Tempo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:26:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/13/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-3/ Sun, 13 Aug 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77119 di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le [...]]]> di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le fa regredire ma come linea politica tutta interna al piano del capitale . Esattamente in questo passaggio si situa gran parte della ricchezza prima teorica e analitica e poi organizzativa del giornale. Il riformismo è osservato e identificato come progetto e strategia tutta interna al capitale, come suo centrale modello di sviluppo e principale governo della forza lavoro.

Se Lenin aveva identificato il riformismo come la borghesia dentro il movimento operaio, l’operaismo de “La classe” identifica il riformismo come parte costitutiva e costituente del piano del capitale , tutto questo sulla scia di quanto messo a punto nel lavorio teorico delle esperienze precedenti ma, soprattutto, grazie anche alle esperienze poste in atto dalle lotte operaie in aperta rottura con partito e sindacato. Qualche anno dopo, avendo a mente il ruolo del PCI e del sindacato nelle vicende degli anni settanta, tutto ciò potrà sembrare come la scoperta dell’acqua calda ma, negli anni sessanta, questo è un passaggio teorico di grandissima portata poiché, per la prima volta, ascrive il riformismo alla strategia materiale del capitale1. Mentre i gruppi critici, ma ortodossi, pongono l’accento sul revisionismo del movimento operaio ufficiale, “La classe” e tutte le aree teoriche e politiche a questa contigua focalizzano l’attenzione proprio sul riformismo; per gli ortodossi, infatti, la colpa del movimento operaio ufficiale è quella di aver abbandonato la dottrina e aver introdotto una nuova liturgia poco attenta al verbo presente nei testi sacri. A partire da questi presupposti, pertanto, il riformismo diventerebbe solo la conseguenza fenomenologica di una revisione ideologica e non una pratica del tutto interna al piano del capitale. In ciò che “La classe” elabora vi è, invece, un decisivo passaggio qualitativo dentro la ritraduzione di Lenin. Una ritraduzione che va sicuramente oltre Lenin poiché sviluppa un’analisi del riformismo a partire dai processi materiali interni al ciclo di accumulazione capitalista. Il merito enorme de “La classe”, e dell’operaismo in generale, o almeno di questo operaismo, è quello di aver letto il riformismo dentro la fabbrica e averlo osservato come motore principale del processo produttivo e del suo sviluppo.

“La classe” va oltre Lenin perché il capitale è andato oltre la forma fenomenica conosciuta da Lenin il quale, per forza di cose, non poteva certo fare i conti con l’epopea dello stato–piano2 e di tutto ciò che questo ha comportato. La critica di Lenin al riformismo è una critica tutta politica nel senso che a incarnare il riformismo sono quegli strati, la cosiddetta aristocrazia operaia, che dentro il sistema capitalista hanno trovato una sistemazione sostanzialmente confortevole poiché possono usufruire di una quota del surplus di profitto che il proprio imperialismo rastrella in giro per il mondo. In questo senso il riformismo può essere considerato come una tattica del capitale non una strategia ovvero una alleanza tra classi che condividono alcuni interessi in comune e, soprattutto, hanno il medesimo nemico: lo spettro comunista. In questa alleanza, tuttavia, i ruoli rimangono ben distinti.
Diverso, invece, il ruolo che il riformismo inizia a ricoprire nel nuovo ciclo di accumulazione: qui il riformismo si fa strategia del capitale poiché sua preoccupazione essenziale è il governo della forza lavoro e la totale compatibilità di questa con il ciclo produttivo. Con ciò il sindacato e gli istituti del movimento operaio diventano, da mediatori della forza lavoro, gestori e controllori di questa, ma non solo: gli istituti del movimento operaio ufficiale diventano parte integrante del piano. Se l’aristocrazia operaia di Lenin era quella forza deputata, di fronte all’attacco operaio, a puntellare il sistema capitalista, oggi questa, che più sensatamente inizierà a essere individuata come destra operaia, è chiamata a gestire il piano dell’accumulazione e lo scontro con questa, per tanto non potrà che essere una battaglia all’ultimo sangue perché in palio vi è la sopravvivenza o meno del capitalismo e non per caso, le lotte operaie, troveranno davanti a sé, ancora prima che padroni e polizia, gli istituti del movimento operaio ufficiale.

Quando, negli anni settanta, il riformismo svolgerà appieno il ruolo di nuova polizia, non farà altro che completare, entrando a pieno titolo negli apparati della statualità, quel percorso iniziato negli anni sessanta che lo vedeva tutto interno alla materialità del piano del capitale. Questo passaggio è centrale nell’elaborazione de “La classe” e non si tratta certo di cosa di poco conto ma, per molti versi, si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana. È vero Lenin, sin dalla pubblicazione del Che fare? aveva individuato nell’economicismo la politica borghese dentro la classe operaia ma in ciò che viene messo a registro adesso vi è qualcosa di diverso. Qui non si tratta più di leggere una politica borghese che viene portata dentro la classe per limitarne prima e annichilire poi le sue prospettive politiche rivoluzionarie ma di una lettura, tutta materialistica, delle trasformazioni intervenute dentro al capitale. La critica de “La classe” agli istituti del movimento operaio ufficiale ha ben poco di “ideologico” e/o di “politico” ma affonda le sue radici dentro i processi materiali del capitalismo. Parafrasando Marx si può dire che è una critica che non nasce nel cielo delle idee bensì dentro gli inferi della fabbrica. Ma questo cosa significa? Perché ciò rappresenta sia una svolta che manda in frantumi tutto il politicismo proprio del PCI e dei suoi critici e, per altro verso, riporta Lenin dentro la classe operaia? Perché in questo passaggio riaffiora prepotentemente l’attualità della rivoluzione? Non sono certo domande di poco conto alle quali occorre cercare di offrire qualche risposta.

Intanto, per prima cosa, significa riprendere tra le mani la teoria marxiana in quanto critica dell’economia politica. Il punto di partenza della teoria marxiana, il suo cantiere elaborativo è l’inferno di Manchester, non il mondo celestiale della politica ma il sordido rumore delle macchine capitaliste. Quell’inferno, che sembra essere circoscritto alla sola Manchester, segnerà tutto il mondo a seguire. Ciò che Marx osserva, attorniato dallo scetticismo dei più, è il processo materiale che in quel luogo si sta evolvendo e che darà il la al mercato mondiale. Questo è il punto più alto dello sviluppo e questo segnerà, piegandolo a sé, i destini del mondo. Ma Marx non si limita a ciò poiché, insieme all’economia politica, cosa che lo accomunerebbe ai tanti economisti dell’epoca, focalizza lo sguardo sul soggetto deputato a rivestire i panni della critica alla economia politica.

Contro la scienza degli economisti Marx mette a punto la scienza operaia. Questa è la scienza delle lotte ed è una cultura che affonda le sue radici dentro la costituzione materiale che il ciclo dell’accumulazione impone. Il giornale “La classe” si colloca esattamente dentro questa scia dove non gli equilibri di governo, non le schermaglie parlamentari e tanto meno le percentuali elettorali e le rappresentanze effimere che stabiliscono, hanno importanza ma le lotte, la quantità e la qualità di forza che queste sono in grado esercitare. Centrale è il punto di vista operaio e non un punto di vista dal sapore sociologico come piace registrare ai cani da guardia della borghesia, ma il punto di vista politico degli operai, quello, cioè, che si manifesta solo dentro le lotte autonome e qui, allora, vi è per intero la ritraduzione di Lenin da parte de “La classe”. Sulle lotte, di fabbrica e di strada, Lenin aveva costruito il partito dell’insurrezione, sulle lotte di fabbrica del presente e il loro riversarsi nei quartieri proletari va costruita l’organizzazione operaia. Ma non si pone, allora, nuovamente l’attualità della rivoluzione e non occorre forse comprendere in che modo questa attualità si presenta? Questo è ciò che sta al centro e al cuore dell’esperienza de “La classe”.

Certo questo non è la scoperta di qualche intellettuale, non è la teoria messa a punto da un ceto politico particolarmente arguto bensì la sintesi concettuale di ciò che una prassi di massa ha ormai evidenziato. Le avanguardie, il ceto politico–intellettuale non si inventano nulla ma decodificano, sostanziano e rielaborano ciò che la lotta di massa ha già, e non più solo come tendenza, posto in atto. La crisi del PCI e del sindacato in fabbrica non è altro che l’espressione fenomenica della lotta operaia. Ai rappresentanti del lavoro salariato gli operai contrappongono il rifiuto del lavoro salariato. Questo fa saltare il banco del riformismo. “La classe” si limita a registrare prima e a rilanciare poi, attraverso una attenta elaborazione teorica, ciò che dalle masse è stato conquistato. È sicuramente un Lenin inaspettato e anomalo quello che prende forma dalle pagine di questo giornale, ma è anche l’unico Lenin possibile: è di nuovo l’attualità della rivoluzione, la riscoperta e la riappropriazione del tempo della rivoluzione contro i ritmi e i tempi del capitale.

Il tempo operaio è il tempo non declinato sulla produzione ma sulla lotta; è il tempo della soggettività di classe contrapposto al tempo oggettivista della produzione. Il sabotaggio si contrappone ai ritmi produttivi, lo sciopero a gatto selvaggio è il modo migliore per ottenere il massimo dalla lotta con il minimo sforzo e bloccare la produzione impiegando, volta per volta, modesti plotoni operai; una rivisitazione, a conti fatti, della guerra del deserto all’interno della macchina capitalista3.

Lo sciopero improvviso di un solo comparto della fabbrica, che blocca, però, per intero il ciclo di assemblaggio della merce, equivale a quelle mille punture di insetto attraverso le quali un piccolo esercito guerrigliero è in grado di piegare e far implodere anche il più poderoso degli eserciti statuali. Allo stesso tempo l’agguato ai capi, lo spazzare via i reparti con improvvisati cortei mascherati e illegali è un modo per liberare e appropriarsi di pezzi di territorio dentro la fabbrica negando a spie, ruffiani e crumiri un qualunque diritto di cittadinanza. Questa è la guerra che ormai si va delineando dentro la fabbrica e che sancisce l’esistenza di un dualismo di potere.

Dualismo di potere, appunto, non lotta sindacale ancorché particolarmente aspra, scontro tutto politico non economico o economicista come, con fare saccente, lo definiscono le varie anime della ortodossia comunista allineandosi in tutto e per tutto al PCI. Gli operai non liberano la fabbrica, non si impossessano della produzione ma, sabotando il lavoro, si riappropriano del tempo, ma liberare il tempo dalla produzione non era stata una delle principali indicazioni di Marx sin dal periodo dei Manoscritti?4. Questo il perimetro della guerra che si va delineano tra classe operaia e comando capitalista, non il mito neo-resistenziale tutto declinato nell’immaginario del passato, ma la guerra dentro il presente incarnato dalla fabbrica fordista ed è esattamente qui che Lenin va ritradotto e attualizzato. Ma il riappropriarsi della teoria leniniana non si limita a ciò. Torniamo quindi a Lenin, a osservarne le peculiarità e la sua nuova traduzione che le lotte operaie impongono.

Al centro della sua teoria politica vi è la relazione indissolubile tra politica e guerra5, tanto che non è certo un caso che Clausewitz sia uno degli autori da lui maggiormente studiati, la cui conseguenza pratica immediata è la relazione indissolubile tra legalità e illegalità. Due aspetti che non possono che essere costantemente complementari. Mentre per la socialdemocrazia occidentale legalità e illegalità rimandano a momenti e a contesti del tutto incommensurabili per Lenin, che comprende sino in fondo come la guerra sia compresa nella politica, legalità e illegalità sono due aspetti sempre attuali e presenti. Centrale nel conflitto di classe è comunque e sempre la questione della forza.

Ma la forza, aspetto centrale della modernità, è diventata monopolio dello stato6. Solo lo stato è legittimato a detenerla e usarla ma lo stato è quella macchina burocratica e militare deputata a esercitare e garantire una dominazione di classe, la forza, quindi, non può che essere appannaggio della borghesia mentre la forza operaia non può che darsi come forza illegittima ed esprimersi solo attraverso l’illegalità. Dentro lo stato borghese la classe operaia deve essere forzatamente disarmata, ma una classe disarmata non può esercitare alcuna forza, non occorre il rasoio di Occam per comprenderlo.

Su ciò Lenin è estremamente chiaro e, in piena coerenza, considera l’armamento operaio aspetto permanente dell’organizzazione rivoluzionaria. Non si tratta di una particolare propensione di Lenin per il militarismo, ma dello scontato riconoscimento che così come non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non vi è organizzazione operaia senza forza operaia.
Per Lenin, e non per caso abbiamo ricordato il debito da lui contratto con Clausewitz, il militare è sempre compreso nel politico, ne è aspetto costitutivo e costituente il quale non subentra al posto del politico e non ne è neppure l’aspetto anomalo e indesiderato bensì un suo tratto ineludibile, ma se ciò è vero, e lo è, ne vanno tratte le ovvie conseguenze.

In un contesto in cui la forza è sottoposta a regime di monopolio o si rinuncia al conflitto o ci si adopera per edificare la propria forza. Certo la forza non può che essere costantemente posta sotto il controllo del politico e modellarsi alle fasi del conflitto, ma deve esistere sempre, essere sempre presente e, per le obiettive caratteristiche che incarna, godere anche di un certo grado di autonomia. La presenza di un apparato militare è una costante della teoria politica leniniana che solo la deriva socialdemocratica e riformista a cui è approdato il movimento operaio ufficiale in occidente ha posto prima tra parentesi e poi in archivio.

Il dibattito sulla forza entra prepotentemente nel dibattito de “La classe” e con ciò l’esperienza di questo giornale compie un salto politico non secondario rispetto a tutto ciò che è venuto prima. Lo compie perché al centro della sua iniziativa, a differenza di gran parte di quanto l’ha preceduto, costante è la questione dell’organizzazione complessiva degli operai in funzione dello scontro con lo stato. Certo, col senno di poi, si potranno anche fare mille obiezioni ai tentativi messi in atto da “La classe”, ma ciò che dobbiamo tenere costantemente a mente è il periodo in cui questi tentativi si danno e il vuoto politico in cui questa sperimentazione si dà. Dobbiamo infatti avere ben a mente che questa generazione di operai e comunisti alle spalle non ha alcuna esperienza tranne il mito resistenziale mutuato velocemente in democraticismo e parlamentarismo opportunista e imbelle. La stessa radicalità operaia manifestatasi nel ’607 e nel ’628 si è trovata di fronte il muro del partito e del sindacato che l’hanno tacciata di estremismo, teppismo e persino fascismo. Dietro di sé questa generazione operaia e comunista non ha alcuna tradizione dalla quale attingere. Ma ritorniamo a occuparci della questione della forza.

Le lotte operaie stanno ponendo, ogni giorno che passa, all’attenzione dei comunisti la questione della forza e “La classe” ha indubbiamente il merito di non eludere il problema ma di affrontarlo di petto. Lo fa, occorre riconoscerlo, anche con una certa ingenuità, ma questo più che essere il frutto di limiti e incapacità è la triste testimonianza di come tutta una generazione di operai e comunisti si sia trovata, e non certo per colpa propria, del tutto impreparata ad affrontare passaggi centrali del conflitto di classe. Proprio questi limiti testimoniano l’infausto ruolo giocato per anni dal movimento operaio ufficiale che si era speso non poco per imporre che la questione della forza dovesse essere considerata ormai del tutto estranea alle esigenze della classe operaia soprattutto come strumento offensivo. È vero l’uso della forza non è ipotesi del tutto estranea al movimento operaio ufficiale, ma lo è nella sua accezione difensiva tutta ripiegata in chiave antifascista e anti golpista. Qui si aprono una serie di questioni che meritano di essere trattate senza fretta.

Intanto, anche seguendo il filo del discorso dei riformisti, viene da chiedersi come sia concretamente possibile fare ricorso alla forza se questa forza non esiste. In che modo, cioè, la classe operaia potrebbe, in caso di golpe fascista o svolta apertamente autoritaria, armarsi e combattere se alle sue spalle non vi è alcun apparato militare minimamente attivo e preparato, ma non solo. O gli operai nascono, per patrimonio genetico, militarmente già formati, oppure asserire che di fronte alla minaccia fascista e golpista si combatterà è solo una boutade o, aspetto tipico dell’opportunismo, passare repentinamente dal legalitarismo all’avventurismo tout court con tutte le ricadute del caso.

Immaginiamo, anche solo per un momento, che di fronte a un golpe vengano distribuite le armi agli operai ora, ammesso e non concesso che queste armi da qualche parte esistano, pensiamo a un qualunque operaio che all’improvviso si ritrovi tra le mani un mitra, cosa ne fa? Immaginiamolo alle prese con il tiro a raffica, è pensabile che sia in grado di farlo con un minimo di dimestichezza? Non occorre dare una risposta. Una simile ipotesi non può che condurre al massacro cosa che, del resto, è proprio dell’opportunismo che precipita velocemente nell’avventurismo.

Qui occorre rilevare la reiterazione di un vizio originario del movimento operaio e comunista italiano e più in generale occidentale, un vizio che possiamo tranquillamente far risalire, per quanto concerne l’Italia, almeno al biennio rosso prima e alla vittoria del fascismo dopo. Di fronte all’offensiva operaia seguita alla guerra e alla tendenza insurrezionale che questa si portava dietro, nessuna delle forze politiche della sinistra, all’epoca ancora legate al PSI e che successivamente daranno vita al PCd’I, si pose minimamente sul terreno della guerra civile e, invece di organizzare l’attacco alla macchina statuale, non riuscirono ad andare oltre la gestione della fabbrica capitalista9.

Nel momento in cui si era reso necessario passare dalle armi della critica alla critica con le armi nessuno si mostrò minimamente preparato e tanto meno intenzionato a farlo. La questione militare, che per Lenin era sempre stata aspetto ineludibile dell’agire di partito, era del tutto estranea anche tra coloro che si professavano interni al marxismo rivoluzionario. Non diversamente da quelli tedeschi, i rivoluzionari italiani si mostravano quanto mai distanti da Lenin poiché la guerra, andando al sodo, continuava a essere considerata come momento anomalo della politica e non suo aspetto costituente, un errore concettuale tipico di tutto il socialismo europeo. Su questi presupposti è ovvio che nessuno si mostrasse non solo pronto alla battaglia, ma che non fosse neppure in grado di raccogliere le tensioni insurrezionali provenienti dalla lotta operaia. Se c’è un momento in cui il distacco della presunta avanguardia dalle masse assume tratti al limite del grottesco è esattamente questo. Se possibile le cose andarono ancora peggio di fronte all’incalzare del fascismo.

Non si può certo dire, come tutte le esperienze degli Arditi del popolo10 sono lì a testimoniare, che non vi fu resistenza di massa al fascismo, ma fu una resistenza che non trovò alcuna sponda politica e del resto, come ricorda nelle sue memorie Bruno Fortichiari11, responsabile del settore militare del PCd’I, l’arsenale del partito nel 1922 contava tre revolver, mentre il suo apparato militare era formato da qualche gruppo di giovanotti che si cimentava in scampagnate tra le montagne.

Tutto ciò a palese dimostrazione di come, indipendentemente dalle dichiarazioni di principio, nel nostro paese i tratti del partito dell’insurrezione difficilmente riuscivano a andare oltre i perimetri della carta stampata e delle frasi fatte, insomma tutto chiacchiere e stemma di partito. Questo lo scenario di fondo al quale, però, si aggiungono anche altri elementi i quali, se possibile, peggiorano ancor più la situazione e finiscono con il fare tabula rasa intorno a qualunque ipotesi insurrezionale. Se, nella tradizione del movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza era stato un enunciato al quale non era mai stato data concretezza, l’assunzione della guerra di posizione come sola e unica cornice politica possibile in un paese a capitalismo avanzato12, pone una pietra tombale sul marxiano passaggio dalle armi della critica alla critica con le armi. Assumere la dimensione della guerra di posizione non significa solo mettere da parte la rivoluzione, ma riconoscere per intero la democrazia borghese e parlamentare come cornice politica della classe operaia e, sulla scia di ciò, per il movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza diventa legittimo solo di fronte a un atto illegittimo della borghesia. La forza, il che ha qualcosa di paradossale, può e deve essere utilizzata solo per ripristinare la legalità borghese nel caso questa, o alcune sue frange, si adoperassero per sopprimerla. La forza è legittima solo in funzione antifascista.

(3 – continua)


  1. Al proposito si veda, G., Trotta, F., Milana, a cura di, L’operaismo degli anni sessanta. Da Quaderni rossi a Classe operaia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  2. Cfr. A., Negri, Crisi dello stato piano, organizzazione, comunismo, in Id. I libri del rogo, cit.  

  3. Il riferimento è alla tattica guerrigliera utilizzata dai guerriglieri arabi contro l’esercito ottomano nel corso della prima guerra mondiale, Th. E., Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2010.  

  4. K., Marx, Manoscritti economico–filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968.  

  5. V. I., Lenin, Note al libro di Von Clausewitz: sulla guerra e la condotta della guerra, Edizioni del Maquis, Milano 1970.  

  6. M., Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2006.  

  7. Sulla retorica predominante sui fatti di Genova è quanto mai significativo il testo di A., Paloscia, Al tempo di Tambroni. Genova 1960. La Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce, Mursia, Milano 2010. Per una narrazione decisamente controcorrente e incentrata sul portato che la nuova composizione di classe ha avuto in quegli eventi si veda, A., Dal Lago, E., Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  8. Sui fatti di piazza Statuto si vedano, C., Bolognini, Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2019; D., Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979.  

  9. Su ciò si veda, in particolare, P., Spriano, L’Ordine nuovo e i Consigli di fabbrica. Con una scelta di testi dell’Ordine nuovo (1919–1920), Einaudi, Torino 1971.  

  10. La pubblicistica sugli Arditi del popolo è immensa, tra questa uno dei testi maggiormente esauriente è sicuramente il lavoro di E., Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917–1922), Odradek, Roma 2000.  

  11. Al proposito si veda, AA. VV. Bruno Fortichiari. In memoria di uno dei fondatori del PCd’I, Edizioni Lotta comunista, Milano 2020.  

  12. A., Gramsci, Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1991.  

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Ignoranza della storia e assenza di futuro https://www.carmillaonline.com/2021/04/26/ignoranza-della-storia-e-assenza-di-futuro/ Mon, 26 Apr 2021 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66160 di Armando Lancellotti

Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128, € 13.00

L’ultimo libro di Adriano Prosperi – professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – è la lezione magistrale di uno storico di grande spessore che, in un intreccio di riferimenti che spaziano dalla storiografia alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia e all’analisi economico-politica, affronta, in poco più di cento pagine, una materia oltremodo complessa e magmatica, quella delle intricate relazioni tra tempo, memoria, storia, realtà presente e prospettive future. Si parla di [...]]]> di Armando Lancellotti

Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128, € 13.00

L’ultimo libro di Adriano Prosperi – professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – è la lezione magistrale di uno storico di grande spessore che, in un intreccio di riferimenti che spaziano dalla storiografia alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia e all’analisi economico-politica, affronta, in poco più di cento pagine, una materia oltremodo complessa e magmatica, quella delle intricate relazioni tra tempo, memoria, storia, realtà presente e prospettive future. Si parla di memoria, quindi, che innanzi tutto è una funzione psichica umana, incerta e fragile per la sua limitatezza soggettiva, ma è anche la memoria collettiva, fatta di ricordi ed esperienze comuni, di un canone da tramandare alle generazioni successive e poi, ancora, è la memoria del testimone, materia preziosa su cui lo storico è chiamato ad esercitare il proprio accorto lavoro di comprensione e conoscenza, così come sulla memoria intesa come immenso accumulo di dati e documenti che le istituzioni preposte selezionano, archiviano e conservano, salvandolo dagli abissi dell’oblio. Perché il ricordare è sempre necessariamente connesso al dimenticare ed è proprio nell’equilibrata e corretta interazione tra memoria ed oblio che si costruisce un buon rapporto col passato e con la storia. Quella storia – spiega Prosperi – che per lo storico è innanzi tutto historia rerum gestarum, storiografia, ossia narrazione delle vicende umane, che è altra cosa dalla storia intesa come l’insieme di quelle stesse concrete vicende umane, che a loro volta si distinguono dalla realtà naturale del mondo in cui sono sempre collocate, nonostante gli uomini, soprattutto i contemporanei, tendano a dimenticarlo e a trascurarne l’importanza, con conseguenze che la pandemia che stiamo vivendo dimostra al di là di ogni dubbio.

Nel recente passato, alla fine del cosiddetto “secolo breve”, ci fu chi profetizzò la fine della storia, ma la predizione è stata presto sbugiardata dall’unica legge veramente universale della storia stessa: il mutamento ininterrotto ed inarrestabile delle cose. Ma se il divenire perenne degli eventi, avanzando verso il futuro, continua a lasciarsi alle spalle il passato, ciò che sembra emergere come preoccupante cifra essenziale del presente è la crescente incapacità di ricordare il tempo trascorso o la deliberata volontà di dimenticare il passato, remoto e prossimo; è come se una sorta di patologia sociale avesse colto l’uomo contemporaneo, la malattia di Alzheimer patita collettivamente.

La distruzione di una cultura passa soprattutto attraverso la dispersione della sua memoria e il percorso della storia è disseminato di memorie dimenticate e di culture distrutte. Proprio la cultura europea, che per secoli, mettendosi al seguito di conquiste e al servizio dell’edificazione di imperi, si è imposta con la forza, sostituendosi alle altre culture e cancellandole, oggi – osserva Prosperi – sembra richiudersi su se stessa, quasi che desideri fermare la propria storia, dimenticandola o ignorandola. Un’Europa smemorata e dimentica della propria eredità culturale, che abbandona i propri valori migliori per sostituirli con quelli dell’esclusiva produzione di ricchezza e di profitto, mentre la pandemia in corso da più di un anno sta mettendo tutti di fronte all’urgenza di ricordare come valori quali la difesa della nuda vita umana e la tutela dell’ambiente che ci ospita debbano essere anteposti alla produzione di profitto e di ricchezza.

Nell’età contemporanea il problema della conservazione della memoria storica si configura principalmente in relazione al suo opposto complementare: l’oblio del passato. Prosperi trova l’origine e la spiegazione di questo problematico rapporto con il tempo nei processi e nelle dinamiche del sistema di produzione capitalistico, che reifica il tempo del lavoro speso nella realizzazione del prodotto, trasformandolo nel feticcio della merce. Questa dinamica reificante e obliante è stata elevata a potenza dalla finanziarizzazione globale dell’economia neoliberista, che ha condotto a modalità alienate e sbagliate di vivere il tempo, di conservare la memoria e di rapportarsi alla storia. Si vive in un eterno presente dimentico del passato, spesso ignorato o distorto, in un presente immobile, privo di speranza e non più capace di rivolgersi al futuro.

Nell’Italia di oggi, è la memoria collettiva che sempre più sembra svanire dietro la fitta coltre delle nebbie dell’oblio, quella che per generazioni è stata concepita come una diffusa consapevolezza di ricordi comuni, presente e circolante nella società, poi trasmessa dalla famiglia, dalle classi sociali, dagli ambienti di vita, di lavoro e studio, mentre la storia vera e propria doveva occuparsi della ricostruzione precisa dei grandi eventi e dei fatti rilevanti. Ma non è più così – osserva Prosperi – perché nella società odierna la trasmissione generazionale della memoria si è interrotta e da dinamica collettiva, che tramandava esperienze e racconti, si è trasformata in una fruizione individuale e personale di contenuti e informazioni resi disponibili in maniera mercificata dai mass media. Anche la scuola, il luogo di lavoro ed altri contesti di vita sociale hanno assunto questi tratti, poiché «la società del capitalismo avanzato è orientata in modo da parcellizzare e individualizzare l’apprendimento e l’esercizio di conoscenze e competenze» (pp. 16-17). La velocità orizzontale dell’informazione in rete ha soppiantato quasi totalmente la lentezza verticale di altre e precedenti forme di apprendimento, così come il fare che domina la nostra società ha preso il posto dell’agire: il primo è indirizzato all’oggetto, alla produzione della merce, ossia del feticcio che diventa l’unico fine sociale, mentre il secondo è orientato al soggetto, all’uomo. Sul piano politico poi la fine della prima repubblica ha causato il tramonto dei partiti tradizionali, portatori di una storia e che ragionavano dandosi delle finalità incardinate nella continuità della durata storica. «L’avvento del nuovo assetto ha coinciso con la liquidazione del senso della durata storica e ideale – fossero l’eredità cristiana o quella delle lotte di classe per la giustizia sociale. Al posto della storia emerse allora una parola nuova destinata a rapido successo: l’identità» (pp.22-23).

Ma l’identità è per definizione qualcosa di statico, immobile ed omologante e pertanto quanto di più lontano dalla storia – che è sempre differenza e mutamento – possa essere concepito; è un falso mito funzionale alla cancellazione della storia e dei suoi conflitti. E così – ricorda Prosperi – gli italiani furono indotti a scoprire un senso identitario, che equivaleva a «muovere guerra contro tutte le lacerazioni passate. Essere italiani doveva dunque prendere il posto dell’essere comunisti o fascisti, cristiani o atei. […] E siccome chi controlla il presente controlla anche il passato, si pensò di poter cancellare i conflitti decretando uguali riconoscimenti a partigiani e caduti fascisti» (p.23). Ebbe inizio in quegli anni una stagione di ideologico revisionismo storico che ha assediato, espugnato e saccheggiato la memoria collettiva, provocando ignoranza della storia ed oblio della memoria, come dimostrano dati statistici quali quelli dell’Eurispes Italia 2020, che contano un 15,6% di italiani per i quali la Shoah non è mai esistita.
Assistiamo ormai da tempo ad una generale perdita del senso della storia e al declino della dimensione storica nella società in generale e in particolare nell’ambito degli studi e dell’insegnamento, che produce i suoi effetti peggiori sulle generazioni più giovani, che vivono, come osservò Hobsbawm, in una dimensione di presente senza tempo, avendo perso la relazione organica col proprio passato storico.

Spiega Prosperi come, nella scuola italiana, l’insegnamento della storia e della lingua abbia rappresentato uno dei più efficaci strumenti di effettiva unificazione nazionale e come la storia abbia fatto da cornice di riferimento per molte delle altre discipline scolastiche; ma qualcosa è mutato, sono intervenuti cambiamenti epocali che hanno investito anche il microcosmo della scuola. Innanzi tutto la rivoluzione informatica e digitale che ha azzerato le distanze e ha impresso una velocità senza precedenti al mondo e che, se da un lato ha esteso in maniera inimmaginabile le nostre potenzialità complessive, dall’altro ha determinato uno stravolgimento della percezione dello spazio e del tempo, del modo di fruire della memoria del passato e di rapportarsi con la storia. Una sorta di cambiamento antropologico che alla profondità della prospettiva storica ha sostituito la simultaneità istantanea della forma mentis informatica.

Ma la rivoluzione tecnologica non basta a giustificare lo stato di cose presente e per spiegarlo lo studioso prende le mosse dagli incresciosi episodi di odio razzista e antisemita che hanno visto coinvolta, recentemente e ripetutamente, la senatrice Liliana Segre, a cui si accompagnano le bislacche riletture apologetiche di Mussolini e del fascismo o la ripetizione automatica del mito del “bravo italiano”. Per capire l’incerto e scorretto modo con cui il nostro presente ed il nostro mondo si relazionano con così tanta fatica al passato, a tal punto da preferire l’oblio e l’ignoranza al ricordo e alla conoscenza della storia, occorre ripartire dal grado zero della storia del Novecento, da cui ha avuto origine il nostro presente: Auschwitz e la Shoah. Come ha detto Piotr Cywiński, direttore del Museo Memoriale di Auschwitz Birkenau, una buona parte della cultura e della storia d’Europa, comprese la sua religione e le sue chiese, è sprofondata nel buco nero della Shoah. Lo sguardo e il punto prospettico da cui il nostro tempo guarda al passato sono ancora offuscati e distorti dalla difficoltà di fare i conti con questo passato prossimo.

Ma mentre la generazione di coloro che vissero quella tragedia, o che comunque la conobbero da vicino, è stata in grado di guardarla e di raccontarla, le generazioni successive si sono dimostrate incapaci. L’Europa, al termine del secondo conflitto mondiale, ha tentato di riemergere dal proprio abisso, ma alle aspirazioni rivoluzionarie, alle prospettive di progresso, di riscatto ed eguaglianza sociali, si è ben presto sostituita la normalizzazione del benessere prodotto dal trionfo del consumismo capitalistico, che consigliava di dimenticare un passato problematico ed inquietante con cui sarebbe stato estremamente complesso fare i conti. Stanno a dimostrarlo – riflette Prosperi – le vicende della “disputa tra gli storici” degli anni ’80 in Germania, dibattito innescato dagli scritti di quel Nolte che, invocando la consegna definitiva del passato nazista alla storia, in realtà ne auspicava la sottrazione agli studi della storiografia. Si trattò di uno di quei casi in cui l’espressione “consegnare alla storia” equivale a dire “abbandonare all’oblio”. L’Historikerstreit riguardò l’ingombrante “passato che non passa” del nazismo, ma la Germania non è certamente l’unico paese chiamato a fare i conti con una storia difficile da metabolizzare. L’ignoranza del passato prossimo, della dittatura fascista e dei suoi crimini, i vuoti di memoria della coscienza collettiva italiana, le ricostruzioni tendenziosamente apologetiche, le riletture revisionistiche, la ripetizione intenzionale di falsi miti depistanti, come la leggenda degli “italiani brava gente”, sono tutti epifenomeni di un medesimo problema fondamentale: l’oblio della nostra storia.

Nietzsche, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, invocava l’oblio e la messa a punto di una sana “arte del dimenticare” che devono fisiologicamente accompagnare l’atto del ricordare, affinché il presente non risulti schiacciato sotto l’eccessivo e paralizzante peso del passato e la vita mortificata ed impedita dalla storia. Saper dimenticare è quindi tanto importante quanto saper ricordare, quanto conservare e ricostruire il passato e di ciò è consapevole lo storico, che, scegliendo cosa raccontare della realtà trascorsa, da un lato illumina un insieme di cose, eventi, processi, ma dall’altro getta un cono d’ombra su tutto ciò che si colloca al di fuori di quel fascio di luce. Ma se un’equilibrata e necessaria dialettica tra oblio e memoria consente alla storia di raccontare il passato e di comprenderlo, affinché faccia da base del presente e punto da cui partire in direzione del futuro, l’eccesso di smemoratezza, il travisamento sistematico del passato, l’ignoranza della storia impediscono di vivere il presente in modo consapevole e di aprire una prospettiva per il futuro. Oggi viviamo in un presente che appare senza futuro e che ha dimenticato il proprio passato: è questa la diagnosi infausta che emerge dalle lucide ed interessanti analisi di Adriano Prosperi.

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Storie e fantasmi tra le crepe del tempo https://www.carmillaonline.com/2019/09/25/storie-e-fantasmi-tra-le-crepe-del-tempo/ Wed, 25 Sep 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54656 di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne [...]]]> di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne circondavano spesso le narrazioni, ogni possibile vicenda umana, ogni possibile storia. Antica e moderna.

All’epoca, naturalmente, l’introduzione che conteneva tale affermazione fu espunta, più dalla censura letteraria che da quella politica, dalla vasta raccolta di racconti ed estratti da romanzi statunitensi che l’autore aveva curato per l’editore Bompiani, destinata a tornare alla luce soltanto nella nuova edizione uncensored dell’opera ripubblicata nel 1968 dallo stesso editore.

Oggi chi si chiedesse dove e come gli autori e sceneggiatori americani oppure i folk singers traggano ispirazione per le innumerevoli storie di vita o di sventura che letteratura, cinema e canzoni provenienti da quel continente possono continuare a proporre, con un senso che è contemporaneamente di realismo e meraviglia, popolare e profondo allo stesso tempo, potrebbe trovare in questo piccolo e interessante libro una parziale risposta.

Alessia Turri, classe 1992, fotografa e scrittrice di viaggi, da tempo percorre le strade secondarie del continente nord-americano, alla ricerca di comunità scomparse, storie rimaste vive nella memoria di alcuni oppure semplicemente testimoniate dalle rovine di cittadine che non esistono più.
Mentre il testo attuale ci accompagna attraverso l’Arizona, il Nevada e il New Mexico, in uno precedente1 l’autrice aveva accompagnato il lettore in un viaggio simile tra le città fantasma e i deserti della California.

Ed è proprio lì, in quel vuoto, in quei luoghi spesso dimenticati da Dio e dalla cartografia stradale che l’autrice riscopre vicende umane, solitarie o collettive, che potrebbero riempire innumerevoli romanzi, racconti o trame cinematografiche e di serie televisive.
Storie di tribù Apache fantasma, di solitari eremiti di origini lombarde, di città cresciute e scomparse nel giro di cinquant’anni intorno a una miniera di carbone, di regolamenti di conti feroci dimenticati ormai sotto le sabbie del tempo, ma che un sogno, una testimonianza diretta, una traccia quasi impercettibile possono riportare alla memoria.

Storie di città illuminate dalla frenesia del gioco d’azzardo e di pompe di benzina abbandonate in mezzo al nulla. Storie di aree “sensibili” per l’attività degli extra terrestri, o almeno spacciate per tali per essere rese più appetibili per l’industria del turismo, e di altre devastate dai primi esperimenti nucleari, ancor oggi poco appetibili. Storie di natura selvaggia e di vita che si accompagnano costantemente alla morte, facendoci tornare in mente le pagine migliori di Hemingway, Melville e di tutta la grande letteratura americana fino a Cormac McCarthy e Larry McMurtry. Oppure le canzoni più belle di Johnny Cash.

Una memoria spesso soggettiva, il più delle volte legata a testimonianza orali in cui il passato e il presente sembrano tornare a ricongiungersi tra le curve del tempo. In cui la fisica moderna sembra sposare credenze e culture più antiche, apparentemente rimosse dall’istante che chiamiamo modernità, ma destinate a perdurare nella coscienza umana molto più a lungo di quanto ciò che è, solo apparentemente, attuale vorrebbe farci credere a suo esclusivo vantaggio.

Una memoria spesso trasmessa più per via orale che attraverso le pergamene della Storia ufficiale, destinate a rimuovere tutto ciò che non appare essenziale per la storia dello sviluppo della Nazione.
Una memoria “dal basso” che si rivela spesso più profonda e inclusiva di quella registrata dalla storiografia ufficiale che, per sua intima essenza, deve soprattutto rimuovere e cancellare i “documenti inutili” per riportare ordine là dove proprio non può esistere, se non nella finzione della ricostruzione documentaria e monumentale.

Un viaggio tra storie momentaneamente perdute che il soffio di un ricordo, una parola o uno sguardo più attento possono rivitalizzare e richiamare in vita. Facendoci altresì comprendere, come è capitato all’autrice stessa, come la morte sia soltanto uno degli aspetti momentanei dell’esistente.
Esistente colto anche dalle belle immagini fotografiche che accompagnano il testo ad opera della stessa Turri.

Credo, in chiusura, che possano essere le parole stesse dell’autrice a illustrare meglio di qualsiasi ulteriore commento l’esperienza che il lettore potrà provare nel leggere il suo bel libro.

[…] la mia percezione della morte è cambiata, e con lei la mia idea d’America. Quei luoghi desolati, abbandonati e malconci che continuo a incontrare durante i viaggi, si sono illuminati di vita nuova. La stessa vita che vedo risplendere nei cimiteri. Quelli più piccoli, semplici e modesti. Quelli nascosti tra le praterie, protetti da steccati e foreste d’abeti. La stessa vita che anima i deserti, pittura le steppe, satura i cieli. Quella vita che è anche morte, quel passato che è anche futuro. Quella serena commistione di generi, fasi e destini, che nell’Ovest americano prende forma. Leggende indiane, le lapidi del vecchio West. I miti alieni, le città fantasma. I culti messicani e le scienze cosmiche. Riti, storie, miti e utopie. Un ritmico ripetersi di eventi scomposti, un continuo alternarsi di alti e bassi, in una terra che è allo stesso tempo magia e sacrilegio. Quella terra che da per togliere, in un vivace fermento di stadi e condizioni. Quella terra che è sabbia mobile, in perenne mutazione. Quella terra che è idillio e dissidio, contrasto e armonia. […] Da qui l’idea di raccontare un Ovest diverso, misterioso, contraddittorio. Al tempo stesso patria di cimiteri e foresta di luci, monocromie d’asfalti e vortici di colore, profumi di spezie frasche e odori di antiche muffe. Terra di pasticcieri e nativi, scienziati ed extraterrestri, Babbi Natale e veterani, viaggiatori e artigiani. Terra di favole e dottrine, bombe atomiche e cactus. Terra di vita, come un folle mosaico di tinte ed emozioni. Terra di morte, percepita come limpida eternità, tutta da scrivere.2


  1. A. Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, Cierre edizioni 2017  

  2. A. Turri, Everland, p. 18  

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Misure e ritmi meridiani https://www.carmillaonline.com/2018/05/08/misure-e-ritmi-meridiani/ Mon, 07 May 2018 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45432 di Giuseppe Pagani

Lasciandosi alle spalle Europa ed Atlantico e mettendo piede in America Latina ci si rende presto conto che a cambiare non è solo il continente, ma soprattutto la visione spazio-temporale della realtà. Come insegnano i grandi pensatori del passato il tempo e lo spazio sono concetti relativi, cosa più che mai evidente nella parte centro-meridionale delle Americhe. Queste poche righe a riguardo seguiranno il volere di Nietzsche, che non amava la produzione intenzionale e deliberata, ma piuttosto i pensieri sparsi (e inconcludenti?) che vanno a [...]]]> di Giuseppe Pagani

Lasciandosi alle spalle Europa ed Atlantico e mettendo piede in America Latina ci si rende presto conto che a cambiare non è solo il continente, ma soprattutto la visione spazio-temporale della realtà. Come insegnano i grandi pensatori del passato il tempo e lo spazio sono concetti relativi, cosa più che mai evidente nella parte centro-meridionale delle Americhe. Queste poche righe a riguardo seguiranno il volere di Nietzsche, che non amava la produzione intenzionale e deliberata, ma piuttosto i pensieri sparsi (e inconcludenti?) che vanno a formare spontaneamente, quasi inavvertitamente, un testo scritto. Impossibile sarà non generalizzare, dal momento che conosco ancora poco di queste terre e considerando che esistono differenze significative fra aree urbane e rurali, fra centro e sud America, fra paesi più o meno occidentalizzati, fra costa, sierra e foresta amazzonica. D’altra parte però sono calzanti le parole di Che Guevara, secondo cui i popoli che vanno dal Messico allo stretto di Magallanes costituiscono una sola raza mestiza con evidenti similitudini etnografiche.

La diversa concezione delle coordinate fondamentali dell’esistenza umana è ben rappresentata dai due totem dello spazio-tempo latinoamericano: aquicito e ahorita. Intraducibili diminutivi di “qui” e “ora”, rendono l’hic et nunc un concetto sfuggente e ricco di sfumature: ahorita può significare “fra pochi secondi” così come “fra otto ore”, aquicito può indicare luoghi distanti due passi o parecchi chilometri. Approssimazione non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Più in generale è impossibile non notare un abuso del diminutivo. Con diversi suffissi a seconda della zona (-ito/a è forse più andino, –ico/a colombian-venezuelano, –inho/a brasiliano) quest’accortezza linguistica modifica il significato delle parole e incide non solo sulla misura ma pure sull’intensità, attenuando o accrescendo la rilevanza di un concetto e sottintendendo sentimenti di affetto o disprezzo.“Non conviene dimenticare i diminutivi nel sud del mondo” ammonisce Luis Sepúlveda. Perla rara, ma non troppo, è il diminutivo del diminutivo: ahoritita è l’esempio migliore, ed è difficile capire se tale esagerazione garantisca più precisione o intensifichi il carattere indefinito dell’espressione. Più affidabile si rivela spesso l’incisivo ya, ma non stupisce scoprire che oltre a “ora” significhi anche “sì”,  “già” e “ormai”.

Ottenere indicazioni stradali precise è impresa non da poco, ça va sans dire. De frente può nascondere una svolta a sinistra e a ladito una distanza inaspettata, i numeri civici sono spesso simili a un codice segreto e la mappa dei trasporti, quando esiste, non è una garanzia. La singolare unità di misura (una cuadra, cioè un isolato) completa l’opera. Ma soprattutto è molto raro sentirsi rispondere “non lo so”. Improvvisazione e fantasia la fanno da padrone, le versioni discordanti si moltiplicano e  il viandante non può far altro che mettere insieme i pezzi. “In questa terra mentiamo per essere felici. Ma nessuno di noi confonde la bugia con l’inganno” sottolinea ancora saggiamente il buon vecchio Luis.

Anche l’organizzazione degli spazi è degna di nota. Parlando di mezzi di trasporto, dove un gringo vede un posto a sedere un latinoamericano ne scorge almeno tre: ho avuto il piacere di condividere un pick-up con altre ventidue persone e una normalissima macchina con altre nove. E finché il veicolo non è pieno (in senso letterale) non si parte. Lo spazio è denaro almeno quanto il tempo e va quindi sfruttato a dovere: certe lavanderie vendono anche frullati o dvd, l’elettrauto all’occorrenza si fa biglietteria e il meccanico si trasforma in locale rock. “Di quei tempi è rimasto il carattere funzionale degli edifici: tutti assolvono a due funzioni, benché sia solo una la principale. I locali servono da bar e da ferramenta, da bar e da ufficio postale, da bar e da agenzia di cabotaggio, da bar e da farmacia, da bar e da onoranze funebri. Entro in uno che è bar e farmacia veterinaria, ma un cartello all’ingresso assicura che assolve a una terza funzione: si curano rogna e diarrea animale e umana.”1

Prendendo in considerazione distanze maggiori, i concetti di vicino e lontano non coincidono con quelli a cui siamo abituati. Città distanti due ore sono quasi un continuum e i viaggi di una notte rappresentano la normalità. Non è raro trascorrere ore in bus (corrispondenti magari alla tratta Milano-Roma o addirittura Milano-Napoli) soltanto per partecipare a un evento per poi ritornare. Orari e fermate son tutt’altro che rigidi e con l’informalità imperante le possibilità crescono di pari passo all’imprevedibilità. Ben presto ci si abitua ai viaggi infiniti su quella grande Via Emilia che è la Panamericana, sulle strade dissestate dell’Amazzonia e su quelle zigzaganti delle Ande. Questo mondo non è fatto di città ma di grandi spazi incontaminati, la Natura scandisce tempi e ritardi, fra piogge, alture, imprevisti e silenzio.

Le differenze culturali si fanno profonde nei luoghi più lontani da quella che ci ostiniamo a chiamare civiltà. Negli sperduti villaggi andini i bambini camminano ore su strade deserte per raggiungere la scuola, nella selva non c’è bisogno di cortecce allucinogene per sentire il dilatarsi del tempo e dello spazio. Quando si chiede a un abitante del posto il tempo di percorrenza di un sentiero a lui ben noto  la risposta è vaga o evasiva, semplicemente perchè non l’ha mai calcolato. “Prova a chiedere ad uno di loro che ore sono/e ti risponderà non l’ho saputo mai.”2 L’ancestrale visione andina del tempo aiuta a capire qualcosa in più di questo approccio alla realtá. La storia non è concepita come un percorso lineare ma piuttosto come una spirale, in grado di tornare senza vergogna sui propri passi per poi continuare. Il tempo è flaco o denso sulla base di aspetti qualitativi e non di una fantomatica idea di progresso. Come l’angelo della storia di Benjamin, il tempo andino dà le spalle al futuro, raggiungibile soltanto volgendo sempre lo sguardo al passato e alla tradizione. Una di queste tradizioni è la proprietà condivisa della terra, pratica radicale che ancora resiste in alcune parti dell’America Latina nonostante secoli di depredazione culturale.

Tutto ciò che ho fin qui disordinatamente descritto potrebbe essere percepito da un occidentale come caos, mancanza di rigore e precisione, disorganizzazione endemica. Senza voler per forza esaltare “l’altro da noi” e pur riconoscendo l’irritazione che certe situazioni provocano, credo sia una visione superficiale che non prende in considerazione aspetti decisamente positivi. Si tratta forse di un senso della realtà e dello spazio-tempo meno frenetico, più antico, ma non per questo meno consapevole. Sicuramente non è stata importata l’ansia dal vecchio mondo e le persone sono ancora in grado di affrontare i problemi e gli imprevisti con una certa serenità mista a pazienza, lasciando che gli eventi facciano il loro corso, più abituate come sono ai ritmi della Natura e alla dimensione dell’attesa. Terzani ricordava che una delle frasi più comuni in Thailandia è Mai ping rai,  cioè “non importa”/“lascia stare”/“pazienza”/“perché preoccuparsi?”, a dimostrazione che i sud del mondo sono più simili (e saggi) di quanto si pensi.

Di un grande campione come Aldair, non a caso brasiliano, ho letto che “non ha avuto fretta di esplodere, di bruciare le tappe, e ha saputo assoggettare il flusso dei mesi e degli anni alla sua volontà, conformarlo al percorso che riteneva più adeguato.”3 Noi siamo schiavi del tempo, loro ne sono padroni, come disse un tuareg ad un mio amico e collega. Soprattutto per questa consapevolezza quando penso all’America Latina non posso che descriverla con le parole che usò Camus per definire la Spagna dei suoi tempi: il luogo in cui è più forte l’amore per la vita e la disperazione per l’esistenza.


  1. Luis Sepulveda, Patagonia Express 

  2. Fabrizio De Andrè, Via della Povertà 

  3. Fabrizio Gabrielli, Pluto Aldair: classe e lentezza, L’UltimoUomo, 5 ottobre 2016 

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In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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Questo libro non esiste di Marilù Oliva https://www.carmillaonline.com/2016/07/19/libro-non-esiste/ Tue, 19 Jul 2016 21:27:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31777 Copertina1Marilù Oliva, Questo libro non esiste, Elliot Edizioni, 2016, pp.192, € 16

È da poco in libreria l’ottavo romanzo di Marilù Oliva, il terzo (e conclusivo) della saga sul tempo cominciata con Le Sultane (2014) e proseguita con Lo Zoo (2015). Narrato in prima persona da Mathias, un aspirante scrittore che ha perso il suo manoscritto, il libro è giocato sul triplo registro del presente – ovvero la narrazione della spasmodica ricerca del libro perduto -, del passato – attraverso i flashback dai quali emerge come secondo protagonista un nonno despota – [...]]]> Copertina1Marilù Oliva, Questo libro non esiste, Elliot Edizioni, 2016, pp.192, € 16

È da poco in libreria l’ottavo romanzo di Marilù Oliva, il terzo (e conclusivo) della saga sul tempo cominciata con Le Sultane (2014) e proseguita con Lo Zoo (2015). Narrato in prima persona da Mathias, un aspirante scrittore che ha perso il suo manoscritto, il libro è giocato sul triplo registro del presente – ovvero la narrazione della spasmodica ricerca del libro perduto -, del passato – attraverso i flashback dai quali emerge come secondo protagonista un nonno despota – e del futuro – ovvero lo spazio, che in realtà diviene metafora di un tempo circolare che, piegandosi su stesso, cela l’eterno. Ma questo romanzo è anche un noir, perché Mathias deve vedersela con un omicidio in cui viene coinvolto, essendo stato l’ultima persona a incontrare la vittima.
E poi c’è l’impresa titanica della costruzione della macchina del tempo: le quattro parti in cui è diviso il romanzo costituiscono i dispositivi necessari alla sua realizzazione e non mancano le istruzioni per i coraggiosi che volessero cimentarsi. Con uno sguardo disincantato sul nostro sistema editoriale, non sempre limpidissimo, descritto nei suoi splendori ma soprattutto nei suoi baratri, Marilù Oliva si diverte a tuffarsi nel tempo astrofisico, attraverso continui rimandi ai corpi astrali, come anticipa la copertina.
Vi proponiamo un brano in cui Mathias tenta di spiegare quanto sia pervasiva la sua ossessione per il tempo.

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La smania avanza inesorabile, la sento implacabile come la sentiva il nonno quando urlava alle pareti che voleva una soluzione. Perché mio nonno non si rassegnava, voleva acchiappare il tempo. Una volta, eravamo soli, vagava avanti e indietro per le stanze, aveva trascorso le ultime notti leggendo i libri di un ciarlatano che parlava di mondi comunicanti, elettromagnetismo e modalità strambe per controllare l’intero geosistema. Quel giorno toccò i muri, il nonno, li misurò col suo vecchio metro, alzò il naso al soffitto, di colpo si fermò davanti a me e mi disse: «Bisogna tornare indietro. Sai quante cose potrei fare? Quel giorno, alla stazione di Bologna, potrei andare in sala d’attesa e bloccare quei due disgraziati con la valigia piena di tritolo… E gli anni dello stragismo, Piazza della Loggia, Piazza Fontana, avviserei chi di dovere, al diavolo se c’è lo zampino dei servizi segreti: metterei sottosopra la stampa di tutto il mondo. Ma questo è niente: se tornassi indietro di tanto, tanto tempo, potrei conoscere Giulio Cesare, Carlo Magno… viaggiare con Colombo, potrei finire in Europa, vivere alle corti dei grandi re e consigliarli sulle loro mosse politiche, certo questo renderebbe il mondo migliore. E poi potrei… mi ascolti?».
«Certo!» sobbalzai. La paura di sbagliare risposta mi si annidava in bocca ogni volta che mi rivolgeva un’interrogazione.
«Potrei indirizzarmi al primo Novecento e sopprimere tutti i dittatori quando sono ancora inoffensivi… Poi tornerei qui, per essere acclamato».
Lo guardavo come un tifoso di calcio guarderebbe il suo idolo. Non facevo caso ai suoi controsensi, ai suoi slanci di onnipotenza, alle sue pecche, all’impreparazione che tamponava con libri improbabili di magia e pseudofantascienza.
Capite, vero, come ci si sente schiacciati quando si pensa al tempo? Mistificare l’attimo che si dilegua, ritornare allo stesso punto come un cane che si morde la coda. Quanti giorni sprecati, quante ore che scorrono sornione via dalle dita e noi ci ripetiamo che no, non è possibile che siamo sempre qui, ogni sera dopo la sera prima, chiusi gli occhi, ad accorgerci che è già filato via un giorno e noi cambiamo, anche impercettibilmente, mentre il tempo incede come se fosse solo una giostra che, con un sempiterno girotondo, ci stermina dolcemente.
Mio nonno era un autodidatta che aveva costruito la sua scienza profana accogliendo anche le teorie più fantastiche, lettore vorace le notti, mentre, di giorno, lavorava come netturbino nell’azienda urbana presso la quale sarebbe diventato responsabile di quartiere – vale a dire che decideva quali strade i camioncini dei rifiuti avrebbero spazzato e a quali ore. Non si arrendeva, voleva comprendere il tempo, voleva farselo amico. Quel presuntuoso voleva superare Einstein, il cui limite, stando alle aritmetiche del nonno, risiedeva proprio nell’acume scientifico: «Einstein era un grande studioso. Tedesco, eh. Il più fantastico uomo che abbia calpestato il suolo europeo ce l’ha regalato la Germania. Rispetto ai cervelloni che lo avevano preceduto ha fatto un salto qualitativo: ha accostato tempo e spazio, sostenendo che s’influenzano reciprocamente.
Però Einstein non ha mai preso in considerazione il fatto che il tempo possa ridursi a un concetto puramente astratto, eppure reale. Una cosa che non sussiste ma si percepisce, al di là del linguaggio. Vedi la forza della parola? Non c’è, non la tocchi. Ma nel momento in cui la pronunci, già esiste».

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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La guerra asimmetrica dello spazio-tempo https://www.carmillaonline.com/2015/02/06/la-guerra-asimmetrica-dello-spazio-tempo/ Fri, 06 Feb 2015 21:45:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20463 di Sandro Moiso

ricciardi Salvatore Ricciardi, Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, DeriveApprodi 2015, pp.128, euro 12,00

E’ qui in galera che l’ordine ti si rivela «per quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine»” (Lettera dal carcere di Torino, autunno 1969)

Nel 1999 comparve in Cina un testo destinato a fare epoca nella letteratura militare.1 Era stato concepito, fin dal 1996, da [...]]]> di Sandro Moiso

ricciardi Salvatore Ricciardi, Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, DeriveApprodi 2015, pp.128, euro 12,00

E’ qui in galera che l’ordine ti si rivela «per quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine»” (Lettera dal carcere di Torino, autunno 1969)

Nel 1999 comparve in Cina un testo destinato a fare epoca nella letteratura militare.1 Era stato concepito, fin dal 1996, da due colonnelli superiori delle forze armate della Repubblica Popolare Cinese in occasione della revisione strategica messa in atto in Cina a partire dalle osservazioni svolte sulle più moderne modalità operative delle forze armate statunitensi durante la prima guerra del Golfo.

Si fingeva così di scoprire a livello internazionale, grazie alle traduzioni del testo operate prima dall’ambasciata statunitense a Pechino e successivamente direttamente dalla CIA, ciò che spesso i teorici della guerra di guerriglia, da Giap a Guevara passando per Carlos Marighella, avevano esposto ormai da decenni. Ovvero come fosse possibile mantenere aperti dei conflitti, e magari vincerli, in condizioni militari estremamente sfavorevoli, almeno sulla carta, per una delle due parti in causa. Utilizzando in maniera diversa ed innovativa le risorse disponibili, spesso scarse, in un conflitto di carattere non convenzionale.

Se novità vi era in quel testo, in cui l’utilizzo militare di strumenti che apparentemente di militare non avrebbero nulla costituisce una delle chiavi più importanti per la conduzione di un conflitto, certamente era rappresentata dall’importanza attribuita, come poi si è effettivamente potuto accertare nei due decenni successivi al suo concepimento, alla disinformazione, all’hackeraggio e agli attacchi in rete alle istituzioni politiche e finanziarie e all’utilizzo della stessa a livello di propaganda e diffusione di notizie reali o costruite ad arte. Naturalmente il dibattito, che tendeva ad essere racchiuso e mantenuto interamente all’interno della sfera del pensiero militare, non teneva conto del fatto che tale guerra asimmetrica è in corso ormai da quasi tre secoli tra lavoro e capitale. Tra sfruttati e sfruttatori.

Una guerra, quest’ultima, fatta da una parte di licenziamenti, precarietà, negazione dei più elementari diritti sindacali, aumenti degli orari di lavoro, riduzioni salariali, repressione, carcerazione, minacce e omicidi travestiti da incidenti sul lavoro e dall’altra di rifiuto della disciplina del lavoro, auto-organizzazione, sabotaggi, assenteismo, scioperi, picchetti, espropri, evasioni, rivolte e suicidi. Forme quasi tutte legali nel primo caso e quasi tutte rientranti nell’illegalità punibile con il carcere nel secondo.

Il magnifico, commovente ed utilissimo testo di Salvatore Ricciardi (classe 1940 ed ex-detenuto per fatti legati alla storia della lotta armata in Italia e delle BR in particolare) ha il grandissimo merito di dimostrare che se in carcere tale verità diventa evidente in maniera quotidiana, è anche vero che il carcere, per sua intima e insopprimibile natura, diventa metafora delle condizioni di vita e di resistenza di milioni di individui che soltanto il formalismo della cosiddetta democrazia borghese può ritenere “liberi”.

Tutti pensano, infatti, di sapere cos’è il carcere, tanto da far sembrare, di primo acchito, un po’ scontato il titolo del libro. Si parla, si discute, si blatera del carcere e del suo ordinamento, così come si fa gran rumore, specie oggi, sui media di ogni risma e colore sulle leggi migliori da applicare per questo o quel reato. Ma una società che sa soltanto legiferare, senza risolvere i problemi e le contraddizioni alla base dei reati, di qualsiasi tipo, ha già fatto le sue scelte, tutt’altro che inconsapevoli, di classe.

Di carcere si parla e si scrive: articoli su giornali e riviste, libri, programmi televisivi, canzoni. Giuristi, criminologi,magistrati, avvocati, attori e scrittori, parlano di carcere. Ognuno mette in luce qualcosa che non va. Lo fanno anche le guardie carcerarie e i loro sindacati. Sono tante le cose che non vanno in carcere, dicono, e scrivono e fanno convegni e dibattiti. Fanno ricorso alla Corte europea e questa ‹‹richiama›› lo Stato italiano perché non rispetta i diritti umani, e allora tutti a strillare allo scandalo e a strapparsi i capelli: che vergogna! Ma poi alla fine i capelli restano al loro posto e il carcere resta quello che è, quello che è sempre stato: sofferenza, distruzione, annichilimento della personalità, prostrazione, infantilizzazione” (pag.30)

In carcere l’individuo lotta quotidianamente per non soccombere, per non abbandonarsi all’idea della morte e del suicidio, per non cedere davanti a tutti i soprusi che ne scandiscono il tempo quotidiano. Già, il tempo… “In carcere non c’è tempo perché non c’è attività, se per attività intendiamola trasformazione intenzionale e finalizzata della forma e dello stato di un oggetto, di un ambiente, di se stessi […] Se non c’è cambiamento il tempo non c’è. In carcere il tempo è assente, è immobile non scorre […] Dal momento dell’‹‹arresto››… Arrestare, fermare, frenare, interrompere, sospendere, far cessare, terminare, bloccare, troncare, catturare,immobilizzare, incatenare, ammanettare, mettere in manette, carcerare, imprigionare, incarcerare. Sradicare […] Il senso della carcerazione sta tutto nella parola ‹‹arresto››, e nei suoi significati estesi. Assomiglia a uno sradicamento, a un azzeramento dell’identità” (pp.15–18)

Tempo: elemento prezioso per il calcolo delle ore di lavoro prestato o per quello degli anni di pena.Tempo dello sfruttamento e della prigionia.
Tempo, comunque, dell’alienazione umana. Il tempo della specie è un altro. E sul tempo lo scontro asimmetrico è sempre in atto: in carcere, in fabbrica e nella vita di ogni giorno. “L’attività si conquista quando si opera contro il carcere, e i preparativi per un’evasione o per una rivolta. Nel segare le sbarre, scavare un buco, imboscare un arnese costruire un coltellaccio, intrecciare una corda eccetera ci si rimpossessa del tempo e dello spazio, e il carcerato in quelle ore torna ad essere un soggetto sociale” (pag.15)

Così come “fuori” si conquista il tempo di vita, che non corrisponde al banale tempo libero, solo attraverso le lotte, oppure attraverso la ridefinizione di un’identità sociale, di classe o etnica, che non è mai concessa soltanto attraverso il diritto così come il diritto da solo non garantisce la libertà degli individui. Classi, individui non schiavizzati e nazioni (là dove ancora mancano) si formano soltanto attraverso le battaglie e le lotte che, definendo un territorio che non sia soltanto il banale non-luogo della sopravvivenza fisica, unificano il tempo con lo spazio.
Nel fare ciò la lotta di classe e le lotte degli oppressi si liberano dalla dipendenza dalla geometria euclidea, che fondava il meccanicismo della fisica tradizionale proprio sulla separazione tra tempo e spazio, e sembrano confermare, in maniera indiretta, la più moderna concezione einsteniana, nella quale tempo e spazio diventano una cosa sola. In cui il tempo ha smesso d’essere soltanto una questione oggettiva, misurata dagli orologi e indipendente dalle sensazioni e opinioni dell’uomo.

E’ dunque possibile per Ricciardi stabilire che il tempo carcerario, ma sarebbe possibile farlo anche per quello di vita, si scompone in vari “tempi”: il tempo della passeggiata all’aria, il tempo della negoziazione, il tempo dell’impotenza, il tempo della pena e del degrado sociale, il tempo della sofferenza , il tempo del corpo, il tempo dell’intossicazione, il tempo della solidarietà, il tempo della rivolta. Ai quali, nel libro, l’autore ne aggiunge ancora molti altri.

Ed ogni tempo ha il suo spazio: la cella, il cortile, i corridoi, la cella di isolamento, addirittura quello dello spioncino. Così come la vita e il lavoro conoscono lo spazio lavorativo, la fabbrica, l’ufficio, la scuola; quello della sopravvivenza, l’alloggio mono-famigliare, il supermercato, gli spazi dediti ai servizi o al “divertimento e, infine, lo spazio della rivolta, le piazze, le strade, le periferie, le città, le montagne, le valli, i deserti e le foreste. Ogni tempo ed ogni spazio richiedono rituali particolari, attenzioni specifiche e risposte adeguate.

La guerra asimmetrica tra capitale e lavoro e tra detenuto e carcere, tra individuo e stato inizia spesso dalla cura del proprio corpo e dall’attenzione al sé. “La galera impone il dolore, il carcerato cerca di farselo alleato, perché non può evitarlo. Non può scacciarlo perché è prodotto da fatti esterni a lui, allora sperimenta pratiche per farselo amico, anche propinandoselo volontariamente in dosi controllate: l’autolesionismo, il tatuaggio, l’attività fisica spinta fino all’esaurimento” (pag. 58).Così: “Per il prigioniero il corpo reale è un territorio di resistenza” (pag.70)

Ma la sofferenza non è una via verso la liberazione: “La sofferenza divide, non è vero che la sofferenza accomuna […] Il prigioniero è egoista. Non può fare diversamente” (pag.60) Il cristianesimo è sconfitto in carcere e la liberazione può arrivare soltanto negando qualsiasi pentimento o accettazione passiva del dolore inflitto dalla punizione o dalla tortura, così come il presunto libero arbitrio in una società divisa in classi può appartenere, individualmente, soltanto a chi ha il potere di fare le leggi e di stabilire i limiti della morale e dell’etica.

I prigionieri di lungo corso sanno che “a prova di evasione e di rivolta è solo quel carcere dal quale i detenuti non pensano più di evadere né di ribellarsi” (pag. 71) E che: “quando un detenuto si occupa e preoccupa del buon funzionamento del carcere allora è diventato proprio un «detenuto»” (pag.52). Il tempo di riappropriazione della vita inizia soltanto con la rivolta e, magari, con l’occupazione di uno spazio: carcere, piazza o fabbrica che sia.

Non a caso carcere e fabbrica sono nati insieme, nello stesso periodo e con le stesse modalità coatte.2 Non a caso entrambi i luoghi sono diventati scuola di violenza, ma anche di organizzazione, di rivolta e di rivoluzione. Tanto per i comunisti e per gli anarchici dell’ottocento e del novecento quanto per tanti giovani antagonisti e/o delle banlieue di oggi.3 Oppure per i giovani neri dei Black Panther delle passate stagioni di lotta e per lo stesso Malcom X: tutti incarcerati senza, spesso, aver neppure potuto scegliere tra legalità e illegalità. Illegali dalla nascita alla morte, come ben dimostra la storia di George Jackson.

Là dove la sofferenza è massima, là dove il corpo e la psiche sono quotidianamente umiliati e calpestati, là si capisce che l’unica strada del riscatto passa per la rivolta. “Rinchiusa nelle mura di un carcere la persona scopre capacità di resistenza impensabili. Anche individualmente. La cura eccessiva di se stessi, del proprio aspetto, il corpo come baluardo della resistenza stanno a significare: tu carcere non mi devasti […] Ma è la lotta collettiva del carcerato che rompe la solitudine“ (pp. 69–70) Deve essere chiaro, però, che in qualsiasi ambiente o in qualsiasi situazione caratterizzati da forti tensioni e pesanti contraddizioni di classe, può succedere, come per la fisica dei fluidi, che se uno spazio di organizzazione politica e di identità sociale sarà lasciato vuoto, da una corrente o da una ideologia politica, sarà sicuramente un’altra forma di organizzazione ad occuparlo prendendone il posto. Pena l’irrimediabile sconfitta e la morte degli oppressi.

La morte è entrata prepotentemente in carcere: circa 200 deceduti l’anno, di cui 60 per suicidio. Il cosiddetto «carcere violento», quello delle rivolte, non registrava una strage delle dimensioni del «carcere pacificato» che ha triplicato i suicidi […] Quarant’anni fa i detenuti si uccidevano con una frequenza sei volte superiore rispetto alla popolazione libera, oggi la frequenza è venti volte superiore” (pp. 30–31) Senza contare le violenze delle forze del dis/ordine e delle guardie carcerarie, da Bolzaneto a Stefano Cucchi (solo per citare gli esempi più noti).

Come afferma e dimostra benissimo l’autore, i diritti sono soltanto una questione di rapporti di forza. “Facciano pure la loro battaglia i giuristi, gli avvocati, gli uomini e le donne che si occupano di tradurre sul terreno giuridico le conquiste delle lotte sociali. Ma una legge potrà servire solo se si collocherà all’interno di una ripresa di iniziative dei movimenti contro la repressione. Non illudiamoci, cioè, che una legge di per sé, anche se ben congegnata, possa fermare l’offensiva del sistema che ha per obiettivo impedire la diffusione dei conflitti tramite una repressione sempre più preventiva” (pp. 83-84) Mentre, attraverso mille misure di sicurezza, il carcere si è espanso sempre più verso l’esterno. Con le telecamere, i controlli e le misure alternative alla detenzione. Nei soli Stati Uniti “a fronte di 2 milioni di persone detenute in carcere, ve ne sono più di 3,5 milioni in controllo penale esterno” (pag. 85)

Questo autentico vademecum per tutti i possibili carcerati di oggi e di domani diventa così una lettura e uno strumento di riflessione importante, forse obbligato, grazie anche alla bella prefazione di Erri De Luca e al ricco glossario di termini tratti dal gergo carcerario che lo accompagnano. Perché “Non bisogna subire l’inganno dell’eternità. Ogni cosa avviene in un certo tempo. Poi passa. Passano le idee, le passioni, gli imperi e le nazioni. Tutto è in movimento e legato al suo tempo. Anche il carcere passerà e balleremo sulle sue macerie” (pag. 14)


  1. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, edizione italiana a cura del generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana 2001  

  2. Per approfondire il tema si consigliano gli importantissimi: Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750 – 1850), Mondadori 1982 e Dario Melossi – Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Quaderni della rivista «La questione criminale» N°1, Società editrice il Mulino, Bologna 1977  

  3. Si vedano in proposito il bel romanzo di Aziz Chouaki, La stella di Algeri, edizioni e/o 2003 che sembra drammaticamente anticipare il percorso di uno dei due fratelli Kouachi, e il film Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009  

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