terra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un mondo ridotto all’osso https://www.carmillaonline.com/2023/08/03/un-mondo-ridotto-allosso/ Thu, 03 Aug 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78235 di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a tratti impenetrabile, una miseria diffusa che contrasta con il potere e la ricchezza di chi sta in cima alla catena alimentare sociale, un capitalismo finanziario che, negli ultimi decenni, ha trovato nell’affare delle droghe un valido strumento per contenere e rinviare gli effetti di ciò che l’analisi economica marxiana individua come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e si avrà, a grandi linee, la dimensione narrativa dell’ultimo romanzo di un autore che, nato nel 1979, è già stato acclamato come nuovo talento del genere noir sia in patria che all’estero. Con il romanzo presentato in Italia e pubblicato in Francia nel 2022, infatti, ha vinto il Prix 813 ed è stato finalista al Grand Prix de Litérature Policière e la Prix SNCF du Polar. Oltre a questi riconoscimenti “The Devil Himself” (titolo originale) è stato proclamato miglior romanzo straniero al Beaune International Film festival.

Anche se, talvolta, tali premi e riconoscimenti sono “spinti” dai giochi e accordi tra case editrici, c’è da dire che l’opera “al nero” di Farris non delude mai in alcun momento le aspettative del lettore, trasmettendogli l’immagine di una città del Sud di cui “Sua Eccellenza il Sindaco” sa che:

era un luogo spezzato, e i guadagni illeciti non finivano mai. Il deficit di bilancio era enorme, il sistema fognario sull’orlo del collasso. La disoccupazione era alle stelle, la rete dei trasporti in rovina, la criminalità in aumento e la contea in guerra. In più c’erano gli attriti tra l’amministrazione statale quella della città, un miliardo e più di dollari di mancati finanziamenti per i fondi pensionistici. Accuse di concussione, per cui il suo capo dell’ufficio approvvigionamento aveva appena patteggiato. La polizia locale aveva sparato ad una donna di novant’anni durante un blitz antidroga nella casa sbagliata. Perfino il tempo faceva schifo.
Ma il suo compito era trasformare il caos in speranza. Mettere una faccia contenta su quella che sapeva essere l’insidioso inizio di un collasso totale.
Sirene. Fumo. Fame. Spari. Il mondo ridotto all’osso1.

Come sempre accade, però, in questi casi il lettore si rende rapidamente conto che tale condizione raffigura non soltanto l’immaginaria contea di Trickum in Georgia ma, come quella altrettanto immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner ambientò la maggior parte dei suoi romanzi e racconti, un po’ tutta quell’America povera, bianca, corrotta fino in fondo all’anima nella quale è difficile salvarsi. Se non attraverso autentici bagni di sangue e in cui, alla fine, nessuno è veramente buono, a meno che non si accontenti di recitare soltanto la parte della vittima sacrificale.

La citazione biblica serve a giustificare la vendetta o la semplice furia; la legge copre il marciume e se ne fa complice; i contadini sono orgogliosi delle loro misere proprietà e di un lavoro che richiede investimenti maggiori dei rendimenti che se ne potranno trarre ma, allo stesso tempo, non vedono l’ora di liberarsene per un po’ di quattrini, mentre il progresso si rivela non essere altro che la marcia verso la catastrofe sociale, economica e morale.

Oltre all’ombra di un Faulkner in chiave minore, aleggiano sulle vicende narrate anche quelle del cinema di Clint Eastwood e Don Siegel, della scrittura di Daniel Woodrell e Cormac Mc Carthy e dell’etica di John Dutton, il protagonista della serie televisiva Yellowstone, interpretato da Kevin Costner: Se volete il progresso non votate per me (Stagione 4). Tutte rappresentate e riassunte nella figura di Leonard Moye, il vecchio, spietato e solitario “diavolo” che, solo, può contrapporsi al Male, al Vizio e all’Ingiustizia. Dopo aver sfatto la propria vita e quelle di coloro che gli stavano più vicini.

Ma, come sottolinea la traduttrice del romanzo, nel noir di Peter Farris sono il paesaggio e/o la natura a costituire «la figura più dettagliata, quella dalla personalità più forte e invadente. Nulla, in questo romanzo è determinante quanto la terra, che non solo è oggetto delle mire criminali dei villain ma è complice dei protagonisti in molti modi: nasconde, inghiotte, divora, magari sotto forma di un alligatore che arriva a far giustizia»2.

Un paesaggio crudele e assurdo in cui anche la tecnologia sembra avere poca cittadinanza poiché, come afferma ancora Valentina Daniele, «la modernità non svolge alcun ruolo in questa storia». Se non forse, e indirettamente, mettendo a confronto il vecchio modo di produzione artigianale e illegale di alcolici e whiskey delle distillerie clandestine nelle grotte naturali della regione del Piedmont con quello più moderno, ma comunque altrettanto sotterraneo e illegale, delle raffinerie di cocaina messe in piedi dall’industria delle droghe.


  1. P. Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 52-53  

  2. V. Daniele, Nota della traduttrice in P. Farris, op.cit., p. 261  

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Effimeri cercatori di senso https://www.carmillaonline.com/2021/01/20/effimeri-cercatori-di-senso/ Wed, 20 Jan 2021 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64567 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno ad un dialogo immaginario e mai avvenuto tra il genetista Jacques Monod e lo scrittore Albert Camus, riesce a trasformare in un autentico inno alla vita e alla sua specificità nel contesto di un universo che non è sicuramente adatto ad ospitarla.

L’autore immagina che Camus non sia deceduto nell’incidente d’auto che pose fine alla sua vita il 4 gennaio 1960 e che l’amico Jacques Monod si rechi ripetutamente in ospedale per portargli conforto e dare vita, insieme a lui, ad un testo dedicato appunto alla finitudine e, paradossalmente, alle enormi potenzialità di “liberazione” che tale coscienza può portare con sé. Testo che, all’occhio attento del lettore che anche solo conosca in parte le opere dei due premi Nobel (assegnato al primo nel 1957, per la Letteratura, e al secondo nel 1965, per la Fisiologia e la Medicina) risulterà costituito proprio dall’essenza delle opere dei due intellettuali. In particolare, per il libertario Camus, tratte da L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo e per lo scopritore del controllo genetico della sintesi delle proteine (insieme a agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, tutti e tre uomini della Resistenza francese contro l’occupazione tedesca e il nazifascismo) da Il caso e la necessità. Testo pubblicato nel 1970 e destinato, dopo L’origine delle specie di Darwin, a suscitare uno dei più importanti dibattiti scientifici e filosofici.

I due, inoltre, al momento della morte avevano lasciato incompiuti gli appunti per due possibili testi 1, cosa che permette a Pievani di immaginare un loro ulteriore testo a quattro mani, completato nella finzione narrativa al momento della morte di Camus, posticipata al 26 giugno 1960.
Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, può essere considerato come una sorta di fuorilegge del sapere italiano. Da anni, infatti, il suo lavoro disobbedisce alla regola che informa la scuola, l’università e i pensieri che in quelle si sono formati: la regola secondo cui da una parte (e più in alto) ci sarebbero le discipline umanistiche, dall’altra ci sarebbero quelle scientifiche.

Proprio per abbattere queste barriere, oggi decisamente superate, ha studiato fisica, poi filosofia della scienza e, infine, biologia evoluzionistica, finendo per applicare la filosofia della scienza alla biologia e creando così un sapere che in Italia non c’era, Un sapere e una concezione della scienza che lo accomuna ai due grandi “eretici” protagonisti del dialogo intellettuale contenuto nel romanzo. Un sapere mai precluso, però, agli avvenimenti del mondo circostante e sempre conscio dell’obbligo alla rivolta contro l’ingiustizia compreso nel ruolo dello scienziato autentico e degli intellettuali degni di questo nome (oggi in Italia piuttosto scarsi, se non assenti del tutto).

Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative […] Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica.
Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri […] Lo scienziato disobbedisce
ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori […] Quale migliore interprete
della rivolta?
[…] Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani [ma] deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso– è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune [poiché] suo unico nemico è la menzogna2.

Sulle moderne tracce di Lucrezio e del suo De rerum natura e, perché no, anche di Leopardi e delle sue riflessioni poetico-filosofiche, ecco allora che il discorso scientifico sulla finitudine di tutte le cose (dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi). ci rivela, fin dalle pagine iniziali del libro che non solo la Terra è vecchia:

per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo.
[…] In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali […] Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo […] Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri3.

Si chiede poi ancora l’autore Pievani/Monod/Camus:

Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca
3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, peri cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens4.

Nulla rispetto alla, soltanto presunta, eternità del cosmo, ancor meno se riferito soltanto alla nostra specie.
A questo punto il senso di insignificanza del tutto, del vuoto che ci circonda e che ci attende, così come attende l’Universo in tempi appena più lunghi, potrebbe schiantare qualsiasi speranza o velleità, precipitandoci nel nichilismo più assoluto. Eppure, eppure…
Pievani immagina che Monod e Camus leggano e discutano le bozze praticamente sul letto di morte dello scrittore francese mentre, allo stesso tempo ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi oppure commentano i tragici fatti che hanno accompagnato la rivolta d’Ungheria, pochi anni prima, e le sue conseguenze sulle vite di amiche e amici conosciuti. Oppure commentano le infinite casualità in cui la possibile morte, per mano del nemico o per scherzo del destino, è stata evitata per un soffio. Ed è altamente simbolico il fatto che le bozze siano completamente lette e approvate un soffio di tempo prima che Camus si addormenti per sempre (e per davvero).

Perché l’uomo, forse l’unico animale simbolico del pianeta e quindi, probabilmente, dell’intero universo, porta con sé la grande capacità di aver saputo concepire, allo stesso tempo, la propria finitudine e immaginare il modo di vincerla. In questo secondo aspetto sembrano infatti risiedere l’emergere sia del desiderio che della rivolta, purché questo, ammonisce il testo, non si lasci abbindolare dalle illusioni religiose: siano queste di carattere monoteistico, politeistico o animistico.

Cogliere il miracolo autentico della momentanea esistenza della nostra specie e delle nostre brevissime vite non può essere un fatto religioso, ma piuttosto l’assunzione della piena coscienza della durata di questo attimo, proprio perché unico e irripetibile.
«Come onde del mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto»5. Compreso ciò, ci sarà probabilmente dolce naufragare in questo mare, anche se l’inquietudine continuerà ad animare e pervadere il nostro modo di essere effimere creature volte alla ricerca di un senso delle cose.

Ma, una volta coscienti dell’istantaneità del tutto, una volta divelte le illusorie paratie della potenza del destino manifesto dell’Uomo, tutt’altro che al centro dell’Universo, non potremo e non dovremo dedicarci ad altro che alla rivolta contro tutto ciò che vuole ridurre questo breve istante di eternità, vissuto da ognuno e dalla specie nel suo insieme, a miserabile commedia di potere, violenza, sfruttamento, ricerca della ricchezza e consumo smoderato e senza scopo. Solo in tal modo sarà possibile, pur nei limiti del tempo concessoci, godere pienamente della vita, ben consci che «anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla»6.

Una concezione esclusivamente utilitaristica della Scienza la ritiene

un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”7.

Così, nella sua essenza, al di là dell’illusione di vincere la morte contenuta nelle religioni o nel suo uso meramente “tecnico”, ci ha insegnato che

Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo
più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.
Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme8.

Nel restituirci il “senso” della fine ultima e della rivolta come strumento di emancipazione non solo sociale ma umana e vitale, il libro di Pievani, da leggere e rileggere proprio nei momenti difficili e apparentemente più disperanti, si rivela un autentico livre de chevet destinato ad accompagnare il lettore per molto tempo, rivelandogli ad ogni successiva lettura come il confine tra vera scienza e autentica poesia sia, talvolta, assai sottile.


  1. si tratta di L’ultimo uomo per Camus e di L’uomo e il tempo per Monod  

  2. Telmo Pievani, Finitudine, pp. 272-273  

  3. T. Pievani, op. cit., pp. 12-14  

  4. ibidem, pp. 16-17  

  5. ibidem, p. 245  

  6. ibid., pp.276-277  

  7. ibid., p. 274  

  8. ibid., p.252  

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Tutti allora qui facevano i contadini https://www.carmillaonline.com/2020/11/16/tutti-allora-qui-facevano-i-contadini/ Mon, 16 Nov 2020 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63427 di Sandro Moiso

Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, con contributi di Mauro Abati, Barbara D’Attoma, Valeria Ganzola, Roberto Mondinelli, Chiara Moroni, Mariangela Pezzotti, Carlo Rizzini, Carlo Sabatti, Giordano Saleri, Laura e Stefano Soggetti, Comunità Montana di Valle Trompia 2018, vol. 1° pp. 360 – vol. 2° pp. 374, 25,00 euro

E’ davvero con colpevole ed eccessivo ritardo che recensisco qui i due volumi sulla tradizione comunitaria e proprietaria di Cimmo e Tavernole in Valle Trompia in provincia di Brescia. La loro pubblicazione è inserita in un contesto [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, con contributi di Mauro Abati, Barbara D’Attoma, Valeria Ganzola, Roberto Mondinelli, Chiara Moroni, Mariangela Pezzotti, Carlo Rizzini, Carlo Sabatti, Giordano Saleri, Laura e Stefano Soggetti, Comunità Montana di Valle Trompia 2018, vol. 1° pp. 360 – vol. 2° pp. 374, 25,00 euro

E’ davvero con colpevole ed eccessivo ritardo che recensisco qui i due volumi sulla tradizione comunitaria e proprietaria di Cimmo e Tavernole in Valle Trompia in provincia di Brescia. La loro pubblicazione è inserita in un contesto in cui la Comunità Montana, spesso con il contributo intellettuale di Franco Ghigini, etnografo ed etnomusicologo, e in questo caso grazie soprattutto all’Associazione Antichi Originari dell’ex-comune di Cimmo, ha inteso rivalutare e riscoprire le tradizioni e le culture locali, in un tempo i cui il rapido avanzare della modernizzazione digitale rischia di cancellare dalla Storia e dalla memoria, con «una veloce e silenziosa corrente di mutamento che inghiotte il passato spesso senza neanche incresparsi in superficie»1, un contesto sociale locale che, in questo caso, può rimandare ad una ben più ampia tradizione di organizzazione comunitaria, sia economica che socio-culturale.

Proprio il tema centrale trattato nei due volumi (pubblicati indivisibilmente) di cui qui si parla, quello degli Antichi Originari ovvero quelle famiglie di Cimmo e Tavernole che hanno mantenuto per lungo tempo una sorta di statuto o funzione speciale nella gestione delle proprietà, rinvia ad un modello comunitario di condivisione e organizzazione dei suoli e del loro prodotto che è riscontrabile storicamente lungo tutto l’arco alpino, da Ovest ad Est2. Modello comunitario di proprietà della terra e condivisione del lavoro e delle responsabilità sociali che rinvia ad età precedenti alla modernità e, in molti casi, anche pre-comunali.

Parliamo quindi di una storia di lunga durata che ci parla di epoche in cui la centralizzazione statale e la concentrazione delle ricchezze e degli strumenti di produzione in pochissime mani era ben lontana dal venire e dall’affermarsi. Una storia fatta di famiglie e non di istituzioni che attraversa il Medio Evo, il dominio veneziano sul bresciano, la discesa di Napoleone in Italia, l’inizio dello Stato unitario, la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo e la successiva Repubblica per giungere, attraverso le voci dei discendenti attuali documentate, e spesso riprodotte nel dialetto/lingua locale, nella straordinaria raccolta di testimonianze orali registrate da Franco Ghigini nel corso di anni e contenuta nelle prime 300 pagine del secondo volume, fino ai giorni nostri.

Oggi, di fronte alla catastrofe pandemica e all’incapacità delle amministrazioni centralizzate di far fronte nell’interesse di tutti alle necessità in ambito sociale ed economico suscitate o, meglio, ampliate dalla stessa, una riflessione sulla storia di quelle antiche esperienze appare almeno necessaria; proprio per superare il modello unico di società e mercato ancora troppo spesso esaltato oggi nonostante i suoi evidenti fallimenti.

Per chi appartiene alla mia generazione è ancora possibile ricordare quando, negli anni ’70, due giovani Cochi e Renato, agli albori della loro carriera in un programma contenitore televisivo domenicale, assumevano la Val Trompia come luogo di arretratezza ed ignoranza. Con l’ironia apparentemente bonaria, figlia di un’epoca progressista che, tanto a Destra che a Sinistra con parole d’ordine differenti ma finalità simili, mirava a cancellare, ritenendole superate, quelle civiltà contadine e montane che pur avevano resistito attraverso i secoli all’assalto dei poteri centralizzati, riuscendo allo stesso tempo a garantire ai propri membri una vita dignitosa, nel rispetto dell’ambiente e delle risorse fondamentali come l’acqua e la terra.

In questo senso vale dunque l’annotazione, tratta dallo storico francese March Bloch, posta in esergo al saggio curato da Carlo Rizzini: «La storia non è soltanto ciò che è stato, ma anche ciò che se n’è fatto». Che aggiunge, poi ancora, nelle pagine successive:

E’ alla storia di lungo periodo, alla storia sommersa e silenziosa, ma effettivamente costruttrice delle vicende umane, che appartiene l’esperienza degli Antichi Originari.
Chiarito questo concetto, è evidente come sia necessario abbandonare la pretesa di una visione universale, ponendo invece attenzione ai particolari: le singole persone e la comunità che esse hanno costruito sono i reali protagonisti della storia, di ogni storia. Così, in queste pagine, pur attraverso documenti e fonti assai diversificate, pur dovendo tener conto dell’istituzione creata, dei rapporti tra istituzioni locali e rappresentanti governativi, pur non ignorando fatti e aspetti amministrativi, statistici, economici e politici, dobbiamo ricordare che stiamo ripercorrendo le vicende delle famiglie Cioli, Comini, Cottali, Ganzola, Garneri, Mutti, Pelizzari, Saleri e Zuccotti3.

La prima testimonianza scritta della comunità formatasi intorno agli antichi detentori delle terre, amministrate e gestite in comune, sul territorio di Cimmo e Tavernole risale al 1372 e costituisce di per sé testimonianza, assai evidente, che il Comune stesso costituiva uno dei più antichi insediamenti valtrumplini. Si tratta degli Statuti di Cimmo e Tavernole, il cui manoscritto originale è oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia.

Ma tale testimonianza “scritta” rivela, quasi sicuramente, che tale accordo per la gestione comunitaria delle terre e del loro prodotto doveva risalire a tempi ben più antichi e che tale testo scritto doveva essere già il prodotto di mutamenti avvenuti nel corso del tempo. Trasformazioni la cui memoria rimane muta in un contesto in cui per secoli era stata la cultura orale a predominare su quella scritta (sicuramente poco diffusa tra le comunità montane per lungo e immemorabile tempo). Una cultura e un’organizzazione socio-economica, potremmo dire pre-omerica, che soltanto l’arciprete di Inzino, Bernardino de Caciis da Cimmo, e il notaio Bressanino Bicocchi de Milanibus, avrebbero sistematizzato per iscritto nell’aprile di quell’anno.

Al giorno d’oggi siamo portati a ritenere che una proprietà possa essere considerata secondo una duplice opzione: pubblica o privata. Ignoriamo che in epoche remote esisteva anche un altro modo di possedere, ovvero la proprietà collettiva. Essa è il chiaro esempio di un legame solidaristico, espresso in uno spirito cooperativo, che si manifesta all’interno di una comunità, non inteso in senso moderno come appartenenza a un ente, bensì nel senso più appropriato di sintesi di individui: i singoli si sacrificano e sacrificano il proprio personale interesse per il raggiungimento di un bene comune.
L’origine delle proprietà collettive deriverebbe, secondo varie teorie, dall’usanza romana di concedere ai soldati congedati dei terreni da colonizzare, come tributo per il servizio svolto; in alternativa, si considera attendibile l’origine germanica di questo tipo proprietà, laddove le invasioni barbariche portarono a nuovi stanziamenti e al controllo di territori dell’ex-impero romano. Probabilmente entrambe le interpretazioni sono verosimili e si sovrappongono a tradizioni autoctone poiché il legame tra l’uomo e la terra, intesa come il necessario mezzo di sostentamento, doveva essere comune a molte popolazioni anche di diversa origine; solo successivamente entrò in campo il concetto di proprietà privata: E’ quindi evidente che, per fissare l’origine per questo tipo di gestione economica, si deve risalire ad un’età precomunale, ovvero ben prima dell’istituzione dei Comuni stessi nelle loro forme giuridiche4.

Per meglio comprendere il significato storico e pratico di tali modelli di organizzazione sociale è forse bene citare le parole di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia nel 2009, riportate dallo stesso Rizzini:

Ciò che si può osservare a livello globale è che né lo Stato né il mercato sono in grado di garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo delle risorse naturali. Non meno importante deve essere la consapevolezza dell’esistenza di istituzioni non identificabili in modo netto in base alla dicotomia stato-mercato, che sono state in grado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguendo successi significativi e per lunghi periodi di tempo (E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio 2006, p.12)5.

Ciò che viene poi indagato in questa storia dei Grandi Antichi di Cimmo e Tavernole è il significato che assume lo scontro col forestiero quando, a seguito di spostamenti di individui o gruppi famigliari sul territorio comunitario oppure di contrasto con le comunità confinanti, questo, o questi, chiede di partecipare alla condivisione della ricchezza prodotta. Al di là degli episodi di violenza cui tutto questo può dare atto (e nella storia delle due comunità non sono pochi), occorre però dire da subito che chiunque volesse avvicinare, per qualsiasi motivo, tali conflitti a quelli attuali riguardanti l’immigrazione trans-mediterranea, sarebbe completamente fuori luogo poiché nei conflitti del passato di cui si parla spesso era la comunità a difendersi dal tentativo istituzionale (Chiesa, Stato o Principato, borghesia in ascesa) di penetrare al suo interno per minarla e privarla delle sue risorse.

Ecco dunque il punto sostanziale: la proprietà dei beni e il diritto di usufruirne da parte di un gruppo di famiglie che, con tutta probabilità, in origine componevano l’intera comunità e che si trovavano a dover giustificare il possesso e la distribuzione delle rendite a quei rappresentanti dei governi che, via via cominciavano ad avere sempre maggior controllo sul territorio e a cui ricorrevano spesso i Forestieri, ovvero i nuovi arrivati della comunità, che ambivano a partecipare alla suddivisione delle rendite.
Non dobbiamo scordare che, a partire dal XVII secolo, gli Stati si organizzarono sempre più per garantirsi il controllo capillare dei propri territori, istituendo strutture giudiziarie, poliziesche, amministrative ed economiche in grado di tenere sotto controllo la situazione6.

Nel corso degli anni e con l’avvento dello Stato nazionale post-unitario «I motivi di contrasto si crearono sull’interpretazione e sull’applicazione delle norme e sul confronto con i poteri centrali, con architetture sempre più strutturate, quindi anche più difficili da affrontare che portavano avanti in modo più rigoroso il controllo sui territori.
Possiamo riassumere questi aspetti con una frase attribuita a Giovanni Giolitti: Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano»7.

Questa ultima e autentica anticipazione dell’attuale diritto penale del nemico serve anche per spiegare come il conflitto, spesso, potesse dare adito a delitti ed atti di violenza che furono in seguito usati per ridurre ulteriormente l’autonomia delle comunità. La questione Potrebbe dunque rinviare, anche se indirettamente, a quella della rimozione (ben più cruenta) e messa fuori legge, in alcuni casi per più di un secolo, di quei clan delle Highland scozzesi che si rifiutavano di accettare l’autorità della corona britannica e l’avvento dell’allevamento, diffuso sui terreni privatizzati, delle pecore destinato non al consumo in loco ma a sostenere lo sviluppo dell’industria laniera nella prima fase della rivoluzione industriale inglese8.

Per un’ultima osservazione, prima di congedare il lettore senza neppure aver potuto affrontare gli altri saggi contenuti nei due volumi, ancora una volta giungono in aiuto le parole di Elinor Ostrom:

Nonostante l’incertezza legata ai fattori ambientali, le popolazioni di queste località si sono mantenute stabili per lunghi periodi di tempo. Gli individui hanno condiviso il passato e prevedono di condividere il futuro. Per i singoli individui è importante mantenere la propria reputazione di elementi affidabili della comunità […] Inoltre la reputazione legata al mantenimento delle promesse, all’onestà e all’affidabilità, in n contesto circoscritto, è un bene prezioso […] In nessuna di queste situazioni chi partecipa all’uso delle risorse collettive appare diverso dagli altri in relazione al diritto di proprietà vantato sulla terra, all’abilità, conoscenze, etnia, razza o altre variabili che potrebbero fortemente dividere un gruppo di individui (E. Ostrom, op. cit. p. 132)9.

Parole perfette per comprendere il radicamento di una comunità nel suo territorio e per spiegare l’importanza storica, culturale e, perché no, anche politica di riflessioni e ricerche come quelle contenute nell’opera che è stata, anche se in maniera parziale e forse riduttiva, qui esaminata.


  1. K. Polannyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974, p. 6  

  2. Per una sintetica eppur esaustiva trattazione dell’argomento, si consulti almeno Naturalmente divisi. Storia e autonomia delle antiche comunità alpine, progetto curato da Luca Giarelli e Marta Ghirardelli per la Comunità Montana della Valle Camonica e Provincia di Brescia, Lontàno Verde – I.S.T.A., maggio 2013, pp. 382  

  3. C. Rizzini, Gli Antichi Originari e la comunità di Cimmo, in Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole, vol. 1°, pp. 15-16  

  4. C. Rizzini, op. cit. pp. 18-19  

  5. Op. cit. p.19  

  6. op.cit. p. 41  

  7. op. cit. p. 42  

  8. Si consultino in proposito: J. Prebble, The Lion in the North, Penguin Books 1971 e, ancora, J. Prebble, The Highland Clearances, Penguin Books 1963  

  9. Rizzini, op. cit. p. 20  

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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Soltanto una specie tra le altre https://www.carmillaonline.com/2019/11/13/umilta-e-materialismo-per-comprendere-davvero-cosa-siamo/ Wed, 13 Nov 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55923 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, La Terra dopo di noi, fotografie di Frans Lanting, Contrasto – Roberto Koch Editore, Roma 2019, pp. 184, 22,90 euro

“Selvaggia, indomita, potente , indifferente alle nostre sorti, nuovamente rigogliosa. Questa è la Terra, senza di noi, prima di noi, dopo di noi.” (Telmo Pievani)

Il libro di Telmo Pievani, recentemente edito da Contrasto, ha un grande, forse grandissimo merito: quello di ricordarci quanto davvero conti la nostra specie per il pianeta e, più in generale, nell’Universo che la ospita. L’autore, che ricopre la prima cattedra italiana [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, La Terra dopo di noi, fotografie di Frans Lanting, Contrasto – Roberto Koch Editore, Roma 2019, pp. 184, 22,90 euro

“Selvaggia, indomita, potente , indifferente alle nostre sorti, nuovamente rigogliosa. Questa è la Terra, senza di noi, prima di noi, dopo di noi.” (Telmo Pievani)

Il libro di Telmo Pievani, recentemente edito da Contrasto, ha un grande, forse grandissimo merito: quello di ricordarci quanto davvero conti la nostra specie per il pianeta e, più in generale, nell’Universo che la ospita.
L’autore, che ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova dove insegna anche Bioetica e Divulgazione naturalistica, ci guida infatti alla riscoperta di un’antica verità ovvero quella della evidente insignificanza dell’umano all’interno del sistema vivente e del cosmo in cui si trova ad operare.

Insignificanza che l’autore sottolinea sin dalle prime pagine:

“Nulla di scandaloso, noi siamo una specie contingente e la nostra è una storia di periferia, la periferia dell’impero noto come super-ammasso della Vergine. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale come ve ne sono tante nell’universo, la Via Lattea, per la precisione in uno dei suoi bracci laterali, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono appunto il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni. Non sappiamo se ci sarà qualcuno ad assistere a quel grande spettacolo di fuochi d’artificio cosmici. In ogni caso, allora per la Terra sarà tutto finito, con o senza di noi.”1

Una verità intuita, più che scientificamente compresa, da tutti i popoli antichi o, ancor meglio, da quelli sprezzantemente definiti come primitivi, ma di cui è rimasta traccia nella nostra cultura almeno fino al Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi.
Una verità con cui la specie umana ha dovuto fare i conti fin dai suoi primi passi e che l’ha costretta, per sopravvivere, ad unirsi per lungo tempo in social catena come avrebbe detto Giacomo Leopardi e a rispettare allo stesso tempo i ritmi, i tempi, le condizioni di partenza dell’ambiente e della natura in cui si trovava ad operare.

Una verità che le religioni animistiche e politeistiche meglio riassumevano, fungendo da interpretazione del mondo, di quanto invece abbiano fatto le religioni monoteistiche, in particolare quella cristiana che vede nel mondo terreno e nel pianeta qualcosa di cui l’uomo è signore e padrone, essendo stata la Terra creata da dio per lui e a suo uso e consumo.
Una visione perpetratasi, quest’ultima, nei secoli in maniera tale da far pensare, oggi, che questo mondo sia destinato ormai ad una fine prematura.

In realtà, il testo di Pievani e le bellissime fotografie di Lansing lo dimostrano, la fine prematura sarebbe soltanto quella della nostra specie. Una specie che, abituata ad un modo di produzione devastante che affonda però le sue radici in pratiche e convinzioni più antiche, marcia orgogliosamente verso un’autentica auto-distruzione che finirebbe col costituire, anche in questo caso, soltanto una delle tante estinzioni di massa che hanno caratterizzato la storia della vita sul pianeta.

Certamente non ci sarebbe nell’immediato un ritorno ad una natura vergine, che ha smesso di essere tale almeno fin dalla comparsa dell’agricoltura, e per migliaia o decine di migliaia di anni sarebbero in atto quei processi climatici e bio-chimici necessari alla scomparsa di ogni tipo di manufatto umano, plastiche e metalli, dall’ambiente terrestre, mentre le onde radio diffuse profondamente nello spazio dalla nostra volontà di pubblicizzare le grandi conquiste della nostra specie, da Guglielmo Marconi in poi, attraverso radio e televisioni continuerebbero a viaggiare nel cosmo portando notizie di una civiltà ormai estinta.

“Tutto questo è molto cinico, ammettiamolo. Possibile che solo la nostra scomparsa possa far rifiorire la natura? A tale misantropica distruzione dovremo ridurci? Ma lo scenario triste e desolato appena descritto cambia subito di segno se abbandoniamo per un momento l’ottica antropocentrica che solitamente adottiamo. Dal punto di vista del pianeta e dell’evoluzione è un messaggio di speranza. Perdendo tutto sommato una sola specie di mammifero, una sola, quindi con una minima riduzione di biodiversità,la vita ricomincerebbe più rigogliosa che mai, coprendo le nostre rovine. Un affare. L’evenienza in sé non avrebbe alcunché di eccezionale: siamo una specie mortale, come tutte le altre, e nessuno sentirebbe la nostra mancanza. Ovviamente il messaggio, qui non è che l’estinzione umana non sarebbe una tragedia. Lo sarebbe eccome. Anzi, sarebbe una tragedia assurda proprio perché conoscevamo i rischi e avremmo potuto evitarla. Altrimenti perché chiamarci così presuntuosamente e prematuramente sapiens?”2

E’ una coscienza molto antica quella di cui parla l’autore. Presente non soltanto nei riti di popoli ritenuti selvaggi (non cristiani e non moderni), ma anche nella filosofia e nel pensiero che hanno precorso il superficialismo progressista odierno.

“Abbiamo un problema con l’ambiente globale e lo sappiamo da parecchio tempo. Sembra un dibattito recente, ma non lo è . Forse un dibattito vecchio quanto l’Antropocene stesso. Nel Seicento infatti già si discuteva dottamente dei fumi mefitici di Londra, delle loro cause e della loro ricaduta sulla salute. Un secolo dopo Buffon denunciava la depredazione della natura per mano dell’uomo colonizzatore e ne prevedeva con precisione le conseguenze. Lo stesso diranno nell’Ottocento i socialisti utopisti e i critici del capitalismo predatorio. Degli effetti ambientali della rivoluzione industriale si dibatte da almeno due secoli. Alla corte dei re di Francia si analizzavano le relazioni tra le deforestazioni e il clima globale, su cui si soffermerà tempo dopo anche il grande naturalista, esploratore e geografo berlinese, ma francese di simpatie, Alexander von Humboldt. […] Per lui la natura era una trama globale di relazioni, un’immensa rete vitale priva di un piano trascendente e tenuta insieme da un’unità profonda. […] L’olismo della ‘fisica generale’ di Humboldt lo portò a diventare un antesignano dell’ ambientalismo e un difensore degli ‘animi oppressi’: denunciò le devastazioni dei colonizzatori (le foreste decimate dalle piantagioni di canna da zucchero e miniere, il brutale sfruttamento delle risorse, la caccia e pesca indiscriminate) associandole ai cambiamenti climatici (fu tra i primi a capire che la foresta era cruciale per evitare l’erosione del suolo e rinfrescare il clima) e alle barbarie inflitte ai popoli indigeni.”3

Alexander von Humboldt (1769-1859), non era un autore di nicchia. Attraverso i suoi scritti molti all’epoca, compresi forse i padri del socialismo scientifico considerate le sue dichiarate simpatie per la rivoluzione del 1848 e la sua netta opposizione alla servitù della gleba ancora in uso in Russia a quel tempo, presero coscienza di quell’unità, ma oggi nell’età degli specialisti, dei laboratori scientifici finanziati dalle imprese e degli investimenti nelle grandi opere inutili e dannose, il vate della grande unità della natura è dimenticato, passato di moda.

Bene, il testo provocatorio, bello e divulgativo allo stesso tempo, di Pievani ci invita a riscoprire tutto ciò: l’umiltà necessaria a comprendere la nostra giusta posizione come specie nel sistema e nella rete della vita del pianeta e lo sviluppo di una conoscenza disinteressata, lontana dalle logiche del profitto e del dominio, che ci permetta di tornare a relazionarci con l’ambiente e l’emergenza climatica privi dei paraocchi impostici da secoli di sottomissione al capitalismo e alle ideologie dello sviluppo e del profitto che ne sono derivate.


  1. T. Pievani, La Terra dopo di noi, cit. p. 7  

  2. T. Pievani, op.cit., pp. 28-29  

  3. Op.cit., pp. 121-122  

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Chi ha paura di Salvini…chi ha paura? https://www.carmillaonline.com/2019/07/31/chi-ha-paura-di-salvini-chi-ha-paura/ Wed, 31 Jul 2019 21:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53852 di Sandro Moiso

Muore anche l’impero della notte / I suoi guerrieri vanno via / Prima del domani (Chi ha paura della notte – PFM)

I sacerdoti degli antichi culti pagani, i druidi delle foreste e delle culture celtiche e gli aruspici abituati a “sviscerare” letteralmente il linguaggio dei simboli segreti, avrebbero riconosciuto fin dalla sera precedente e dalla furia degli elementi della mattina stessa tutti i segni di quello che sarebbe stato l’andamento della giornata di sabato 27 luglio.

Sarebbe bastato osservare l’energia che scaturiva dal pogo scatenatosi sotto [...]]]> di Sandro Moiso

Muore anche l’impero della notte / I suoi guerrieri vanno via / Prima del domani
(Chi ha paura della notte – PFM)

I sacerdoti degli antichi culti pagani, i druidi delle foreste e delle culture celtiche e gli aruspici abituati a “sviscerare” letteralmente il linguaggio dei simboli segreti, avrebbero riconosciuto fin dalla sera precedente e dalla furia degli elementi della mattina stessa tutti i segni di quello che sarebbe stato l’andamento della giornata di sabato 27 luglio.

Sarebbe bastato osservare l’energia che scaturiva dal pogo scatenatosi sotto il palco del Festival Alta Felicità, sul quale i membri della Premiata Forneria Marconi riproponevano, per un pubblico molto più giovane, molti dei loro brani più celebri in una versione quasi punk, oppure l’energia liberata dalla Natura durante il breve il violento diluvio scatenatosi sul campeggio poco prima della formazione del corteo, ma arrestatosi in tempo per permetterne la partenza, dopo aver liberato l’aria dalla minaccia incombente.

Eppure per molti la forza, la determinazione e la vivacità del corteo, che da Venaus è giunto ancora una volta fino al fortino del cantiere in Val Clarea, hanno costituito una sorpresa.
Per moltissimi gradita, ma estremamente sgradita per i difensori delle grandi opere inutili e imposte e per le forze politiche e del disordine che dovrebbero garantirne la realizzazione.

Almeno quindicimila persone hanno marciato insieme.
Hanno risalito la montagna, percorso il sentiero che da Giaglione si dirige verso l’osceno buco scavato nel territorio da uomini, e macchine, che hanno, forse, la forza e la potenza formale ma non l’intelligenza. Che non hanno sensibilità e nemmeno lucidità, ma che sono soltanto attratti dalle logiche del profitto immediato senza alcun riguardo per il futuro della specie e dell’ambiente con cui la stessa, da centinaia di migliaia di anni, convive.

La forza di quelle migliaia di persone (giovani, anziani, bambini, donne, uomini, italiani e immigrati) ha fatto sì che, ancora una volta, il muro di Gerico eretto per bloccare il percorso fosse abbattuto.
Un muro con un cancello odioso: ferro, acciaio, filo spinato israeliano (razor wire), il tutto ancorato alla montagna e al suo terreno, difeso con idranti, manganelli e gas lacrimogeni da cani da guardia che si ritengono sufficientemente feroci.

Un muro che, nel suo scopo di bloccare gli spostamenti di chi vuole impedire la prosecuzione di un’opera mortifera e irrealizzabile allo stesso tempo, simboleggia(va) tutti i muri che ormai, su questo pianeta, dalla Palestina al Messico e dall’Ungheria ai porti italiani ed europei sul Mediterraneo, cercano di impedire gli spostamenti di una specie nata nomade, ma alla quale nei millenni sono stati imposti confini, stati, diritti di proprietà privata anche sugli elementi basilari per la sue stessa esistenza (terra, acqua, cibo, ambiente più in generale).

Un muro che è crollato, che è stato distrutto e smantellato, fatto precipitare giù nel bosco sottostante, dopo che gli agenti del caos posti a sua difesa avevano dovuto precipitosamente abbandonarlo al suo destino a causa della forte e convinta pressione dei partecipanti alla manifestazione. Un’immagine simbolicamente fortissima, che è valsa più di mille piagnistei e di mille parole. L’azione ha dimostrato quanto fragili siano i muri di carta (qualunque siano i materiali utilizzati per realizzarli) eretti dai signori della notte e del capitale e quanto sia facile liberarsene, una volta raggiunto un adeguato grado di determinazione.

Insieme al muro sono precipitati a valle, dopo essere stati adeguatamente revisionati, i serbatoi per l’acqua destinata ad essere usata dagli idranti, recuperando, anche in questo caso l’idea che l’acqua deve essere usata per rivitalizzare gli esseri viventi e il pianeta nel suo insieme e non per essere sprecata in funzione repressiva. Tipico paradosso di un modello sociale che spreca l’acqua in grande quantità, anche quando questa è destinata a diventare sempre più prezioza per la vita.

E poi l’assedio formale al fortino.
I boati delle grida provenienti dalla foresta che lo circonda.
Slogan e canti che provenivano dall’ombra e che incitavano coloro che erano quasi a contatto con le forze del disordine a tener duro, a non mollare, a manifestare, anche solo con la presenza e la messa in gioco del proprio corpo, l’opposizione al Tav e al sistema che lo vorrebbe imporre.

Urla, slogan, canti.
Centinaia di mani di ogni colore ed età che percuotevano con le pietre ogni struttura metallica presente in loco, dai guardrail ai tralicci di metallo, per inviare un numero infinito di “like” effettivi e materiali, realmente motivati e partecipativi, a chi più sotto resisteva ai lacrimogeni.
Un ritmo e un canto tribale che dimostravano quale doveva essere il terrore di altre testuggini, quelle romane, quando si infilavano nei boschi oltre il limes dell’impero.
Dove subirono alcune delle loro più cocenti sconfitte.

Una giornata campale e meravigliosa, fino e oltre il tramontar del sole.
Una giornata da cui è uscito rafforzato e vincitore un unico attore: il movimento NoTav.
Ne è uscito vincitore e rafforzato proprio nel momento in cui i suoi avversari lo avrebbero voluto sconfitto e demoralizzato.
E’ uscito vincitore pur mantenendo tutta la complessità di posizioni e la variegata composizione socio-politica che lo caratterizzano da sempre.
Ne è uscito orgoglioso e felice nel momento in cui tutti i suoi avversari non potevano far altro che rabbuiarsi oppure far buon viso a cattivo gioco.

Come, ad esempio, le forze del disordine in un primo momento smarrite, dopo la perdita del controllo del cancello, e poi immobili sotto l’effetto dei gas dei lacrimogeni che, sparati a centinaia, tornavano immancabilmente ad avvolgerle in fitte nuvole bianche a causa del vento contrario.
Un comunicato della questura, del giorno successivo, che sta a metà tra il surreale e una venatura polemica nei confronti di chi (Salvini?) avrebbe forse voluto un’azione più muscolare ed energica nei confronti dei manifestanti, in cui si fa un bilancio assolutamente positivo della giornata, come si legge nella nota:
Pur operando in un terreno difficile e reso insidioso dalla pioggia, sia gli organizzatori della manifestazione sia gli operatori di polizia, hanno affrontato con grande responsabilità la gestione dell’evento.
48 denunciati a parte, naturalmente.

Un vincitore, si diceva, e parecchi sconfitti.
Il ministro del muscolo per primo che ha trovato non solo nel movimento, ma probabilmente anche tra i vertici della gestione della forza pubblica e delle forze armate, un’opposizione piuttosto decisa alle sue minacce e al suo bullismo istituzionale e sociale.
Nel primo, nonostante l’approvazione del Decreto sicurezza e le roboanti dichiarazioni del giorno prima,1 ha dovuto prendere atto di una determinazione e, perché no, di un coraggio cui non è certamente abituato, mente nel secondo caso ha dovuto registrare un’antipatia formale dettata non da un agire o da un pensiero di tipo democratico, ma dall’opposizione di apparati dello Stato, spesso autentici eredi del fascismo, che non amano essere scavalcati da ministri ingombranti e spesso imbarazzanti per le scelte e le dichiarazioni fatte tenedo conto soltanto della pancia del proprio elettorato. Disposti magari a concedergli un giro sulla moto d’acqua della polizia per il figlio, ma un po’ meno disponibili per un giro anche sulla Talpa, come forse avrebbe voluto richiedere mercoledì 31 luglio il ministro a Chiomonte.

Il secondo grande sconfitto è il Movimento 5 stelle che ha visto nella giornata di sabato la fine di ogni possibile legame con coloro che avrebbe dovuto rappresentare formalmente. Al di là della giustezza o meno della scelta messa in atto da una parte del movimento NoTav in occasione delle passate elezioni, è ormai chiaro da tempo, e oggi ancor di più, che quel rapporto si è completamente consumato. Non esiste più.
E questo, messo insieme alla disillusione nei confronti del Movimento in ogni altro angolo d’Italia, non potrà significare altro che la disgregazione dello stesso e la sua scoparsa, al di là di qualsiasi ulteriore baggianata sparata da Di Maio e dal Fatto quotidiano sull’ipotesi di un possibile voto contrario del parlamento sulle grandi opere e sul Tav.
Movimento 5 Stelle sul quale mi permetto di ricordare il giudizio espresso definitivamente, da chi scrive, fin dalle elezioni siciliane del 2012.

Il terzo sconfitto è l’equilibrista da circo, l’avvocato del popolo, la Pantera Rosa della scena politica italiana: Giuseppe Conte alias Svicolone (per chi è abbastanza avanti con gli anni per ricordare un noto cartoon di Hanna & Barbera degli anni sessanta).
Ha dovuto gettare la maschera dell’equidistanza, dell’imparzialità, dell’avvocaticchio democratico per rivelare ciò che ci si poteva attendere esclusivamente da un personaggio del genere: il suo totale e convinto assoggettamento ai potentati economici, industriali e mafiosi che si nutrono esclusivamente di corruzione, distruzione del suolo e dell’ambiente, rapina finanziaria e morte.

Il quarto sconfitto è il PD.
Se sperava di recuperare qualcosa dal disfacimento 5Stelle, è risultato chiaro che quel popolo NoTav, quei manifestanti sono intenzionati ad andare avanti per la loro strada che continua ad essere in rotta di collisione non soltanto con il partito che ha più promosso il progetto del Tav, e che per questo motivo si troverà certamente a votare con Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, la continuazione dello stesso, così come ha già sostanzialmente anticipato l’ex-titolare del ministero delle infrastrutture Graziano Delrio, se mai si dovesse giungere anche solo a un buffonesco e scontato voto parlamentare, ma anche con i progetti di green capitalism come programma di partito con cui quella vecchia volpe dell’attuale sindaco di Milano vorrebbe travestire una compagine ormai marcia, magari anche tramite l’utilizzo di un movimento “giovane” ma ambiguo e molto più che contraddittorio quale quello di Fridays for Future.

Tralasciando l’elenco dei 17 governi che si sono succeduti da quando si è iniziato a parlare di Tav fino ad oggi, gli altri sconfitti sono tutti quelli favorevoli alle grandi opere inutili e imposte: Telt, mafia, Confindustria, cooperative rosse e bianche, sindacati asserviti, giornalisti e media che in nome del “progresso” sono disposti ad avvallare ciecamente qualsiasi grande opera e qualunque devastazione, il pool inquisitoriale della Procura di Torino, ma anche tutti coloro che, alla Mercalli, suggeriscono pratiche individuali per porre riparo al disastro ambientale senza mai affrontare il nodo del salto di paradigma necessario ovvero del superamento definitivo dell’attuale modo di produzione.

Nossignori, non siete voi il futuro.
E, ancora una volta, non resta che annunciarvi, con Philip K.Dick: Noi siamo vivi e voi siete già tutti morti (insieme al modo di produzione che vi ostinate a difendere e voler salvare).


  1. «sabato c’è il campeggio dei No Tav in Val di Susa e quindi la mia priorità è mandare 500 uomini lì per evitare che provochino disastri» – https://www.ilmessaggero.it/politica/tav_polizia_toninelli_ultime_notizie-4640539.html  

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Zerodue. https://www.carmillaonline.com/2018/12/09/zerodue/ Sat, 08 Dec 2018 23:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49901 di F. Cane Barca [Immagine di Nicolò Gugliuzza]

quattro mesi oggi nello spazio. vai a sapere che è, se è fortuna illividire sotto queste lune nuove, o iella. ho le palpebre di legno, ferme aperte. non so nulla di comete, intelligenza artificiale e terraformazione …che vendevo i fiori e robbume da giardino, nemmeno di quello sapevo molto, facevo i migliori mazzi in città e questo garantiva la buona clientela, e il cibo in tavola, ma dell’infinito universo che devo saperne, e se qualche bullone salta, se qualche algoritmo balbetta o [...]]]> di F. Cane Barca
[Immagine di Nicolò Gugliuzza]

quattro mesi oggi nello spazio.
vai a sapere che è, se è fortuna illividire sotto queste lune nuove, o iella.
ho le palpebre di legno, ferme aperte.
non so nulla di comete, intelligenza artificiale e terraformazione …che vendevo i fiori e robbume da giardino, nemmeno di quello sapevo molto, facevo i migliori mazzi in città e questo garantiva la buona clientela, e il cibo in tavola, ma dell’infinito universo che devo saperne, e se qualche bullone salta, se qualche algoritmo balbetta o rigetta, non ne saprò mai niente.
cambiare stanza o cambiare giorno, qui è la stessa cosa.
quattro mesi oggi, a cercare e salvare il mondo, uno nuovo.

Pulisco il tavolo dalla colazione, e dico alla Macchina …Faccio io! A lei che sta ovunque, lei con voce di donna, voce ferma voce sempre calma voce di anima elettrica che conduce questa missione raffazzonata, il caffè lei lo fa buono.
inizio le procedure di controllo, provo, per infastidirla, ogni giorno ci provo e ogni giorno lei dice che …Non c’è bisogno Frank, faccio tutto io qui. Goditi il viaggio. Tutto funziona perfettamente. Poi mi vizia …Ti preparo l’acqua salata del tuo mare? Programmo la stanza zerodue? Vuoi lo scenario di Copacabana? Ricorda che mancano due mesi alla perdita di contatto con la terra, poi non ne saprai più nulla, vuoi lasciare dei messaggi?
e io non le rispondo. Ho deciso di proiettare la mia frustrazione tutta su di lei. Non ho messaggi da lasciare, ho portato tutte le persone a cui avrei dato un saluto. …Che dovrei fare Macchina allora? Vuoi ballare? La Macchina non mi permette di far nulla di utile, solo di godermi il viaggio, a suo dire dovrei essere più rilassato.
la nave è grande, con la materia dello spazio posso riprodurre tutto ciò che voglio, basta scaricare i modelli, e lo faccio in continuazione. Per il tempo libero uso il fantasiometro, bel nome, così lo chiamo, può ricreare ogni scenario possibile, se registrato.
-stanza zerotre: esperienze e esercitazioni virtuali, posso farle totali restando seduto, o parziali: muovendo il mio corpo in habitat preconfezionati e installati.

-stanza zerodue: per il mare, una vasta piscina flessibile, che può essere mare in tempesta o fiume.
-stanza zero: con ricca vegetazione che coltiva autonomamente la Macchina, non dovrei nemmeno entrarci ma passo lì spesso le giornate.
-stanza zerocinque: dove la Macchina ha detto di avere copie di forme di vita da riprodurre se l’ambiente lo permetterà, non mi fa entrare qui.
ce ne sono altre di stanze ma queste sono le mie preferite, se spezzo un ramo nella zero la Macchina mi punisce, ha delle pallette volanti che fanno tutto, l’avevo già visto in un film, danno anche la scossa.

Che la destinazione poi non esiste vallo a dire ai miei surgelati compagni di viaggio, cinquanta anime immobilizzate fino all’arrivo, una nuova casa, vallo a spiegare a loro che li ho rapiti, che le ho rapite, per uno sbaglio! Via dalla terra! Perdono!


Quattro mesi e due settimane, oggi.
corro attorno alla parte esterna della nave, chiedo alla Macchina uno scenario specifico, ho scaricato le immagini del campo da corsa dell’Olimpico, pieno, posso anche interagire con il pubblico, la Macchina ha una memoria infinita pare, può gestire anche le persone sugli spalti, un gioco per lei, corro trenta minuti poi mi affliggo, mi deprimo: una bellissima ragazza beve una birra, mi avvicino per vederla, per bere con lei, mi vede, sbatto sul vetro della nave, la ragazza continua a bere, ride e beve ancora e ancora.

Programmo nella zerotre con Marciano: difficoltà-1, fa parte dell’addestramento, la Macchina dice che devo tenermi in forza, che …tutto è possibile una volta arrivati a… casa. Vinco facile, il pubblico urla il mio nome.

Avevo detto che in America del Nord non ci volevo andare, in Texas poi… e per caso ci arrivai, ne venivo dal Brasile, Porto Alegre… Rio… Non facevo un viaggio da sette anni, sette! Il mal tempo poi ha deciso il cambio di rotte, e una bella bevuta con tre surfisti è divenuta una missione nello spazio, tutto è accaduto troppo in fretta, avrei dovuto gelare loro, i surfisti, così da farmi dire che è successo quella notte. Dovevo restarmene a Genuaua, la mia città, chiedo alla Macchina di farmela vedere ancora.

Forse il pianeta sta per morire, sono in un volo di emergenza, attivato dalla mia ebbrezza alcolica, non so come mi sono infilato qua dentro, ho pigiato i tasti che non dovevo e mi ha dato solo due ore la Macchina per scegliere cinquanta anime da salvare.
la Macchina alle mie domande sul perché sono qui ha risposto …Un errore, Frank, un errore, ma non sarai solo, ci sono io, e hai due ore per scegliere cinquanta persone da portare con te per portare l’umanità su un altro pianeta.
le ho chiesto …Si? Quale pianeta?
e lei …Non lo so Frank, lo dobbiamo cercare, assieme.
chiedo del vento caldo e salino. È la mia libertà, non importa, non lascio un gran posto, il pianeta terra intendo: non un gran bel posto.

Cose da caricare in memoria per la stampante prima che le profezie della Macchina siano cosa vera:
1- Modelli di chitarra acustica.
2- Strumenti a fiato (tromba; flauto).
3- Giradischi e disco.
4- Piatti e posate artigianali
Sono già in memoria Frank.
4- Armi: Pistola, Colt (?)
No Frank, qui solo armi elettriche, se vuoi posso programmarti un duello nella zerotre, a mezzogiorno, sotto l’orologio, o preferisci far l’indiano che resiste e spara a invasori inglesi?
Mi accascio in un angolo della nave, chiedo cibo che sappia di pollo.


quattro mesi e tre settimane oggi.
Piove, ho chiesto la pioggia in qualche giorno, …scegli tu Macchina, fai la pioggia ogni tanto. Guardo dall’oblò, ho una prateria davanti casa e il temporale scuote gli alberi.
Frank buongiorno, sono quattro mesi di viaggio e non mi hai dato ancora un nome. Frank? Mi autorizzi a usare il mio nome terrestre? Sai che sono la traslazione di un corpo e una mente reale? Sai che è lì con te? Quando mi sveglierai pensi di trattarmi nello stesso modo?
la cinquantaduesima persona presente sulla nave, ha ragione la Macchina: è lei, da qualche parte a dormire in un pertugio c’è lei, dice che quando arriveremo si sveglierà da sola e fonderà le due memorie, vai a sapere come, e sarà imbarazzante discutere con lei di questi mesi, o anni, in viaggio.

Devo fare una lista, devo ricordarmi:
1-Tutta la serie di Dylan Dog
2-Tutta la serie di: Topolino; Paperino; Pluto.
3-Cartografia e fotografie del Brasile e della Russia.
4-Le ricette della cucina italiana e marocchina.
5-Filmografia di Godard e Bill Murray.


Cinque mesi nello spazio oggi.
Lista degli invitati. Se mai arriveremo al pianeta promesso dovrò affidare delle mansioni, o passare il comando a una delle poche persone preparate che ho sottratto dalla terra, nella lista li ho segnati come ‘tecnici’, esperti di botanica, scienziati, mi sono fatto suggerire dalla Macchina, sapranno loro che fare, mi sono fatto consigliare su quali ruoli vengono coperti in questi viaggi, ho aggiunto qualche medico, vero, la nave può curare ogni male ma non si sa mai, qui siamo nel futuro, la Macchina dice che potrei tagliarmi una gamba e sostituirla con una protesi, e non cambierebbe nulla, è rassicurante.
qualcun vorrà di certo farmi lo scalpo per averlo tolto dal mondo mentre il mondo non sta finendo affatto. Mi ha obbligato la Macchina! Per questo non le parlo e non le do un nome, il suo nome, come la Macchina le ha prese non lo so, dice che è bastato un apparecchio elettrico di nuova generazione vicino al corpo per teletrasportarle, io non le ho creduto, ho fatto spallucce.
avevo un cane, non me l’ha fatto portare, ho pianto ieri pensando a lui, lei, è una cagna.
forse dovrei svegliare qualcuno di più preparato e mettermi a dormire al suo posto, ma la macchina mi tratta bene e adoro il fantasiometro e tutto questo agio, e tutte quelle stanze…

Vado nella piscina, nella zerodue acqua salata e vista all’orizzonte, metto il sole dove voglio, abbronza, sto a mollo e dietro metto i monti, il progetto di stampare pietre e sabbia è avviato, la Macchina dice che …non c’è problema Frank.
devo solo abituarmi, non conoscerò più nessuno di nuovo, nessun nuovo film in uscita, cucinerò però, farò sport, e il fantasiometro mi porterà in luoghi mai visti.
Oggi il mare è un poco mosso.

Lista passeggeri. Me la scrivo su un foglietto per passare il tempo, ero chiaramente nel panico e ancora ubriaco quando ho fatto la lista, poteva andare peggio:
1-Nick Cave, sono contento di averlo scelto.
2-Keni Arkana, vai a sapere cosa stavo pensando.
3-Tom Waits, lo ricordo che avevo sentito Frank Song il giorno prima.
4-Jim Jarmush, avevo appena visto Daunbailò.
5-Bill Murray.
6-Zadie Smith, me ne parlava il giorno primo una cugina al telefono.
7-Ben Harper, chissà che canzone avevo in testa.
8-Jason Statham, avevo rivisto Crank da poco tempo.
9-Eva Green, sono diventato uno che rapisce le donne, che vergogna.
10-Mia madre, la famiglia!
11-Mio padre.
12-Fausto, il mio socio a lavoro, un tipo pesante, fissato con i vasi di ceramica dipinta a mano, non volevo assentarmi da lavoro senza avvisarlo.
13-Caterina, l’ho conosciuta due anni fa e l’ho scelta proprio a caso.
14-Giulia, era la mia fidanzata alle superiori, pensavo ogni giorno di ricontattarla, o forse è la Giulia dell’università: controllare i file.
15-Carlo, uno scrittore e idraulico, mio amico.
16-Nicola, fotografo, edicolante, avevamo un blog assieme, foto e racconti di viaggio, i suoi viaggi.
17-Eugenia, mia coinquilina all’università.
18-Giacomo mio cugino.
19-Chiara, la sua morosa, di Giacomo.
20-Rinaldo, mio cugino, il fratello di Giacomo.
21-Sara. La morosa di Rinaldo.
22-Gianni, mio coinquilino attuale.
23-Lola, la morosa di Gianni.
24-Aleandra, la mia ex morosa, avevamo ancora un rapporto epistolare di tutto rispetto.
25-Tecnico spaziale 1. Donna francese. Età: 40
26-T.S. 2. Uomo russo, 36.
27-T.S. 3. Donna russa, 41.
28-T.S. 4. Uomo giapponese, 32.
29-T.S. 5. Donna cinese, 30.
30-T.S. 6. Donna cinese, 28.
31-T.S. 7. Uomo cinese, 36.
32-T.S. 8. Donna italiana, 35.
33-T.S. 9. Uomo Cuba, 51.
34-T.S. 10. Uomo inglese, 43.
35-T.S. 11. Donna inglese, 33.
36-T.S. 12. Uomo siriano, 27.
37-T.S. 13. Donna spagnola, 25.
38-T.S. 14 Donna spagnola, 43.
39-T.S.15 Uomo spagnolo, 50.
40-T.S. 16 Uomo Spagnolo, 32.
41-T.S. 17 Donna danese, 31.
42-T.S. 18 Uomo danese, 29.
43-T.S. 19 Uomo norvegese, 35.
44-T.S. 20 Donna norvegese, 44.
45-Medico 1 Uomo ganese, 33.
46-Medico 2 Uomo camerunese, 37.
47-Medico 3 Donna camerunese, 28.
48-Medico 4 Donna egiziana, 26.
49-Medico 5 Uomo italiano, 40
50-Medico 6 Donna polacca, 34.

Macchina!
Si Frank?
Macchina!
Si?
Macchina!
Calmati Frank…
Macchina!


Cinque mesi e due settimane.
Ci sono giorni in cui lo spazio è infinito, mi dà respiro, altri in cui mi sembra essere stretto, imploro alcolici ma la Macchina sa bene il regolamento e dell’importanza della missione, e finiamo con il litigare.

Le giornate sono andate veloci, nessun intoppo, ho scaricato e continuo a scaricare modelli, piante geografiche, oggetti, ricette, musica, ho fatto molto esercizio, ho nuovi abiti. Mancano poche settimane alla perdita di contatto con la terra, devo svegliarli.
la sala comando ha una porta che va a un corridoio che percorre l’intera nave, li eviterò il più possibile, fin quando non si saranno adattati tutti e tutte.
Macchina. Scongelali tutti, se hai ragione… potranno così lasciare dei messaggi per casa, prepara i loro alloggi, dai loro dei tranquillanti, sballali, aduna nella zeroquattro, spiega loro tutto. Li incontrerò uno alla volta. Di loro che sono io il comandante. Di loro che la terra esploderà a breve, come hai detto a me, di loro che sono salvi, dai loro altri tranquillanti.


Sei mesi, oggi.
Ho passato le ultime settimane a scontrarmi con loro, fare a botte, consolare, spiegare, nuotare, abbiamo fatto una festa, io e Caterina ci siamo baciati, il socio non l’ha presa bene questa storia dello spazio e ha sbroccato: ho dovuto ucciderlo, e per questo ho discusso con la Macchina per giorni, a suo modo mi ha tenuto il muso, gli altri si sono spaventati.
hanno mandato messaggi pieni di disperazione, li ho ascoltati nella sala comando, loro non hanno capito, o forse non ho capito io, non sono lucido, e cerco di evitare i miei ospiti.


Sette mesi e due settimane, oggi.
Son quasi contento, la Macchina mi avvisa, ci sono forti piogge e scosse di terremoto in tutto il pianeta. Mi collego dalla sala di controllo, le dico di chiamare tutti e tutte, adunarli nella sala zeroquattro, e di informare loro. Mentre lei fa questo decido di registrare con più telecamere possibili quello che accade, dai satelliti inquadro la terra, da quassù è comunque molto grande, la Macchina dice che è per via di un anomalia nel sole che la terra sta collassando, le dico di non dirmi altro, non ora, non capirei e non ho tempo, devo guardare con la musica giusta, vado nella zerodue, mi metto nel mare e guardo a grande schermo.
chiamo mia madre e mio padre.
guardiamo in silenzio le ultime ore di Gaia.
la terra esplode. Chiazze come atomiche si espandono e poi un grande botto che sento fino al petto.
stringo le loro mani, mi sento molto diverso, non mi commuovo.
quel che provo è confuso.
quel che provo.
non lo so.
la terra esplode, anche Marte, anche la Luna.
La Macchina dice …te l’avevo detto.
E penso a cosa ho dimenticato, cosa non ho potuto portare con me.
Frank Zappa… lo dico piano. Ho dimenticato la sua musica.

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¡Berta Cáceres presente! https://www.carmillaonline.com/2016/03/29/berta-caceres-presente/ Mon, 28 Mar 2016 22:00:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29497 bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo [...]]]> bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo alla parola e al pensiero di fluire.

Difficile sfidare l’impotenza suscitata dalla consapevolezza che ci stanno ammazzando e che per loro la vita non ha nessun valore.

Le lacrime devono essere versate per dissipare il dolore, per far si che l’acqua del pianto ci rinverdisca dentro e che quello che crescerà in noi ci riempia di vita.

Quando la rabbia ci pervade, la miglior cosa è respirare profondamente e organizzarci, tanto collettivamente, come individualmente, cosicché, piano piano, si trasformi in ribellione.

Lo scorso tre marzo, Berta Cáceres, compagna fondatrice e coordinatrice del Consejo Cívico Popular e Indígena de Honduras (COPINH) è stata assassinata dalle pallottole d’un sistema che disprezza la vita, che ha paura della forza dei popoli che difendono i loro fiumi, le loro terre, il loro crescere e il loro vivere condividendo.

berta-vive-la-lotta-continuaBerta era e continua a essere la forza dei popoli originari di Abya Yala. Il riecheggiare dei suoi passi persiste nelle strade della Esperanza (Honduras), dove è nata ed è stata uccisa. La sua potente voce continua a nascere dalle nostre bocche per gridare agli assassini della terra, che l’organizzazione popolare della forza Lenca è più forte del piombo con il quale la vogliono far tacere, che la nostra scommessa è per la vita, nel senso più ampio della parola, e soprattutto, che la vita non è un regalo che loro gentilmente ci concedono, la vita non si impone, la vita si rinforza, si purifica e si organizza, per combattere contro la paura, il proiettile, la diga idroelettrica, la miniera, l’esercito e tutti i meccanismi di morte e controllo che ci vogliono imporre e con i quali vogliono distruggere il nostro spazio vitale.

Berta è stata assassinata dallo stato hondureño che dà in concessione e vende le terre che non gli appartengono, perché la terra e di chi la cammina, la semina, la vive. Colpevoli della sua morte sono l’impresa costruttrice di capitali locali DESA (Desarrollos Energéticos S.A.), e una delle più potenti costruttrici, la cinese Sinohydro. Assassino è il governo golpista e dittatoriale di Juan Orlando Hernández, che è anche colpevole di non dar la protezione necessaria e mantenere in un territorio ostile e pericoloso il compagno Gustavo Castro Soto, testimone diretto dell’omicidio di Berta Cáceres e ferito nell’attacco. Il malgobierno hondureño sta impedendo che Castro esca dal paese, mettendo in pericolo la sua integrità fisica e mentale. Gustavo Castro è, come Berta, un difensore della terra, coordinatore di Otros Mundos Chiapas (organizzazione messicana per la difesa dei diritti umani, i beni comuni e la madre terra).

Berta insieme al COPINH riuscirono ad impedire la costruzione della centrale idroelettrica Agua Zarca che pretendeva incarcerare ed avvelenare le acque del fiume Gualcarque, da dove sorgono le voci sacre delle bambine del popolo Lenca. La costruzione è stata fermata temporaneamente, ma la militarizzazione della zona e il continuo assedio delle e degli integranti del COPINH, che resistono nel territorio, è estremamente preoccupante.

L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi per gli attivisti. Centodieci ambientaliste e ambientalisti sono stati uccisi negli ultimi cinque anni; l’assassinio di Berta non è un caso isolato, e sappiamo che la sua morte non è stata la prima e purtroppo non è stata nemmeno l’ultima; due settimane dopo che è stata strappata la vita della nostra compagna, sorella, amica, madre, è stato ucciso Nelson Garcia, compagno facente parte del COPINH. È stato assassinato due ore dopo aver partecipato alla resistenza contro lo sgombero degli abitanti della comunità di Río Chiquito.

berta_vive_xlargeCon l’assassinio di Berta, con l’esproprio delle nostre terre, delle nostre acque, dei nostri spazi di costruzione di altri mondi, quello che cercano è terrorizzarci, farci credere che non abbiamo possibilità di agire, farci aver paura di conoscere le nostre strade, i nostri quartieri, le nostre campagne.

Voglio dire, come giovane messicana, come compagna di tutti voi in basso a sinistra: il loro sistema di morte solo rinforza la nostra lotta per il Buen Vivir, la loro imposizione perpetua del terrore come modello di vita ci spinge a organizzarci per recuperare e per far crescere i semi che rinverdiranno i nostri prossimi passi.

Adesso più che mai, gridiamo: ¡Berta vive! ¡La lucha sigue! ¡El pueblo Lenca vive! Berta non è morta, ne sono nate altre cento!

Abajo y a la izquierda compas, continuiamo a seminare di vita il desde abajo per far vedere a quelli di sopra che la morte non ci renderà muti, che sarà distrutta la loro imposizione del terrore.

Continuiamo ad organizzarci affinché la nostra cieca rabbia si dissipi; per risolvere con il lavoro comunitario, con il dialogo con altre realtà, fra di noi, i problemi che ci impongono e le sfide che si presentano, senza mai arrenderci.

Non riusciranno a strapparci la parola, nonostante continuino a riempire di sangue le nostre terre, le nostre case, i nostri corpi… amori ed amicizie.

Non fermeranno la lotta dei nostri popoli. Non riusciranno a violentare le nostre terre, non riusciranno a venderle. Perché se toccano una di noi, toccano tutte.

Berta, esempio di tutto, insegnante, Utopía, Esperanza, come si chiamavano i suoi spazi di lotta.

La nostra Berta respira, nei ricordi di ognuna di noi. Quella Berta che suscitava la mia ammirazione e allo stesso tempo m’intimidiva, con la sua voce da gigante. “E te, perché non parli?” Mi rimproverava Meli mentre camminavamo due passi dietro mia madre e la madre della mia amica Berthita, “Mi fa paura la sua forza” – “La forza di un popolo non ti deve mai intimorire, Helena”.

Il propagarsi dei suoi passi dà un significato al futuro di costruzione di nuove forme e sguardi per capire il territorio-corpo, la lotta femminista e indigena, il sentire dell’acqua.

Ringrazio la vita per avermi permesso di conoscere le sue terre, seguendola nel suo camminare.

Berta si espande nella resistenza del popolo Lenca e nella resistenza di ogni popolo di Abya Yala e del mondo.


RITRATTO D’AMORE CON ASSASSINIO – Per Berta Cáceres

Le tue figlie sono minute,

una di esse si morde il labbro

e parla con la tua voce da gigante.

Eri madre

ed eri figlia del tuo popolo,

una combattente senza gloria,

senza fortuna.

 

Poi sono venuti gli omuncoli del denaro

con assetate idrovore meccaniche,

sono venuti a quantificare la vita di un popolo,

a chiuderla in disumane barriere

a trasformare la vita in capitale

e la morte in bene comune.

La prepotenza del piombo

ha potuto con te quello che non ha potuto

la strisciante lascivia del denaro.

 

Ascoltate! Hanno assassinato Berta!

Hanno assassinato uno dei sorrisi

che si scagliava contro il tempo.

Ascoltate! Hanno assassinato una di noi,

ed è come se in un sol colpo

avessero asportato un’intera foresta,

come se in un lampo avessero dimezzato una montagna,

avessero potuto incendiare i fiumi e i mari.

Ascoltate! Hanno assassinato Berta,

e l’acqua or schizza furibonda dai propri argini!

 

Per te scrivo queste righe,

per te mai conosciuta

per te intravista

nella figura sfuocata di tua figlia,

nelle lacrime di una amica.

 

Chiedo a te Berta,

di poter accarezzare il tuo nome,

la tua forza,

per essere un po’ anch’io figlio tuo,

e madre… perché in me nasca l’alba di una nuova alba.

Perché il tuo sorriso sia il marchio inconfondibile

che smentisca la rassegnazione dei pessimisti,

degli spossati.

 

Nino Buenventura

 

[Versione in spagnolo – Versión en español]

 

RETRATO DE AMOR CON ASESINATO – Para Berta Cáceres

Tus hijas son menudas,

una de ellas se muerde el labio

y habla con tu voz de gigante.

Eras madre

y eras hija de tu pueblo,

una combatiente sin gloria,

sin fortuna.

 

Y llegaron los homúnculos del dinero

con sedientas tragadoras mecánicas,

llegaron a cuantificar la vida de un pueblo,

a cerrarla en deshumanas barreras

a transformar la vida en capital

la muerte en bien común.

La arrogancia del plomo

pudo contigo lo que no pudo

la serpentina lascividad del dinero.

 

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta!

Mataron una sonrisa

que se arrojaba contra el tiempo.

¡Escuchen! Asesinaron a una de nosotros,

y es como si de un solo golpe

hubiesen extirpado una entera foresta,

como si en un relámpago hubiesen demediado una montaña,

como si pretendieran incendiar los ríos y los mares.

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta,

y ahora el agua salpica furibunda desde su proprio manto!

 

Por ti escribo estos versos

jamás conocida,

por ti vislumbrada

en la figura difuminada de tu hija,

en las lagrimas de una amiga.

 

Te pido, Berta

acariciar tu nombre,

tu fuerza,

para ser por un poco hijo tuyo,

y madre… para que en mí nazca el alba de una nueva alba.

Para que tu sonrisa sea la señal inconfundible

que desmienta la resignación de los pesimistas,

de los postrados.

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