Terzo mondo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 17 Apr 2025 20:00:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un momento nell’eternità. Ricordo di Lawrence Ferlinghetti (1919 – 2021) https://www.carmillaonline.com/2021/03/12/un-momento-nelleternita-ricordo-di-lawrence-ferlinghetti-1919-2021/ Fri, 12 Mar 2021 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65148 di Sandro Moiso

Il 22 febbraio Lawrence Ferlinghetti, l’ultimo esponente della beat generation, ha abbandonato il nostro pianeta. Scopritore di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e tanti altri, è morto all’età di quasi 102 anni nella sua casa di San Francisco, la stessa città in cui aveva fondato la sua celebre libreria e casa editrice nel 1953: City Lights (Luci della città). Aveva visto giusto quando, ascoltandolo recitare Howl (Urlo), aveva chiesto ad Allen Ginsberg il testo per pubblicarlo; cosa che gli sarebbe costata un arresto e un processo per pubblicazione oscena nel 1956. Accusa da cui [...]]]> di Sandro Moiso

Il 22 febbraio Lawrence Ferlinghetti, l’ultimo esponente della beat generation, ha abbandonato il nostro pianeta.
Scopritore di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e tanti altri, è morto all’età di quasi 102 anni nella sua casa di San Francisco, la stessa città in cui aveva fondato la sua celebre libreria e casa editrice nel 1953: City Lights (Luci della città).
Aveva visto giusto quando, ascoltandolo recitare Howl (Urlo), aveva chiesto ad Allen Ginsberg il testo per pubblicarlo; cosa che gli sarebbe costata un arresto e un processo per pubblicazione oscena nel 1956. Accusa da cui fu assolto difendendosi da solo davanti al giudice che gli riconobbe libertà di parola e di stampa.

Raccontare la sua vita e la sua opera, dalla sua nascita a New York il 24 marzo 1919, in una famiglia in cui il padre, di origini bresciane, era morto poco prima della sua nascita e la madre era stata ricoverata in manicomio poco dopo il parto per uscirne soltanto dopo sei anni, sarebbe cosa lunghissima (e sicuramente appassionante), ma si preferisce ricordarlo qui con due poesie poco conosciute, scritte all’inizio di questo terzo millennio e pubblicate in Italia da una piccolo, ma eccellente editore bresciano1.

Storia dell’aeroplano
[Sulla musica dell’Inno Nazionale degli U.S.A. eseguito a metà della velocità normale]

E i fratelli Wright avevano detto che pensavano di avere inventato
una cosa che poteva portare la pace sulla terra
(se i fratelli sbagliati non ci avessero messo sopra le mani)
quando la loro meravigliosa macchina volante era decollata a Kitty Hawk
nel regno degli uccelli ma il parlamento degli uccelli era andato fuori di testa
per via di questo uccello fatto dall’uomo e fuggì in paradiso.

E poi il famoso Spirit of Saint Louis decollò verso est
attraversò in volo il Grande Stagno con Lindy alla cloche sotto il casco
di cuoio e con gli occhialini che sperava di avvistare le colombe della pace (e invece no)

Anche se volò intorno a Versailles

E poi il famoso Yankee Clipper decollò in direzione
opposta e attraversò in volo il terrifico Pacifico ma le pacifiche colombe
vennero spaventate da questo arcano uccello anfibio e si nascosero nel cielo d’oriente

E poi la famosa Fortezza Volante decollò irta di mitraglie
e testosterone per rendere sicuro il mondo per la pace e il capitalismo
e gli uccelli della pace non si riuscirono a trovare da nessuna parte prima o dopo Hiroshima

E così poi gli uomini geniali costruirono macchine volanti più grandi e più veloci e
questi grandi uccelli artificiali con le piume a reazione volarono più in alto di qualsiasi
uccello vero e sembrò che volassero dentro al sole e gli si sciogliessero le ali
e come Icaro si schiantassero al suolo

E i fratelli Wright erano dimenticati da un bel pezzo in quei bombardieri
d’alta quota che adesso cominciavano a infliggere le loro benedizioni su diversi Terzi
Mondi ma sempre dichiarando ai quattro venti che cercavano le colombe
della pace

E continuarono a volare e volare finché volarono dritti nel 21°
secolo e un bel giorno un Terzo Mondo si rivoltò e
sequestrò i grandi aerei e li fece volare dritti nel cuore
pulsante dell’America-Grattacielo dove non c’erano voliere né
parlamenti di colombe e in un lampo accecante l’America divenne parte
della terra bruciata del mondo

E un vento di cenere soffia sulla nazione
E per un lungo momento nell’eternità
c’è caos e disperazione

E voci e amori e pianti
e sussurri sepolti
riempiono l’aria ovunque

I denti del drago

Un uomo senza testa corre
per la strada
Ha in mano
la sua testa
Una donna lo rincorre
Ha in mano
il cuore di lui
Le bombe continuano a cadere
seminando odio
E loro continuano a correre
per le strade
Non le stesse due persone
ma migliaia d’altri & fratelli
Corrono tutti in fuga
dalle bombe che continuano a cadere
seminando odio distillato

E per ogni bomba sganciata
germogliano mille Bin Laden
mille nuovi terroristi
Come denti di drago seminati
dai quali germogliarono guerrieri armati
assetati di sangue

E le bombe intelligenti che seminano odio
continuano a cadere a cadere a cadere


  1. Lawrence Ferlinghetti, STORIA DELL’AEROPLANO e altre poesie scritte dopo l’11 settembre, a cura di Damiano Albeni, Edizioni l’Obliquo, Brescia 2008  

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Contro l’unilaterale racconto della modernità https://www.carmillaonline.com/2018/09/27/contro-lunilaterale-racconto-della-modernita/ Wed, 26 Sep 2018 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48746 di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo e dei rapporti di produzione/sopraffazione di stampo occidentale.

La figura e l’azione dell’intellettuale originario della Martinica hanno infatti influenzato non soltanto i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa e di quello che un tempo veniva definito, con un termine che derivava ancora da uno schema classificatorio figlio della concezione di progresso tipica dell’Occidente conquistatore, Terzo Mondo e dei suoi leader . Non solo ha influenzato Che Guevara e il Black Panther Party, ma anche, guardando con più attenzione, l’opera successiva di Michel Foucault oppure il radicalismo di una intellettuale e militante come Houria Bouteldja (qui).

Le sue opere principali,1 scritte sostanzialmente nel decennio 1951- 1961 e pubblicate in gran parte dopo la sua morte per leucemia, sono ancora di grandissima attualità e utilità, soprattutto per chi voglia adoperare e applicare nelle proprie ricerche il concetto di post-moderno così come è stato definito da Jean-François Lyotard.

Se infatti appare sempre più evidente come le grandi narrazioni globali prodotte dall’Illuminismo, dal Positivismo e da un troppo male inteso Marxismo, che Karl Marx per primo avrebbe rigettato, siano sempre meno adeguate per spiegare e ricostruire le vicende che hanno portato agli attuali rapporti di potere e dominazione tra classi sociali, generi e nazioni e se è sempre più evidente come il concetto di razza e nazione siano sempre più fragili di fronte alla reale esperienza storica e alle più moderne ricerche e conferme della genetica,2 l’opera di Fanon può ancora costituire non soltanto una guida per la ricerca e per l’azione, ma anche un autentico grimaldello per scardinare troppo facili certezze e assunti che finiscono spesso per l’inquinare ancora la riflessione e il pensiero politico di un malinteso antagonismo ancora influenzato dalle teorie tardo ottocentesche. Di fatto dal liberalismo e dal razionalismo positivista di stampo borghese ed eurocentrico.

E’ per questo motivo che l’opera di Sandro Luce, pubblicato da Meltemi in una collana, Linee, che da tempo presta particolare attenzione alle ricerche prodotte dai Postcolonial Studies e da quelle degli studiosi dei Subaltern Studies, è interessante, utile e necessaria.
L’autore, dottore di ricerca presso l’Università di Salerno e autore di un saggio su Michel Foucault3 e di numerosi altri pubblicati su riviste e volumi collettanei, nella prima parte del testo sottopone il pensiero di Fanon alla “prova della modernità” mentre nella seconda analizza la sua influenza sugli studi postcoloniali aprendo una sorta di serrato confronto tra gli autori di questa corrente e le principali intuizioni e formulazioni dello stesso, in particolare sui temi dell’idea di nazione e di cultura, dell’anticolonialismo e degli intrecci tra corpi, psiche e dominio coloniale.

Quest’ultimo punto si rivela particolarmente significativo, considerato che il “vissuto”, individuale e collettivo, assume nella riflessione fanoniana una centralità decisiva. Da qui

i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio dei saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.
Fanon mette in campo una vera e propria “fenomenologia del corpo” che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva.4

Ma Fanon apre anche la riflessione su come la violenza sui corpi si accompagni ad una forse ancora più pericolosa: quella esercitata sulle culture “altre” attraverso un’assimilazione al canone europeo «per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta». Motivo per cui la lingua, il velo delle donne, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa possono diventare strumenti di rivendicazione culturale, utili a diffondere il verbo rivoluzionario proprio rovesciando e mostrando la reale funzione degli assunti di un’unilaterale narrazione della modernità, bianca e occidentale.

«Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano».5 Allo stesso tempo

l’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito.6

Questo aspetto, naturalmente, finisce col riguardare la definizione del concetto di Nazione, che rischia, una volta assunto un canone identitario “stretto”, di assumere i connotati in esso infusi dal canone europeo, con tutte le conseguenze inerenti la repressione delle minoranze o di coloro con non appartengono alle etnie o alle classi dominanti una volta raggiunta la liberazione dall’assoggettamento coloniale. Contribuendo così a diffonderne, ancora ed ancora, le sue velenose radici. Tema particolarmente importanti all’interno degli studi postcoloniali e motivo per il quale, secondo Luce:

Solo attraverso un’operazione di ‘provincializzazione’ del lessico politico-giuridico della modernità occidentale e della sua attitudine generalizzata e formalizzante, dietro le quali si nascondono inevitabili forme di gerarchizzazione ed esclusione, sarà possibile provare ad immaginare quelle […] ‘sfere pubbliche diasporiche’, crogiuoli di un ordine politico post e trans-nazionale nel quale le soggettivazioni politiche saranno l’esito, mai definitivo, di rivendicazioni e di antagonismi che nascono dalla relazione tra elementi eterogenei e da un’attività di immaginazione, che sia capace di “strappare il velo del reale” e trasformarsi in impulso per l’azione.7

A questo punto però, anche se il testo di Sandro Luce non si addentra in questo discorso, sarebbe d’uopo sottolineare che i Postcolonial Studies e le formulazioni di Fanon potrebbero costituire sicuramente anche un ottimo punto di partenza per ripercorrere la storia dello stesso Occidente e della stessa Europa in cui una mai abbastanza discussa unità culturale e cristiana nasconde, in realtà, un lungo processo di sradicamento e repressione di tutte le forme comunitarie, di tutte le culture e di tutti i modi di produzione che hanno preceduto l’avvento prima della società mercantile e del suo dominio formale e, successivamente, di quella capitalistica, industriale e finanziaria, e del suo dominio totale sulle genti, le culture e l’immaginario, Una battaglia durata secoli, iniziata molto prima dell’avvento della rivoluzione industriale e spesso liquidata troppo facilmente a ‘sinistra’ con la riduttiva formula dell’“accumulazione originaria”.

In cui il moderno concetto di nazione «colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita in linguaggio della metafora.»8 Linguaggio in cui l’idea dello Stato-nazione ha costituito la metafora più potente, per cui la violenza esercitata sui corpi e sul corpo sociale nel suo insieme ha finito col sostituire la sacralità del corpo e dei corpi (compresi quelli dei re e dei santi) con il corpo sacro e intangibile dello Stato nazionale.

In questo modo l’individuo europeo potrebbe scoprire di aver vissuto con molto anticipo i drammi vissuti successivamente dai popoli colonizzati e dati per scontati come conseguenza dell’”inevitabile” progresso e della modernità e ritrovarsi così davanti alla necessità di strapparsi anch’egli dal volto la “maschera bianca” impostagli ormai da lungo tempo. Cancellando così in un sol colpo le panzane di cui si nutrono non solo i sovranismi e i nazionalismi, ma anche i socialismi e le democrazie nazionali e contribuendo alla riscrittura di un discorso di lotte che, una volta liberato anche dagli identarismi partitici non solo parlamentari, possa realmente aprirsi ad una maggiore integrazione tra comunità, generi, etnie, culture accomunate dalla volontà/necessità di opporsi all’oppressione politica, economica e culturale odierna.
Superando in questo modo anche l’annosa questione del “soggetto rivoluzionario” per riscoprire i ‘soggetti’. In ogni angolo del mondo.
Pensiamoci.


  1. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962; F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015 e tutti gli altri scritti raccolti sia nelle opere selezionate curate da Giovanni Pirelli e raccolte in Fanon, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino 1971, che negli Scritti politici volume I. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006 e Scritti politici volume II. L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma 2007  

  2. Occorre a questo proposito qui ricordare la figura di Luigi Luca Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che con la sua ricerca sul genoma umano ha sicuramente contribuito a demolire definitivamente il concetto di “razza”, così come il colonialismo e l’imperialismo occidentali avevano contribuito a creare a partire dalla seconda metà del XVIII secolo proprio allo scopo di creare una separazione netta e un muro invalicabile tra dominatori e dominati, tra popoli bianche a popoli altri secondo una linea del colore assolutamente insignificante in Natura. Si consiglia a questo proposito la lettura o la consultazione di L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996 sintesi del ben più ampio L.L. Cavalli Sforza, A. Piazza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997  

  3. S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009  

  4. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 9-10  

  5. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p.10  

  6. Ivi, p. 11  

  7. Ivi, pp. 186-187  

  8. H.K. Bhabha, I luoghi della cultura in H.K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 196 cit. in S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p. 180  

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Oscar Arnulfo Romero: un martire civile / prima parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/15/oscar-arnulfo-romero-un-martire-civile-parte/ Mon, 14 Aug 2017 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39106 di Paolo Bruschi

Oggi, 15 agosto 2017, cade il centenario della nascita dell’Arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, ucciso a San Salvador il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte. Ai suoi concittadini aveva promesso: “Se sarò ucciso, risorgerò nel mio popolo”.

Il National Security Archive (Nsa1 ) è un ente non governativo che negli Stati Uniti si occupa di pubblicare documenti politici desecretati, inclusi quelli della Cia e dell’Fbi. Uno di questi atti, declassificato nel 1992, è [...]]]> di Paolo Bruschi

Oggi, 15 agosto 2017, cade il centenario della nascita dell’Arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, ucciso a San Salvador il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte. Ai suoi concittadini aveva promesso: “Se sarò ucciso, risorgerò nel mio popolo”.

Il National Security Archive (Nsa1 ) è un ente non governativo che negli Stati Uniti si occupa di pubblicare documenti politici desecretati, inclusi quelli della Cia e dell’Fbi.
Uno di questi atti, declassificato nel 1992, è un telegramma ricevuto dal Dipartimento di Stato, datato 21 dicembre 1981, proveniente dalla propria ambasciata in El Salvador. Il titolo recita “Assassinio dell’arcivescovo Romero” e si tratta di una delazione fatta da un membro dei servizi segreti salvadoregni a un pari ruolo americano: “L’omicidio di monsignor Romero fu pianificato in una riunione presieduta dal maggiore Roberto D’Aubuisson. Durante l’incontro venne estratto a sorte, tra alcuni partecipanti, il privilegiato che avrebbe ammazzato l’arcivescovo.”

Roberto D’Aubuisson Arrieta, classe 1943, era uno dei tanti militari salvadoregni che, dopo essersi diplomato nell’accademia del suo Paese, a partire dal 1965 studiò alla School of the Americas (Soa2 ). Uno dei tanti, ma probabilmente un prediletto e un predestinato, se è vero che fu istruito a Washington, Fort Gulick (Panama) e Taiwan, e tornato in patria fece una rapida carriera all’interno dell’Ansesal (Agencia Nacional de Seguridad Salvadoreña – i servizi segreti salvadoregni), di cui negli anni settanta divenne capo.

La School of the Americas è un collegio militare nato nel 1946 a Panama per volere del Dipartimento di Stato Usa, trasferitosi poi a Fort Benning, in Georgia, nel 1984.
Questa strana istituzione possiede almeno un paio di caratteristiche distintive: la prima è che non addestra (salvo rarissime eccezioni) soldati statunitensi, ma soltanto ufficiali stranieri appartenenti a forze armate e di polizia latinoamericane. Molti allievi, al termine della preparazione, vengono iscritti direttamente sul libro paga della Cia.

La seconda si deduce dagli atti delle commissioni d’inchiesta nazionali e internazionali istituite in diversi Paesi dopo le relative dittature e stragi del secondo dopoguerra, e dai processi conclusi o in corso: sono milioni le denunce, sporte soprattutto attraverso la mediazione di organizzazioni per i diritti umani, in relazione a cittadini torturati, violentati, assassinati, fatti sparire o costretti all’esilio come risultato delle azioni compiute da ufficiali formati alla Soa.

Da queste fonti emerge con chiarezza come l’istituzione sia stata, e in qualche modo sia ancora oggi, una scuola di coercizione, dittatura e terrorismo: uno degli strumenti più potenti utilizzati dagli Usa per garantirsi una duratura ingerenza politica ed economica in America Latina.

Nel 1996 l’Nsa portò alla luce alcuni manuali in uso alla Cia e all’esercito all’interno del collegio. In quei testi si giustificava l’opportunità dell’estorsione mediante tortura e addirittura delle esecuzioni extragiudiziali (omicidi arbitrari, per essere chiari). Il fatto è ben noto allo stesso Congresso americano: ormai da diversi anni, molti deputati si battono perché la Soa chiuda i battenti, non esitando a definirla una vergogna nazionale.

Durante la sua attività, la School of the Americas ha addestrato circa 65.000 militari latinoamericani a tattiche di comando e tecniche di combattimento, compresa la guerriglia urbana e la guerra psicologica. Dal Messico, scendendo per tutto il continente fino a Capo Horn, non esiste nessun governo che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi non abbia usufruito di professionisti formati da tal collegio. E non si tratta di soldati semplici, ma di ufficiali e generali che hanno ricoperto ruoli chiave nelle rispettive forze armate, forze di polizia, unità speciali e sevizi segreti, compresi dittatori e capi di Stato. Solo per citare alcuni di questi ultimi: Rioss Mont in Guatemala, Leopoldo Galtieri e Roberto Eduardo Viola in Argentina, Hugo Banzer Suárez in Bolivia, Juan Velasco Alvarado in Perù, Guillermo Rodriguez in Ecuador. Tutti presidenti golpisti dei loro relativi Paesi, protagonisti di dittature talvolta spietate e delitti accertati.

La Commissione per la Verità, istituita dall’Onu nel corso degli accordi di pace avuti luogo dopo la guerra civile in El Salvador (1980-1992), ha stabilito che due terzi dei militari coinvolti nei crimini perpetrati durante il conflitto fratricida fossero usciti dalla Soa. Il piccolissimo Stato centroamericano, nonostante le dimensioni e il trascurabile ruolo geopolitico, risulta incredibilmente secondo, dopo la Colombia, nella classifica degli ufficiali formati dal collegio (quasi 7.000).

Per il governo di Washington, giustificare tale ingerenza e tale prassi della violenza è sempre passato da un’unica, confortevole argomentazione: la lotta al comunismo, la cosiddetta politica del containment. Una spiegazione ritrita e ormai non più plausibile.

Gli Stati Uniti uscirono dal secondo conflitto mondiale in una condizione assai privilegiata: oltre alle immense aree di influenza stabilite a tavolino a partire da Yalta, gli Usa da soli esprimevano circa la metà della ricchezza del pianeta, mentre tutte le altre maggiori nazioni, sia vincitori che vinti, avevano subito distruzioni dei loro apparati produttivi talvolta esiziali.

Già durante il conflitto, analisti politici ed economici americani misero le mani avanti, cercando di progettare il mondo del dopoguerra e pensandolo in funzione del mantenimento dei loro interessi. Nel nuovo organigramma ogni contesto geopolitico avrebbe dovuto assumere un ruolo e un compito specifico. Non stiamo parlando di chiacchiere o ricostruzioni fantasiose, ma di studi, circolari e memorandum espressi in particolare dal Dipartimento di Stato, messi nero su bianco e assai articolati: e puntualmente, fatta la giusta sintesi, portati a compimento.

Da quei documenti si evince come il destino pensato per il Terzo Mondo (di cui l’America Latina era considerata parte) fosse adempiere alla sua “naturale” funzione di fonte di materie prime e avamposto delle imprese multinazionali statunitensi, che inoltre vi avrebbero aperto i loro mercati e imposto i propri prodotti.

Il problema maggiore nel garantirsi questo tipo di subordinazione era rappresentato dal fastidioso anelito di certe nazioni alla democratizzazione: un Paese sottosviluppato che si emancipa e ridistribuisce diritti e ricchezze al suo interno, magari nazionalizzando alcuni settori produttivi, sarebbe stato un ostacolo al “padrinato” americano, ai suoi investimenti e ai suoi profitti.

L’azione migliore, dunque, era soffocare sul nascere i venti di cambiamento: senza esporsi troppo in prima persona, venne ritenuto vantaggioso stringere alleanze con le zelanti oligarchie locali e con politici corrotti, reazionari e possibilmente violenti, formando all’uopo generali, milizie e paramilizie, appoggiandole e finanziandole. Sarebbero state loro a sporcarsi le mani agli occhi del mondo.

Da questa logica non era esclusa nessuna nazione, per quanto irrilevante sulla carta geografica: la sua emancipazione avrebbe insinuato in America Latina il seme malato del paragone e dell’emulazione, diventando un pericoloso esempio da seguire. Perché in democrazia tutto sommato non si sta male, e il miglioramento delle condizioni di vita si sarebbe potuto trasformare in un’epidemia.

Quando l’insofferenza della popolazione cominciò a traboccare, il destino del Pulgarcito de America (Pollicino, come è chiamato dalla sua gente El Salvador), uno Stato povero, arretrato e grande come la nostra Emilia Romagna, che apparentemente a nessuno poteva nuocere, fu dunque pesantemente indirizzato al prezzo di decine di migliaia di vite umane. Sorte non dissimile è toccata al Nicaragua e più in generale un po’ a tutta l’America Centrale, che ha dovuto soffrire per decenni le vessazioni di governi corrotti e pilotati come burattini.

Ma torniamo a D’Aubuisson.
In El Salvador gli “squadroni della morte” cominciarono a svilupparsi negli anni sessanta proprio in seno all’Ansesal. La loro attività divenne sistematica e spietata a partire dagli ultimi anni settanta fino al termine della guerra civile (1992).
È stato appurato che una volta entrato nei servizi segreti, D’Aubuisson fu il grande riorganizzatore e collante di tali gruppi: bande paramilitari formate da agenti dei servizi o di polizia in borghese, esponenti dell’esercito e civili, questi ultimi emanazione del latifondismo più reazionario.

Il loro scopo era identificare, intimidire, torturare e all’occorrenza eliminare chi veniva considerato (anche a fronte di un semplice sospetto) sovversivo o comunista. Quasi ogni unità regolare dell’esercito o della polizia ne aveva a disposizione una con la quale si divideva i compiti più repressivi.

Tali organizzazioni avevano la cifra stilistica della tortura eccentrica, che portava nella maggior parte dei casi alla morte: tagliavano ai maschi i genitali e glieli infilavano in bocca, violentavano le donne e terminato il divertimento strappavano loro i feti, se incinte. Spesso infierivano poi sui cadaveri, decapitandoli ed esponendo le teste a qualche metro di distanza in bella mostra. Quando questi animali agivano, non guardavano in faccia nessuno: non risparmiavano neppure i bambini. Evidentemente comunisti lo si inizia a diventare molto presto.

Nel periodo in cui gli squadroni si affacciarono nel panorama politico, El Salvador era un Paese arretrato e depresso. Per dare un’idea di quale fosse la situazione: secondo il censimento del 1961, il 73 per cento della popolazione era senza acqua potabile, il 99 per cento senza energia elettrica, il 57 per cento analfabeta. La maggioranza dei cittadini conduceva una vita di sussistenza e i tre quarti delle terre risultavano in mano al 2 per cento dei salvadoregni, nemmeno dieci famiglie.

Negli anni ’70, dopo quasi 40 anni ininterrotti di dittature, golpe militari e governi fantoccio, ce n’era abbastanza perché l’indignazione e il desiderio di una riscossa iniziassero a formarsi e organizzarsi: nacquero così sindacati, associazioni di contadini, comunità di base cattoliche e fecero la loro comparsa anche le prime formazioni di guerriglia rivoluzionaria. Voci critiche verso il governo si levarono anche da parte di esponenti della Chiesa cattolica e in particolare dai gesuiti. Stava emergendo, insomma, una coscienza sociale.

Il triennio 1977-1979 fu segnato da una costante escalation delle violenze, che non risparmiò neppure la parte più progressista dello stesso clero, accusato di simpatizzare con la guerriglia e come tale perseguitato. Emblematico, a questo proposito, uno dei motti preferiti degli squadroni della morte: “Sii patriota, ammazza un prete”.
El Salvador precipitò nel caos, nella violenza, nel terrore. E infine nella guerra civile.

(Fine della prima parte – la seconda sarà pubblicata domani 16 agosto)


  1. Da non confondersi con l’altra e più nota Nsa: la National Security Agency, organismo governativo che si occupa della sicurezza nazionale 

  2. Dal 2001 il suo nome è cambiato in Western hemisphere institute for security cooperation (Whinsec). 

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Barricate di carta. La critica cinematografica conflittuale attorno al ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/11/20/barricate-di-carta-la-critica-cinematografica-conflittuale-attorno-al-68/ Thu, 19 Nov 2015 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25697 di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc. “Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. [...]]]> di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi,  passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.

C&Fn1Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.

Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.

Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.

C&Fn2Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.

L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.

ombre-rosse-nr.6Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.

Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.

ombre-rosse-nr.7 Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.

La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.

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