The Doors – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hard Rock Cafone #4 https://www.carmillaonline.com/2016/01/14/hard-rock-cafone-4/ Thu, 14 Jan 2016 20:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27782 di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo [...]]]> di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda
Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo in croce. Avevo anche difficoltà a considerarlo un grande poeta, James Douglas, specie se mi capitava di leggere versi come “Non si può camminare attraverso specchi o nuotare attraverso finestre” o di incappare in rifritture liriche da liceale in fregola con la tragedia greca. Ma vabbeh, problemi miei. Salvo che i Doors continuavano e continuano – in un eterno presente – a riproporsi come una volgare peperonata all’aglio per perseguitarmi senza tregua. Del resto abbiamo i Queen senza Freddie Mercury, i Lynyrd Skynyrd senza Ronnie Van Zant e, l’anno scorso, i Faces senza Rod Stewart (che è un po’ come se fosse morto). L’utilizzo redditizio del brand e la fame di nostalgia non hanno stoppato i componenti della band rimasti, gli eredi e i discografici, nonostante l’identificazione univoca del gruppo con il suo estinto membro (non uso il termine “membro” a caso). I Doors morrisonless decisero di continuare fin da subito, sfornando due dischi sicuramente sinceri ma francamente imbarazzanti. Non indecentissimi, sia chiaro, pure con qualche ideuzza, però schiacciati dal confronto monumentale coi precedenti in quartetto, peraltro non tutti eccelsi (penso a The Soft Parade, per dire), ma al Mito non si comanda. Passo indietro: il panzuto e barbuto Jim era a Parigi in fase bohème, stanco di rock e incapricciato come un quindicenne di scapigliatura a base di droga. Forse fatale, chissà. Frequentava Agnes Varda e da lontano Bernardo Bertolucci che stava colà concependo un ultimo tango. L’ultimo per Morrison fu il 3 luglio 1971: da 40 anni circolano diverse ipotesi, tra cui quella più probabile della “fine dell’aragosta”, per la quale il collasso decisivo in vasca fu dovuto a temperatura eccessiva dell’acqua. In USA si stava già lavoricchiando a un nuovo disco ma il poetastro, comprensibilmente, a quel punto non si fa più vivo e i superstiti attoniti reagiscono registrando furiosamente, tanto che a neanche tre mesi dalla morte dell’enfio bardo, nell’ottobre 1971, pubblicano Other Voices. Voci che però non beneficiano del classico “effetto salma fresca” che renderà felici gli eredi di Hendrix, Marley e Mercury: l’album si vende poco ma gli orfani dello sciamano hanno le idee chiare come Bersani quando parla a più di cinque persone e danno sfogo a ulteriori voglie canterine con Full Circle. L’ulteriore prova discografica bordeggia prog e jazz rock ed esce nell’estate ’72: è una fetecchia ma se ne accorgono di nuovo in pochi. Sinché nel 1978, pensa che ti ripensa, i tre non azzeccano la giusta trovata, “47 morto che parla”: si suona infatti musica soffusa intorno alla voce registrata di Jim che recita tronfie poesiuole. Ne viene fuori An American Prayer, questo sì vendutissimo e ispiratore di altre operazioni extracorporee, tipo il duetto di Natalie Cole col papà secco o i Beatles che accompagnano la voce effettata del trapassato Lennon in Free As A Bird. Bene, gli avanzi dei Doors si mettono finalmente il cuore e il portafogli in pace? Macché: nel 2002 Ray Manzarek, all’organetto Bontempi, e Robbie Krieger, alla chitarra, tornano in concerto coll’ex cantante dei tamarrissimi Cult, Ian Astbury. Il batterista John Densmore, offeso, li diffida e la faccenda finisce in tribunale. Ma anche se non possono usare più il nome Doors, Manzarek, Krieger e Astbury sono ancora in tour per la gioia dei necrofili. Tiè. (Dicembre 2011)

hrc402Crimini galattici: i Rockets
Erano anni strani, quelli sul finire dei Settanta: ricordo un sedicente Actarus cantare Ufo Robot (quella dove Goldrake si ciba di insalata di matematica, per intenderci) a Superclassifica Show, tra il Telegattone e Maurizio Seymandi. Quest’Actarus era vestito proprio come il cartone animato, con la faccia celata dall’elmetto, modo geniale per fare il playback senza neanche la fatica del lip synch. E la canzone era suonata da Ares Tavolazzi (ex Area, poi con Guccini e tanti altri) e il grande Vince Tempera, mica cazzetti… Anni strani che premiavano in classifica cose così. O come i Rockets, un gruppo di zarri francesi che, visto il successo planetario dei Kiss, si dovevano essere detti: e noi chi siamo, i figli della serva? Per il look si affidarono a costumi spaziali, make up argenteo, inquietanti pelate mussoliniane e chitarre dal design futuristico. La musica invece abbondava di voci filtrate su ritmiche sintetiche; ma c’era pure qualche retaggio space rock e pinkfloydiano. Risultato? Personalmente abominevole, ma di grande successo: pezzi ipnotici lunghissimi, nonché ottimi tappeti da remixare in discoteca. E del resto i Kiss stavano giungendo alle stesse conclusioni con I Was Made For Lovin’ You. Il tutto era venduto in album con immagini e lettering degne di un Urania d’accatto. Il gruppo fece il botto e sfido a trovare qualcuno della mia generazione che non abbia ballato Galactica mimando le movenze di un robot. Il fenomeno poi sfumò malinconicamente e cominciò a circolare l’inverificabile ma suggestiva notizia che i Rockets fossero scomparsi dalle scene vittime del make up tossico, storia che faceva il paio con quella di Daniela Goggi ferita dall’esplosione in faccia dall’enorme bolla rosa di un Big Bubble (che – sempre per rimanere in ambito di leggende – si diceva fossero prodotti con grasso di coda di topo). Comunque la memoria è una brutta bestia e i Rockets hanno continuato ad avere accesissimi fan anche qui da noi e basta vedere in Rete i siti meticolosi che gli sono dedicati. E per omaggiare questi strampalati eroi, Elio e le Storie Tese nel 1996 hanno pure vinto il Festival di Sanremo (vinto eccome, c’è una sentenza) presentandosi sul palco conciati come loro. Beh, se avete nostalgia anche voi, gratificatevi con l’oggetto volante non identificato arrivato nei negozi di dischi questo inverno: un lussuoso cofanettone con l’opera omnia di ‘sti pazzi, assolutamente galattico. (Ottobre 2008)

hrc403Lucio Battisti: Amore e non amore
Comodo parlare di Battisti solo nelle feste comandate, attingendo alle stesse bio e dicendo sempre le stesse cose. Voglio vedere chi ricorderà questo mese i quarant’anni di Amore e non amore, un album oscurato da ciò che Lucio avrebbe prodotto dopo, col genio cantautorale pop dei Settanta e l’ermetismo gelido e avantissimo degli Ottanta. Ma senza quel Battisti lì, no Vasco, no Liga, no Zucchero e potrei andare avanti, includendo tantissimi altri, dai vari finto-indie fino a Marco Mengoni. Perché lui, Lucio, in fondo all’animo, era uno hippie di Poggio Bustone che in tivù cantava a squarciagola Let the Sunshine In da Hair (e di cui qualcosa avrebbe ripreso in Due mondi, su Anima latina) o Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, e che nel piano quinquennale 69/74, assieme a Mogol, ha fatto tanto rock, anche hard, pure cafone, sempre bellissimo. Psichedelico con tocchi di Doors e Led Zeppelin (il triangolo alla Rashomon de Le tre verità), hendrixiano (Insieme a te sto bene), jammato con la futura PFM (Dio mio no, Supermarket), bluesato (Il tempo di morire) o metropolitano (la misconosciuta e bellissima Elena no). E al fido Alberto Radius ha prodotto pure un disco di session unico in questo paese poco ritmico e molto melodico. In Amore e non amore ci sono quattro brani più o meno canonici (oltre alle storte Dio mio no e Supermarket, il rock alla Little Richard di Se la mia pelle vuoi e il r&b di Una) e poi quattro composizioni di musica pura, orchestrale ed intrigante, cui Mogol ha messo il marchio con titoli narrativi, tipo Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore. 35 morti ai confini di Israele e Giordania. Sulla copertina agreste (cavallo e donna gnuda sullo sfondo) Lucio sfodera una tuba, dieci anni prima di Rino Gaetano e trenta prima di Capossela, ma è nella musica che trovate la modernità di questo capolavoro dimenticato. Comunque: gli hanno scassato la minchia perché era tirchio, per una foto negata o un autografo non firmato. E perché era sempre primo in classifica e perché lo volevano fascista, per quanto amico di Demetrio Stratos e di tutta l’Area musicale milanese sinistrorsa. Invece era un genio, magari burino e scontroso, ma un genio. Ho troppo poco spazio per dimostrarvelo, ma i dischi son lì, basta ascoltarli. Qualche critico, anni fa, non l’ha fatto e oggi lo dà per assodato, senza però sbattersi a capire perché o per ricordarvelo. Sciocco. (Luglio 2011)

hrc05Zio Ted
Ted Nugent, quale fantastico cialtrone! Chi vent’anni fa aveva vent’anni, se lo filò poco: in anni di cantautori impegnati e punk rockers nichilisti come dar retta all’istrionico chitarrista che si presentava a torso nudo sul palco, indossando pantacollant di lurex e coda di procione tra le chiappe? La sua chitarra macinava riff granitici urlacchiando dal Marshall a palla e l’ironia del Motor City Madman non era neanche vagamente considerata: per i giovani impegnati italiani quello era un’autentica bestemmia, un dannato yankee che professava il ritorno allo stato di natura, arrivava sul palco pendendo da una liana e predicando l’arte venatoria. Inoltre il nostro esibiva una capigliatura leonina, rifiutava droghe e alcol, si esibiva in pose machistiche trattando le donne (nelle canzoni e sulle copertine degli album) come minus habens in estatica adorazione e sfidava altri chitarristi in duelli che si concludevano immancabilmente con la sua vittoria. Il circo, né più né meno, e Nugent era il nuovo Buffalo Bill. Beh: passano gli anni, cadono gli steccati tra generi musicali, il metal si coniuga con il rap, si rimescola tutto, istanze poetiche e anche politiche: vuoi vedere che anche Nugent, con la maturità, è diventato potabile? Il recentissimo (e tutto sommato godibile) DVD Full Bluntal Nugity Live fuga ogni dubbio e speranza: il vecchio zio Ted non è cambiato per niente, anzi. Lo show parte con il nostro eroe a cavalcioni di un pacifico bisonte. Dopo aver liberato la scena dal ruminante bestione, Ted aizza la folla coi suoi proclami sulla natura virile del vero uomo nordamericano e si scatena massacrando il suo repertorio storico. Ma non è tutto: la mazzata finale arriva dal satellite. Su VH1 è in onda il reality show Surviving Nugent: sette partecipanti (apostrofati affettuosamente “monkey”) devono sopravvivere nel micidiale ranch Nugent vicino Detroit. Partecipano anche un vegetariano, un gay e una animalista, vittime predestinate dell’incorreggibile guitar man. Se però poi uno pensa ad Adriano Pappalardo sull’Isola dei famosi, conclude che, sì: in fondo il momento della rivalutazione di Ted Nugent è effettivamente arrivato, alla faccia del Guccini dei nostri vent’anni. Amen. (Gennaio 2004)

hrc04Lunga vita ai New Trolls
Non date retta a chi vi spaccia per dischi della vita quelli con protagonisti che hanno il solo merito di essersi accoppiati con una top model ed essere finiti in overdose, senza neanche il buon gusto di levarsi definitivamente di torno (siete voi che avete pensato a Pete Doherty, io non ho detto nulla). Il rock, quello buono, non ha età e capita che uno dei migliori dischi dell’anno venga da un gruppo con 40 anni di storia alle spalle, i New Trolls. L’impresa sembrava impossibile, ma i due leader storici Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi hanno messo da parte vecchie ruggini e battaglie giudiziarie risibili per l’utilizzo del nome del gruppo e si sono impegnati a scrivere il definitivo Concerto grosso, erede dei primi due usciti negli anni Settanta. The Seven Season è il perfetto connubio di sapori antichi e sonorità moderne, con l’orchestra barocca diretta dal violoncellista hard Stefano Cabrera che accompagna, contrasta o risponde a un esuberante sestetto rock. Il risultato finale è una goduria e si sente che hanno lavorato “con lentezza” e grazie all’amore certosino dei produttori Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio (instancabile, appena festeggiati i 35 anni della PFM ha anche licenziato un album degli Slow Feet, proprio con De Scalzi). Certo, io sarò parziale, ma non posso farci niente: se cresci ascoltando sul paterno vinile originale Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta rimani indelebilmente segnato (era l’intero secondo lato del primo storico Concerto Grosso, scritto e diretto da Luis Enriquéz Bacalov). E poteva anche andarmi peggio perché mio padre aveva pure un Lp di Stephen Schlacks (a sua discolpa, era un regalo). Comunque oggi Vittorio e Nico sono in gran forma: li incontro e mi ricordano quando al Vigorelli nel 1971, prima che coi Led Zeppelin andasse tutto in vacca, presero i complimenti di Jimmy Page. E non solo: hanno suonato coi Rolling Stones, Nina Simone, Stevie Wonder e Fabrizio De André, hanno scritto pezzi commoventi come Una miniera, hanno sperimentato tempi dispari e voci alla Bee Gees, partecipando pure al film Terzo canale, un misconosciuto gioiello cinematografico flower-pop italiano: sono la nostra storia, insomma, e se quest’estate ve li siete persi dal vivo, è in uscita un Dvd registrato con orchestra a Trieste che documenta il tour che li ha portati in Messico, Giappone e Corea, con scene di tripudio imbarazzanti. Che dire d’altro? Questi ragazzacci che non vogliono smettere hanno un solo difetto: sono genovesi e tifano per una squadra di Sampierdarena. Ma tutto tutto non si può pretendere, no? (Dicembre 2007)

hrc06Il blues cacirro di Eric Sardinas
Pistoia Blues 2004. Metà pomeriggio della seconda giornata; sale sul palco tale Eric Sardinas e sembra un incrocio tra uno zombie, un cowboy e Slash. Primi mugugni nel selezionato pubblico di puristi cagacazzo che ricordano ancora la prima volta che hanno visto Mayall e sembrano non essersi ripresi, tanto da non tollerare alcuna innovazione. Dopo qualche minuto – in cui il suddetto Eric maltratta un dobro ricavandone note lancinanti e urla ferine, autentiche coltellate nella carne viva del blues – i cagacazzo cominciano ad interessarsi sinché si arriva in un amen alla chitarra flambée, trovata scenica sempre apprezzata, specie se la chitarra viene spenta e suonata ancora (è in metallo, non brucia. Scotta però) in un finale in tutti sensi incandescente. Pubblico conquistato. Bene, questo bel figuro lo incontro in una seratina gelida di marzo a Trezzo sull’Adda, nel nuovo locale Live che se ancora non l’avete visitato, merita: è una splendida roadhouse pensata per la musica da gente che la musica la ama e lotta in questo paese di caproni dove se dici “melodia” la gente pensa alla suoneria del telefonino. Con Eric chiacchiero amabilmente di blues, genere dato sempre per morto, relegato a bettole fumose eppure sempre pronto a rinascere. Negli ultimi anni lo han rivitalizzato il debordante Popa Chubby, i crudissimi Black Keys e anche i nostrani adorabili Bud Spencer Blues Explosion si son dati da fare. Sardinas, con stivale a punta, cappellaccio, boccoli neri e pizzetto luciferino, rinverdisce il mito dell’indimenticato John Campbell ed è l’ultimo erede della nobile arte dello scorticamento chitarristico tramite slide. Nei camerini il giovane è tranquillo, pacioso, sorridente, ma sul palco si trasforma in una belva e soggioga il pubblico dopo poche note, con un boogie blues urlato, demoniaco nell’inneggiare ad alcol e donne: un invito al deboscio generalizzato, col ghigno perverso e l’esagerazione istrionica di uno Screamin’ Jay Hawkins. Sponsorizzato da Steve Vai, Sardinas ricorda proprio il guitar hero come appariva nella fetenzia di film che era Crossroads, con l’incedere da sbulaccone e la chitarra puntata come un mitra. Torna da ‘ste parti a fine giugno al Torrita Blues festival e a Treviso e non me lo lascerei scappare: quando il blues torna alla sua verità nuda e cruda e viene giù come la grandine, ci fa dimenticare bluff come John Mayer – per dirne uno, presto scomparso – annebbiato da troppi soldi e showbiz. (Maggio 2010)

UNSPECIFIED - MARCH 01: Photo of DEEP PURPLE and Ritchie BLACKMORE; Guitarist with Deep Purple, smashing guitar against speakers on US tour, (Photo by Fin Costello/Redferns)Fumo sull’acqua e altre storie
Montreux è una ridente località elvetica, sul lago di Ginevra. Ha 22mila abitanti, è chiaramente ordinata e pulita e sulla passeggiata del lungolago è esposta una mostruosa statua di Freddie Mercury nano con a contorno una cafonissima scritta in metallo sbalzato lunga dieci metri: “Smoke on the Water”. Infatti nel dicembre 1971 i Deep Purple erano lì per registrare l’album capolavoro Machine Head, ma un petardo lanciato durante un concerto al casinò delle Mothers di Frank Zappa ridusse il locale in cenere. Smoke on the Water racconta con asciutto lirismo i fatti pari pari e venne inserita nell’album senza convinzione. Nessuno prevedeva il futuro da riff universale per qualunque aspirante chitarrista. Né, tantomeno, che sarebbe diventata la sigla di Lucignolo, il buco del culo di Italia1. Montreux, comunque, ospita da quarant’anni un jazz festival molto rock & roll e recentemente il patron Claude Nobs (il “funky Claude” citato nella suddetta Smoke) ha cominciato a licenziare in Dvd i concerti che hanno fatto la storia di questa manifestazione. Come quello appena uscito in cui i Deep Purple festeggiano i 25 anni del loro inno. Un Dvd splendido che fa finalmente giustizia, giacché i nostri hanno sempre avuto un rapporto bestiale con le immagini: hanno cominciato nel 1968, in tour in USA, finendo a esibirsi al Gioco delle coppie, giuro. In Rete una volta ho trovato poi un’altra apparizione televisiva incredibile, con Blackmore che, in playback, fingeva ostentatamente di suonare la chitarra sul legno, tenendola al contrario, con le corde sulla pancia. Ma la migliore Ritchie se l’era tenuta per la California Jam del 1974, concerto con mezzo milione di presenti e un cameraman un po’ invasivo. L’uomo in nero decise di saggiare la resistenza della telecamera e voi – in immagini ormai storiche – potete vedere in soggettiva l’effetto che fa il manico di una Strato dentro un obbiettivo. Poi anni di videoclip che facevano letteralmente cagare hanno portato i Deep Purple alla drastica decisione di affidarsi solo a riprese live e non sapere se l’imprevedibile Blackmore avrebbe tirato un gavettone o fatto un assolo rendeva ogni ripresa più saporita. L’ultimo scazzo con un cameraman è del 1993, quando il chitarrista lanciò bicchierate di birra e abbandonò il palco imbufalito. Da allora la frattura col gruppo è diventata insanabile: Blackmore si è felicemente smarrito in una fiaba dei fratelli Grimm e ha preteso che i superstiti non usassero la sua immagine nel merchandising. Fino alla prossima reunion, si spera. (Agosto 2007)

(Continua – 4)

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Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace

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