The Band – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Portare il peso di una stagione che non tornerà più: Robbie Robertson https://www.carmillaonline.com/2023/08/19/portare-il-peso-di-una-stagione-che-non-tornera-piu-robbie-robertson/ Sat, 19 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78664 di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel [...]]]> di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel cortile sul retro».

Robbie Robertson, scomparso ottantenne a Los Angeles qualche settimana fa, pensava in grande, anche a costo d’irritare Bob Dylan, col quale aveva inciso dischi immortali, e di cui fu complice, insieme al resto della Band, nello scantinato di Big Pink, la leggendaria casa rosa nei boschi intorno a Woodstok, dove furono incisi su registratori di fortuna i Basement Tapes, una miniera di classici song americani, di scherzi musicali mozartiani, di blues semidimenticati, di canzoni nuove di zecca. A lungo segreti, o meglio occulti, i Basement Tapes furono vastamente piratati prima d’essere parzialmente pubblicati, nel 1975, in via ufficiale.

Erano gli anni sessanta e Robertson – come racconta nella sua autobiografia, Testimony, un grande libro sull’America e sulla giovinezza del mondo – era sulla strada dagli ultimi anni cinquanta, quando appena sedicenne era stato reclutato dallo sfrenato «Rompin’» Ronnie Hawkins, leader degli Hawks, «la rock’n’roll band più fica che c’era». Gli Hawks erano una band sudista, puro Arkansas, dove «l’aria sapeva dei pini di Ozark e di cibo fritto», mentre Robertson era canadese, di Toronto, dove alla band capitava spesso di passare, e dove una volta furono tutti arrestati per possesso di marijuana. Madre pellerossa e padre biologico ebreo, un gambler o pokerista di professione morto in un incidente stradale, anche se alcuni pronunciavano la parola «incidente» con aria dubbiosa, Robertson aveva uno «zio Natie» nel traffico dei diamanti rubati e zii, amici e cugini nelle Sei Nazioni: i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga, i Seneca, gli Oneida e i Tuscarora. Ai suoi geni pellerossa avrebbe dedicato parecchi anni dopo Music for the Native Americans. Al sud degli States, dove l’aveva portato la chitarra vibrando come una bacchetta di rabdomante, dedicò The Night They Drove Old Dixie Down, una malinconica ballata del 1969 che Joan Baez portò al primo posto in hit parade e che oggi, con quella sua dichiarata nostalgia per il Generale Lee e per il vecchio sud, finirebbe sul rogo insieme all’Amleto di Shakespeare e ai poster dei film di Harry Potter.

Canadese di nascita e southerner, sudista, per autoproclamazione, Mohawk ed ebreo, Robertson suonava po’ come il verso vivente d’una canzone di Dylan, tipo Mister Tamburino nel «mattino tintinnante» o Mack il Dito e Louis il Re con i loro «quaranta lacci da scarpe rossi bianchi e blu» o come qualunque altro, a piacere, dei tanti Arlecchini e Pierrot etnici e culturali che avrebbero guadagnato, col tempo e le melodie evergreen, un Nobel al loro puparo simbolista.

Robertson scrisse le sue prime canzoni a sedici anni. Hey Boba Lou e Someone Like You, due pezzi indiavolati alla Jerry Lee Lewis, apparvero in un album di Ronnie Hawkins, Dynamo, nel 1960. Solo che al suo nome era affiancato, come coautore e dunque «co-incassatore» delle eventuali royalties, un testa di legno della casa discografica, la Roulette Records, con uffici a Broadway, NYC. Robertson voleva protestare, «ma Ron mi disse: “Figliolo, in questo ambiente ci sono cose che non devi neanche provare a mettere in discussione. Ci sono dei tizi a New York City che non ti conviene far incazzare”». Erano «tempi duri in città», per citare sempre Dylan: «Una frotta di gente ti turbina intorno / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Morris Levy, boss della Roulette Records, quando Robertson entrò nel suo ufficio, lo squadrò per bene e poi, rivolto a Hawkins, ringhiando: «Proprio un bel ragazzino. Se finiamo in carcere non sarebbe male portarlo con noi. Scommetto che sei indeciso se assumerlo o scopartelo». Robertson, «in quel preciso istante», decise «di rinunciare a sollevare una qualunque disputa sulla questione diritti».

C’era una rivoluzione in corso, solo che riguardava quasi esclusivamente la musica, e non ancora la vita quotidiana dei giovani, la loro cultura, i costumi. Elvis Presley era solo in parte un fenomeno culturale. Nessuno si scandalizzò né sacramentò o lanciò lattine di Coca-Cola sul palco quando il Re passò da Nashville a Hollywood, dal rock duro al pop. Non c’era una grande distanza tra lui nel Delinquente del rock’n’roll e Pat Boone in Viaggio al centro della Terra. Ma qualcosa stava cambiando, e stava cambiando in fretta: i Beatles, i movimenti studenteschi in California, la scena radical sempre più estesa. Musica e controculture cominciavano a intrecciarsi strettamente tra loro, e quando a saltare dal folk impegnato e «di protesta» (come si diceva) al rock’n’roll dada-astrattista fu Bob Dylan, zompando da Masters of War e Hard Rain a Like a Rolling Stone e Memphis Blues Again, il pubblico dei concerti insorse. Sul palco, con Bob Dylan, in quei drammatici tour del 1965 e 1966, quando a Dylan davano del «venduto» e del «rinnegato», c’erano anche Robertson e la neonata Band (band e basta, senza nome) che aveva appena divorziato da Ronnie Hawkins.

Quando dal pubblico saliva lo schiamazzo contro la voce raspante di Dylan, contro la chitarra elettrica di Robertson e contro la batteria del grande Levon Helm, l’ex folksinger urlava: «Più forte! Suoniamo più veloci e più forte!» Era il nuovo mondo, un altro pianeta. Scrive Robertson: «Eravamo nel bel mezzo d’una rivoluzione rock’n’roll. O aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi». Avevano ragione (e torto) tutti quanti. Era Il Decennio dell’Io (Castelvecchi 2013), come lo chiamò Tom Wolfe in un fortunato pamphlet di quegli anni, e ciascuno stava dietro alle proprie alienazioni e idiosincrasie. Quanto ai musicisti, più che suonare forte e veloce, vivevano pericolosamente, in molti sensi: «Quando qualcuno cambiava accordatura nel mezzo d’un assolo, io mi sentivo come Doc Holliday che cerca di smaltire la sbornia prima di buttarsi in una sparatoria al fianco di Wyatt Earp».

Ai tempi degli Hawks, solo un paio d’anni prima, «in un sacco di locali, se avevi i capelli lunghi, ti pestavano di brutto o ti sparavano. Frequentavamo un sacco di gangster, e secondo loro se avevi i capelli lunghi eri un finocchio». Adesso «nuove vibrazioni attraversavano il paese: le Pantere Nere, gli Hell’s Angels di Oakland, i poeti Beatnik, e una fiorente scena musicale che combaciava col nostro indirizzo musicale. Un giorno accompagnai Bob alla City Lights, la libreria di Lawrence Ferlinghetti a Frisco. Fummo accolti dai poeti Michael McClure e Allen Ginsberg. Vedere Allen, Michael e Bob chiacchierare con disinvoltura di scrittori e poeti mi fece ripensare agli anni passati con Ronnie, quando anche soltanto parlare di poesia era una buona ragione per essere presi a calci nel culo». Ma ogni Eden ha il suo serpente, come Robertson e la Band, insieme all’intera «scena musicale», avrebbero scoperto presto, quando le droghe cominciarono a dilagare, quando ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia e l’«estate dell’amore» generò la Famiglia Manson e la strage di Bel Air.

Nell’ultima formazione degli Hawks, prima che lui e altri membri del gruppo si separassero da Ronnie Hawkins, rocker vecchio stile in un’America alternata, irriconoscibile, c’erano più canadesi che «native dixieland», per chiamarli così. Tranne Helm, un sudista di sangue puro, tutti gli altri (Robertson, Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko) erano nati oltre frontiera, nella terra delle alci e dei Mounties, le Giubbe Rosse. Quando suonavano a Toronto «amici e parenti accorrevano in massa per vedere i figli della loro terra suonare ai massimi livelli. C’erano gangster e ladri, sarti, truffatori, cuochi e contorsionisti, biscazzieri e giostrai, di tutto». Anche qui, in Canada, i personaggi da vaudeville pulp che s’affaccendavano e spintonavano nei versi di Bob Dylan e della Band avevano preso sostanza, a dimostrazione che non c’era niente d’inventato. Era tutto vero: ogni canzone un fotocolor, il mondo un circo a tre piste.

Poco più che trentenne, ma sulla strada ormai da quattordici anni, Robertson cominciava a sentire la fatica. Idem Helm e gli altri, tutti ormai più o meno persi dietro le droghe, inclusa l’eroina. Pochi concerti, e poco da incidere. Valeva per la Band come per ogni altra band: il decennio dell’Io e del rock era finito, soffocato dalla vanitas e dalla sfiga, che rovesciano invariabilmente ogni utopia nel suo contrario. Di questa breve, brevissima parentesi, dalla stagione cioè di Elvis e di Ronnie Hawkins all’età del Sgt. Pepper e della cultura delle droghe, Robbie Robertson – che la visse da un capo all’altro, scrivendo «along the road» canzoni memorabili: The Weight, Up on Cripple Creek, The Shape I’m In – è stato un grande testimone, e il suo libro forse la migliore (e comunque un’eccezionale) testimonianza umana e letteraria. Presente all’inizio della festa, quando «il rock’n’roll era violento, dinamico, primitivo e creava dipendenza», fu lui a spegnere i riflettori quando la festa gli sembrò finita (ma restavano le dipendenze, e non c’era più, come disse Dylan, «nessuna cazzo di magia»).

Era tempo di sciogliere la Band e di passare ad altro. Fu un evento, celebrato dal primo grande film rock’n’roll, The Last Waltz, diretto da Martin Scorsese, che all’epoca aveva già diretto film memorabili come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York. A celebrare il tramonto della «rivoluzione rock’n’roll» e lo scioglimento della Band c’erano tutti: Neil Young, Joni Mitchell, Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ron Wood, Neil Diamond, Ringo Starr.

Robertson, dopo di allora, incise qualche disco da solista, nessuno particolarmente notevole. Scrisse numerose colonne sonore per Wim Wenders e Barry Levinson, per Oliver Stone, ma soprattutto per Scorsese, col quale collaborò per Toro Scatenato, Casinò, The Wolf of Wall Street, Gangs of New York e numerosi altri film, compreso l’ultimo, Killers of the Flower Moon, presentato quest’anno a Cannes e in uscita nei prossimi mesi. The Band tornò in pista nei primi ottanta senza di lui, e senza che ne uscisse niente di paragonabile ai trionfi dei vecchi tempi.

Di Robertson circola su Internet, qui, un bellissimo video che celebra il cinquantenario di The Weight, una delle più belle canzoni mai registrate. Artisti di tutto il mondo, dal Tibet al Texas, dal Congo al Bahrein, dall’Italia al Giappone, dall’Argentina alla Giamaica, la cantano in coro, ciascuno dalla propria location. Vecchio e divertito, Robbie impugna la sua chitarra, come in giovinezza, e il suo sorriso illumina il mondo, che lui chiamava «la scena musicale».

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 57 https://www.carmillaonline.com/2014/03/13/divine-divane-visioni-cinema-de-papa-0506-57/ Thu, 13 Mar 2014 22:40:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13380 di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005 Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta [...]]]> di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005
Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta distrutti sul pouf di casa (non abbiamo ancora un divano!) e al cinema mai, giusto alcuni Dvd musicali oggetto di recensioni per le mie scorribande editoriali e poco altro. E quando guardavo lo scarno elenco di titoli (il mio computer è pieno di elenchi – nomi, dischi, libri, film, diete, amici, nemici etc. – e, lo so, un Lexotan aiuterebbe) aggiungevo un commento qui, un parere là, una curiosità, e voilà, eccoci daccapo. Come sempre senza ordine, intelligenza e competenza, ma francamente non ci sono mai state e quelle potete cercarle – buona fortuna – in tutti i recensori ufficiali che infestano qualunque pubblicazione. Perché criticare non costa nulla e nessuno vi dice mai cos’ha visto prima e soprattutto cos’ha mangiato quel giorno lì. Ma niente polemiche oziose: come diceva Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue.
Qui c’è posto e, se vi accontentate: prego, dopo di lei.
Dunque: la piccina dormicchia e, dopo un’ottimo primo mese, con le classiche 5 o 6 sveglie notturne, abilmente gestite in decrescita, Barbara e io abbiamo poi aspettato la cosiddetta svolta del 70° giorno, evento mitologico che secondo alcuni pediatri dovrebbe sancire la fine dei pasti della notte. Invano. No. Da noi non è arrivato, ‘sto cazzo di miracolo del 70° giorno. Però, pian pianino siamo venuti a capo della faccenda. Certo, abbiamo le facce come due zombie, specialmente da quando Sofia ha deciso che svegliarsi all’alba e non addormentarsi più sia cosa salutare. Ma finalmente adesso, a 5 mesi di vita, cominciamo a ragionare, con una o due sveglie al buio. E adesso ci guardiamo un film, che va bene le gioie della paternità e tutto il resto, ma c’è vita anche nel cinema. La scelta cade su un prestito che, guarda il caso, è un film per bambini. A visione ultimata, che dire? Come sempre, grande Pixar. Ottimo l’apparato scenografico, divertente la storia, azzeccato il disegno dal tratto spigoloso. Diverse ideuzze che rendono scoppiettante le vicende di una famiglia di super eroi a riposo. Buono, con la scena finale col bimbetto rovente superlativa. Carini gli extra. Sì, lo so: sembra il rapporto di un carabiniere, ma il mio cervelletto, oggi, non può elaborare diversamente e se non vi va potete non firmare il verbale, ok? (Dvd; 18/9/05)

556 – Born to Boogie, e chi no?, di Ringo Starr, UK 1972
1972. I figli della rivoluzione non aspettano altro: un folletto che sappia riprendere in mano la tradizione del rock n’roll di vent’anni prima, quando con Little Richard trionfavano una sensuale ambiguità e un’animalesca glossolalia. Marc Bolan, il ragazzo del ventesimo secolo, aggiunge alla formula un po’ di britishness, potenziando il look con lustrini e trucco. E il rock – dopo anni di troppo impegno che hanno distanziato la mente dal corpo – diventa glam e torna a liberare da lavoro, genitori e morale corrente. Born to Boogie è un rockumentary d’ingenuità commovente: mette in fila diverse esibizioni di Bolan e dei suoi T.Rex e le raccorda con surreali intermezzi felliniani (indovinate un po’: nani e suore). Ma nella sua semplicità, racconta un’epoca attraverso musiche, colori e facce: quelle estasiate del pubblico, quella sognante di Bolan, quella non ancora calcolatrice di Elton John (coi capelli veri) e infine quella del regista: il Beatle minoritario, ma non meno intelligente, Ringo Starr. Ricchissimo di extra (due documentari, due concerti e altri bonus), Born to Boogie è il modo perfetto di riproporre un vecchio film su Dvd: con amore. (Dvd; 1/10/05)

DDV5702 Suspiria557 – L’ansimante Suspiria di Dario Argento, Italia 1977
‘Anvedi! Storia che va subitissimo in vacca (perlomeno ai miei occhi, che sono dei piccolo Rudolph Giuliani a tolleranza zero), attori ultracani, ambientazione in una scenografia scintillante, coloratissima, folle e completamente falsa. Argento ha rivendicato l’ambientazione fiabesca e il film andrebbe visto così: una favola horror, onirica e straniante. Barbara rantolava dopo pochi minuti, a me invece Suspiria ha tutto sommato divertito, perché è un film pazzoide e senza senso alcuno se non il piacere ludico del racconto e della folgorazione visiva (e non è poco) e sto vivendo ancora una sorta di euforia post partum che mi rende imprevedibile anche nei giudizi. Chissà, in altri momenti, davanti a un film così, avrei potuto sparare al televisore. Magari a Miguel Bosé (è nel cast, assieme a Jessica Harper e Stefania Casini, la grande che in Novecento ha stretto contemporaneamente i membri di De Niro e Depardieu). Ah: due settimane fa è morto Franco Scoglio, allenatore cosmico del Genoa, poeta, professore e santone. L’ho intervistato nel 2002 e prima mi ha fatto venire un infarto per telefono, facendomi credere di essersi dimenticato l’appuntamento e di essere all’estero, poi mi ha preso per il culo durante e dopo l’intervista chiamandomi affettuosamente tutto il tempo “testa di cazzo”. “Quanti modi esistono per battere un calcio di rigore, mister?”, gli ho chiesto: “Ventuno… e sono tutti sbagliati”. Era un grandissimo e – come diceva lui – non parlava mai ad minchiam. (Dvd; 17/10/05)

558 – 1-2-3-4! End of the Century: the Story of the Ramones di Michael Gramaglia e Jim Fields, USA 2004
Certe volte il miglior rock nasce da grandi antagonismi: è il caso dei Ramones, quattro misfits affratellati dalla comune refrattarietà a tutto ciò che li circondava. È il 1974 quando, reietti di quel Queens troppo lontano da Manhattan, i Ramones spazzano via i fratelli maggiori capelloni e manierati e gettano i semi di tutto il rock a venire, ispirandosi alle sonorità di Stooges e New York Dolls. Le canzoni tornano a durare un paio di minuti e a colpire duro. Le canta Joey, il nerd per eccellenza, ipersensibile e naif, e le suona su una Mosrite scrostata il dittatoriale e cinico Johnny, mentre l’eroinomane bruciato Dee Dee percuote un basso. Oggi i Ramones originali sono tutti morti, eccetto il batterista Tommy che se n’è tirato fuori per primo garantendosi la vita, ma il suono, quella ruvida attitudine filtrata da un ampli scassato, è destinato ad accompagnarci per sempre, dalle cantine ai palchi di tutto il mondo. End of the Century racconta in maniera spietata e toccante di come dal letame (magari al CBGB) nascano i fiori e quattro asociali, brutti, sporchi e (talvolta) cattivi abbiano saputo scuotere dalle fondamenta e rifondare il rock. Gran film e gran gruppo, perché la musica non è solo musica. Gabba gabba hey! (Dvd; 23/10/05)

DDV5703 Emerson Lake559 – Welcome my friends to Beyond the Beginning di Nick Ryle, UK 2005
Visione divertentissima della storia di uno dei gruppi più tamarri e sboroni della storia del rock, gli Emerson Lake & Palmer. Dovendo intervistare a breve due terzi della band per Rolling Stone ho unito lavoro e colpevoli passioni e faccio un preambolo per chi ignora chi siano questi signori: se sei un perverso o se ami il prog più avventuroso (le due cose non si escludono) gli ELP sono la morte tua: tecnica micidiale e sfrenata teatralità, con in repertorio – tra le altre cose – un congegno che permetteva ad Emerson di performare per aria, legato a uno Steinway rotante, tipo il Corsair del lunapark. Dopo l’uscita della programmatica autobiografia del tastierista, Pictures of an Exhibitionist, dove trovate con autoironia e franchezza sesso, droga e liti della band più fastosa dei Settanta, è arrivato, per l’evidenza visiva, anche il monumentale dvd Beyond the Beginning, con assortite melodie dolcissime, cavalcate strumentali e diversi momenti esilaranti. Come il batterista Palmer che, in un assolo che lo impegna come un polipo, riesce anche a suonare una campana tirandone la corda coi denti. O come il circense Emerson che accoltella il suo organo, lo prende a calci, gomitate e ceffoni e infine lo monta, nel senso che se lo fotte allegramente pur di tirarne fuori suoni inediti. Visto il simpatico prodottino digitale, che mette in fila la biografia della band con interviste abbastanza prevedibili e immagini invece decisamente interessanti, vi relaziono sugli incontri coi suddetti musicisti. Keith Emerson, l’uomo che quando eravamo piccini suonava il pianoforte sulla spiaggia nella sigla di Variety, è al Live Club di Trezzo. Mi presento offrendogli una bottiglia di Fernet Branca, di cui lo so ghiotto. Imbarazzo: lo hanno da poco operato al cuore e rifiuta con fermezza. Cerca di mettermi a mio agio definendosi ipocondriaco ma quest’uomo s’è rotto (suonando il piano) dita, naso e costole e, cadendo dalla moto, s’è pure aperto la testa (“Il mio teschio è bianco!”). Oggi s’è dato una calmata ed è un amabile sessantenne in forma, che compone ancora al piano ma ha l’iPod col quale ascolta jazz dei fifties. Negli ultimi vent’anni l’amore per la musica è andato di pari passo alla disattenzione per gli affari e un recente divorzio lo ha steso finanziariamente. Per cui ha venduto i coltelli della gioventù hitleriana (dono di Lemmy dei Motorhead, allora suo roadie) con cui massacrava il suo Hammond e nei vari traslochi ha perso di vista la mitica giacca d’armadillo o certi costumini sbarluccicanti che lo facevano sembrare un cioccolatino Quality Street. Il punk diede una spallata al prog, e mi fa notare che oggi vive a cinque minuti da Johnny Rotten. Lui in un condominio, Rotten in un villone. Ma i rovesci della vita non gli hanno tolto il piacere dell’improvvisazione e, in un concerto dove ci delizia con un repertorio che spazia dai Nice al ragtime, si toglie lo sfizio di eseguire la Toccata e fuga di Bach al contrario (cioè suonando l’Hammond da dietro). Una settimana dopo, vicino a Como, incontro Carl Palmer. Ha fama di precisino e lo conferma dicendomi tutti i titoli esatti degli album che tiene nel suo iPod (anche lui jazz). Carl non ha mai smesso di suonare e ha cavalcato la nascente MTV con gli Asia. Oggi ammette che per quelli della sua generazione è più difficile di un tempo, ma il passato è passato ed è nella dimensione live che trova ancora la sua realizzazione (“Suonando sono una persona migliore”). È conciliante con chi scarica la musica da Internet, confessa di guardare golosamente un programma tivù domenicale con cori di chiesa e riesce a indignarsi sinceramente per la guerra in Iraq. Poi il concerto: può un batterista fare uno show per appassionati delle pelli e divertire anche gli altri? Può, altroché. Il pub Black Horse ospita buona musica rock mentre ti servono fantastici burritos e altre ghiottonerie da vecchio West. È stipato di fanatici che studiano religiosamente la batteria ancora silente di Carl o le chitarre in parata dell’axeman italiano per eccellenza, Andrea Braido (c’è chi sostiene che abbia un dito scarnificato, per ottenere sonorità inedite toccando le corde; non verifico). Quando lo show comincia è un’epifania di tecnica: ci sono i classici degli ELP e assortite acrobazie chitarristiche ma anche un appassionante assolo di batteria, cosa che mai avrei detto. E che fine ha fatto il saccarinoso Greg Lake? Prima o poi becco anche lui, promesso. (Dvd; 7/11/05)

DDV5704 Grateful Dead560 – The Grateful Dead Movie, uno sballo di Jerry Garcia, USA 1977
Utopia hippy, ritorno alla natura, recupero delle forme musicali tradizionali, l’idea di una famiglia che non sia vincolata dal sangue, uso liberale di sostanze per permettere alla mente e al corpo (e alla musica) di spaziare… Questo e altro erano i Grateful Dead, band e concetto che potevano nascere solo nella California degli anni Sessanta e prosperare nell’America prima illusa e poi presa per il naso, dagli anni Settanta fino ai Novanta. Prevedendo uno iato nell’attività concertistica, nel 1974 Garcia decise: giriamo un film. Una troupe in acido agli ordini di Leon Gast (il genio di Quando eravamo re, documentario sullo storico match in Zaire tra Muhammed Ali e Gorge Foreman), riprese i concerti tenuti al Winterland di San Francisco e, dopo tre anni di lavoro per il montaggio, nelle sale arrivò The Grateful Dead Movie. Oggi, recuperato dagli archivi, è il Graal dei Deadhead, il colorato pubblico dei fan dei Grateful che hanno continuato a seguire religiosamente i concerti del gruppo fino alla morte del buon Jerry, nel 1995. Lungo come solo certe jam chitarristiche del leader, piacevolmente datato, è la messa in scena dell’ultimo sballo collettivo, già nostalgico e fuori tempo. All’epoca se lo filarono in pochi, oggi è la dimostrazione che quando uno è un’artista, può creare un universo immaginifico con una chitarra ma anche montando una pellicola. Cosa sono 5 ore di tempo di fronte alla vostra vita? Vi aspettano film, musica celestiale e bonus in abbondanza, da vedersi magari con un’innocente paglia in mano: Garcia vi benedirà col suo sorriso bonario dall’alto dei cieli. (Dvd; 21/11/05)

561 – L’emozione fredda di Mad Dog and Glory di John McNaughton, USA 1993
Commedia strana, algida e inaspettata, conosciuta in Italia col titolo da strapazzo Lo sbirro, il boss e la bionda (complimenti vivissimi ai distributori nostrani), è frutto del regista dell’osannato Henry pioggia di sangue, film che anni addietro mi ha fatto cagare a sifone. Un boss mafioso (De Niro, prigioniero della parte) vuole sdebitarsi con un fotografo della polizia (Bill Murray) e gli regala una settimana con Glory, cameriera in debito (Uma Thurman). I due si innamorano, complicazioni. Ne esce una storia carina a tratti, però trattenuta, ed è più l’incertezza del piacere, come se non decollasse mai e dove molte volte mi chiedo: ma dovevo ridere, qui? Boh: gode di statura di film di culto, ma praticamente tutti i film dove ha recitato Bill Murray lo sono e io non faccio parte del fandom. Per cui, niente, non lo consiglio granché. (Dvd; 6/12/05)

DDV5705 Weather Underground562 – The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel, USA 2003
Anche gli americani hanno avuto i loro “terroristi”. Il ritratto è impietoso e per fortuna poco corretto politicamente: una banda di sfigati in fuga perenne, idealisti fino all’autolesionismo, ignoranti come delle capre, cui però, in qualche maniera, non puoi che voler bene. Il racconto è chiosato da storici destrorsi che non risparmiano stilettate e noi europei rimaniamo interdetti: una cosa grave come la lotta armata non può essere gestita da degli hippie frustrati. Però questi sapevano bene chi e cosa colpire: non gli uomini ma i simulacri del potere, i palazzi e le banche. Una lotta velleitaria, confusa, ma sincera. La fine ingloriosa e l’infinitesimale incidenza sull’opinione pubblica sono riscattati dall’umanità di questi non tanto beautiful losers e dalla compassione che suscitano per una scelta apparentemente suicida ma in realtà altissima perché veramente ideale e non calcolata. Il film è molto stimolante (anche se sinceramente sopravvalutato) e io e Barbara abbiamo avuto un tuffo al cuore quando abbiamo visto dove sono nati i Weathermen: al motel Capri di San Francisco dove eravamo finiti tra le bestemmie una notte dell’agosto 2002, dopo aver cercato per una giornata intera una camera nella Napa Valley. (Dvd; 9/12/05)

DDV5706 Festival Express563 – Si parteeee! Festival Express di Bob Smeaton, USA 1994
Chi era particolarmente ricco, un tempo, il tour se lo faceva in aereo (vedi il faraonico Starship One usato da Led Zepp e compagnia cantante). Se no c’era il buon vecchio pullman, con centinaia di musicisti dimenticati in aree di servizio mentre pisciavano o indulgevano in altre attività ricreative. Finché a qualcuno non venne un’idea folle: la tournée, stavolta, facciamola in treno! Siamo nel 1970 e a bordo zompano Janis Joplin, Grateful Dead, the Band, Buddy Guy e altri hobos affamati di avventure. Le fermate sono ai festival di Toronto, Winnipeg e Calgary, in Canada. Ovviamente il pubblico hippie vuole assistere gratis ai concerti: casini a non finire, discussioni tra artisti e management e poi, ogni sera, il miracolo di performance elettrizzanti. Janis strapazza il blues, i Dead sono nel periodo campestre, la Band sprigiona insospettabile energia, Buddy Guy sembra connesso all’amplificatore… Dal treno era difficile scendere e i musicisti si dedicarono anima e corpo ad alcol, droghe assortite e jam straordinarie. E i pochi che dormivano, si persero decisamente qualcosa. Nessuno sperava che esistessero immagini di questa allegrissima follia, finché dagli archivi, nel 1994, non son saltate fuori delle bobine sospette. Bob Smeaton (già compilatore del monumentale ed essenziale The Beatles Anthology) s’è messo al lavoro e oggi possiamo staccare anche noi il biglietto del Festival Express per viaggiare a fianco della compagnia di sballoni. Rigorosamente in inglese, con tante bonus tracks: una pacchia per chi ama le buone vibrazioni, una scoperta per chi non sa da dove veniamo. E quando Janis si scortica la gola, io ho pianto, giuro. All aboard! (Dvd; 10/12/05)

DDV5707 Parenti serpenti564 – Parenti serpenti di Mario Monicelli, Italia 1992
Visto a Natale, giustamente in famiglia, a Genova. Buona partenza che promette tantissimo, ma poi il film non mantiene e diventa presto una rottura di palle. Sarà pure cattivo (e lo è fino in fondo, senza assoluzioni di comodo, ed è il grande pregio del film), ma serve ritmo, cari. Monicelli dispensa il consueto cinismo, ma ne risente anche il film, piagato da sciattezza visiva e con troppe vignette che sfociano nella macchietta (il cast non è eccezionale, purtroppo). Una riunione di famiglia vede diversi nuclei riunirsi a Sulmona intorno agli anziani genitori, che annunciano che poi qualcuno se li dovrà prendere a carico. Finale col botto, coerentemente maligno, dopo aver descritto un’Italietta meschina attaccata a denaro, ignoranza e tornaconto. Mah. Rivisto, mi ha deluso molto: si affloscia nella seconda parte, senza verve, al risparmio. Oh, lo vedi, perché Monicelli è mica un fesso, però è più il dispiacere per lo spreco che la felicità per quel che vale. (Diretta La7; 26/12/05)

565 – Un soffio al cuore di natura elettrica di Pietro Maria Tirabassi e Riccardo Sgalambro, Italia 2005
Il titolo riesce a dire tutto: trattasi di dvd-concerto allegato all’ultimo live di Franco Battiato, notevole sia per la qualità della performance (rarefatta ma molto rock) che per la soluzione produttiva, con l’alta definizione che permette una regia minimale e inventiva e una troupe ridotta all’osso. E Francuzzo beddo nostro è sempre grandissimo. (Dvd; 28/12/05)

DDV5708 Five Easy Pieces566 – Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, USA 1970
Storico titolo che racconta dell’insofferenza di Bobby (Jack Nicholson) verso la famiglia e la società. Un inno alla libertà (anche se quando è così “individuale” vedo anche dell’egoismo, ma non sto a sottilizzare), un po’ datato ma ancora valido, con almeno una scena stracult, quando Nicholson parla col padre malato che però ormai non capisce più una mazza. Vedendolo non posso non pensare alla parodia di Riccardo Pangallo (Lo spezzone) in onda su RaiTre a Va Pensiero quasi vent’anni fa. Film pensoso-anni Settanta, Cinque pezzi facili non è facile per niente, ma è libero e sincero e comunque godibile, forse più per i significati che gli attribuiamo che per quello che realmente dice. Ma sto anche diventando cinico, per cui poco attendibile. Il finale con Jack Nicholson che abbandona in una stazione di servizio l’insopportabile (e mostruosa) Karen Black è impagabile. Bello. (Diretta Sky; 29/12/05)

567 – L’inaspettato Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Italia 2005
Beh, non male. Figlio dodicenne di ricconi bresciani in crociera viene recuperato e portato a terra da dei migranti. Tornato a vivere coi suoi, decide di dare una possibilità a chi lo ha salvato, con conseguenze non pienamente prevedibili. Ovviamente – siccome si parla di immigrazione clandestina – il film non se l’è cagato quasi nessuno perché al posto della meglio gioventù qui si parla della peggio adultità e ci sono molte facce scure. Però m’è sembrato un film civile senza essere edificante, schematico com’è sempre Giordana, ma coraggioso, non facilmente consolatorio e con un elemento fantastico, fiabesco, che illude e (forse) affranca dalle sofferenze terrene. (Dvd; 30/12/05)

DDV5709 Viva Zapatero568 – Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, Italia 2004
Film decisamente interessante, anche se non so fino a che punto riuscito, per un argomento molto difficile da toccare senza essere frainteso. Servirebbero più pagine per un’opera che è volutamente provocatoria, scostante, ambigua, personalistica, maligna e paracula al tempo stesso, e affronta il caso di censura subito dall’autrice col suo programma televisivo Raiot, occasione per allargare il discorso anche allo stato della libertà dell’informazione nel nostro paese. Ma non ho né competenza dialettica né voglia: la Guzzanti – autenticamente geniale sinché l’ormone non le oscura il lobo frontale – non mi merita, neanche se avessi cose intelligenti da dire. (Dvd; 2/1/06)

569 – Il pippatissimo Scarface di Brian De Palma, USA 1983
Drogato, urlato ed esageratamente divertente, gli anni Ottanta su pellicola, con godibile ambiguità. (Dvd; 6/1/06)

570 – L’ubriacante Mondovino di Joseph Nossiter, Francia 2004
Il business del vino, tra produzione industriale, standardizzazione del gusto e resistenze locali. Cinematograficamente non vale molto: ripetitivo, girato veramente col culo e organizzato male. Ma il tema è spumeggiante e la galleria di personaggi molto curiosa (e in taluni casi inquietante). Per cui alla fine me lo sono scaraffato e ingollato con soddisfazione. Sa un po’ di tappo, con sentori di sottobosco e letame, ma il retrogusto è singolare e – oh, siamo tutti antiamericani o sono loro un po’ birichini? – alla fine hai la conferma che il Capitale distrugge tutto, anche una bevanda antica come il vino. (Dvd; 17/1/06)

DDV5710 negrita571 – Viaggio Stereo di Gianni Russo, Italia 2003
I miei amati Negrita, in un live in qualche modo amaro (di lì a poco il batterista originale avrebbe mollato il colpo) e con un repertorio che pesca nell’ultimo album (Radio Zombie), interlocutorio. I concerti hanno perso progressivamente l’improvvisazione e l’estensione dei pezzi, cosa che negli anni passati mi faceva godere di bestia, ma c’è sempre un bell’approccio ruvido. In un’intervista che gli feci a fine 1998 mi ero fatto promettere solennemente che non avrebbero mai abbandonato il funky rock degli esordi. Evidentemente si cresce e si cambia. E la colpa, è chiaro, è mia che voglio tornare ai miei vent’anni (quando però avevo ragione quasi su tutto). Siccome i cinque della band non fanno proclami politici di bassa lega, non pubblicano inascoltabili dischi finto-impegnati e non offrono golosi spunti per il gossip, non sono i beniamini della stampa specializzata e/o militante né hanno mai raggiunto un successo di massa da stadio. Meglio così: lascio gli altri a ubriacarsi di Negramaro novello o a calarsi qualche merda afterhours: io preferisco sempre il mio Chianti dei colli aretini, ormai vecchio di dieci anni e sempre gagliardo. (Dvd; 17/1/06)

572 – Il folgorante Che idea nascere di marzo di Osvaldo Verri, Italia 2005
Un collega adorabile, uno che qualunque cosa sia accaduta negli anni Settanta, lui c’era (ed era probabilmente colpevole!), ha girato questo straordinario corto sulla morte di Fausto e Iaio – diciottenni del Leoncavallo assassinati nel marzo 1978 –, difficile ma, nella pur breve durata, pieno di tuffi al cuore e di speranza. Come Ma chi ha detto chi non c’è sui titoli di coda. E bravo Osvi! (Dvd; 22/1/06)

573 – Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, Giappone 1953
Come certi vini: fermo, completamente. Ma invecchiato benissimo e di pronta beva. Viaggio a Tokyo è splendido: un’emozione antica che ho delibato con commozione. (Oh, dopo aver visto Mondovino non riesco più a evitare paragoni enologici!). (Vhs da RaiTre; 28/1/06)

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(Continua – 57)

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