Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.
981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011 Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non [...]]]>
Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.
981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)
982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)
986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)
990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)
991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)
994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)
995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)
997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)
1001 – Breaking Bad – The Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)
1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)
(Continua – 85)
Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook
Oppure binge reading qui, su Carmilla.
]]>Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!
687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007 Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film [...]]]>
Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!
687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)
688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)
689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)
690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)
692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)
693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)
694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)
695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)
696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)
697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)
698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)
699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)
700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)
701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)
(Continua – 63)
Qui le altre puntate di Divine divane visioni
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