Tim Buckley – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Buy or Die! Il rock’n’roll non disponibile dei Residents https://www.carmillaonline.com/2017/11/22/buy-or-die-rocknroll-non-disponibile-dei-residents/ Wed, 22 Nov 2017 22:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41570 di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale. Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale.
Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il ripudio, che hanno caratterizzato il perbenismo borghese e “democratico” fin dai suoi primi vagiti. Mentre la seconda può essere ridotta, soprattutto da chi si vanta inopinatamente di averla frequentata, a una sorta di giovanilistica nostalgia della cannabis, oppure di qualche altra più perniciosa sostanza, consumata indossando pantaloni a zampa d’elefante in qualche piazzetta dei centri storici del Midwest italiano. Indicativamente tra i navigli e la via Emilia, .

Qualche responsabilità, nei confronti di questa provinciale e riduttiva lettura di un fenomeno culturale complesso, certamente l’ha avuta fin dagli inizi la propaganda fatta nei confronti dell’Underground, da un punto di vista puramente consumistico e commerciale, l’industria culturale o, meglio ancora, l’industria discografica.
Come non ricordare, infatti, il lancio in gran spolvero che la CBS italiana fece, proprio nel 1970 della musica classificata come “underground”. Appiccicando tale etichetta a una serie di dischi che, pur rivestendo una certa importanza nello sviluppo della musica rock successiva e del suo pubblico, di “sotterraneo” avevano ben poco: “Cheap Thrills” dei Big Brother and the Holding Company (alias Janis Joplin con il suo primo gruppo), il primo lp dei Santana (non ancora solo Carlos Santana), “The Family That Plays Together” dei californiani Spirit oppure la clamorosa bufala dei Masked Marauders (gruppuscolo secondario di cui si favoleggiava però, tra i componenti, di una non dichiarata presenza del menestrello di Duluth) e, forse, l’unico disco apertamente underground del gruppo: “The Belle of Avenue A”, quarto long playing dei Fugs. E questo solo per citare alcuni della dozzina di dischi pubblicati tutti insieme all’epoca (anche se appartenenti ad annate diverse e precedenti quella della pubblicazione italiana). Grazie a un concorso collegato a tale iniziativa riuscii nello stesso anno a pubblicare la mia prima recensione discografica su una rivista, tutt’altro che underground, come Ciao 2001 (riguardava proprio gli Spirit mentre io avevo all’epoca 17 anni), ma questa è un’altra e ancora men che secondaria storia.

A proiettare i musicofili e aspiranti poeti armati della mia generazione nell’Underground musicale ci pensò in realtà un libro di un autore tedesco, Rolf-Ulrich Kaiser. Il titolo italiano era banalissimo, come sempre nell’italietta di ieri, di oggi e dell’altro ieri: Guida alla musica Pop. In tedesco il titolo non era molto diverso, Das Buch der neuen Pop-Musik, ma introduceva significativamente, era il 1971, un elemento di significativa differenza: non il libro della musica pop, ma della “nuova” musica pop.

Dopo aver tratteggiato una sintetica storia della rock music dai primi vagiti negli anni ’50 ai Beach Boys passando per i Beatles, il testo di Kaiser scoperchiava realmente il vaso di Pandora di tutti quei gruppi e musicisti che, di qua e di là dell’Atlantico, stavano sotterraneamente minando l’establishment culturale e musicale, ma anche politico dell’epoca. Frank Zappa e le sue benemerite Mothers of Invention, i Fugs con la loro capacità di unire l’esperienza musicale alla poesia dei Beat e alla lotta politica radicale,1 la voce straziata e straziante di Tim Buckley negli album Lorca e Starsailor oppure, ancora i tedeschi e devastanti Floho de Cologne, l’anarchico e spensierato (ma solo apparentemente) David Peel del Lower East Side newyorkese (la sua Have A Marjuana? non fu comunque mai trasmessa da nessuna radio italiana e, tanto meno, The Pope Smokes Dope) e i sognanti e mentalmente dispersi Incredible String Band. Solo per citarne alcuni.

Di quelle autentiche giovani talpe già si favoleggiava precedentemente in Italia, grazie anche ai pochi “eroici” negozianti che avevano iniziato ad importarne i dischi direttamente dall’America o dal resto del mondo, ma Kaiser inquadrava il fenomeno in un contesto di radicalità in cui lotta politica (non obbligatoriamente dichiarata e ossequiata) e cambiamento culturale andavano a braccetto.
Era ancora di là da venire la canzone degli Hawkwind dedicata alla Baader Meinhof e alcuni musicisti dell’Underground giapponesi dovevano ancora o stavano per fare il salto nella lotta armata internazionale aderendo all’Armata Rossa Giapponese che avrebbe agito a fianco dei Palestinesi in alcune occasioni,2 ma finalmente si infrangeva la vulgata commerciale della musica giovanile e contemporaneamente di destrutturava l’immagine di un movimento hippy esclusivamente pacifista e dedito al flower power. 3 Portavoce di tale opposizione culturale e politica si sarebbe poi fatta in Italia, e non senza contraddizioni interne, la rivista Re Nudo, soprattutto a partire dal 1972, poiché l’ancora recente ’68 non aveva contribuito, almeno qui in Italia, a sdoganare del tutto tale inevitabile incontro tra lotta politica e nuova proposta musicale.

Ma non occorre qui dilungarsi in un discorso ancora più ampio e complesso, basti piuttosto qui segnalare che la sempre meritoria Goodfellas ha pubblicato, nel corso degli ultimi mesi, un autentico capolavoro dedicato ai veri principi dell’anonimato e dell’Underground culturale e musicale americano: i Residents.
Perché attribuire ai Residents un tale titolo? Perché sono stati gli unici musicisti a conservare nel corso degli oltre quarantacinque anni di attività un anonimato totale, rifiutando di rivelare i loro nomi, di farsi fotografare o vedere senza le maschere monoculari spesso indossate durante i concerti e senza mai concedere interviste; se non attraverso le dichiarazioni di un loro portavoce, Hardy Fox, che stava al gruppo, visto che ha recentemente lasciato la Cryptic Corporation, come i vari portavoce del Mullah Omar stavano ai Talebani.

D’altra parte il collettivo musicale, non mi sentirei di definirlo diversamente visto che di solito suonano in quattro ma spesso sono aumentati da altri musicisti, cantanti e ballerini (soprattutto durante le esibizioni dal vivo), si è sempre e soltanto espresso attraverso i suoni e le proprie canzoni oppure attraverso i testi pubblicati sulle o all’interno delle copertine e, soprattutto, la grafica, meravigliosamente provocatoria ed inquietante, delle stesse.

Proprio per questo la scelta operata dall’autore di presentare la raccolta integrale, o quasi, delle opere grafiche realizzate tra il 1972 e il 2015 per la Ralph Records, la casa discografica che da sempre distribuisce e produce le opere dei Residents e di alcuni altri convitti del loro apparente manicomio sonoro, finisce col costituire anche il modo migliore per narrare la storia e le vicende di un gruppo disperso che storia non ha. Intendendo quest’ultima come storia ufficiale, quella che piace tanto ai cultori del rock e ai giornalisti delle riviste e dei siti musicali specializzati.

Assenza che se da un lato costringe i maniaci dell’ingegneria della ricostruzione biografica ad affidarsi a fonti che affidabili non sono, dall’altra ha preservato il gruppo dal diventare un mero prodotto di consumo. Destino che nel tempo ha accomunato tutti gli altri, ancor da vivi oppure da morti, eroi dell’Underground di cui prima si parlava.

In realtà negli ultimi anni è comparsa un’antologia, dal titolo Before They Were The Residents, They were the Delta nudes, che in maniera molto ambigua, è curata dal misterioso N.Senada, oscuro compositore bavarese autore di “Theory of Obscurity” e “Theory of Phonetic Organization”, il cui nome potrebbe significare “in sè nulla” (en se nada), scomparso nel 1986 e molto probabilmente frutto di un’invenzione degli stessi Residents, traccia un fittizio collegamento tra disordinati suoni registrati alla fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta dal suddetto complesso, Delta Nudes (i cui membri in copertina fanno generosa esposizione dei propri genitali), e i successivi Residents. Quel Delta sta forse a indicare che alcuni membri del gruppo sono, probabilmente, originari della Louisiana, ma ogni altra informazione sembra perdersi in un labirinto simile a quello dei canali del delta del Mississippi.

D’altra parte quel Buy or Die! Che compare nell’immagine di copertina riassume il principio ispiratore dell’aggressione dei Residents alla cultura e alla morale degli ultimi cinquant’anni: una critica spietata e feroce dell’assunto principe della società dei consumi.
Vivi per consumare oppure muori, anche solo socialmente, se non sei in grado di acquistare ogni nuovo prodotto, sia esso materiale o immateriale.

Le vite si consumano infatti, sembrano suggerire i Residents, attraverso il desiderio di sussumere in se stesse le merci siano esse auto, telefonini, sesso a buon mercato praticato da altri sugli schermi, “nuove idee” politiche nate morte e ammuffite già al loro primo apparire, etiche buoniste che nascondono i baratri della miseria reale e delle contraddizioni che si muovono nel sottobosco delle lotte di classe mai apertamente dichiarate. Idee falsamente laiche che si ispirano alla peggiore carità cristiana, un’etica immorale che si traveste di moralismo, una riscoperta delle società altre in chiave new age e perbenistica e idoli ristilizzati che salgono sui palchi già vecchi e consunti e che nascondono il ghigno del loro teschio consumato sotto uno strato di cerone, gossip e sex appeal degno di uno zombie.

Tutto questo i Residents non ce lo trasmettono soltanto attraverso i suoni ma anche, e forse soprattutto, attraverso le immagini delle loro copertine: inquietanti, spesso sgradevoli, oscene e provocatorie. Cover che risultano esse spesso armi più pericolose di quelle vere che talvolta possono essere impugnate da mani incerte e tremanti. La mano dei grafici che hanno costruito nel tempo l’unica immagina reale dei Residents sembra invece non tremare mai. Il colpo, che sia sparato da voci distorte, chitarre elettriche o tastiere elettroniche, arriva sempre a segno.

Sia che si tratti di dare a Hitler il volto di un noto presentatore televisivo americano e di trasformare il vero Hitler in una figurina degna di un fumetto casalingo sullo stile di Blondie e Dagoberto o litigioso come Andy Capp o di sottolineare il folle sogghigno di chi si accinge ad accoltellare una indifesa papera di gomma oppure, ancora, di mettere in bella vista corpi nudi e deformi, le copertine prodotte dal collettivo di grafici che di volta in volta si è definito come Porno/graphics, Pore No Graphics, Poor Know Graphix, Poor No Graphics e con infinite altre declinazioni del tema ha sempre mantenuto alto, oppure se si vuole molo basso nel senso della morale perbenista, lo spirito iconoclasta che lo ha animato.

Tutto ha inizio a San Francisco, in un edificio in Sycamore Street dove agli inizi degli anni settanta avrà sede la Ralph Records e, a partire dal 1976, anche la Cryptic Corporation porrà la propria sede.
Come afferma l’autore:

Il laboratori Ralph va ben oltre la mera e semplice pubblicazione di vinili. Infatti, pubblicare un disco, è un espediente pe poter creare azioni mediatiche, teatrali artistiche, legate e ispirate ad un prodotto discografico. Nei primi dieci anni di vita l’etichetta oltre i dischi dei Residents pubblica anche vari musicisti americani e inglesi (Snakefinger, Art Bears, Yello, Tuxedomoon, MX-80 Sound, Chrome, Renaldo and The Loaf), ma solo con The Residents la Ralph Records sfrutterà al meglio tutte le risorse e le idee creative di Sycamore Street.4

L’edificio comprendeva infatti, oltre agli uffici dell’etichetta e uno studio di registrazione, un’enorme sala insonorizzata per realizzare film e video, una camera oscura e lo studio grafico in cui verranno prodotti molti dei lavori grafici di cui si è già parlato. Oltre ai video e, in anni più recenti, alla grafica digitalizzata che sempre più spesso accompagna la musica degli invisibili avanguardisti della provocazione.

Ispirati dalle avanguardie novecentesche, dal Dadaismo al Situazionismo, i nostri eroi sotterranei produrranno dischi dai titoli espliciti e allo stesso tempo detournanti: Commercial Album (40 brani in 40 minuti), Not Available, Third Reich Rock’n’Roll, Eskimo (con una fasulla e allo stesso tempo apparentemente veritiera descrizione di strumenti, tradizioni e proverbi eschimesi) e molti altri ancora che il lettore, nello sfogliare le 400 pagine del libro, avrà modo di scoprire, se non conosce, oppure di riscoprire.

Il primo disco nel 1974, Meet The Residents, rivelava, fin dalla copertina l’intento terroristico del quartetto con un devastante e infantile sfregio alla copertina del primo album dei Beatles pubblicato negli Stati Uniti dalla Capitol Records: Meet The Beatles. Motivo per cui la potente major americana fece causa ai Residents e alla Ralph Records, costringendoli a modificare la copertina (altrettanto irriverente con i quattro di Liverpool trasformati in scampi e “stelle” marine). Lo stesso sarebbe accaduto qualche anno più tardi in Germania, dove il solito bigottismo tedesco, che già tanto aveva fatto infuriare il Moro di Treviri, condannò la copertina di Third Reich Rock’n’Roll, facendolo ritirare dal pur ristretto mercato. La risposta dei porno/grafici? La stessa copertina con i volti di Hitler e le svastiche coperte dalla scritta censored.

Copertine e dischi, grafica e suoni ci chiariscono comunque subito lo spirito autentico e le caratteristiche irrinunciabili dell’Underground inteso come arma di distruzione della cultura e delle coscienze massificate: l’invisibilità di chi opera, il perturbante del contenuto, il terrorismo nei confronti di ciò che è dato per scontato e del famigerato comune buon senso .
Per riassumere in breve: Signori, ecco a voi The Residents!

Il primo quarantacinque giri a nome loro fu pubblicato dalla Ralph nel 1972 e si intitolava Santa Dog. Proseguirono poi straziando Satisfaction e saccheggiando in nome del caos e del detournement l’American Songbook di Elvis, James Brown, Hank Williams e Duke Ellimgton. Si arresero soltanto davanti a Sun Ra che si era già straziato da solo, insieme al jazz di quegli anni.
Hanno sempre colpito al cuore, non si sono mai pentiti, non hanno mai deposto le armi, non si sono mai scissi sulla linea di condotta, non hanno mai litigato sulla proprietà del logo e non hanno mai rivelato l’identità di alcun complice. Scusate se è poco.


  1. Per averne un assaggio si legga il testo scritto da uno dei fondatori del collettivo: Ed Sanders, Racconti di gloria beatnick, Shake 2013  

  2. Per la prima si tratta di Urban Guerilla del 1972, seguita nel 1976 da Hassan I Sahba scritta, sempre da Robert Calvert, nel 1976 e dedicata al terrorismo mediorientale, mentre per i secondi si consulti Julian Cope, Japrocksampler. Come i giapponesi del dopoguerra uscirono di testa per il rock’n’roll, Arcana 2008  

  3. Così, tanto per schiarire le idee ai nostri moderati nostalgici, va ricordato che numerosi gruppi americani radicali (MC5, Up e altri) non mancarono in quegli anni di comparire sulle copertine dei loro dischi armati di tutto punto e di rivendicare il loro impegno rivoluzionario mentre il mitico Ron “Pigpen” McKernan, voce e tastierista dei primi Grateful Dead, si faceva spesso fotografare con la sua fedele Colt al fianco.  

  4. pp.10-11  

]]>
Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 51 https://www.carmillaonline.com/2013/07/16/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-51/ Mon, 15 Jul 2013 22:01:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7240 di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000 Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a [...]]]> di Dziga Cacace

Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)

ddv5101504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000
Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a rampognare, anche perché lo spunto è astuto. Io me la vedo così: un gruppo di executive in riunione al piano più alto di un grattacielo di L.A. Il più intelligentone fa sfoggio di cultura e annuncia che ha visto il film di un nebuloso regista tedesco, un film dove gli angeli possono sentire i pensieri della gente. “E vabbeh, ne faremo un remake”, dice il praticone della compagnia. Poi interviene il creativo (cioè il ladro della congrega): “E se usassimo l’idea del sentire i pensieri attribuendola a un uomo che può ascoltare cosa pensano le donne?”. Mmh, brusio in sala, rotelle che girano. Poi si fa avanti con prepotenza il maschilista della riunione, con voce gutturale e mano a sprimacciare il pisello: “Non dimentichiamo che capire cosa cacchio pensi il gentil sesso – se e quando pensa, ah ah – è da millenni la preoccupazione principale dell’uomo maschio di genere maschile, eh!”. Allora interviene il ragioniere: “Cioè di colui che tiene il borsellino e decide cosa si va a vedere al cine”. “Ma non rischiamo di farla sporca?”, chiede il timoroso. “No”, conclude l’ipocrita: “Diamo la regia a una donna!”. “Venduto!”, decide il capo. Taglio di montaggio ed ecco What Women Want nei cinema. La commedia parte un po’ lentamente, ma poi ha una mezz’ora centrale ruffiana quanto si vuole ma decisamente riuscita, col macho Mel Gibson che finalmente capisce cosa vogliono le donne e sfrutta l’indescrivibile vantaggio in affari (anche sentimentali/sessuali). Ovviamente siamo dalle parti di quel maschilismo paternalistico per cui le donne sono magnifiche creature inutilmente complicate, che dicono bianco per intendere nero etc. etc., ma la porcata ricattatoria è organizzata con sapienza criminale, lo ammetto. Però poi si getta la maschera e tutta la parte finale scade in un perbenismo moralista da far accapponare ulteriormente la pelle. Quell’antisemita sanguinario neocoglione di Gibson ha capito la lezione ed è diventato buonissimo, intuitivo, sensibile e rispettoso delle legittime richieste femminili. Trova l’amore di una collega (Helen Hunt) e l’affetto di una figlia che ancora quindici minuti prima voleva darla via con la fionda e adesso diventerà presumibilmente una vergine di ferro, comprensiva anche lei delle ansie paterne. E cosa potevo aspettarmi di meglio? Vabbeh, mi sta bene. (Diretta su Canale5; 19/12/04)

ddv5102505 – The Making Of Grace dell’amico Fritz, USA 2004
Me lo sono regalato a Natale, pur avendone già una copia (ma vuoi mettere? Questo ha le bonus tracks!) (L’industria discografica prospera sulla stupidità di gente come me, lo so): si tratta di Grace, l’unico clamoroso album di Jeff Buckley, pubblicato finché era vivo. E negli extra di questa Legacy Edition (termini che il marketing deve avere verificato misurando la salivazione di fessi come chi scrive) c’è anche un professionale documentario, firmato da Ernie Fritz che racconta la nascita di un capolavoro, probabilmente uno degli ultimi dischi “importanti” del rock. E il regista, già autore di altri documentari musicali e di videoclip, asseconda il fantastico materiale visivo e sonoro fornitogli dall’angelico Jeff e assembla diligentemente. Non c’è spazio per grandi invenzioni: la musica dice già tutto. Rimane solo il rimpianto per la perdita di un talento cristallino e una voce e una scrittura commoventi. Buckley era un genio multiforme, affamato di scoperte e invenzioni e riusciva a racchiudere in se stesso Dylan, Van Morrison, Edith Piaf, il padre Tim Buckley e Leonard Cohen, mediandoli con una sensibilità, che – a differenza del suo Pantheon di riferimento – capiva la potenza di un accordo amplificato. E dalla sintesi era nata una musica pulsante come il rock dei Pearl Jam, ma sorretta da un’immaginazione, una potenza e un lirismo originali e ineguagliabili. Nella sua semplicità, il documentario fa piangere di rabbia. Il santino è dietro l’angolo e il prodotto discografico non potrebbe certo ragionare in termini critici, ma quel 29 maggio 1997 in cui Jeff Buckley è affogato (mica droghe o altro: un banale e idiota bagno in un affluente del Mississippi) abbiamo veramente perso qualcosa. Rimane solo la musica. Splendida. (Dvd; 29/12/04)

ddv5103506 – L’imperfetto e necessario Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, USA 2004
Un presidente eletto con una frode palese. Menzogne e inadempienze del suo governo inetto che portano a due guerre sanguinose, pagate in contanti da chi consuma la benzina in Occidente e con la vita da chi sta in Medio Oriente. Gli investimenti che ripartono, la rielezione assicurata e guadagni stratosferici per chi commercia in armamenti e petrolio, casualmente in affari con chi risiede alla Casa Bianca. Michael Moore ci racconta con le armi del documentario l’intreccio vertiginoso di affari e politica che parte da Washington e arriva in quel posto a noi e ne viene fuori un film discreto se lo guardiamo da un punto di vista tecnico-narrativo (ha pause, divagazioni, banalità, contorcimenti, compiacimenti e scorciatoie), importantissimo però per il messaggio che porta al pubblico: ci stanno pigliando per il culo in maniera mortale. Non ci sono grandi novità né rivelazioni sconvolgenti, eppure s’è parlato di cinema di propaganda e di faziosità diffuse. Ammesso che sia fazioso far vedere lo sguardo ottuso di Bush (non ha altre espressioni, cosa si può fare?), ciò che viene raccontato è inoppugnabile nella sua basica linearità. Semmai è sconvolgente la palese partigianeria – questa sì – di chi rifiuta di confrontarsi con la materia proposta dal film. In questi giorni tutto il mondo assiste alla catastrofe del sud-est asiatico, sconvolto da uno tsunami che ha provocato (in previsione) oltre duecentomila morti. Pensose riflessioni sulla matrigna Anima Mundi, complessi di colpa, aiuti umanitari per le economie in ginocchio. Tanto bla bla e nessuno che faccia due conti e si renda conto che, dati alla mano, George W. Bush è già responsabile di mezzo tsunami, in Iraq. Le feste di Natale, gli auguri di Capodanno e – qui ci starebbe anche una colorita bestemmia – nessuno che si ricordi che anche noi siamo una nazione in guerra, con un corpo militare in azione in un paese occupato, senza sovranità reale. In Fahrenheit 9/11 Moore rinuncia ad essere in scena dall’inizio alla fine, limita il suo acre umorismo a poche battute e all’uso intelligente del montaggio e prova a realizzare qualcosa che faccia pensare. Che il film sia frutto di un work in progress è evidente dalla disarmonia delle parti, con l’urgenza dell’attualità che inseguiva lo script e non viceversa, ma il risultato – anche se puntualmente discutibile – è potente. Efficace, non so: nonostante gli incassi clamorosi, non è riuscito nel suo intento primario, impedire la rielezione del figlio di puttana. Ma Moore ha fatto quello che un artista dovrebbe fare, mettere la sua competenza al servizio di un’idea, cosa che in Italia sembra non sfiorare minimamente alcun supposto intellettuale. A proposito: lo tsunami ha risparmiato Emilio Fede e Max Ferrari (il gioviale direttore di Telepadania). Non è l’amore a essere cieco. È la Natura, cazzo. (Dvd; 29/12/04)

ddv5104507 – Emerson Lake & Palmer Master From the Vaults di Valente Cineasta Ignoto, Belgio 1970
Spettacolare esibizione degli ELP, subito dopo la pubblicazione del loro primo disco, registrata per la tivù. Mancando il repertorio, ogni brano è infarcito di improvvisazioni parossistiche e citazioni diffuse: una goduria per chi ama la musica avventurosa e tollera la disposizione circense del supergruppo. Sorretti dall’adrenalina e dall’esuberanza giovanile (e forse qualche stimolante più o meno naturale) i tre si producono in performance agonistiche, divertendosi un mondo. Su tutti spicca lo spaccone Keith Emerson (ma ve lo ricordate nella sigla di Odeon?) che qui trova il modo di montare il suo organo, di accoltellarlo, cavalcarlo, suonarlo al contrario, prenderlo a calci, gomitate e ceffoni, tirandone fuori suoni incredibili. La regia è buona, il montaggio figlio dell’epoca, la fotografia alla carlona: ma che importa? È la musica che conta, ed è eccezionale. Responsabile di cotanta meraviglia la tivù belga: per essere uno dei popoli più noiosi al mondo, c’è da dire che avevano gusti televisivi singolari e apprezzabili. Quest’edizione è abbastanza scrausa (pellicola rigata, scaletta rimontata in maniera opinabile) ma sembra che presto ne uscirà una versione filologica (che non mancherò di procurarmi, figuratevi). Tornando sulla terra: oggi, tale Roberto Dal Bosco, muratore mantovano ventottenne (“un timido”, secondo suo nonno), ha tirato sul collo del premier un treppiede fotografico. Per buona educazione, nessuno a sinistra di Eichman può dire ciò che pensa. Buon anno. (Dvd; 31/12/04)

ddv5105b508 – Il capolavoro The Fog of War di Ellis Morris, USA 2003, e poi Destra di governo e Sinistra televisiva
Premio Oscar 2004, il lacerante ritratto dell’ottantacinquenne Robert McNamara. Segretario della Difesa con Kennedy e Johnson, già presidente della Ford e poi della Banca Mondiale, McNamara è stato anche il cervello dietro i bombardamenti sul Giappone nel 1944 (che, quanto a vittime, altro che Nagasaki e Hiroshima…), era nella stanza dei bottoni durante la crisi dei missili a Cuba e ha avuto un ruolo controverso nell’escalation della guerra in Vietnam. Il vecchiaccio ha carattere da vendere: è lucido, cinico, intelligente e para ogni colpo predisposto dalla regia, umanamente comprensiva ma storicamente e politicamente per nulla accomodante. L’intervista diventa una seduta psicanalitica e si scava nella rimozione interiore, negli alibi, nel senso di colpa e anche nel desiderio di perdono e redenzione. The Fog of War riesce a farci commuovere di fronte a un uomo che ha deciso la vita (e la morte) di molti e ne è consapevole: Morris è bravissimo nell’organizzare il materiale, nell’incalzare il politico, nel sottolineare con immagini perfette ciò che ci viene detto. Un documentario coi controcazzi che parte da un uomo e diventa un trattato sulla natura umana, musicato con classe da Philip Glass. Intanto, qui da noi: La Russa e Gasparri fan cagnara parlamentare per la faccenda del treppiede. È gente che andava all’università con le spranghe, per dire. Calderoli invece teme un colpo di stato (ma l’avete già fatto voi, sveglione!) e – forse dimenticando quella cosina là… credo si chiami separazione dei poteri – ha chiesto al degno compare Castelli di disporre un’inchiesta sul magistrato che ha lasciato libero il blando attentatore. Calderoli ringrazi l’imponderabile Caso che l’ha portato ad essere ministro della Repubblica (!), perché in una società giusta sarebbe in coda ad aspettare un immeritato sussidio di disoccupazione. Dietro a Castelli, Gasparri e La Russa, ovviamente. E per questa bella Destra di governo, c’è sempre anche la Sinistra televisiva a ricordarci che non ne usciremo mai: il primo gennaio RaiTre ha trasmesso il Concerto di Capodanno della Banda Osiris, un programma divertente come un rastrello nelle gengive. Abilità strumentale indiscutibile e qualche invenzione orchestrale al servizio di un umorismo agghiacciante. La regia pare improvvisata ed è spesso fuori tempo e inquadra con allarmante frequenza la platea (semivuota) dove a 78 denti ride come una matta solo Serena Dandini, sponsor di un’operazione che dà la sensazione (sicuramente ingenerosa, ci mancherebbe) che a RaiTre, se fai parte della banda, hai svoltato, perlomeno per un po’. Qualche tempo fa, a Parla con me (egoriferito a partire dal titolo) Michele Santoro, sostenendo che la Sinistra non avesse ancora imparato a fare televisione, ha chiesto provocatoriamente alla Dandini: “Ma quando la Sinistra tornerà al governo, chi la farà la tivù? Tu?!”. E la dentona ha riso, senza comprendere la domanda. E intanto si ramazzano ascolti infinitesimali (in ragione di programmi fatti presuntuosamente male e brutti, non di chissà quali complotti berlusconiani o dell’Auditel), dimenticando che il destinatario finale dei programmi dovrebbe essere il pubblico, cioè la gente. Che in fondo in fondo gli fa schifo, comincio a credere, alla Dandini come ai DS. (Dvd; 2/1/05)

ddv5106509 – Kitsch e potenza sonora in The Song Remains the Same di Peter Clifton e Joe Massot, USA 1976, e il futuro di Israele e Palestina
Il Dirigibile di Piombo, nonostante abbia fregato i piani di volo ad alcuni musicisti meno fortunati (Willie Dixon, Small Faces, Jeff Beck, Spirit, bluesmen assortiti etc.), è stato innegabilmente il gruppo hard rock più fantasioso, potente ed evocativo che la storia ricordi, mantenendo con augusta spocchia il primato e senza cadere nelle trappole delle reunion celebrative e dei dischi inutili. Adesso, dopo anni di ricerche, masterizzazioni e ritocchi, è uscito un clamoroso doppio supporto chiamato immodestamente Dvd, ma se volete vedervi la sublime e abietta zozzura di questa band titanica durante gli anni d’oro, dovete procurarvi l’inadulterato The Song Remains the Same, controverso rock flick che li riprende in concerto al Madison Square Garden del ’73, lardellando il tutto con immagini di finzione girate in Inghilterra, Scozia e Galles. Queste sublimi vaccate raccontano in maniera obliqua l’estetica del gruppo: Tolkien, la mistica dei fuorilegge, gli ideali hippie, il ritorno alla natura, l’esoterismo… Prima di sentire gli Zepp in concerto passano 12 interminabili minuti in cui subiamo, nell’ordine: il manager Peter Grant che entra in scena sterminando una gang rivale di cui fan parte l’Uomo senza volto e l’Uomo Lupo, giuro; il boccoluto Robert Plant in location rurale con famiglia; John Paul Jones con grottesca acconciatura che racconta fiabe ai figli (spaventandoli a morte, direi); John Bonham che coltiva la terra; il luciferino Jimmy Page che suona la ghironda in un bosco incantato. Poi la musica parte ed è decisamente goduriosa. Ma per coprire i lunghi assoli la regia ci regala ulteriori genialate. In No Quarter c’è una confusa storia con un gruppo di cavalieri mascherati guidati da Jones che, poco prima, suonava un immenso organo da chiesa sembrando Herbert Lom in La Pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau. In The Rain Song tocca a Plant, cavaliere pellegrino per lande desolate fino all’assalto di un maniero da cui trae in salvo una vacua biondina. In Dazed and Confused Page scala una montagna per incontrare un vecchio se stesso, con tanto di lanterna come nella busta interna dell’album IV. Infine, durante il monumentale assolo di Moby Dick, vediamo Bonzo dilettarsi con un dragster e addestrare il piccolo Jason. Le riprese live, su un palco minuscolo e spoglio, non sono clamorose, la musica sí: Plant urlacchia, Page incanta con l’archetto, Bonzo squassa la batteria, Jones tiene le fila. Questi hanno scorticato il blues, con incursioni vichinghe in Kashmir, Giamaica, Marocco e Louisiana, e gli si perdona tutto, anche un prodotto cafone come questo film. In serata ho anche visto, su RaiTre, il documentario Promesse di Justine Shapiro e B.Z. Goldberg, ritratto a più voci di bambini israeliani e palestinesi, sovrastati da una realtà di guerra, paura e frustrazione. Tolta qualche ingenuità, si evitano il consolatorio e il piagnisteo e ne risulta un buon lavoro, non clamoroso, ma con momenti di tenerezza e squarci di verità. Ben scelti i protagonisti con Shlomo piccolo studioso della Torah, Moishe colono cazzoso, due gemelli laici, un corridore palestinese protagonista dell’Intifada, le figlie di un dirigente del FLP ancora in attesa di accusa formale e infine Mahmoud, il piccolo dal volto angelico che vuole diventare uno hezbollah e non crede che il regista (cui s’è affezionato, credendolo americano) sia un ebreo come gli altri e fornisce una sua teoria sugli ebrei ebrei, da combattere. Documentario non ideologico, da un lato tragico, ma anche capace di trasmettere la visione fiduciosa che può avere un bimbo. Ah: dopo che il senatore a vita Mario Luzi, ha detto cose di lancinante buon senso, Gasparri ne ha chiesto le dimissioni e Calderoli s’è così espresso: “Disconoscevo che il poeta Luzi esistesse al mondo”. Questi, il conflitto israelo-palestinese ce l’hanno in testa, altroché. (Dvd; 6/1/05)

ddv5107510 – L’incredibile Con Air, di un autentico cane, USA 1997
Questo film è uno tsunami di merda, così orrendo che, nella categoria dei film pacco, rasenta la perfezione: è tutto talmente fuori misura che diventa quasi bello. Ho detto quasi, eh? Cameron Poe (il tragico Nicholas Cage, calvo coi capelli lunghi) è finito in carcere perché ha ammazzato impulsivamente un ubriacone che importunava sua moglie incinta. Ha pagato il debito con la giustizia facendo flessioni, imparando lo spagnolo e l’arte degli origami (e fin qui siamo già a livello Top Secret). Il giorno in cui ottiene la libertà provvisoria lo imbarcano su un aereo dove c’è la peggio feccia delle carceri statunitensi, tra cui un John Malkovich psicopatico e uno Steve Buscemi maniaco pedofilo. Come è prevedibile (anche se mancano passaggi logici e abbondano voragini di sceneggiatura), l’aereo viene sequestrato e il nostro eroe deve far buon viso a cattiva sorte. Su di lui fa affidamento uno sceriffo che ha la faccia da cretino di John Cusack. Ovviamente finirà benissimo con una conclusione pirotecnica a Las Vegas. Tutto esageratissimo, battute atroci, improvvise manifestazioni di dolore o giubilo come se si recitasse in una filodrammatica del basso Piemonte, facce scolpite nel marmo e montaggio impazzito, senza senso alcuno se non dar l’impressione del movimento. Un filmaccio bestiale commesso da tale Simon West, al cui confronto una porcata immane come Armageddon fa la figura di un Bergman d’annata. Okay: e allora perché l’hai visto? Perché volevo ridere, ragazzi miei: come in tutti periodi di relativa vacanza, sono stordito dalla visione sadomasochistica dei telegiornali e le notizie più importanti di queste due settimane sono risultate: a) se i cadaveri italiani dispersi a causa dello Tsunami fossero o meno bruciati dai locali (impossibile dire se sì o no, ma tant’è ogni giorno il dubbio è stato riproposto per diversi minuti); b) se i bambini orfani ricoverati negli ospedali fossero rapiti (idem c.s.); c) il commento del Papa su qualunque argomento, dallo Tsunami all’arrivo dei saldi; d) i saldi, con inutili interviste ai passanti su cosa avessero comprato o meno e perché; e) varie ed eventuali marchette pubblicitarie. Per cui, credetemi, una schifezza come Con Air, alla fin fine, è quasi un elisir. (Diretta su RaiDue; 7/1/05)

ddv5108511 – Il deludente Giornata nera per l’ariete di Luigi Bazzoni, Italia 1972 e altre cose, tra cui: sono immortale!
Tanto, son vivo per miracolo: venerdì scorso, andando a Genova al matrimonio di Ferro, ho fatto un testacoda sulla Serravalle, dove cominciano le curve dopo Ronco Scrivia. Andavo neanche forte, ma si stava alzando una nebbia insidiosa e l’asfalto era umido. Barbara mi dice: cautela. Io rispondo da maschio cretino e poi, in curva, vedo davanti a me un banco di nebbia. Do una toccatina allo sterzo e la Ka diventa un toboga. Per fortuna non stacco il piede dalla frizione, perché facciamo qualche decina di metri all’indietro e una macchina ci supera mentre noi siamo contromano (ma marciando per inerzia nella direzione giusta). In quei pochi secondi non ho rivisto il film della mia vita ma ho pensato ai due nazisti dell’Illinois in volo nei Blues Brothers. Poi la macchina – senza mia volontà alcuna – ha attraversato le due corsie e s’è lentamente appoggiata alla massicciata sulla minima corsia di soccorso, graffiando giusto il paraurti. Potevamo schiantarci, essere investiti o semplicemente fermarci in mezzo alla strada e venire travolti, ammazzando qualcuno. Niente di tutto ciò: statisticamente siamo nell’altamente improbabile e ci sarebbero tutti gli estremi per un clamoroso ritorno alla fede cattolica. Dopo due minuti di mutismo agghiacciante, ci raggiunge un carro attrezzi. “Ma chi l’ha avvertita?”, chiedo. E il soccorritore: “Crede di essere il primo, stasera?”. Ci ha fatto fare inversione, il sant’uomo, e siamo ripartiti, in silenzio. Arrivati a Genova, abbiamo tremato tutta la notte. Poi la vita è ripresa come sempre, e così i film. Istigato da una golosa recensione di FilmTv mi son procurato Giornata nera per l’ariete, un giallo argentiano che risulta sconclusionato, lungo, impreziosito solo dalla notevole fotografia di Storaro. Franco Nero, come in fondo il resto del cast, presenta una pettinatura risibile. Belle e originali le location a Roma, mentre delude la partitura di Morricone. Un pacco di film, tutto sommato. In questi giorni abbiamo visto anche altre cose, ma mai col dovuto impegno che richiede una seria trattazione come quella cui vi ho abituato, o miei cari lettori. Per esempio, c’è passato distrattamente Demolition Man, dell’italiano Marco Brambilla in trasferta hollywoodiana, curioso esempio di fantascienza retrò, molto anni Trenta nella semplicità produttiva (registica e scenografica) e nell’approccio brillante. Prodotto ideale per famiglie, con poca violenza esplicita. Stallone e la Bullock sono espressivi come dei comò e Wesley Snipes è inaspettatamente azzeccato e meno litico del solito. La vera trovata è nel rappresentare una società del 2036 assolutamente addormentata, coi sensi uccisi dai divieti: sono vietati fumo, sale e alimentazione grassa e il contatto fisico è fuggito con orrore: ci si dà il cinque senza toccarsi e si fa l’amore solo virtualmente. Verrebbe naturale bestemmiare tutto il tempo, ma il turpiloquio è punito da onnipresenti rivelatori sonori e se si finisce nei criopenitenziari, durante il congelamento t’insegnano a fare la calzetta: Stallone che si lamenta perché sente la prepotente spinta a far la sartina rimane la cosa migliore di un film poverello e moscetto. Troppo raffinato per il grande pubblico, ma anche troppo sfigato per il pubblico colto. Non so che cos’abbia fatto dopo, il Brambilla, ma questo suo Demolition Man m’è simpatico come tutti i brutti anatroccoli. Decisamente odioso, invece, Qualcosa è cambiato con Jack Nicholson gigione nella parte del misantropo monomaniaco, omofobico e razzista. Ovviamente portato sulla retta via da un artista gay sensibilissimo e una cameriera umanissima col figlio malatissimo, Helen Hunt. La pappa intossicante si trascina per due ore e venti minuti in cui non riusciamo a schiacciare Off sul telecomando, totalmente irretiti dal crescendo di minchiate. Resistiamo nella speranza di un colpo di coda, e invece, Qualcosa è cambiato non cambia proprio un cazzo e la storia va a finire nel più prevedibile dei modi. Lacrimevole, falso, edificante e ipocrita – caratteristiche intuibili fin dai primi 5 minuti di visione -, questa stronzata ha fatto vincere due Oscar a Nicholson e alla Hunt ed è pure tenuto in gran conto da diversi critici. Anche se sono immortale, non valeva proprio la pena vederlo. (Vhs registrata da RaiUno; 19/1/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 51)

]]>