The Terminal – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 71 https://www.carmillaonline.com/2015/05/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-71/ Thu, 14 May 2015 21:00:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22211 di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976 Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con [...]]]> di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976
Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con messe a fuoco precarie e montaggio inesistente: teatro filmato, ma di quello peggiore (se mai ne esiste uno buono, eh?). E poi la Pavone – quella che ritiene di essere stata citata dai Pink Floyd – canta (continuamente) con le “O” e le “E” chiuse come se venisse dal basso Piemonte. A fine puntata ci guardiamo negli occhi, Sofia ed io, e decidiamo che no, vaffanculo, no. E allora lei mi chiede, con falsa noncuranza, com’è la storia invece di “quel Sandokan là”, se si tratta di quello famoso che “sale e scende la marea, Sandokan ha la diarrea…” e che poi “Marianna, con piacere, gli pulisce il…”. La fermo e mi chiedo come sappia già queste cose: evidentemente il mito ha travalicato le generazioni. O avrò canticchiato io l’azzeccatissima sigla dei fratelli De Angelis, cioè gli Oliver Onions (con clavinet bassissimo e sitar che sferraglia). Fatto sta che le propino il primo episodio e le piace (e non è il migliore). Siccome è figlia mia le viene subito la scimmia e puntata dopo puntata conosciamo uno dopo l’altro il cattivissimo Brooke (dalla piacevole ambiguità), l’astuto Yanez, il ciccione Sambigliong, i compari Giro Batol e Ragno di mare, la virginale e curiosa Marianna, l’elegante colonnello Fitzgerald (con pantaloni così attillati che gli si vede il pitone, manco fosse Mick Jagger) e ovviamente, lui, la Tigre, Sandokan. Che viene subito tradito da un infame e, ferito gravemente, casca in mare. Recuperato a riva ridotto come uno straccio finisce nella casa del ricco commerciante Lord Guillonk, dove passa per essere un nobile locale d’alto rango cui si devono ospitalità e cure. Se ne occupa la giovane Marianna che è turbata dal bel manzo, riconosciuto dalla servitù che non lo tradisce.
Festa dei 18 anni di Marianna e caccia alla tigre, alé. Tremal Naik ne fa secca una, ma quando ne arriva un’altra ancora si fa sotto il recuperato Sandokan. Tremal Naik ammette sportivamente: “Conosco solo due persone che affrontano una tigre corpo a corpo. Una sono io, l’altra è la Tigre della Malesia!”. Baci e abbracci e Sandokan, in volo, apre una bella cerniera addominale al felino. Ma caccia un verso che Tarzan al confronto è un principiante e Sir William Fitzgerald, non di gran cervello ma di udito fine, esclama: “Ti ho riconosciuto dall’urlo!”, manco girasse con Shazam sul cellulare. La Tigre – il magnetico Kabir Bedi – riesce a scappare, imbarcando seco Marianna e siccome i 18 anni sono giusto dell’altro ieri, le rifà la festa, ma sotto coperta. È amore grande, al punto che incappati in mare aperto in Brooke – la sfiga! – Sandokan, per salvare la sua bella, che bella in effetti è (Carole André), pronuncia la fatidica frase: “La Tigre si arrende!”.
ddv1001bPerò nell’anello ha una polverina bianca – avantissimo! – che dà la morte apparente e dopo tre ore, non un minuto prima né uno dopo, chi se l’è pippata si risveglia. Per cui la Perla pretende da Brooke (il maestoso Adolfo Celi) il funerale vichingo esattamente tre ore dopo, non un minuto prima né uno dopo, e quando il malese cala in acqua in un sudario, riesce a liberarsi e a scappare un’altra volta. Torna a Labuan, rapisce Marianna, Yanez (il beffardo Philippe Leroy) li sposa su un praho e i due vanno a vivere felici e contenti a Mompracem. Qui avviene la definitiva maturazione politica della sposa che, a fianco del suo Che (da notare come la fascia intorno ai capelli della Tigre assuma sempre le sembianze di un basco a incorniciare il capello zozzo e lo sguardo fiammeggiante), comprende e appoggia la lotta contro l’imperialismo britannico, prodigandosi a insegnare agli abitanti di Mompracem a leggere e scrivere perché l’emancipazione passa attraverso la consapevolezza, cribbio. Ma il Capitale gioca sporco e l’isolotto subisce una vigliacca epidemia di colera, l’agente arancione de noartri, e poi l’invasione a base di esercito, dayachi tagliatori di teste e navy seals – giuro – che fan gran strage di donne, vecchi e bambini. Sandokan, Yanez e fedelissimi scappano e Marianna ci rimane secca. Lacrimuccia di Sofia. Infine i superstiti prendono il mare, sconfitti e disperati. Ma il popolo ha capito e gli va incontro da tutto il Sud est asiatico sollevato. S’alza la bandiera rossa e Sandokan promette: “La Tigre è ancora viva!”. GRANDISSIMO e Sofia in estasi. Sceneggiato agile, comprensibile da tutti, con sottotesto politico puntuale ed evidente (a guerra del Vietnam appena conclusa: peccato non fosse già portavoce Capezzone, perché si sarebbe scagliato anche contro Sollima) e con buona alternanza di azione e riflessione, aiutato da efficaci ellissi narrative e sostenuto da recitazioni congrue, con un po’ di humour (Yanez) e tanta epica (Sandokan). Mettiamoci poi una musica in cui senti la vanga ma che tutto incornicia perfettamente e alla fine ottieni un capolavoro. Popolare, ma capolavoro. Giuro. (Dvd; agosto 2010)

ddv7102Rock al bacio
Siamo tutti cresciuti coi dischi dei nostri genitori e io sono stato fortunato. Pochi vinili, ma buoni, dall’aulico al burino, ma di qualità: Santana, Creedence, Deep Purple, Emerson Lake & Palmer, Grand Funk, Battisti e Beatles. La mia primogenita, Sofia, ha 5 anni e l’imbarazzo della scelta tra circa 3000 titoli in Cd. Chiaro che allora la copertina di un album diventi il primo indizio per decidere cosa assaggiare e quando ha potuto non ha mostrato dubbi: “Voglio ascoltare quello!”. Quello con le facce truccate dei Kiss, cioè. A 2 anni, del resto, chiedeva insistentemente di vedere i video dell’omo nudo, cioè dell’esibizionista Freddie Mercury. Ora, in un singolare percorso di maturazione musicale mi fa sciroppare i Dvd dei Kiss a rullo (e volete mettere rispetto alla trentesima visione de La sirenetta?). E anche in macchina, solo Kiss. Macchina galeotta dalla quale, quest’estate, ha adocchiato un cartello che annunciava le Kissexy in concerto a Lesa, sul Lago Maggiore. Per Sofia real thing o tribute band non fa differenza (anche per Gene Simmons, si direbbe) e alle 21.30, munita di tappi e previa dormita pomeridiana forzata, la porto al campo sportivo dove Barbara, Sara, Elena e Sergio (la chitarra solista rimane privilegio maschile) porgono il loro omaggio al femminile alla band di Paul Stanley e compagnia dipinta. Le Kissexy se la cavano amabilmente, con repertorio classico, make up fedele, voglia di divertirsi e una bassista linguacciuta che sputa sangue com’è d’obbligo. L’accento lombardo e la bonomia ben poco macha della bella leader danno un sapore casereccio al concerto, ma la messa in scena funziona. Sofia non è l’unica bambina, anzi: di bimbi, sul prato e sulle transenne, è pieno e alcuni hanno anche 50 anni. È chiaro perché i Kiss continueranno ad avere successo: la loro musica è un innocente e pagano ritorno alla nostra infanzia edenica. Imbattibile, specie quando si conclude un gig urlando a squarciagola I-I-I Wanna Rock’n’roll Aaall Night…And Party Every Day! Sofia è contenta e io ripenso al mio primo concerto: già dodicenne, vidi Franco Battiato bedduzzo mio, rimasto poi pietra angolare del credo musicale che informa tutti i miei scritti (e a chi storce il naso ricordo che con Franco c’era la chitarra rovente di Alberto Radius). Sofia ha esordito così, coi Kiss o il loro sembiante, e son sicuro che crescendo non si farà infinocchiare da qualche poser o da una boy band messa su dal marketing di una major. O perlomeno spero. E prego. (Agosto 2010)

ddv7103789 – Lo strepitoso Anvil! The Story of Anvil di Sacha Gervasi, USA 2008
Gli Anvil sono una band canadese di heavy metal dei primi anni Ottanta. Rock zarro, urlato e fracassone, con testi insensati, zuppo di sudore ma suonato con l’anima. Trent’anni fa hanno assaggiato il successo, finendo immediatamente in una spirale discendente che li ha portati ad affrontare tour disastrosi e umiliazioni continue. Anvil! racconta la calata agli inferi e la resurrezione, grazie all’impegno, la testardaggine e anche l’ingenuità di chi, passati i cinquant’anni, non vuole arrendersi e abdicare al suo sogno rock and roll. Il film è splendido, commovente, intenso e vive di due straordinari protagonisti: il primo è il chitarrista Lips, cocciuto cuore d’oro incapace di arrendersi e pronto a ricominciare dopo ogni clamorosa batosta (e nel film se ne vedono di tremende, come suonare davanti a cinque persone, tra l’altro disinteressate), coinvolgendo familiari e amici; e poi c’è Robbo, il batterista malinconico e cinico che fuma un joint dopo l’altro e dipinge improbabili nature morte, inseparabile da Lips. Ne viene fuori una storia che racconta la miseria del business, ma anche la grandezza del sogno e la forza della volontà a dispetto di ogni evidenza. Il documentario è costruito drammaturgicamente da dio (sospetto rifacimenti e accordi, ma chi se ne frega) e si arriva al finale col cuore in gola: ce la faranno, stavolta? L’ho visto – assente Barbara – con la cugina Alessandra, che s’è fidata di me ma che ha anche vacillato alle prime battute: rock durissimo in documenti sgranati d’epoca e testimonianze di Lemmy (Motorhead), Lars Ulrich (Metallica) e Slash (Guns n’Roses). Ma ci vuole poco a comprendere che non conta il genere musicale e che non si tratta di un documentario per appassionati metallari: questo capolavoro di Sacha Gervasi (il colpevole di The Terminal: chi l’avrebbe mai detto?) è un film per tutti perché racconta una storia universale. L’heavy metal è solo il contesto e, anzi, dà più sapore. Come l’impagabile, improvvisata e improbabile manager veneta che accompagna la band: non sa l’inglese, non saprebbe fare il suo mestiere neanche parlando italiano e bestemmia tutto il tempo come un carrettiere. E come puoi non voler bene anche a lei? (Dvd; 30/8/10)

ddv7104790 – L’abisso e l’estasi di Man on Wire di James Marsh, USA/Gran Bretagna 2008
Il sogno e la follia di camminare sospesi per aria, di volare dove nessun altro uomo è in grado di farlo. Questo l’obiettivo di Philippe Petit, il funambolo che il 7 agosto 1974 ha tirato un cavo tra le due torri gemelle di New York, non ancora inaugurate, e poi ha fatto avanti e indietro per 45 minuti, con la polizia in attesa che si stufasse per poterlo arrestare. Oggi lo seccherebbero con una fucilata dopo 5 minuti. Ma anche il fatto che “oggi” le torri non esistano più dà un sapore diverso al documentario e soprattutto una dimensione metafisica alla stravagante impresa, misto di ambizione suprema, visionarietà, egocentrismo e coraggio al limite della stupidità. Per dimostrare cosa, poi? Il film di Marsh investiga sia la psicologia del protagonista (affetto da sicuro delirio d’onnipotenza) che dei suoi compagni d’avventura, gente di cui all’epoca non si seppe più nulla e dei quali invece oggi vediamo le conseguenze a livello umano. Petit trascinò gli amici più cari (tutti disgraziati, che spariscono di fronte alla sua personalità debordante) e tutti si misero a disposizione, rischiando in proprio per lui: c’è chi andò via, chi continuò ad appoggiarlo in sfide assurde (ma mai come questa), chi ancora oggi piange a ripensarci. Per cui Man On Wire racconta anche di potere, forza di persuasione e tradimento, con Petit diventato ricco e famoso e tutti gli altri caduti nel dimenticatoio. Il racconto è teso come il filo su cui Philippe cammina, costruito in maniera intelligente, con materiali originali splendidi (e incredibili: ‘sto qua lavorava alla costruzione del mito di se stesso già prima dell’esibizione definitiva) e da ricostruzioni che non disturbano, ma legano meglio il racconto quando mancano i raccordi originali. E poi siamo sospesi nella musica di Erik Satie a 450 metri di altezza o baldanzosi nel farci 110 piani a piedi incalzati da quella di Michael Nyman. Un film bellissimo e anche se sai fin dal manifesto/spoiler del film come andrà a finire, continui a dirti: no, è impossibile, non ce la farà mai. E invece. Pazzesco. (Dvd; 31/8/10)

ddv7105792 – ‘Na pallata La storia infinita di Wolfgang Petersen, Repubblica Federale Tedesca/USA/Gran Bretagna 1984
Dunque: a 13 anni lo avevo schifato e avevo già ragione da vendere; ovviamente a Sofia è piaciuto moltissimo mentre io ho rantolato per buona parte della pellicola. Dal romanzo di Michael Ende (che non ho letto né mai lo farò) è venuto fuori un film evocativo, lento, con l’eroe – alter ego del piccolo Bastian che sta leggendo un libro magico – che affronta diverse prove non particolarmente memorabili o tese, a dir la verità, per fermare il Nulla che sta invadendo il regno di Fantàsia. Sento la consueta mano pesante tedesca e a parte il protagonista – che però non sa recitare – i bambini hanno facce orrende. I mostri da combattere, in compenso, non possiedono alcun fascino e sfiorano il ridicolo (un cane-drago che sembra un peluche, un uomo di pietra che pare uscito da una parodia, cose così). L’improbabile Limahl (dei Kajagoogoo) sottolinea il tutto con una canzonaccia che solo a nominarla poi ti rimane in testa per una settimana. Ecco, infatti. Mah. Era un film per bambini, per cui avrebbe dovuto scriverne direttamente Sofia, però ho ragione io. (Dvd; 5/9/10)

ddv7106793 – Telefonato ma perdonabile: Le concert di Radu Mihaileanu, Francia 2009
Trappolone emotivo inevitabile! Era un grande direttore d’orchestra, Andrey, ma il compagno che sbagliava Brezhnev lo ha rovinato e ancora oggi è costretto a pulire i cessi del Bolshoi per vivere. Grazie a un sotterfugio s’imbarca in un’operazione impossibile: riprendere a Parigi il concerto interrotto 30 anni prima a Mosca, con la vecchia orchestra e una giovane, nuova, violinista (Mélanie Laurent, sono ufficialmente innamorato). Si ride e ci si commuove per un finale preparato a puntino, che più ricattatorio non potrebbe essere, accompagnati da un Čajkovskij ineludibile. Il concerto un film caruccio, furbo, ma anche – nella sua svagatezza e nei suoi eccessi sparsi qui e là – ben fatto. Io l’ho visto in francese ma per curiosità ho rivisto alcune parti in italiano, con una resa linguistica che definire allucinante è un eufemismo. I russi – ma neanche tutti! – parluano cuosì, come in brutto film della guerra fredda. Senza parole, ma del resto abbiamo i migliori doppiatori del mondo. Come gli arbitri e i portieri, insomma. (Dvd; 5/9/10)

ddv7107794 – Il lacerante Videocracy di Erik Gandini, Svezia 2009
Non un documentario, un horror. E un film a tesi, ahimé, e scrivo ahimé perché a tanto siamo dovuti arrivare per raccontare la genesi e l’ascesa del regime berlusconiano, alimentato da dosi massicce di nudo femminile in tivù. Ora, chi vuol chiamarsi fuori offeso (leggi Antonio Ricci) fa le pulci a Videocracy e sottolinea i tanti errorini storici, che però non sono sostanziali. È inutile dire “non ho cominciato io”, il problema è che tu hai proseguito, caro mio, altro che satira dell’allora presente. E il problema non è soltanto la mercificazione della donna ma tutta la televisizzazione della società e pensare (perché è questo l’inganno in cui spesso si cade) che la televisione metta in scena solo la realtà, mentre purtroppo la produce e riprendendola la amplifica, in un loop mortale. Il monito o la constatazione serve e servirà, ma per fortuna non è ancora solo così (credo, spero), ma questo è quello che appare e anche Gandini sembra cascare nell’equivoco che la rappresentazione sia la realtà. Però questi son discorsi che non so affrontare, dài. Penso che una sana prospettiva storica dovrebbe ricordare come nel fermento di fine anni Settanta fosse cominciata un’esibizione del corpo femminile che per alcuni era liberazione, per altri trasgressione, per altri ancora provocazione e per i più furbi semplice sfruttamento di un’onda lunga inizialmente sincera e libertaria. Poi ha vinto la linea marpiona, ma non credo si possa leggere dietro un complotto berlusconiano preciso, mi sembra invece una naturale evoluzione capitalistica: vado dove si fa denaro. E il sesso – sinché il portafogli lo gestisce il maschio – produce denaro, molto. E consenso, ipocrita ma palpabile. Simple as that. Berlusconi non è la causa (o la sola causa), ma piuttosto lo strumento, l’espressione, l’interprete perfetto (e l’effetto) di questa Italietta che non impara mai, che perde la testa davanti a una tetta e si corrompe non appena circolano un po’ di soldi. E che preferisce apparire che essere, tanto che la messa in scena è arrivata al governo e spadroneggia da 15 anni. Ci siamo americanizzati al peggio, senza quelle due o tre regolette etico-morali fondamentali cui gli americani tengono molto, ipocritamente, ma molto. Nella carrellata di mostri, oltre al ducetto che sappiamo, anche Lele Mora (agente di spettacolo e veicolatore di monnezza) e Fabrizio Corona, paparazzo e orchestratore di gossip nonché protagonista in proprio di vita da divo gossipabile. E Corona che si sgrulla l’uccello per farlo sembrare più grosso e lungo è la sintesi perfetta dell’italiano di oggi: uno sfigato che si mena il belino per sentirsi superdotato e non ha letteralmente più un cazzo, se non l’apparenza. In questo senso è volutamente emblematica la clamorosa scena finale delle aspiranti veline che ballano indipendentemente, come se fosse la volata finale di tappa, ognuna impegnata a dare il meglio (e il peggio) di se stessa, senza neanche ascoltare la musica, una contro le altre, per l’occhio del selezionatore. Diventare visibili, prendere vita nella rappresentazione catodica. Un momento di televisione che diventa cinema altissimo. Film bello, non risolto e anche impreciso ma lacerante e che rivisto tra trent’anni ci farà chiedere quale (ulteriore) sorta di ipnosi avesse soggiogato il Belpaese. (Dvd; 8/9/10)

ddv7108795 – L’orrendissimo Sojux 111 Terrore su Venere di Kurt Maetzig, Repubblica Democratica Tedesca/Polonia, 1960
C’è l’Alessandra a cena e dopo esserci saziati con una pastasciuttina da urlo condita con un sughetto surgelato misto mare probabilmente velenoso ma efficacissimo, procedo al consueto rosario di film per la serata. Le due cugine mi schifano tutto, specialmente la mia collezione di oldies but goldies elegantemente in black and white e non avendo nulla di moderno (non contemporaneo, proprio moderno, cioè dai Settanta in poi) allora andiamo sull’originale: fantascienza della Germania Est. Alé: giubilo per l’originale trovata! Pensa domani, in ufficio: “Ieri sera ho visto un film della Repubblica Democratica Tedesca!”. E bastano pochi secondi di titoli di testa per capire che invece abbiamo fatto una vaccata siderale. La vicenda è squallidissima e scopertamente propagandistica: i paesi fratelli del Patto di Varsavia organizzano una spedizione alla volta di Venere per scoprire che l’olocausto nucleare ha annientato i venusiani, monito a tutti popoli a non rifarlo sulla Terra; ma soprattutto il concetto esplicito è: mi sto rivolgendo a te, pezzo di merda americano che sei già stato responsabile di Hiroshima (nome ripetuto nel film almeno 4 volte dalla figlia di una sopravvissuta all’atomica). L’equipaggio della missione è un misto di razze e popoli per dimostrare l’ecumenismo socialista, mica come noi capitalisti razzisti (e in effetti io un astronauta negro non l’ho visto ancora, se non in Capricorn One). L’ambientazione è nel futuro 1982 e son tutti vestiti come negli anni Cinquanta, e vestiti male, come ci si poteva conciare allora in un paese comunista (di quel comunismo lì, intendo). Le divise spaziali, in compenso, anticipano brillantemente quelle dei Teletubbies. Il doppiaggio regala qualche furbata, come la previsione della diplomazia del ping pong del 1972 tra Nixon e Mao (era Chou En Lai: stai a vedere che ‘sti qui ci hanno quasi azzeccato, 12 anni prima… ma no, non è possibile, dài). Gli attori sono di una staticità commovente e con delle facce tristissime, da alimentazione precaria: dentature sconnesse o rade, occhi sporgenti o incavati, e tutti o calvi o con ciuffi assurdi. Ma la vera mazzata è data dallo script, di una lentezza esasperante, senza tensione, ritmo o almeno qualche invenzione futuribile (ah sì, c’è l’incredibile freno a mano dell’astronave, utilizzato mentre s’incappa in una tempesta di meteoriti!) e piagata da dialoghi ridicoli con cifre ed elementi chimici buttati lì, che fanno tanto fantascienza, tipo (invento):“Hai visto la reazione gamma del biofloruro di Izbenio 58?”, “No, dottore, la temperatura pentatonica era ormai prossima alla sublimazione H”, supercazzole così. Insomma, ‘sto Sojux 111 è una tavanata realmente galattica, dal fascino visivo naif e orbo di qualsivoglia drammaturgia. Ispirato al romanzo Il pianeta morto di Stanislav  Lem, che non volle avere niente a che fare, giustamente, con questa stronzata spaziale. Come qualche criticonzo possa parlarne come di un capolavoro è emblematico della ragione mercantile della professione. (Dvd; 18/9/10)

ddv7109Popa Chubby: the Blues is Alright!
Se BB King vi sembra grasso, non avete mai visto Popa Chubby. E se credete che il blues sia un genere vecchio, significa che non lo avete neppure ascoltato. E Popa su disco è una cosa (generalmente buona, molto buona) e dal vivo un’altra, buonissima: sudore e lacrime, rabbia e dolcezza, sigaretta e caffè. Fraseggio fluido, innesti soul, rock e hip hop sulla tradizione, tono Fender inarrivabile. Un autentico bluesman urbano di questi tempi, che commenta ciò che accade sulla terra e non la manda a dire, e suona come se ogni concerto fosse l’ultimo. Ebreo newyorchese con nonni italiani, non è educato, non è elegante, Popa, ma ha una sua tifoseria precisa che ne apprezza la schiettezza e l’irruenza musicale verace. Siccome passa da Milano per un omaggio hendrixiano ricco di ospiti (tra cui Tolo Marton e Vic Vergeat di cui il vostro scribacchino vi ha già parlato in passato), approfitto. Ci dobbiamo incontrare a pranzo ma quando sono in prossimità del suo albergo mi arriva una telefonata: Popa è fuori combattimento, è stato male in nottata. Rinvio a dopo il soundcheck, ma a mezz’ora dall’intervista la vetusta Ka rossa mi molla sotto casa. La mente gira a mille e siccome sono affilato come un bisturi penso: ruote! Prendo la bici che non uso mai e affronto il traffico stocastico di Milano riducendomi il culo come quello di un babbuino, e non solo cromaticamente. Assisto a delle prove dove s’improvvisano assoli celestiali e poi intervisto il bluesman di New York mentre monta le corde della chitarra. Popa ha la faccia tenera da bambinone cresciuto a dolciumi. Ha una voce scartavetrata splendida ed è umile e puntuto, non dice mai una cazzata. In passato si è apertamente schierato contro Bush con testi espliciti e diversi vaffanculo col dito medio (tra l’altro – dopo centomila morti gratuiti in Iraq – perché il tribunale dell’Aia non lo processa, Bush?) e oggi è molto deluso da Obama. È indignato per lo stato della sanità statunitense e tante altre cose che non riescono a cambiare. Azzardo, come Fantozzi col megadirettore: ma sarai mica… comunista? Ride: no, dice di essere un convinto capitalista, dove però non vince uno solo, ma un po’ tutti… “Forse”, aggiunge, “sono un po’ socialista”. Al netto della confusione ideologica e del classico pragmatismo yankee, gli chiedo se ne scriverà e mi risponde che lui cerca solo “un buon riff e una rima che funzioni”. Da buon papà sta imparando dai figli e parla con ammirazione di Dr. Dre e Snoop Dogg, confermandomi che il progetto di fondere blues e hip hop potrebbe avere un futuro. Poi, serata buona ma pubblico milanese un po’ freddo di fronte alla sua chitarra incandescente. Tornerà ancora da queste parti: oh, ci vediamo sotto il palco, ragazzi. (Teatro Ciak, Milano; 22/10/10)

ddv7110798 – Il Labyrinth in cui s’è perso Jim Henson, USA/Gran Bretagna 1986
Film da grandi, Barbara e io, non riusciamo a vederne più, per cui finisce che un Labyrinth evitato accuratamente da adolescente diventi qualcosa da vedere oggi, papà ultraquarantenne, assieme a Sofia. Con grande nocumento, perché questo fantasy infantile, tra ingenui effetti col blue back, pupazzoni da Muppet Show (di cui effettivamente Henson era il creatore) e numeri musicali eterni, è una menata di cazzo labirintica ed estenuante. Dopo un ¼ d’ora ero già scoglionato, sorpreso dalla recitazione urlata e dall’apparizione di un Bowie pettinato a metà strada tra Tina Turner e Solange. Certo, Jennifer Connelly era incantevole anche nei suoi paffutelli quindici anni e c’è pure qualche bella invenzione scenografica (il pozzo di mani o i battiporta parlanti), però, no, io queste cose non le capisco, non ci arrivo. Sofia, ovviamente, ha apprezzato molto. Dopo un clamoroso flop all’uscita, Labyrinth è diventato col tempo un film di culto. Non chiedetemi come e perché. (Dvd; 23/10/10)

(Continua – 71)

Il Cacace mette i dischi su Twitter @DzigaCacace

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 70 https://www.carmillaonline.com/2015/04/16/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-70/ Thu, 16 Apr 2015 20:35:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21664 di Dziga Cacace

And I scream from the top of my lungs… what’s going on? 

DDV7001778 – Il tenerone Rocky IV di Sylvester Stallone, USA 1985 Mi metto i guantoni e affronto un film che devo aver visto la prima e ultima volta a fine anni Ottanta, quando Rai e Mediaset si sfidavano ogni sera a colpi di prime visioni. Si parte da dove eravamo rimasti, con Apollo Creed – il vecchio avversario diventato poi amico del protagonista – che vuole tornare a combattere. Rocky invece è un pascià: villa enorme e kitsch, Lamborghini, un figlio insopportabile e zio Paulie a [...]]]> di Dziga Cacace

And I scream from the top of my lungs… what’s going on? 

DDV7001778 – Il tenerone Rocky IV di Sylvester Stallone, USA 1985
Mi metto i guantoni e affronto un film che devo aver visto la prima e ultima volta a fine anni Ottanta, quando Rai e Mediaset si sfidavano ogni sera a colpi di prime visioni. Si parte da dove eravamo rimasti, con Apollo Creed – il vecchio avversario diventato poi amico del protagonista – che vuole tornare a combattere. Rocky invece è un pascià: villa enorme e kitsch, Lamborghini, un figlio insopportabile e zio Paulie a carico, festeggiato regalandogli un robottino non esattamente credibile. Regna la pace familiare e Adriana guarda soddisfatta. Sennonché sbarca in USA Ivan Drago, il campione di boxe sovietico che vuole sfidare il mondo professionistico occidentale. Lo accompagna la melliflua compagna Ludmilla (Brigitte Nielsen, molto bella prima di plastiche criminali) e un team di allenatori e scienziati che parluano tuutti cuosì, hanno occhi di ghiaccio e mostrano indefettibile fedeltà alla linea del Partito. Creed ha voglia di menare le mani, ritiene il mastodontico russo “grande, grosso e rozzo” e accetta la provocazione, nonostante manchi dal ring da cinque anni. Rocky teme il peggio e vede Apollo che provoca, gigioneggia e fa lo spaccone: per lui il ritorno sulla scena è per sentirsi vivo (vedrà quanto!) ed è anche una necessità ideologica, pensa un po’. Il match si tiene a Las Vegas e tutta la pacchianeria burina yankee è esibita come una ganassata compiaciuta: balletti, paillettes, coriandoli, stelle e strisce e James Brown patriottico e un po’ Zio Tom (Living in America). Apollo sale sul palco conciato invece da Zio Sam, ma dopo il primo round gli è già passata la voglia di fare proclami da pagliaccio: ha la faccia ridotta come un hamburger medium rare. Rocky a bordo ring intuisce che si mette malissimo ma Creed si fa promettere che non getterà la spugna, qualunque cosa accada. Drago lo massacra in un tripudio di rallenti e still frame e il pugile nero spira tra le braccia del nostro Stallone. Che incrocia lo sguardo con Drago e capisce che adesso tocca a lui: questa è una sfida che non si può rifiutare, per l’amico morto e per gli USA intieri. Il nuovo incontro si terrà in Russia, il 25 dicembre: Natale a Mosca, come un Vanzina deprezzato. Adriana non gradisce e quando chiede a Rocky il perché, lui è laconico: “Io faccio quel che devo fare!”. E poi se ne va con la sua Lambo, con l’incubo di Drago negli occhi. Segue montaggione musicato che ripercorre la carriera di Balboa, dagli esordi a pane, cipolla e merda fino alla consacrazione, in una inarrestabile e caparbia ricerca del successo. In Russia rifiuta agi e comodità: si allena in un postaccio punitivo in culo al mondo, tra gelo, povertà e sfiga perché son tutti morti di fame. Due agenti lo sorvegliano e il massimo divertimento è farsi una partitella a scacchi. In parallelo vediamo Drago che ci dà dentro seguito da tecnici con strumentazioni avveniristiche: mena colpi sempre più letali tra punturine sospette, sparring partner maciullati e computer con grafici esaltanti. Invece il Balboa si allena all’antica, sega tronchi, corre nella neve, solleva pietroni, guada ruscelli ghiacciati e trascina slitte (!) come un cavallo da tiro. Insomma: l’uomo contro la macchina, i sentimenti contro la disumanità comunista, in montaggio serratissimo e musica esaltante, sequenza estremamente godibile per retorica linguistica e afflato ideologico tamarrissimo. Si arriva a Mosca in un tripudio di bandiere rosse, falci e martello e classica iconografia sovietica. All’angolo Rocky prega (e certo: fede contro ateismo di stato). In tribuna, in mezzo ai burocrati, si accomoda anche un simil Gorbaciov. Il pubblico, straccione e zeppo di militari è ostile all’americano. Dopo l’inno dell’Armata Rossa (splendido, io ce l’ho anche nell’Ipod) viene presentato Ruocky Balbuoa, fischiatissimo, e poi Ivan Drago, acclamato con zelante giubilo ortodosso. “Io ti spiezzo in due”, segno della croce dell’eroe eponimo e la singolar tenzone parte. Rocky è subito alle corde e quando accenna una reazione, fa il solletico al cyborg. Ne piglia una bella gragnuola e finisce al tappeto, contato e salvato dalla campanella. Nel secondo round ne piglia ancora un sacco e una sporta, finché dall’angolo il trainer, ex di Creed, gli ricorda: “Non fa male!”. Insomma. Adesso ne prende ma ne dà anche, non molla e incrina la tetragona sicurezza della Transiberiana di ghiaccio. La resistenza eroica del campione USA conquista poco a poco il pubblico moscovita che comincia a tifarlo apertamente. È la rivolta! L’adesione pugilistica ai valori del Capitale! I politici in tribuna sono in imbarazzo e Drago acquisisce un’insospettata umanità: adesso combatte per sé e non per il regime. E perde, mentre Rocky fa la solita scenata da vincitore invasato, per la costernazione del Politburo. Gli danno la parola ed ecco il Discorso: lo odiavano, all’inizio, dice. E io odiavo voi, ammette. Però: “Durante l’incontro ho visto cambiare le cose”. E se cambio io e voi – continua – tutto il mondo può cambiare! Il sosia di Gorbaciov applaude. E anche il mio sosia! (Dvd; luglio 2010)

DDV7002779 – Un capolavoro: L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, Italia 2009
Ancora scosso dalla purezza de Il vento fa il suo giro, io premio a modo mio Diritti comprandogli anche il secondo film, non sapendo neppure se sia piaciuto o meno a critica e pubblico. Non me ne frega niente: lo merita, sulla fiducia. Ed è un capolavoro, un Novecento senza barocchismi melò e voglie di kolossal, un Olmi pagano. Mi commuove e mi smuove, raccontando senza alcuna pretesa manichea la lotta partigiana appenninica e la tremenda rappresaglia nazifascista. Pietà e sconcerto: prendere parte, combattere, ribellarsi, con la quieta e testarda voglia contadina di non arrendersi, per poi ricominciare, a partire dalla piccola intensa interprete e dall’uomo che verrà. Diritti innalza un canto alla terra e a chi la difende, in nome di un’altissima dignità umana, e lo fa senza rinunciare a una personale ricerca cinematografica. Non so se stavolta qualcuno si sia premurato di dare qualche premio a quest’uomo, ma se i premi hanno ancora un valore, allora li merita, tutti. (Dvd; 19/7/10)

ddv7003780 – Kiss Symphony: The DVD dei frenetici ignoti Jonathan Beswick e Victor Burroughs, USA 2003
Allora, i casi sono tre: o sono rincoglionito causa paternità o i ripetuti ascolti rendono gradevole anche una musica infantile come questa oppure m’ero sbagliato la prima volta. Nel senso che questo Dvd dedicato ai Kiss l’avevo visto per scrivere una micro recensione per Rodeo, mensile cui collaboravo un’era geologica addietro. E ne avevo scritto da spettatore scocciato dell’artificiosità del tutto: i Kiss che suonano assieme alla Melbourne Symphony Orchestra (truccata per l’occasione), per una seratona di rock n’roll esagerata assieme a 40mila fan entusiasti. Niente di che per il mio snobismo. Poi capita che Sofia ci metta su gli occhi e cominci a fare domande. E allora ne vediamo una clippettina. E il disastro è compiuto perché dei musicisti tamarri che fanno ritmatissima caciara conciati da mostri, sputando sangue e volando attraverso lo stadio sono quanto di meglio possa chiedere una bambina di 5 anni. E sarà che vedevo Sofia godere (e anche Elena, due anni), poco a poco del Dvd abbiamo cominciato a vederne porzioni sempre più corpose, fino al documentario che racconta tutta l’operazione. E io – lo confesso – pian piano ho cominciato a canticchiarle ‘ste benedette canzoni, a ritrovarmi col piedino che teneva il tempo. È rock, talvolta hard, mai seriamente metal. È medio, talvolta mediocre, ma è perfetto, non sporca, non offende, diverte. Il montaggio è frenetico (questo mi preoccupava, per le mie figlie) e molto flashy, mostrando la Kiss Army tanto quanto l’orchestra e la band: bambini, vecchi e tante ragazze pettorute che fanno le corna verso la telecamera, così come nerboruti obnubilati che mostrano orgogliosi i tatuaggi. Non mi son ridotto così ma ho rivisto il mio giudizio: il concerto e la mascherata sono indubbiamente divertenti e la musica, tutto sommato, è godibile e infallibile. E poi, fringe benefit non da poco, durante la visione le bimbe sono sedate (e non si tratta di Tiziano Ferro). Cosa chiedere di più? (Dvd; a rullo, tutto luglio 2010)

ddv7004781 – A lutto (con spoiler) per E.R. Anno 8 di Michael Crichton et alii, USA 2001/2002
Il personale del County General Hospital di Chicago, gli spettatori e soprattutto l’addolorato Cacace sono vicini alla famiglia Greene per la scomparsa dello stimato dottor Mark. Per non dire che, occhio agli spoiler: 1) muore anche Carla, l’ex del chirurgo Benton, lasciandogli dopo accanita battaglia giudiziaria per l’affidamento il piccolo sordomuto Reece (di cui Benton non è padre biologico, pensa tu!); 2) che la quattordicenne Rachel Greene è una spina nel culo, ma forse si è riconciliata col padre prima della sua morte; 3) che Elizabeth Corday continuerà da sola con Ella, reduce pure da una overdose di ecstasy a neanche due anni, thanks to Rachel; 4) che Abby forse si metterà con John Carter – sempre in crisi, perché troppo ricco, troppo buono, troppo sensibile – dopo aver lasciato quel mammolone malinconico del dott. Kovacs; 5) che la dottoressa Weaver – la stronza con lampi di cattiveria – sta affrontando la sua identità sessuale assieme a una vigilessa del fuoco machissima e non ha ancora trovato la madre; 6) che è tornata la pacioccona dottoressa Lewis, ma sua sorella Chloe è ricascata nella droga e manca all’appello la figlia; 7) che… che questo è stato un serial eccezionale e non ho altro da dire che già non abbia detto e che non andrò più avanti, anche se ricordo che al magnifico dott. Romano succedeva un incidente e, insomma, vorrei vedere come va a finire se non altro per godermi l’homecoming dell’ultima puntata. Ma la vita è una, il tempo troppo poco e l’ultimo episodio me lo scaricherò. Sono contento così: ho visto un capolavoro autentico e oggi è come se fossi di ritorno dal funerale di un amico caro. E lo so che pare assurdo – devo elaborare, cazzo! – ma la puntata in cui Greene se ne va – non riesco neanche a dirlo – è un capolavoro unico di sottigliezza, di intensità e pure di ricatto emozionale, con il medley di Israel Kamakawiwo’ole che è una coltellata lieve che mi fa sempre singhiozzare. (Dvd; luglio 2010)

ddv7005782 – The Shield – Seconda Stagione di Shawn Ryan, USA, 2003
Sempre brutti, sporchi e cattivi, i nostri agenti che mantengono l’ordine nel peggiore distretto di Los Angeles, tra droga, prostituzione, bassa politica mercantile, mafie e tensioni razziali. Ricatti incrociati, tranelli, giochi zozzissimi, perché “bisogna fare un po’ di male, per ottenere il bene” e per provare a mantenere l’ordine in quella discarica piena di umanità che è la città degli angeli, specchio dell’America capitalistica metropolitana, dove tutto ha un prezzo e quasi a nulla si dà valore. Sempre un piacere, questo serial: forse equivoco perché ci fa fare i conti con la nostra cattiva coscienza, ma inequivocabile. (Dvd; agosto 2010)

ddv7006783 – Il mappazzone Revolutionary Road di Sam Mendes, USA/Gran Bretagna 2008
Siamo ad Andalo, con uno schermo in camera che fa impressione, abituati come siamo ai pollicini del nostro tubo catodico. Siccome i Dvd che ho portato io schifano Barbara, si impone la sua scelta tra quelli messi a disposizione dall’albergo. E si va dritti a questo drammone ambientato negli USA dei Fifties, quando altro che pace e Vietnam e diritti civili: la donna bianca era the nigger of the world e guai a incrinare il perbenismo della società con comportamenti devianti dalla morale comune. All’inizio sembra più una storia d’amore romantica e io rompo le scatole a Barbara chiedendole se ha un Harmony da prestarmi per dopo, però andando avanti la love story va presto a rotoli. Protagonisti di questo naufragio titanico della coppia sono quei Leonardo DiCaprio e Kate Winslet che già si amavano sul transatlantico jellato. Entrati nella bella casa in Revolutionary Road scopriamo che sono in crisi nera, tra figli, esigenze di facciata, lavori non apprezzati, aspirazioni tradite o soffocate. E vai di liti furiose, di ripicche e illusioni. Ottima elegante messa in scena, bello sviluppo narrativo e attori ben diretti, per un film che ci dice molto di allora ma anche di oggi, perché se fai la radice cubica non è che sia cambiato granché per il ruolo della donna. Poi, a voler essere cinici, potremmo anche dire che trattasi di film borghese da sabato sera, per pizza e discussione, con le donne che diranno tutte che la povera April Wheeler è vittima della società maschilista che la vuole solo mamma riproduttrice, niente lavoro, zitta e buona a casa, e con i maschi che difenderanno l’ometto Frank col testone da bambinone che, poverino, si fa un culo così ed è lei a essere una nevrastenica. Il film non prende parte in maniera esplicita (ed è un bene, anche se è evidente che l’umana pietà è rivolta più ad April ed è chiaro cosa si voglia rappresentare) e gioca con le ambiguità del caso: l’unico che comprende il travaglio della donna è uno spostato con problemi mentali, in realtà più lucido di tutti. Per concludere: bel film, ma non è la mia tazza di tè. Non vedevo un film drammatico da secoli. Ne aspetterò altri due. (Dvd; 16/8/10)

ddv7007784 – Che belli i morti di fame di Slumdog Millionaire di Danny Boyle, Gran Bretagna 2008
Non è che si possa fare molto, la sera, ad Andalo, e con le due belvette che dormono (finalmente anche Elena!) il Dvd è la morte nostra. Per cui ci vediamo un successone dell’anno passato che tanto aveva fatto discutere, perché certa narrazione scanzonata di eventi anche tragici era – secondo alcuni – estetica della povertà fuori luogo. Ed effettivamente il racconto è così travolgente che ahimè puoi dimenticarti che la realtà degli slum indiani è anche peggio di quella descritta e anche se la vita è colorata e allegra e profuma di curry si muore di dissenteria e non ci sono belle facciotte sorridenti che tengano. È un bel problemino etico, quello della rappresentazione e di cosa si possa narrare e come, e io non posso che rendere conto del mio coinvolgimento nella fabula perché son troppo confuso dalla rarefazione dell’ossigeno montano, diciamo così. Boyle va alla pancia dello spettatore e lo trascina dentro la vicenda senza farsi mancare alcun effettaccio, tanto da farti rimpiangere la più fetida latrina di Scozia di Trainspotteriana memoria. La musica incalzante, la simpatia degli attori e tutto l’apparato tecnico ti fanno prigioniero come niente: il film c’è, funziona e fila come un treno e ha vinto una marea di Oscar. Ed è allora che i più cool hanno cominciato a snobbarlo, anche perché finito il film, chi se ne fotte dell’India? Però così diventiamo troppo ideologici. O d’altra parte siamo troppo superficiali. Non lo so: io cool non lo sono per niente, sono proprio meat ‘n potatoes: per cui ho apprezzato la storia, ma so anche che c’è qualcosa che rimane troppo al di sopra dei problemi e troppo al di sotto della spettacolarizzazione e mi sento colpevole. Beh, questo sempre. Ah: l’11 agosto è morto Dino Crocco, che come nome magari non vi dice niente, ma per la mia generazione è stato il volto di tanta tivù privata anni Settanta, quella fatta alla buona ché importava occupare l’etere, con sconclusionati trasmissioni da Lavagello… Comunque questo Crocco, tra le tante cose, presentava un programma di Telecity che metteva in competizione le classi di quinta elementare delle scuole genovesi e io avevo partecipato nella tarda primavera del 1980 a un’epica sfida contro la temibile Scuola Germanica, registrata in un locale posto tra i due teatri Genovese e Duse. A differenza del protagonista di The Millionaire, avevo però ceffato clamorosamente la domandona finale attribuendo per emozione a Mercantini l’inno di Mameli, una cosa così, che ricordo vagamente perché l’ho rimossa, sentendo ancora il peso di quell’errore (ma eravamo tutti euforici: finiva la scuola, arrivava l’esame di quinta e chi se ne frega se avevamo perso in finale. E anche il mio compagno Riccardo Esposito aveva smarronato clamorosamente in preda all’orgasmo). (Lo stesso anno avevamo anche partecipato al programma di Tivuesse – la tivù del Secolo XIX – con Pata e Trac, ma questo non se lo può ricordare veramente nessuno: in Rete non c’è alcun riferimento a questi due pagliacci – intendo dire che facevano i clown, chissà che fine han fatto). (Dvd; 17/8/10)

ddv7008785 – M’è cresciuta la terza palla guardando The Terminal di Steven Spielberg, USA 2004
Altra serata buca, altro giro: dunque, che Spielberg sappia raccontare bene l’azione e il dramma, nessun dubbio, ma appena fa la commedia, casca l’asino. E più insiste, più fa pena. Il tema del film in questione è zeppo di implicazioni: la terra promessa, la cattività, il premio della libertà, la burocrazia, perfino tutte le menate di Marc Augé sui non-luoghi che avrebbero dato occasione a Wenders di farsi una pippa colossale su pellicola e ai critici, a due mani, sui giornali. E invece niente: Spielberg vuole la commedia e vuol farci tutti ridere con la vicenda di Viktor che, per problemi di documenti e di trattati tra paesi, rimane prigioniero di un terminal aeronautico e deve arrangiarsi in questo limbo territoriale ed esistenziale. Nell’aeroporto sono tutti carinissimi, tutti immigrati felici e la società USA in fondo è buona buona. Da un momento all’altro scopriamo che Viktor è un costruttore provetto e ama la musica jazz (e non è quella che propriamente si definisce una crescita del personaggio). E poi viene fuori il motivo del viaggio in USA: la ricerca di un autografo di Benny Golson, l’unico che mancava al papà di Viktor che, negli anni bui della dittatura nel suo paese, aveva raccolto tutte le firme dei jazzisti presenti nella storica foto fatta ad Harlem nel 1958. Ma queste sono minuzie in un film noioso, che dura due ore interminabili ed è divertente appunto come se fossi anche tu in sala attesa a Malpensa mentre ti fottono i bagagli, che fa ridere una sola volta (grazie a Gupta, l’uomo delle pulizie che è anche giocoliere) e che ha personaggi appena sbozzati (il direttore della sicurezza interpretato da Stanley Tucci o la hostess Catherine Zeta-Jones, decisamente improbabile e costretta a dialoghi ferocemente imbarazzanti). Riflessioni sulla solitudine o sullo spaesamento, nisba: tutto ridotto a una vicenda agrodolce, un po’ comica ma soprattutto no, e senza morale. Girato in maniera insipida, recitato sicuramente bene, ma anche zeppo di errori di continuità (tipo Hanks con le braccia aperte, stacco, a braccia conserte… cose così, a pacchi) e da uno che muove milioni di dollari come Spielberg proprio non te lo aspetti. Che poi, a Steven, cosa vuoi rimproverargli, seriamente? Cosa vuoi dire a uno che ha messo su un archivio della memoria gigantesco e trova il tempo e il modo di fare soldi raccontando la seconda guerra mondiale, proprio associandosi a Tom Hanks? Eh, cosa? Beh, che The Terminal è ‘nammerda, okay, che però, dài, non è neanche così grave. Comunque: film scritto da quel Sacha Gervasi che due anni dopo ha realizzato il documentario sul ritorno dei metallari Anvil e ha vinto una caterva di premi. Io ce l’ho lì da un anno e adesso ho un po’ paura a guardarmelo. (Dvd; 19/8/10)

Toy-Story-3-movie-image786 – Ancora capolavoro! Toy Story 3 di Lee Unkrich, USA 2010
Siamo a Milano e il lavoro – giustamente, eccheccazzo: è agosto! – langue. Mi porto Sofia al cinema perché non resisto oltre. Devo vedere subito Toy Story 3. il film è preceduto da un corto splendido: Quando il giorno incontra la notte (di Teddy Newton, USA 2010), surreale incontro che diventa apologo sulla curiosità, la scoperta e la felice convivenza. Magnifico: mescola tecniche modernissime a quelle tradizionali, in cinque minuti e mezzo di fosforo puro e ci ricorda che “le cose più belle dell’universo sono le più misteriose”, quelle che non conosciamo. E poi ecco il terzo capitolo: riuscitissimo, divertente e infine molto commovente. Forse potrebbe finire qui, la saga, forse no, ma siamo all’altezza delle cose migliori della Pixar, con un finale che unisce passato e futuro con delicatezza estrema. Sofia non riusciva a capire come mai fossi così preso (“Papà, stai male?”), ma lei non sa ancora cosa significa la memoria dei giochi che sta facendo ora. Poi titoli di coda al solito magnifici col conforto di una versione dei Gipsy Kings della classica Un amico in me di Randy Newman. Fai due più due e il pacchetto completo si legge capolavoro, l’ennesimo. Ma come fanno? (E vogliamo parlare di Barbie e Ken?) (Cinema Gloria, Milano; 24/8/10)

ddv7010787 – Gran sòla Gran Torino di Clint Eastwood, USA 2008
Walt Kowalski non parla, grugnisce, e ha la faccia corrugata come la corteccia di una sequoia. È sboccato, razzista, sessista, omofobico e a destra di Feltri, che considererebbe un sovversivo capellone. Ovviamente siccome Kowalski lo interpreta Eastwood la cosa intenerisce il pubblico che si riconosce e si giustifica: se Eastwood – che non può essere che buono – è così, potrò non esserlo io? Vabbeh: questo bel tipino, dopo una vita spesa alla Ford, ha il cane, fuma le sue sigarette, cura il prato davanti casa e sopporta in silenzio la ferita morale della guerra in Corea dove ha ucciso 13 uomini (i morti invece non han più nessun senso di colpa, beati loro!) ed è la quintessenza dell’americano medio con la bandiera innalzata davanti al portico di casa. Come vicini arrivano degli immigrati Hmong fuggiti ai comunisti, ma questo Kowalski non lo sa. Son gialli, punto. Fan casino, son tanti, sporcano. E guarda con sospetto i due giovani di famiglia: Thao e la sorella Sue. Thao vuole entrare in una gang e prova a fottergli la splendida Gran Torino, curata in maniera maniacale, e la stessa gang ha l’ardire di venire a rompere il cazzo. Lui reagisce, mette a posto il ragazzo e la famiglia Hmong, riconoscente, lo riempie di regali, fiori e cibo. Che scopre essere buonissimo, pensa tu ‘sti selvaggi. E poi, per il tramite di Sue che è sveglia, Walt va a conoscere i musi gialli che mangiano i cani. E all’improvviso gli piacciono e siccome Thao deve espiare, se lo prende da parte e lo fa diventare un uomo, anche perché i figli di Kowalski sono dei pasciuti ottusi americani che dalla vita hanno tutto fuorché dirittura morale e non meritano il suo tempo. Per cui dall’intolleranza iniziale passiamo al rifiuto della violenza e del machismo (ma sempre con i capelli molto corti, mi raccomando, eh?) in uno schematico liberalismo conservatore non meno irritante di quello iniziale. È tutto tagliato con l’accetta, con cambiamenti secchi, svolte improvvise e poco credibili, per blocchi, senza armonia, con personaggi sbozzati con la grazia di un marmista di Carrara. Ma si può diventare adulti dicendo due o tre parolacce? O conquistando la donna, atteggiandosi come ritiene un ottantenne? Mah! E poi tutti a frignare per il finale edificante e ricattatorio e non pensiamoci più. Io no, scusate. (Dvd; 27/8/10)

(Continua – 70)

Segui Dziga su Twitter: @DzigaCacace

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>