territorio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 27 Nov 2024 21:00:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Territorio, trasformazione, conflitto, prospettiva https://www.carmillaonline.com/2021/11/17/territorio-trasformazione-conflitto-prospettiva/ Tue, 16 Nov 2021 23:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69256 Di Jack Orlando

Alberto Magnaghi, a cura di, Quaderni del Territorio. Dalla città fabbrica alla città digitale (1976-1981), Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 138, 16€.

Nella pratica dei movimenti sociali, come in realtà di quasi ogni fenomeno politico, la dimensione territoriale è una costante fondamentale in cui si dipana la prassi e si possono misurare risultati, obbiettivi e limiti. Per perimetrarsi sullo scenario italiano ed alla storia recente, le strutture di intervento territoriale dell’autonomia, la stagione dei centri sociali, il più recente fiorire e sfiorire di collettivi politici con prerogativa spiccatamente territoriale, [...]]]> Di Jack Orlando

Alberto Magnaghi, a cura di, Quaderni del Territorio. Dalla città fabbrica alla città digitale (1976-1981), Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 138, 16€.

Nella pratica dei movimenti sociali, come in realtà di quasi ogni fenomeno politico, la dimensione territoriale è una costante fondamentale in cui si dipana la prassi e si possono misurare risultati, obbiettivi e limiti.
Per perimetrarsi sullo scenario italiano ed alla storia recente, le strutture di intervento territoriale dell’autonomia, la stagione dei centri sociali, il più recente fiorire e sfiorire di collettivi politici con prerogativa spiccatamente territoriale, specialmente nelle metropoli, confermano questa centralità del territorio come elemento imprescindibile della politica.
Eppure si è spesso dimostrato anche un limite, invalicabile a volte, nell’incapacità delle strutture di rendere organico e dialettico il rapporto tra programma e territorio. Ciò è probabilmente dovuto, tra le altre cose, alla mancata analisi di questo in relazione alla sua composizione, alla sua funzione all’interno del modo di produzione ed alle tensioni intrinseche che lo attraversano e significano.

Rileggere, sotto la luce di questo limite, l’esperienza dei “Quaderni del Territorio” permette di reimpostare il problema e tracciare nuove linee di azione.
Emersi in seno all’onda lunga dell’operaismo, tra urbanisti, architetti e geografi, attivi dal ‘76 al ‘79 (salvo una ricomparsa nel 1981) e terminati sotto l’opera di repressione statale, con la scure dell’Inchiesta 7 Aprile, mettono al centro dell’indagine il Territorio come risultante della lotta di classe.
Il metodo di lavoro è quello di calare il sapere specifico delle discipline all’interno della conoscenza prodotta dalle lotte, agendo fianco a fianco tra operai e ricercatori, per sviluppare una concezione del territorio che, uscendo dall’accademia, si ponga come strumento operativo nelle mani di chi opera fratture rivoluzionarie nel presente.
È un metodo che non solo rivoluziona il rapporto tra disciplina e oggetto, ma che agendo nella carne viva, conquista capacità di previsione sugli scenari in mutamento e anticipa tendenze che oggi ritroviamo come quotidianità assodata.
Ogni territorio, nello schema del modo di produzione capitalista, ha un suo ruolo assegnatogli, da cui si ricava estrazione di valore e capacità di controllo della popolazione; non è elemento neutro né tantomeno naturale.
D’altro canto è un luogo dove operano e vivono soggetti sociali, che interagiscono con questo secondo le proprie priorità e interessi. Anche qui la neutralità viene espunta, un quartiere dormitorio, nelle mani di una collettività in lotta viene trasformato nel suo uso e nei suoi significati; è il controutilizzo che ne fa la classe a determinare la sua fisionomia; così come è la risposta della classe dominante a rimodularne a sua volta i contorni secondo le esigenze dello scontro, in una sorta di dama cinese del conflitto.

Vale la pena sottolineare qui come nell’indagine dei QdT, ci si trovi davanti alla ristrutturazione capitalista seguita al ciclo delle lotte operaie ed alla crisi petrolifera del ‘73: le esigenze del comando necessitano di un aggiornamento che si concretizza nella polverizzazione della catena produttiva, con conseguente dispersione della figura operaia ed il tramonto della sua capacità offensiva, e con l’integrazione delle produzioni in un meccanismo di scala globale, ovvero l’inizio della globalizzazione e la riconversione di interi territori secondo le necessità di specializzazione produttiva della nuova industria.
È qui che, d’innanzi alla fine della centralità operaia come motore della lotta di classe, il territorio sembra indicare un fattore di ricomposizione grazie a quello spettro di lotte per la casa, per le utenze, i consumi o la socializzazione, in grado di dare corpo alla proposta dell’operaio sociale, figura ambivalente che, da un lato, sembra cogliere l’essenza dei comportamenti e delle pratiche dei giovani proletari fuori dalla fabbrica, con l’emergere della terziarizzazione e della precarietà quale conditio sine qua non del mercato lavoro, dall’altro intuizione teorica la cui genericità finisce per spiegare tutto e quindi comprendere nulla all’interno di maglie troppo larghe.

Quest’aspetto dei QdT è proprio quello che pare essere di maggiore attualità: il suo vivere ed operare all’interno di una crisi profonda che costringe i suoi animatori a dotarsi di strumenti e lenti d’osservazione in grado di elevarsi al di sopra del caos della cronaca e dei mutamenti, per cogliere le tendenze in atto e le trasformazioni di lungo periodo, quelle in nuce, non immediatamente tangibili ma destinate a occupare il centro della scena. Così è stato per le tante anticipazioni colte da questa rivista, così dev’essere oggi per un’intelligenza collettiva alle prese con un passaggio di epoca.
La pandemia, la crisi ambientale, il mondo multipolare, l’impazzimento della globalizzazione, sono tutti volti attuali e temporanei della antica catastrofe che caratterizza da sempre i passaggi da un mondo ad un altro. E non esiste alcun piano preordinato che delinei la strada, il capitale è un rapporto sociale e sotto la sua presunta razionalità si nasconde una bolgia impazzita di interessi divergenti e contrapposti che sgomitano per primeggiare.
Il mutamento lo decidono i rapporti tra le forze in campo nel frangente della battaglia, molto più che le pianificazioni dei generali.

Sotto i nostri occhi i territori mutano di nuovo ed in profondità, secondo gli interessi del dominante, e non riusciamo a vedere dove risieda la classe operaia, l’altro polo del mutamento dialettico.
Quale sia l’impatto dei piani di rinascita, o della conversione verde nella trasformazione sociale e geografica, quali possibili energie di conflitto possano sprigionare non lo sappiamo ancora prevedere, eppure preme con urgenza sulle spalle.
La tensione alla guerra civile, altra faccia del declino della razionalità occidentale democratica, mette in campo forme e soggetti della politica con cui fatichiamo a trovare ponti, e lo Stato appronta misure di contenimento del conflitto sociale in maniera talmente preventiva da apparire ingiustificata, talmente profonda da farci interrogare sui margini residui dell’azione antagonista.
Si fatica a guidare la nave nella tempesta, probabilmente perché guardiamo sempre al fenomeno, ma quasi mai alla sua radice, o alla sua prospettiva. Come per il green pass, dove tutti sembrano impazziti e pare di assistere a una gigantesca discussione tra sordomuti.
Ripescare il lavoro e l’incompiuto dei “Quaderni del Territorio” non è solo una possibilità di ripensare un’azione politica sul territorio, che esuli dalle semplici coordinate topografiche, per essere applicazione pragmatica di un’analisi politica, scientifica e scevra di ideologismi. Ma è soprattutto esercizio alla prospettiva, invito a riprendere dimestichezza con gli strumenti dell’analisi e dell’inchiesta per levarsi sopra il mare ottuso della cronaca ed avvistare le coste della prospettiva.
Altrimenti, in questi venti di burrasca, a furia di navigare a vista, si finisce per crepare tutti di fame sulla nave prima ancora di colare a picco.

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Confini e superamenti. La mobilità umana come terreno di conflitto https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/confini-e-superamenti-la-mobilita-umana-come-terreno-di-conflitto/ Tue, 25 Jun 2019 21:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53341 di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri [...]]]> di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.

Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.

Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).

Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».

Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».

Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».

Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.

«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».

I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».

Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».

Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.

Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.

 

 


  1. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2018 

  2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005 

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