forse una radiografia di un mondo che evacua il concetto di morte in nome di un eterno presente, e di un regime di simulazione costante? Non è forse questa una delle malattie ideologiche del neoliberismo, del suo qui e ora continuo, della sua mancata responsabilità sul dato reale? E The Lobster o La favorita non raccontano forse la competitività estrema tra pari che ha sostituito, nelle narrazioni al tempo del precariato, la lotta di classe con l’homo homini lupus tra pari, il conflitto verticale contro il padrone con la guerra tra servi? Non è forse quello di Lanthimos un cinema perfetto per la gamification contemporanea, un cinema adatto a tempi in cui gli individui sono prima di tutto concorrenti, vuoi nel gioco ai mi piace, vuoi nella challenge infinita delle partite IVA? E Il sacrificio del cervo sacro, a modo suo, non certifica in fondo l’insinuarsi di un sapere antiscientifico in un mondo in cui un élite non è stata in grado di rispettare il dolore degli ultimi? E questi sono solo una piccola parte degli spunti, profondamente legati al presente e probabilmente al futuro, proposti dal cinema di questo autore: un autore capace di mettere in crisi e fare luce (in modo grottesco, feroce, parodico) sugli assurdi sistemi di regole e sugli sguardi ideologici che muovono l’oggi (pp. 8-9).

Il cinema di Lanthimos si configura come un personale grido di allarme nei confronti di una realtà caratterizzata da livelli di solitudine e di “anestesia del sentire” sconcertanti. Nelle opere del regista greco i protagonisti sono posti drammaticamente di fronte al controllo delle proprie e delle altrui azioni; sono individui tesi verso spirali autodistruttive «che chiamano in causa la contemporaneità e i miti tragici, la crisi della ratio occidentale e il dominio di un inconscio mai domato né compreso, nel segno della dissoluzione sconcertante delle relazioni tra individui» (p. 11)

Nel film The Lobster, attraverso la descrizione della vita di un individuo, Lanthimos propone una rappresentazione distopica della società, raccontando un futuro in cui la famiglia è un obbligo sociale che costringe i single ad individuare, una volta condotti in un hotel in cui vengono raccolti altri single, un partner credibile in termini di affinità al cospetto delle autorità, pena la trasformazione in un animale scelto dal malcapitato. A tale tipo di regolamentazione sociale, fondata su relazioni false e calcolate, tentano di sottrarsi i ribelli che hanno scelto di vivere in solitudine nei boschi a cui però non è consentito di costruire rapporti amorosi. Paradossalmente, a chi si è sottratto dall’obbligatorietà di una relazione artificiosa, viene ora impedito di vivere un sentimento amoroso autentico. La situazione messa in scena nella seconda parte dell’opera – dopo l’abbandono dell’hotel dell’accoppiamento forzato – si rivela pertanto speculare alla prima, sollecitando così il pubblico ad una riflessione sulla violenza imposta dalle consuetudini mostrate in tutta la loro follia.

«Lanthimos, pur in una prospettiva estraniante, riesce a non essere mai troppo distaccato, a rintracciare moti dell’animo in uno scenario degradato, per sondare le regole borghesi del sesso e comporre un’analisi millimetrica dei rapporti sentimentali e sociali nella civiltà contemporanea, portando in scena l’irrompere del sentimento amoroso che era rimasto finora il grande assente del suo cinema. L’emergere di qualcosa di unico e autentico è propriamente quanto la società, raffigurata nel doppio e allegorico contesto dell’hotel e del bosco, non contempla» (p. 66). L’unica via di fuga parrebbe essere da ricercarsi in una “terza via”, ove l’amore si mostra in tutta la sua irrazionalità, capace di sfuggire alle classificazioni e alle regole delle modalità disumane che impongono o vietano l’accoppiamento.

«L’amore autentico come gesto proibito, non previsto nei contesti distopici, trova il suo spazio irrompendo fisicamente nella rappresentazione. Il lavaggio del cervello camuffato dall’inserimento nell’hotel – con i cerimoniali che evocano, in una ribalta teatrale stilizzata, i banali e ordinari vantaggi della vita di coppia (parodia delle consuetudini borghesi e sottofondi maschilisti nel disegno di semplificazione evocante il sorriso sardonico) – rivela la sua vocazione autoritaria e la sua aura dissonante rispetto ai  baci, irresistibili, che David e la ribelle si scambiano sul sofà davanti a un’altra platea di osservatori irreggimentati, i cittadini della società dei consumi che, pur non vivendo in cattività come gli ex-partecipanti all’hotel poi riparati nel bosco, sono i perfetti integrati, esasperatamente posseduti dalla finzione. Una finzione non più cosciente o deliberata, ma vissuta nell’obbligo, nella non consapevolezza» (p. 72) È una società poliziesca quella che viene messa in scena, una società che non contempla alcuna cultura della differenza. Se in Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut, tratto dall’omonimo romanzo (1953) di Ray Bradbury, le guardie davano la caccia ai libri per bruciarli, in The Lobster controllano il possesso dei certificati di matrimonio nei centri commerciali.

Secondo Lasagna e Pallavidino, Lanthimos, padroneggiando perfettamente l’andamento allegorico del film e ponendo grande attenzione all’inquadratura, alla cromia, all’ambientazione ed alla scelta musicale, riesce mirabilmente a delineare i personaggi con tutte le loro bizzarrie. «Una complessità che attraverso una struttura da film di fantascienza illustra le perversioni di un sistema di regole disposto a concedere, in cambio del controllo sociale, una logica arbitraria e inoppugnabile, dove le persone sono costrette a non vedersi mai per quello che sono dietro la facciata della classificazione» (pp. 72-73)

Quella restituita dal cinema di Lanthimos è una realtà straniante che, scoraggiando qualsiasi presa di consapevolezza, relega gli individui in una dimensione asettica, semplificata ed immatura, contraddistinta da relazioni interpersonali fredde e banali. «Negli scarti tra quanto rappresentato e quanto accade realmente, tra quanto esibito dal comportamento e i dettagli che non corrispondono a pieno alla logica che sarebbe legittimo attendersi dallo sviluppo dei fatti […], nella densità di una musica che ammalia e ferisce, negli scatti di violenza che ottengono le lacrime, Lanthimos porta nella sua rappresentazione come dei lapsus, delle sfasature. L’assurdo come regola sociale si trova allora ad essere minacciato da quanto emerge inaspettatamente da ciò che pare meno controllabile: il desiderio, una ferita, l’impossibilità di contenere le lacrime davanti all’agonia del fratello o i baci alla sola persona che (forse) ci conosce realmente» (p. 75)

Ad inquietare lo spettatore sono soprattutto la naturalezza con cui i protagonisti dei film sembrano accettare l’assurdità della realtà in cui sono immersi e, ancor di più, il distacco emotivo, l’apatia, la desensibilizzazione, la mancanza di empatia e di umanità con cui si confrontano e agiscono (o non agiscono). «La rassegnazione sembra dominare questa umanità, che si presenta al cospetto della SPA accettando umiliazioni e vessazioni, assoggettamento e costrizioni tra cui l’ammanettamento a determinate ore del giorno per evitare la masturbazione – vista come deleteria per la ricerca di un partner. Domina una calma solo apparente, perché gli ospiti dell’hotel sono sottoposti con regolarità a stimoli eccitatori frustranti da parte del personale, che non portano mai al soddisfacimento completo […] L’hotel dal sapore buñueliano-pasoliniano è luogo di accentramento (o spazio di “concentramento”) di tutti gli elementi che enfatizzano la sessualità ed esprime quella mercificazione del sesso che insieme al condizionamento offerto dal sistema mediatico crea frustrazione e ansia da prestazione amorosa.» (pp. 75-76)

Il film Il sacrificio del cervo sacro ruota invece attorno ad una famiglia modello della buona borghesia americana e prende il via dall’ambiguo rapporto tra uno stimato chirurgo ed il figlio di un un paziente che, secondo il giovane, non è stato salvato dal medico a causa del suo passato di alcolismo. Presto ci si rende conte della spietata decisione del ragazzo: punire il chirurgo mettendolo nella condizione di dover scegliere quale dei famigliari debba essere sacrificato al fine di interrompere la condanna a morte emessa dal giovane nei confronti dell’intera famiglia.

Parzialmente ispirato alla tragedia Ifigenia in Aulide (448 a.C.) di Euripide, il film scardina un poco alla volta, attraverso un progressivo processo di spaesamento, la calma di superficie di una banale vita borghese che però palesa di contenere in sé la dimensione della follia, come si evince dalla convivenza tra razionalità ed irrazionalità che la contraddistingue. Il gruppo famigliare attorno a cui ruota il film finisce con l’ammalarsi poco a poco, anche se la malattia pare già evidente nella distaccata ritualità del rito sessuale che i coniugi chiamano “anestesia generale”, con cui la moglie, simulando il tramortimento, eccita il marito. Ed è proprio l’anestesia del sentire ad evidenziarsi nei comportamenti dell’uomo nei confronti delle persone con cui si trova costretto a relazionarsi. Ne Il sacrificio del cervo sacro, l’ombra dell’irresponsabilità del chirurgo sembra proiettarsi sull’intera classe sociale a cui appartiene, segnata com’è da una cultura totalmente priva del senso di responsabilità.

Un senso di incombente minaccia che scalfisce le maschere dei protagonisti, sempre più segnati dall’inquietudine e la cui abitudine all’anestesia allude, fuor di metafora, all’insensibilità al dolore altrui che, nel grigiore di questa famiglia marcia, diventa addirittura fonte di desiderio. Il pensiero corre, inevitabilmente, al personaggio della “donna senza cuore” di The Lobster, ma anche all’anestesia del sentire così sconcertante in Kinetta; l’horror, lontano da etichette di genere, si manifesta ne Il sacrificio del cervo sacro come dimensione ontologica ma anche movente di una rappresentazione antropologica, sviluppata attraverso le modalità e la materia del racconto: linee di ripresa secondo una sceneggiatura precisa, carrellate in avanti e indietro punteggiate da un montaggio che scandisce la ritmica di un paesaggio come dentro un labirinto di scenari asettici e freddi, abitato da personaggi anaffettivi. Al posto dell’atto sessuale, culmine del piacere e della rappresentazione che ne può conseguire, un rituale necrofilo, e in questa incorporeità allarmante si affaccia in maniera trasparente una condizione post-umana, sottolineata a pieno regime tragico dall’operazione a cuore aperto con cui si apre il film, le cui riprese sono effettuate dal regista in prima persona, pronto a ribadire tutta l’intenzionalità di una vivisezione della cellula umana fondamentale: la famiglia già messa sotto osservazione in Kynodontas. (pp. 82-83)

Il tentativo di ristabilire un ordine venuto meno è tra le tematiche ricorrenti delle opere di Lanthimos ed anche quando, alla fine dei film, un equilibrio sembra essere ripristinato, questo non manca di mostrarsi in tutta la sua assurdità. Visto che è di noi e del nostro mondo che, in fin dei conti, ci parlano le opere del regista greco, così come Joker di Todd Phillips, una volta calati i titoli di coda, tocca nuovamente fare i conti con la violenza della gamification contemporanea a cui siamo sottoposti.

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Joker di Todd Phillips https://www.carmillaonline.com/2019/10/21/joker-di-todd-phillips/ Mon, 21 Oct 2019 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55487 di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara [...]]]> di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara però). Qualche volta ci siamo chiesti: ma perché ci piace tanto la violenza? La mia risposta, che lui mi pare condivida, è che richiama la violenza che abbiamo dentro. E in questo va spazzata via l’obiezione che i film violenti ne favorirebbero l’emulazione. E’ esattamente il contrario: la rappresentazione della violenza in forma artistica serve per scaricarla su obiettivi innocui, e quindi esorcizzarla. La rappresentazione della violenza è una pratica di antiviolenza.

Così, anche ora che abbiamo superato gli anni ruggenti, la postadolescenza e le avventure pericolose, continuiamo a vederci, con appuntamenti più o meno settimanali, per una pizza seguita da un film.

L’ultimo che abbiamo visto insieme è stato Joker, l’evento dell’anno, si potrebbe dire. Qui a Bologna imperversa. Al Lumiere, dove proiettano in lingua originale coi sottotitoli, sabato non siamo riusciti a entrare. E Martedì, ci è stato detto, idem. Così abbiamo riprovato giovedì, trovando una fila chilometrica al Medica Palace, che per fortuna è la sala più grande della città. Il 90% era costituito da under 30, cosa che immediatamente mi ha mandato in crisi. I giovani sono esuberanti, parlano, mangiano, accendono i cellulari per controllare la pagina FB. Io il film voglio guardarlo in religioso silenzio. Però questi ragazzi, studenti fuorisede, sono diversi. L’abbiamo sperimentato con l’ultimo Tarantino, altrettanto gremito di giovani e addirittura giovanissimi. Stanno zitti, guardano e ascoltano e neanche mangiano. Bellissimi.

Per cui ci siamo fatti forza, abbiamo sopportato il trauma della fila e siamo entrati. Abbiamo trovato due posti senza comitive alle spalle, laterali (perché io riesco a sedermi solo nell’ultimo posto laterale), e ci siamo preparati mentalmente.

Joker. Ero prevenuto, come spesso mi accade. Odio le omologazioni, le mode che dominano, per cui tutti corrono a vedere i film che impazzano, mentre altre opere meno cool ma bellissime vanno semideserte. Inoltre avevo letto una messe di stroncature: gli americani, il Washington Post, il New York Times, anche Marie Claire, e naturalmente sul web, dove le stroncature, in stile trollesco, sono praticamente un must. L’accusa più ricorrente è che sia un film studiato a tavolino per essere grande, col risultato di essere invece piccolo, e scontato. Insomma, un film falso, forzatamente didascalico.

Perdio, mica una robetta da poco. Macigni. Film fasullo, artificioso. Film fallito.

Al diavolo, non abbiamo rilevato nulla di tutto questo. Non intendo sprecare il mio e il vostro tempo per riassumere la trama, ultraraccontata sui media mainstream e sul web. Vorrei invece sottolineare che se c’è un aspetto dell’opera che ci ha colpiti è la sincerità. E’ un film tutt’altro che falso. E’ sincera l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che è praticamente sempre in scena, magro, ossuto, mobile, che fa di se stesso un’opera di body art. E’ sincera la sua difficoltà di adeguarsi al mondo, che lo schiaccia col disprezzo e l’indifferenza (comportamenti che in un certo senso lui attira, coi suoi atteggiamenti strambi, con la risata compulsiva, sintomo della sua sofferenza psichiatrica). Qualcuno ha scritto che evoca Taxi Driver, a me ha evocato Baudelaire. Era altrettanto emarginato, contraddittorio, rancoroso. Come il futuro Joker si sente fallito e ingiustamente ignorato, e i suoi spettacoli sono sempre di serie B, così Baudelaire falliva tutte le conferenze. Ma il fatto è che era un pessimo conferenziere: si impappinava, gesticolava, pronunciava battute sciocche che poi se le rideva da solo, mettendo in imbarazzo il pubblico. Dopo il disastro di Bruxelles fece la sua performance alla Joker scrivendo uno dei libri più violenti, razzisti e vendicativi della storia della letteratura: La capitale delle scimmie. Invece Arthur Fleck, che come il piccolo Baudelaire ha avuto un’infanzia segnata da una tragica infelicità, e dalla violenza, fa una scelta più pratica: diventa un genio del male, il nemico giurato di Batman. Il demone che ride.

Arthur muta in un essere autenticamente cattivo, perché esprime una carica eversiva senza sconti, una furia distruttiva che sgorga dalle cavità nere della società, dalla tragedia sociale che distrugge l’individuo anche come creatura collettiva (“E adesso con chi parlo?” chiede Arthur alla psicologa, mentre gli comunica che hanno appena tagliato i fondi dell’assistenza e quindi non potrà più riceverlo). Un essere che scardina ogni ordine, ogni morale, ogni ipocrisia (“Tu mi hai invitato qui, nel tuo programma, solo per prenderti gioco di me” dice a un cialtronesco Robert De Niro, prima di sparargli in faccia in diretta TV).

E proprio come Baudelaire, che nella sua meschinità di uomo vile, contraddittorio e perdente diventa un poeta inimitabile, così Arthur, frustrato, pazzoide e patetico, sale i gradini di una poesia nera, mostruosa e apocalittica.

Ma attenzione: Joker è un demone. Anche Hitler lo è. Ma non ha nulla di eversivo. Anzi, il contrario. Il demone nazista è l’estremizzazione terminale del Potere, dell’imperialismo capitalista che massacra i popoli per rubare le risorse e renderli schiavi (decine di migliaia di deportati che lavorano e muoiono in schiavitù nelle imprese tedesche).

Poi, soprattutto come ex lettore accanito di fumetti, non posso esimermi da alcune critiche: il suo diventare un eroe pop è rappresentato in maniera un po’ troppo sbrigativa e semplicistica; vanno bene i riferimenti, le incursioni nei vari generi, ma non lo scadimento nel “fumettismo”. Inoltre il finale è a mio avviso volutamente simbolico, mentre andava arricchito con alcuni cenni sulla definitiva mutazione in Joker, con l’evasione dal manicomio, la clandestinità e il crimine puro.

Però non sono mancate alcune scene che all’appassionato strappano un brivido: la comparsa di Bruce Wayne bambino (cioè il futuro Batman), quando Arthur si reca alla villa del ricco padre di Bruce, che lui considera anche suo padre, per un delirio narcisistico della madre, che lavorava come inserviente nella villa Wayne. E poco dopo la metà del film quando si alza, potente, seduttiva, la “voce della brughiera” di Jack Bruce, il cantante-bassista di una delle più strepitose band di rock-blues anni ’60, i Cream, per i quali io ho avuto una sorta di vera e propria infatuazione.

E basterebbe questo, solo questo, per fare di Joker un film indimenticabile.

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