Terminator – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nei labirinti della guerra https://www.carmillaonline.com/2024/09/11/un-generale-nei-labirinti-della-guerra/ Wed, 11 Sep 2024 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84253 di Sandro Moiso

Gen. David Petraeus, Andrew Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, pp. 650, 34 euro

Se, anche troppo spesso, le spiegazioni per le cause delle guerre moderne sono state riduttive e perfino evanescenti nell’appoggiarsi a questa o quella ideologia (da quella che ne indica la causa in quella della difesa della libertà e della democrazia a quella che ne individua l’origine nelle necessità o nella crisi dell’imperialismo, soprattutto occidentale), il loro sviluppo e svolgimento ha rivelato come quasi sempre queste finiscano con l’avvilupparsi in autentici labirinti di contraddizioni, menzogne, [...]]]> di Sandro Moiso

Gen. David Petraeus, Andrew Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, pp. 650, 34 euro

Se, anche troppo spesso, le spiegazioni per le cause delle guerre moderne sono state riduttive e perfino evanescenti nell’appoggiarsi a questa o quella ideologia (da quella che ne indica la causa in quella della difesa della libertà e della democrazia a quella che ne individua l’origine nelle necessità o nella crisi dell’imperialismo, soprattutto occidentale), il loro sviluppo e svolgimento ha rivelato come quasi sempre queste finiscano con l’avvilupparsi in autentici labirinti di contraddizioni, menzogne, disastri e massacri in cui gli stessi responsabili iniziali rimangono imprigionati e faticano a districarsi.

Winston Churchill, al tempo del secondo conflitto mondiale, aveva già potuto affermare che «in guerra la verità deve essere sepolta sotto un cumulo di menzogne», ma oggi si potrebbe tranquillamente affermare che sotto alle menzogne non vi è più alcuna verità e che soltanto le bugie delle parti in causa rimangono a spiegare le motivazioni, le scelte e le azioni che le determinano.

Valga come esempio per tutte l’attuale conflitto russo-ucraino con le reciproche accuse di terrorismo e nazismo che i due principali protagonisti si rimpallano ormai da più di due anni. Chi scrive non si aspetta certo altro da personaggi del calibro di Zelensky e Putin, ma almeno un po’ di dignità dovrebbe spingerli a dire che ciò che accade è una guerra, non un’operazione militare speciale o un’perazione di polizia o altro, e che non vi è altro modo di condurre una guerra, in età moderna, se non ricorrendo a bombardamenti massicci sia sugli obiettivi militari che civili, l’invio al fronte di soldati sempre più numerosi e sempre meno motivati destinati a diventare carne da cannone nel giro di poco tempo e a tecnologie sempre più micidiali nell’opera di distruzione.

Il buon vecchio, ma sempre vituperato, Céline, in tutta onestà, aveva definito tutto questo come “il tritacarne”, mentre oggi politici, finti pacifisti e giornalisti da strapazzo parlano a sproposito di “crimini di guerra”, indicando nell’avversario l’autentico mostro che occorre distruggere con il massimo impiego di violenza e tecnologia della devastazione, giustamente e opportunamente distribuite per poter giungere ad una pace “giusta”.

Motivo per cui tutto viene giustificato quando si tratta di infliggere colpi al nemico e, grazie ai social media e alla loro diffusione, trasmesso attraverso uno sguardo sulla morte altrui degno dei peggiori snuff movie. Ciò che colpisce la parte che si vuole difendere è sempre visto come orribile stragismo, disgustoso e sintomo delle malevoli intenzioni dell’avversario, mentre i colpi portati allo stesso sembrano sempre essere “giusti”, meritati e auspicabili in forme sempre più devastanti.

Così anche il surreale dibattito sulle armi che è possibile utilizzare sul territorio ucraino oppure sul territorio della Federazione russa, come anche l’eterna questione di lana caprina tesa a definire e a separare i concetti di “difesa” e “attacco”, soprattutto quando la costruzione di sempre nuove basi militari NATO ai confini della Russia oppure l’incursione ucraina in direzione di Kursk vengono considerate scelte “difensive”, rivelano l’ipocrisia di una rappresentazione della guerra che mira soltanto a nasconderne i limiti e le finalità dei contendenti. Peccato, però, che in mezzo a tutto ciò ci siano i civili, gli adulti, i bambini, le donne, gli anziani e anche i soldati che muoiono davvero o riportano ferite e mutilazioni, oltre che traumi psicologici, spesso orribili e irreparabili.

Per uscire da questa rappresentazione ipocrita e binaria della guerra, in cui l’intelligenza diventa artificiale non solo in virtù degli strumenti elettronici usati, ma grazie soprattutto al soffocamento di qualsiasi capacità individuale di interpretare e reagire con disgusto allo spettacolo osceno della morte rappresentata soltanto come un evento dovuto alla malvagità dell’avversario oppure alla bontà della causa rappresentata è, talvolta, meglio affidarsi alle riflessioni di chi la guerra la fa, per così dire, “per mestiere” e, proprio per questo, si trova costretto a non condirne l’immagine con troppi imbellettamenti o, al contrario, con un eccessivo imbarbarimento del nemico.

Strumento spesso usato in politica per rendere l’avversario degno soltanto di odio, avversione e distruzione (più o meno programmata). Strumento che, più le guerre vanno avanti trascinandosi in situazione sempre più complesse, confuse, imprevedibili e devastanti, diventa quasi sempre, come si accennava già all’inizio, l’unico per spiegarne l’utilità ai propri cittadini e alleati da parte dei governi e delle forze politico-economiche e militari coinvolte.

Ecco dunque il motivo per cui vale la pena di affrontare la lettura del testo del generale David Petraeus edito dalla UTET. Un generale che certo non potremmo catalogare tra i “nostri”, ma che per la lunga esperienza, anche là dove si lascia più facilmente trasportare dall’orgoglio del ruolo di difendere le libertà garantite dal sistema dei diritti di stampo occidentale e statunitense, deve, per forza di cose, render ragione delle scelte fatte sul campo, le difficoltà incontrate dagli attori delle guerre e le conseguenze, spesso impreviste, delle stesse. Sempre a partire dalle armi utilizzate, dalle tattiche adottate e dalle strategie messe in atto negli scenari di guerra.

Esperto di “guerra concreta”, il generale, insieme al coautore Andrew Roberts, storico e giornalista specializzato in biografie quali quelle di Napoleone e Churchill (personaggi in cui ruolo politico e militare risultano inseparabili), ci guida nei labirinti delle numerose guerre che hanno devastato il mondo successivamente al secondo conflitto mondiale, contribuendo a ridefinirne spazi geo-politici e, talvolta, i rapporti tra le classi sia a livello nazionale che internazionale. Poiché, ed è questa piena convinzione di chi scrive, la guerra non è un errore, un fatale incidente che, con altre scelte, avrebbe potuto essere evitato se solo i governi e le forze politiche lo avessero voluto, ma è parte integrante della storia delle società divise in classi e del loro sviluppo, ascesa o caduta. Potremmo definirla come la massima rappresentazione, formale e sostanziale allo stesso tempo, di ciò che certa storiografia si ostina a definire come “civiltà”.

Non a caso, per lungo tempo e ancora oggi, ad ogni svolta militare dei rapporti tra gli stati e le classi, tra oppressori e oppressi, tra potenze in ascesa e altre in declino, si è parlato e ancora si parla di “scontro di civiltà”, Che si tratti del vecchio conflitto tra USA e URSS ai tempi della mai calda davvero “guerra fredda”, del confronto possibile domani tra Stati Uniti e Cina, oppure di quello Medio Orientale che ha sempre come epicentro la presenza militare e politica israeliana mentre di volta in volta gli avversari possono cambiare (Lega Araba, Egitto di Nasser, Hezbollah libanesi, Iran e palestinesi espropriati delle loro terre e dei loro diritti minimi, solo per citarne alcuni), o, ancora, quello sempre attuale come esempio (per i teorici dello scontro di civiltà), ancora a distanza di quasi duemilacinquecento anni, tra Atene e Sparta e l’impero persiano. Che poi quarant’anni dopo la vittoria greca sull’impero asiatico, le due città vincitrici si impegnassero in una guerra distruttiva tra di loro, durata quasi trent’anni, per chi dovesse dominare sul Peloponneso è storia che viene tenuta in disparte dalla prima, anche se di grande interesse per chi voglia studiare le contraddizioni e gli interessi che creano alleanza oppure le disfano trasformandole in nuovi fattori di guerra.

David Petraeus (n. 1952), va detto subito, è un ex generale dell’esercito degli Stati Uniti ed ex direttore della CIA (dal settembre 2011 al novembre 2012), e ha guidato i contingenti americani in Iraq (dal febbraio 2007 al settembre 2008) e in Afghanistan (dal luglio 2010 al luglio 2011). Complessivamente ha servito per trentasette anni nelle forze armate statunitensi ed oggi è considerato, a livello internazionale, un esperto di scienza bellica mentre è attualmente Senior Fellow e Lecturer presso l’Università di Yale.

Un curricolo che certo non lo rende appetibile per gran parte dei lettori di Carmilla, ma che pure ne rende interessanti le osservazioni sulle decine di conflitti che hanno insanguinato il mondo dalla guerra di Corea fino all’attuale confronto russo-ucraino, passando per le guerre di decolonizzazione, a quelle in Vietnam, Medio Oriente, Falkland, Iraq e Afganistan. Tutte analizzate dal punto di vista delle scelte strategiche e tattiche e dei conseguenti errori di valutazione oppure di accelerazione in direzione della vittoria o della sconfitta dei protagonisti. Fattori determinati spesso dalle tecnologie e dalle armi a disposizione dei combattenti e, molto spesso, dal morale delle truppe e delle popolazioni coinvolte. Tutte guerre, comunque, in cui la presenza degli interessi statunitensi è passata di volta in volta dal ruolo di semplice giocatore-ombra a quello di protagonista.

L’immagine di copertina, in cui compaiono sia un Kalašnikov Ak-47 che un drone di ultima generazione, riassume abbastanza significativamente le evoluzioni delle tecniche e degli strumenti di distruzione che hanno sempre più caratterizzato i conflitti dalla seconda metà del ‘900 fino ai nostri giorni. Cui andrebbero aggiunti gli strumenti della cosiddetta “guerra ibrida”, basata sull’uso o sul disturbo degli apparati e dei dispositivi elettronici e della rete, affiancati dall’uso del terrorismo diretto e indiretto (il secondo soprattutto su scala mediatica).

Un’evoluzione che, invece di ridurre l’importanza dei soldati sul campo di battaglia, ha fatto sì che gli eserciti abbiano dovuto sviluppare competenze e specializzazioni prima inimmaginabili. Trasformando in potenziale arma letale qualsiasi strumento o competenza dell’agire quotidiano e, contemporaneamente, in potenziale obiettivo militare strategico qualsiasi struttura (reale o virtuale), edificio o attività sociale, di ordine economico, sanitario e logistico. In un gioco al massacro dell’avversario in cui, pur di evitare l’uso dell’arma nucleare che comunque non appare mai esclusa dall’orizzonte della guerra, si amplificano e moltiplicano i danni e le sofferenze portate alle popolazioni civili e ai combattenti coinvolti nei conflitti. Su una scala un tempo impensabile.

L’illusione delle guerre rapide, travestite da operazioni di polizia sostenute da piccoli contingenti militari, come anche l’ultima scatenata da Putin in Ucraina, sembra essere definitivamente tramontata, rivelando che il numero dei soldati impegnati sul campo e nella logistica sia destinato a diventare sempre più grande. Fattore che oggi pesa enormemente non soltanto sulle scelte politiche occidentali nel possibile rilancio e utilizzo degli eserciti di leva1, ma sulla stessa politica militare russa che dei fanti trasformati in carne da cannone fino all’esaurimento delle scorte di munizioni degli avversari ha fatto il suo punto forza fin dal secondo conflitto mondiale.

Quello della crescita numerica degli eserciti, che in un campo di battaglia come quello ucraino si affianca alla necessità di tornare ad attuare nuovamente tattiche ereditate fin dalla prima guerra mondiale (trincee, uso delle forze corazzate su vasta scala, tentativo di dominare i cieli con l’uso dell’aviazione e azioni marittime di varia portata destinate al controllo delle vie d’acqua, dei porti e dei mari) tenendo conto di nuovi e micidiali strumenti (quali droni e missili e bombe capaci di cercare da sé i bersagli) messi a disposizione dalla più recente tecnologia bellica, comprende però anche sempre quello del morale delle truppe.

Tema cui Petraeus dedica molte pagine nel contesto di svariate guerre, sottolineando indirettamente come la rivolta dei soldati sia sempre possibile, come conseguenza delle sempre peggiori condizioni in cui questi vengono a trovarsi durante l’evoluzione dei conflitti e degli strumenti bellici adottati dalle parti in causa. Motivo per cui se lo storico militare Norman Keegan aveva sottolineato come nelle trincee della prima guerra mondiale si fossero realizzate le peggiori e maggiormente paurose condizioni di combattimento e sopravvivenza dei soldati2, fattore inseparabile dagli eventi che portarono alle rivolte nelle trincee del 1917 e alla successiva ondata rivoluzionaria iniziatasi in Russia, ma che oggi vedono un ulteriore peggioramento delle stesse con un aumento repentino dei morti sia militari che civili nei conflitti.

Nel dicembre 2022, sottolinea Petraeus, i membri della 155ma brigata di fanteria navale russa avevano inviato una lettera aperta a Oleg Kožemjako, governatore della regione del Territorio del Litorale, denunciando un’offensiva cui avevano partecipato:

«In conseguenza all’offensiva pianificata “con cura” dai “grandi generali”, i quattro giorni abbiamo perso circa trecento uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre a metà dell’equipaggiamento». Persino inviare una lettera del genere equivaleva ad ammutinamento. In quella fase della guerra, ormai gli ucraini trovavano cadaveri di ufficiali russi cui i loro uomini avevavo sparato alle spalle, pratica che ricordava gli episodi di fragging, cioè l’uccisione intenzionale di un ufficiale, nell’esercito statunitense in Vietnam3

Se Petraeus si sofferma sul dilagare della demoralizzazione tra i soldati, come elemento di difficoltà per l’esercito di Putin, è altresì vero che anche Zelensky ha dovuto fare i conti con lo stesso problema, a partire dal rifiuto, talvolta sostenuto dai civili presenti, all’arruolamento forzato da parte dei giovani e delle giovani ucraine,

Nei soli primi 4 mesi dell’anno, i procuratori ucraini hanno avviato procedimenti penali contro quasi 19mila soldati che hanno abbandonato le loro posizioni o hanno disertato. Lo scrive la Cnn in un servizio dedicato alla situazione delle truppe ucraine sul fronte. «Sono dati impressionanti», commenta l’emittente, diffondendoli. E molto probabilmente incompleti: diversi comandanti hanno infatti dichiarato che molti ufficiali non segnalano le diserzioni e le assenze non autorizzate, sperando di convincere le truppe a rientrare volontariamente, senza incorrere in punizioni. Questo approccio è diventato così comune che l’Ucraina ha cambiato la legge per depenalizzare la diserzione e le assenze senza permesso, se commesse per la prima volta. L’emittente ha parlato con 6 comandanti ed ufficiali che sono ancora o sono stati fino a poco tempo fa sul fronte impegnati a combattere o coordinare le unità dislocate nell’area. Tutti loro hanno parlato di diserzione e insubordinazione come di problemi diffusi, soprattutto tra le reclute4.

Quello delle tecnologie obsolete oppure avanzate è un altro elemento che serve a valutare gli andamenti delle guerre, anche se in determinati contesti, come ad esempio in Afghanistan, tecnologie piuttosto antiquate hanno validamente tenuto testa a quelle più avanzate messe in campo dall’esercito statunitense. Tecnologie, quelle più avanzate in cui intelligence e azioni dei droni servono ad eliminare singoli soggetti (da comandanti di settore oppure generali e dirigenti politico-militari), ma falliscono nel controllo completo del territorio, Che, ancora una volta, può essere tale soltanto mettendo sul terreno, boots on the ground, un numero elevatissimo di soldati con il rischio di perdite enormi e difficilmente sopportabili dalle opinioni pubbliche coinvolte.

Ecco allora che la combinazione di Kalašnikov Ak-47 e droni o aereo a guida remota MQ-I Predator, come quello rappresentato sulla copertina del libro, possono diventare egualmente importanti sul campo di battaglia moderno, finendo anche col limitare l’efficacia delle forze corazzate e della stessa aviazione militare tradizionale.

Per il resto, tecnologie e potenza delle reti in termini di Giga e diffusione, controllo dallo spazio e dall’alto delle mosse del nemico, possono contribuire ulteriormente al successo o meno delle campagne militari. Anche se, in ambienti più ristretti di confronto militare, l’uso dei pizzini da parte dei responsabili politici e militari (Osama Bin Laden o Yahya Sinwar ad esempio) possono mettere al sicuro sia la persone fisiche che le reti di trasmissione degli ordini dei comandanti.

Così un‘eccessiva fiducia nell’uso dei telefonini ha tradito molti generali ed alti ufficiali russi e pure i loro contingenti, esponendoli a micidiali e precisi attacchi, di cui anche la guerra mediorientale è altrettanto stata teatro. Teatri di guerra in cui, per ora, la tecnologia statunitense sembra mantenere ancora una certa superiorità, non comprovata però da effettive conquiste territoriali per le quali sarebbe necessario, lo si ricorda ancora una volta, impiegare un numero enorme di soldati ed aumentare il rischio di un confronto armato con la Russia (o con la Cina).

Per questo motivo il generale americano si sofferma in chiusura sulle possibili evoluzioni delle guerre di domani, in cui il tentativo di evita e confronti di caratter enucleare potrebbe comunque portare a scenari altrettanto paurosi. In cui accanto all’omicidio mirato dei responsabili della ricerca nucleare o tecnologica. Si affianca una maggiore attenzione per la guerra asimmetrica e ibrida.

Citando l’esperto in controinsurrezione David Kilcullen, Petraeus sottolinea ancora come l’azione decisiva possa avvenire altrove, in un ambito che non si considera di guerra guerreggiata:

per mezzo della manipolazione del trasferimento tecnologico, l’influenza della guerra cibernetica esercitata da attori civili, il controllo di risorse minerarie fondamentali5, o l’acquisto di beni immobili strategici. Simultaneamente, ai margini, la Cina6 ha fatto progressi rapidi e significativi in ambiti (come le telecomunicazioni cellulari a 5G, le operazioni cibernetiche , le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, la robotica, il potenziamento dell’azione umana, il calcolo quantistico, la guerra politica genomica e biotecnologica, oltre alla manipolazione finanziaria) che vanno oltre la comprensione di chi in Occidente si occupa di guerra, e quindi trovano scarsa competizione militare diretta7.

Al di là dell’allarme, sicuramente strumentale, lanciato da Kilcullen e sottolineato da Petraeus, di sicuro ed evidente rimane il fatto che ormai nessuna attività di ricerca scientifica e tecnologica, economica o “criminale” sfugge ad una possibile applicazione di stampo bellico. Anche se l’attitudine a tradire anche gli alleati rimane una costante sullo sfondo, come Petraeus dimostra nelle pagine dedicate al conflitto per le isole Falkland tra Gran Bretagna e Argentina, in cui la vittoria del contingente militare aereo-navale inglese, piuttosto ridotto e a migliaia di chilometri di distanza dalla madre patria, fu reso possibile non solo dallo scoramento delle truppe di terra argentine, ma anche, e forse soprattutto, dal contributo e dall’aiuto ricevuto in termini di intelligence e sorveglianza dal cielo con gli aerei Awacs forniti dagli Stati Uniti e dalla loro intelligence. Stati Uniti che pure avevano in precedenza sostenuto il regime sanguinario dei colonnelli argentini, ma che pure preferivano mantenere intatta l’immagine del domino anglo-americano di quella parte del mondo, pur apparentemente così poco importante sotto tutti i punti di vista.

L’impiego di tecnologie avanzate non elimina però ancora la necessità di mantenere un grande numero di uomini e donne sotto le armi, poiché come si sottolinea ancora nel libro:

In modo un po’ paradossale, i sistemi senza pèilota controllati da remoto richiedono una gestione umana significativa. L’aviazione americana valuta che per un’unica orbita senza interruzione di un solo Predator UAV sia necessario un equipaggio di 168 militari addetti all’efficientamento di armi, carburante, riparazioni a terra e n volo verso e dall’obiettivo, oltre che per elaborare, sfruttare, analizzare, immagazzinare e diffonder l’intelligence che raccoglie. Il Reaper 180 e il Global Hawk, veicoli senza pilota più grandi, richiedono ben 300 persone per orbita. «Il primo problema di pilotaggio dell’aeronautica statunitense è di pilotare le nostre piattaforme senza pilota» afferma uno dei suoi generali8.

Si assiste così ad una crescita esponenziale della spesa militare e del personale coinvolto nelle attività militari, magari pur vestendo abiti civili, vista anche l’importanza che cibernetica e IA assumeranno sempre più nella conduzione delle guerre future.

Grazie alla capacità di computer sempre più sofisticati di valutare grandi quantità di dati, è probabile che gli assassinii guidati da intelligenza artificiale diventeranno molto comuni nel corso di questo secolo […] per usare le parole di Henry Kissinger, l’intelligenza artificiale aumenta la facoltà degli stati di «attivare macchine e sistemi che impiegano rapidamente la logica e un comportamento emergente e in sviluppo per attaccare, difendere, controllare e diffondere la disinformazione» ma anche per «individuarsi e neutralizzarsi a vicenda». […] L’AI è già stata utilizzata nella guerra russo-ucraina in vasti settori, come il software per il riconoscimento facciale, l’ottimizzazione delle catene di rifornimento militari e la produzione di video deepfake, e possiamo essere certi che continuerà a progredire in questo e altri campi9.

A delineare e suggerire il panorama futuro più allarmante è stato però Peter Warren Singer che, capacità, autonomie e ee nel suo libro Wired War, ha scritto:

Le guerre del futuro avranno una vasta gamma di robot diversi per misure, design e intelligenza. I piani, le strategie e le tattiche impiegati in questi futuri conflitti saranno costruiti partendo da nuove dottrine che si stanno appena creando e che coinvolgeranno praticamente tutto, dalle ammiraglie robotizzate e gli sciami di droni autonomi a combattenti a tavolino che gestiranno la guerra a distanza […] In queste battaglie le macchine assumeranno ruoli più significativi, non solo eseguendo missioni, ma pianificandole. […] Le nostre creazioni robotiche stanno generando nuove dimensioni e nuove dinamiche per le guerre e le politiche umane che stiamo appena cominciando a immaginare10.

Affermazioni che hanno fatto sì che lo storico militare Max Boot sia giunto a chiedersi se «un giorno le guerre saranno combattute con macchine tipo Terminator?»11, Riflessione che, per chi conosca la saga fantascientifica basata sulla ribellione delle macchine guidate dalla rete Skynet, pur non abolendo la possibilità dell’uso dell’arma nucleare, contribuisce a delineare un futuro sempre più fosco e labirintico per le guerre in corso e a venire e per la specie umana.


  1. Mentre anche per l’arruolamento volontario si parla apertamente di crisi, proprio a partire dagli Stati uniti. Cfr. D. Bartoccini, Gli Stati uniti non trovano soldati. Cosa sta succedendo?, “il Giornale”, 31 agosto 2024.  

  2. N. Keegan, Il volto della battaglia, il Saggiatore, Milano 2005.  

  3. D. Petraeus, A. Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, p. 476.  

  4. C. Guasco, Guerra, Ucraina in grave difficoltà: 19mila soldati hanno già disertato (e il morale crolla), “Il Messaggero”, 8 settembre 2024.  

  5. Si pensi soltanto a quello delle “terre rare” di cui la Cina sembra detenere, insieme alla Russia, il monopolio, o quasi.  

  6. Autentica ossessione per la difesa, l’economia e le attività controinsurrezionali statunitensi. 

  7. D. Kilcullen, The Dragon and the Snakes. How the Rest Learned to Fight the West, Oxford University Press, New Yok 2020, p. 29, Ora citato in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., pp. 516-517.  

  8. Ibidem, p. 520.  

  9. Ivi, p. 518.  

  10. P. W. Singer, Wired War. The Robotic Revolution and Conflict in the 21st Century, Penguin, Nee York 2009, p. 430, ora in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., p. 519.  

  11. Cit, in Petraeus, Roberts, op. cit., p.519. 

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Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

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Il blues cyber punk di Terminator https://www.carmillaonline.com/2019/12/09/il-blues-cyber-punk-di-terminator/ Mon, 09 Dec 2019 22:13:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56547 di Mauro Baldrati

Esiste un genere/fusion di generi, che potremmo definire fantascienza/thriller/action (di seguito fta). La fantascienza rappresenta il luogo, il tempo, la proiezione; il thriller è la trama, l’intreccio, il divenire; l’action è la velocità, il dinamismo, il colpo di scena.

Questo genere triplo vale per i romanzi, e per il cinema. Forse soprattutto per il cinema, che ha prodotto alcune opere che possiamo definire pietre miliari: il primo Matrix, il primo Predator, La cosa, il primo Alien, Blade Runner. E il primo Terminator, che nell’arco di 28 anni ha [...]]]> di Mauro Baldrati

Esiste un genere/fusion di generi, che potremmo definire fantascienza/thriller/action (di seguito fta). La fantascienza rappresenta il luogo, il tempo, la proiezione; il thriller è la trama, l’intreccio, il divenire; l’action è la velocità, il dinamismo, il colpo di scena.

Questo genere triplo vale per i romanzi, e per il cinema. Forse soprattutto per il cinema, che ha prodotto alcune opere che possiamo definire pietre miliari: il primo Matrix, il primo Predator, La cosa, il primo Alien, Blade Runner. E il primo Terminator, che nell’arco di 28 anni ha generato una saga di sei capitoli. Ora, dopo l’ottimo n. 2, sempre diretto da James Cameron, un buon n.3, il discreto n.4 (Salvation), e il meno che mediocre n.5 (Genisys), è arrivato il n.6 (Destino oscuro). Cameron è tornato, anche se non come regista (è direto da Tim Miller), ma come sceneggiatore e produttore (ovvero nothingall). E si vede. Infatti anche se non può arrivare alle vette del n.1, perché i capolavori sono quasi sempre unici, si tratta di un fta di ottima fattura, con effetti speciali di ultimissima generazione che non scivolano mai nel videogioco, una storia avvincente, e un ritmo serrato.

Il effetti il “plot” sembra lo stesso: l’arrivo dal futuro di un terminator spaventosamente indistruttibile, un Rev-9, una ulteriore versione del metallo liquido, il T-1000 che abbiamo già visto nei n. 2 e 3. La creatura da incubo deve eliminare qualcuno, che tuttavia non è John Connor, perché morirà infettato da un nano-terminator in un altro segmento di futuro. E’ una ragazza, Dani, che proprio come Sarah Connor non sa di essere l’unica speranza di salvezza dell’umanità. E non ci crede, teme che un’altra ragazza, Grace, una sconosciuta che continua a ripeterglielo, sia una pazza.

Grace è arrivata a sua volta dal futuro, proprio come il terminator Schwarzenegger T-800 arrivò nel n. 2. Ma non è una macchina. E’ un’umana potenziata, alta, dinoccolata, con un collo da giraffa e un viso bellissimo. La sua missione è proteggere Dani, come quella del Rev-9 è di ucciderla. Due cavalieri insomma, uno del bene e uno del male, contrapposti in uno scontro che ha come unico epilogo la morte. Lei non conosce Sarah Connor né suo figlio John, perché il futuro è cambiato, grazie all’azione di Sarah, di suo figlio e del T-800. Skynet, il programma diventato autocosciente che ha scatenato la guerra, è stato distrutto, ma alla nuova catastrofe ci penserà Legion, un nuovo sistema di guerra cibernetico che infetterà i computer, i telefoni, l’intera rete delle comunicazioni e delle attrezzature.

Si rinnova la caccia spietata, ossessiva, e la fuga senza fine. Gli inseguimenti in macchina, obbligatori per legge in qualsiasi film americano, sono ancora più estremi, e non ne manca uno addirittura in aereo, tra un enorme velivolo da trasporto e una cisterna, con effetti spettacolari e un uso magistrale del rumorismo.

A un certo punto ritroviamo anche un’invecchiata, sarcastica, antipatica Sarah Connor, interpretata dalla stessa Linda Hamilton, e il T-800, a sua volta invecchiato, con la barba e le rughe. Per cui uno potrebbe chiedersi come fa un robot a invecchiare, a sgonfiarsi la muscolatura da body builder. Ma non ce lo chiediamo. E’ troppo fascinoso il ritorno di Schwarzenegger umanizzato, che ha addirittura messo su famiglia, con moglie e figlio.

Insomma, una riscrittura dei n.1 e 2? Un’ottima cover?

In realtà no. Sarebbe un giudizio semplicistico. Non è la copia di un quadro coi colori appena cambiati e qualche dettaglio spostato. E’ come il blues, che a un ascolto superficiale sembra la musica più ripetitiva della storia. Ma l’anima del blues non è solo tecnica. E’ il sentimento, l’intensità. Basta l’intonazione della voce, il tocco della chitarra, il soffio dell’armonica, per creare un nuovo viaggio, e godere di un’altra avventura. Il blues è un’immanenza che non si estingue, tocca corde profonde perché è nata come musica vitale, di resistenza e di speranza nell’inferno sulla terra. Per questo è sempre diversa. Non ha bisogno di distinguersi a tutti i costi, per non perdere l’appeal.

Così Destino Oscuro fa rivivere la gioia degli appassionati, perché richiama quello stupore, quell’empatia. Infatti ogni viaggio non è mai uguale, anche se all’interno dello stesso paesaggio, lungo la stessa strada.

E può piacere anche ai non specializzati di fta, gli spettatori per così dire generalisti, purché non siano snob, ovvero che non si neghino il piacere di amare le storie, e le favole avventurose.

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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