The Conversation – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze audiotattili tra dispositivi panottici e panacustici https://www.carmillaonline.com/2018/08/10/esperienze-audiotattili-tra-dispositivi-panottici-e-panacustici/ Thu, 09 Aug 2018 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42109 di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere [...]]]> di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere un esempio del coinvolgimento plurisensoriale dello spettatore al cinema, basti pensare a come le basse frequenze diffuse in sala dalle tecnologie contemporanee siano in grado di permettere allo spettatore di «percepire i suoni attraverso il corpo e le sue terminazioni nervose, vibrando fisicamente all’unisono con quello che si propone di definire cinema audiotattile» (p. 10). Lo studioso si propone, in particolare, di indagare la reciproca relazione tra sonoro e visivo nell’esperienza cinematografica, rintracciando quei momenti topici nella storia del cinema capaci di evidenziare tale relazione ricorrendo a un approccio metodologico in cui interagiscono le teorie della comunicazione audiovisiva con le teorie e filosofie dei media.

Dopo aver ricostruito le tappe tecnologiche che hanno condotto al cinema «compiutamente sonoro» e alla messa punto del linguaggio cinematografico attraverso il montaggio, e dopo aver analizzato il cinema dagli anni Trenta ai Settanta – soffermandosi sull’avvento del Dolby, sull’innesto del medium radiofonico sul cinema muto, sull’affinarsi della teoria del montaggio audio-visivo, sulle caratteristiche del cinema contemporaneo caratterizzato dall’high fidelity e dal concetto di verità del cinema -, nella parte conclusiva del volume Iannotta si sofferma sui cambiamenti tecnologici che hanno riguardato il cinema a partire dagli anni Settanta, dal perfezionamento dei meccanismi di fonofissazione fino all’avvento dell’era digitale. Secondo l’autore, tali trasformazioni tecnologiche metterebbero «in questione alcuni nodi capitali del cinema strettamente contemporaneo, in particolare il realismo in connessione con l’ontologia nell’epoca della produzione digitale, e il cinema della sorveglianza e del controllo nell’esperienza del cinema audiotattile» (p. 11).

Un esempio paradigmatico di come il cinema audiotattile faccia dell’iperestesia auditiva il proprio centro nodale, è indicato dallo studioso nell’incipit di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman: la macchina da presa, che sbuca dal nero dello schermo, anticipata dal rumore di un elicottero, sorvola la città dominandola dall’alto e controllando le conversazioni dei cittadini.

Short Cuts ci conduce all’interno del dispositivo audiovisivo dall’alto, dalla posizione privilegiata di chi può sorvegliare il mondo sonoro del film […] Altman ci invita a prestare attenzione a quello che si dice per sciogliere una matassa narrativa ricostruendo le vicende dei tanti personaggi inquadrati dalla storia a partire dal sonoro e in prima istanza dalla voce, a volte in altre over altre ancora off dell’opinionista televisivo […] La voce entra in ogni casa e il dispositivo audiovisivo coinvolge in maniera totalizzante le nostre orecchie. Si tratta a tutti gli effetti di un dispositivo e di un film panacustico (p. 186).

Risulta evidente il riferimento all’ambiente panottico e panacustico pensato da Jeremy Bentham che sarà alla base degli studi di Michel Foucault sui dispositivi di sorveglianza e sui meccanismi di sapere e potere. Ai dispositivi di controllo visivo vanno aggiunti quelli di ascolto. Non stupisce che il termine “monitor” sia passato dall’iniziale significato di «istruttore e controllore carcerario», a designare un «apparato tecnologico di informazione» e, dunque, sottolinea Iannotta, di «sorveglianza e controllo». Secondo l’autore, l’esperienza cinematografica sarebbe legata «all’esperienza del controllo: non siamo più in grado di percepire il mondo in cui viviamo come un universo dotato di un senso decifrabile ma ci percepiamo (come) percepiti da altri» (p. 188).

Nel cinema contemporaneo non sono pochi i film che ricorrono alla sorveglianza come dispositivo narrativo. Si pensi a film come: Lost Highway (Strade perdute, 1997) di David Lynch; Gattaca (Id., 1997) di Andrew Niccol; Enemy of the State (Nemico pubblico, 1998) di Tony Scott; The Truman Show (Id., 1998) di Peter Weir; Caché (Niente da nascondere, 2005) di Michael Haneke; Paranormal Activity (Id., 2007) di Oren Peli; REC (Id., 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza; Cloverfield (Id., 2008) di Matt Reeves… È «il fantasma dell’ascolto» ad essere sempre al lavoro in questi film, e, sostiene Iannotta, occorre seguire l’invito di Gilles Deleuze circa la necessità di affiancare allo studio foucaultiano delle società disciplinari l’analisi di un «più invasivo e strisciante meccanismo di sorveglianza posto in essere dalle società di controllo», da qui l’invito del filosofo francese a dotarsi di «nuove armi».

In Enemy of the State il fuggiasco viene mappato ininterrottamente oltrepassando qualsiasi barriera e, suggerisce Iannotta, nel film il controllo spaziale continuo ha un equivalente sonoro preciso.

Grazie al pan pot (panoramic potentiometer) è possibile creare l’illusione pressoché perfetta che la fonte sonora fluttui circolarmente nello spazio uditivo. La spazializzazione quadrifonica mette in cortocircuito l’idea che esista un unico e determinato punto di ascolto. Il suono satura lo spazio come se fosse una nube di vapore. È qui che si situa il cambio di paradigma: le teorie oculocentriche, pur nella loro sofisticata varietà, individuavano l’esperienza cinematografica in maniera abbastanza univoca, come se ci si trovasse tutti in un unico grande peep-show, con il senso dell’udito pronto ad ascoltare ciò che viene diffuso dallo stesso luogo della visione in correlazione con l’immagine. Sussiste qualcosa di più di un’analogia tra il punto di vista, che al cinema è per lo più genericamente assimilabile al punto di vista della macchina da presa, e un punto di ascolto, che invece non coincide mai espressamente con la posizione delle orecchie dello spettatore. Chi ascolta quello che noi ascoltiamo? Il suono sembra attribuire delle orecchie virtuali alla macchina da presa rendendola un personaggio dotato di una strana concretezza. Non si sta negando la nozione di punto di ascolto; per quanto la si presupponga necessaria, è solo a partire dalle differenze strutturali più volte ribadite tra suono e immagine che si deve chiarire il concetto di rappresentazione uditiva al cinema (pp. 190-191).

Iannotta presenta un interessante confronto tra due importanti film incentrati sul controllo: The Conversation di Francis Ford Coppola e Die 1000 Augen des Dr. Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960) di Fritz Lang. Nel film di Coppola l’esperto di intercettazioni Harry Caul (Gene Hackman), dopo aver intercettato la conversazione di una coppia in Union Square a San Francisco, si trova catapultato in una situazione da cui non riesce a venire a capo. Il ruolo svolto dalla coppia intercettata da Caul, secondo lo studioso, rimanda ad un’analoga funzione rintracciabile nella coppia al centro del film di Lang.

L’ultimo film del regista tedesco marca una differenza importante tra la fine di una fase che si è detta moderna, con al centro la relazione mediale tra cinema e schermo televisivo, e l’epoca del controllo diffuso di un film come Enemy of the State, sull’asse della relazione mediale tra cinema e computer. Il fantasma di Mabuse, che sapevamo essere morto dal secondo film della trilogia, viene evocato da quello che scopriremo essere il suo nuovo erede, il sedicente visionario cieco Peter Cornelius, alias dottor Jordan (Wolfgang Preiss). La coppia di amanti al centro dell’escamotage diegetico del film è composta dal ricco industriale Henry Travers (Peter van Eyck) e da Marion Ménil (Dawn Addams), donna apparentemente disperata che finge il suicidio nell’albergo dove risiede Travers, con l’obiettivo di irretirlo. Con un carrello all’indietro, scopriamo che i due sono spiati su un monitor. La cabina di regia di chi sorveglia quanto accade nell’albergo possiede più videocamere: da qui i 1000 occhi (e orecchie) del titolo. Mabuse, o chi per lui, può vedere e sentire qualsiasi cosa. Un doppio livello di sorveglianza si impone nel film: quello della storia d’amore (Travers spia Marion da una stanza attigua) e quello di Mabuse. Il miliardario sta partendo con Marion ma nutre ancora qualche sospetto su di lei. Incalzata dalle sue domande, la donna confessa di essere un’agente della banda di Mabuse e di averlo ingannato per sposarlo, impadronirsi della sua ricchezza e soprattutto delle sue ricerche sulla bomba atomica. Ma Marion dice di amarlo davvero e implora di essere creduta. L’albergo, rivela, ha occhi e orecchie che osservano e ascoltano: “Loro vedono e sentono tutto!”. Alle richieste di spiegazioni di Traverse, Marion mostra il luogo dell’ascolto. Eccolo al lavoro il sistema di sorveglianza di Mabuse. Il dispositivo panottico e panacustico presente dovunque nell’albergo nel finale disvela tutta la potenza audiovisiva del suo potere occulto (pp. 192-193).

Il film di Coppola, in cui il protagonista deve ricostruire il significato della conversazione della coppia amanti, «offre anche un efficace discorso sul (cosiddetto) reale e sulla rappresentazione che il medium cinematografico è chiamato a dare». Captando la frase «He’d kill us if he got the chance», Caul viene catapultato all’interno dei problemi della coppia e del committente dell’intercettazione fino a comprendere, sul finale del film, che egli stesso è vittima di intercettazioni, scoprendo, in preda alla paura, di non sapervi, né potervi, porre rimedio.

Nell’epilogo delle narrazione, Caul, rientrato a casa, si dedica al suo hobby prediletto, suonare il sax tenore duettando con un disco jazz, improvvisando le note che si accavallano a quelle dello strumento solista. A rompere il fraseggio è il suono insistente di una telefonata […] Harry, spazientito, abbassa il volume del giradischi, risponde e ripete per due volte «Pronto», senza alcun esito. Dall’altra parte del ricevitore si ode solo il suono muto della linea telefonica. La macchina da presa ferma l’inquadratura per qualche secondo sul primo piano del telefono, mentre Caul si sposta nuovamente sulla sedia e riprende a suonare, rialzando il volume del disco. A quel punto la cinepresa si sposta con un carrello laterale per riprendere Harry nuovamente al centro dell’inquadratura. Dopo pochi secondi il telefono squilla nuovamente. Questa volta Caul è visibilmente in ansia, tanto da non prendersi la briga di abbassare, come aveva fatto prima, il volume del giradischi. Si alza e risponde nuovamente: “Pronto”. Questa volta il suono di un nastro che si riavvolge è immediato: “Noi sappiamo che lei sa tutto, signor Caul. Per il suo bene le consigliamo di non immischiarsi. Noi la sorvegliamo”. La musica del giradischi cessa e Caul si mette al lavoro. Con tutta la perizia tecnica di cui è capace cerca di capire come sia possibile che il miglior spione in circolazione sia stato messo sotto controllo. Con metodica professionalità, fa a pezzi la casa in cui vive. Nulla è lasciato al caso, anche la carta da parati viene rimossa. Senza esito alcuno, però. “Noi la sorvegliamo”. Alla fine, evidentemente senza più speranza, anche se si sente ancora sorvegliato, rimette il disco e ricomincia a suonare, tra le macerie, mentre la cinepresa percorre in lungo e largo la stanza dove si trova. L’ultima scena del film lo ritrae mentre continua a suonare il sax, con una panoramica dall’alto. È il cinema del controllo che lo sovrasta e noi con lui siamo sotto il suo dominio (pp. 193-194).

L’abile intercettatore non trova la microspia forse perché questa si colloca fuori dalla sua portata: il sistema di sorveglianza adottato «è irreperibile e irrimediabilmente sottratto agli occhi di Caul perché è allogato nello stesso dispositivo della macchina cinematografica» (p. 195). A differenza di quanto accade nel film di Lang, qui sembra emergere un «dispositivo vedente e senziente che non si interfaccia né identifica con nessun personaggio del film […] Qui l’identificazione è con la stessa macchina da presa, con un occhio e un orecchio capaci di dominare quanto viene visto e udito nella diegesi […] Il luogo del controllo si è spostato, ha cambiato direzione in maniera impercettibile quanto decisiva muovendosi dallo spazio della storia alla condizione primigenia che ogni storia possa essere raccontata» (p. 195).

La sorveglianza è divenuta la vera protagonista della narrazione filmica. Più il protagonista cerca il dispositivo senza trovarlo, più si sente in balia della sorveglianza e in preda alla paura: «il cinema audiotattile si dispiega come un rizoma difficile da decodificare, dove la minaccia è permanente e si fa allarmante metafora dell’ontologia dell’ascolto. Immersi in questa foschia fibrillante, un compito infine sembra spettare a ciascuno di noi: a ogni spettatore audiotattile la propria cimice da trovare» (p. 196).

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 58)

]]>