Telmo Pievani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 NextNature. Siamo incapsulati dentro una tecnosfera? https://www.carmillaonline.com/2022/10/03/nextnature-siamo-incapsulati-dentro-una-tecnosfera/ Mon, 03 Oct 2022 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74097 di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale [...]]]> di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale integrata con la specie umana in un rapporto simbiotico e coevolutivo. Una battaglia continua proprio all’interno della Luna, mentre la prima AI cerca di spingere il satellite a scontrarsi con il pianeta e l’altra di mantenerne l’orbita stabile, necessaria alla vita biologica. Sembra di sentire parlare Koert van Mensvoort quando sostiene a proposito delle creature memetiche: «Le nuove specie, basate sullo scambio di informazioni, non ci rimpiazzeranno o subentreranno al nostro posto più di quanto gli alveari abbiano rimpiazzato le singole api. Formeranno invece una superstruttura in cui verremo incapsulati».

Con NextNature. Perchè la tecnologia è la nostra natura del futuro, pubblicato in Italia da D Editore in collaborazione con Future Fiction (2022), Koert van Mensvoort presenta una teoria interessante, che potremmo riassumere in questo modo: così come la biosfera si è sviluppata sulla precedente geosfera, le creazioni tecnologiche degli esseri umani hanno formato una tecnosfera, che cresce e interagisce con la biosfera, e che ha finito per modificare il mondo in cui viviamo al punto da instaurare quella che Mensvoort definisce una natura prossima. Il fatto che le attività umane abbiano alterato gli ecosistemi come nessuna altra specie, fino a causare il surriscaldamento globale e ad avviare una sesta estinzione di massa, portarono il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen a coniare il termine Antropocene. C’è ancora un dibattito aperto nella comunità scientifica su quando datare la nuova era geologica, che si sostituirebbe all’Olocene, se alla comparsa dell’Homo Sapiens, considerando di fatto la nostra come una specie manipolatrice per natura, oppure in tempi più recenti a partire dalle rivoluzioni industriali, o ancora più vicino fissando il chiodo d’oro allo scoppio della bomba atomica. Certo è che, a prescindere da quando sarà stabilita la nascita dell’Antropocene, il tempo per rimediare alle conseguenze delle nostre attività prima di arrivare a un punto di non ritorno è ormai molto poco, questione di qualche anno. In questo quadro, si collocano gli aspetti più problematici della teoria di Mensvoort, che invece considera obsoleto il modello dell’Antropocene e di cui cercheremo di illustrare le connessioni principali.

«Guardatevi attorno nella stanza in cui siete e trovate la cosa più naturale. Cercate con cura. Siete voi». Questo è il punto di partenza della teoria di Mensvoort: fin dalla sua comparsa, Homo Sapiens ha manipolato la natura a proprio vantaggio grazie agli usi della tecnologia, fino alla comparsa della tecnosfera. Ciò che preme per prima cosa a Mensvoort è dimostrare come sia sbagliato giudicare una simile manipolazione innaturale. C’è alla base una idea mutuata dall’antropologia che considera quello umano come un «essere carente»: mentre ciascun animale pare essere attrezzato per un ambiente specifico, noi sembriamo non essere adatti a nessun ambiente in particolare. Ecco allora che a colmare il vuoto interviene la cultura: siamo da sempre esseri culturali per natura. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale nascono assieme e interagiscono tra di loro. Ne consegue, che a essere naturale è allora anche la nostra attività plasmatrice: «Siamo artificiali per natura […] gli esseri umani sono impegnati in un rapporto evolutivo simbiotico con la tecnologia». Grazie alle nostre tecnologie siamo riusciti a diffonderci nella maggioranza del pianeta, rendendo abitabile anche ciò che per noi non lo era, a discapito di altre specie. La cultura è la nostra attrezzatura. Il problema per cui la tecnologia ci sembra innaturale secondo Mensvoort è che continuiamo a «pensare alla natura come a ciò che è rimasto inviolato dalla mano umana». Paradossalmente, il mercato contribuisce ad alimentare questa idea. «La natura è un ottimo prodotto, forse quello di maggior successo del nostro tempo»: se ci pensiamo bene, ci vengono venduti solo gli aspetti della natura in armonia con le nostre vite e mai quelli tragici. Ma anche i gruppi ambientalisti mantengono una idea di natura «conservatrice», riassumibile nello slogan dagli echi trumpiani: «Rendiamo di nuovo grande la natura». Qui Mensvoort è impietoso, ma è chiaro come voglia calcare la mano per arrivare al nodo cruciale: la natura come l’abbiamo sempre immaginata è in realtà un prodotto culturale, tanto quanto la tecnologia ha carattere naturale.

Che cosa significa che «la biologia sta diventando tecnologia e la tecnologia sta diventando biologia»? Dobbiamo cogliere alcuni passaggi importanti. Esiste una natura autonoma dal nostro controllo, come i vulcani o il sole, ed esistono tecnologie create e controllate dall’essere umano, come i telefoni o le auto. La differenza tra i due poli non riguarderebbe solo ciò che è creato da noi e ciò che è naturale, ma anche ciò che è vivo da ciò che non lo è. Si tratterebbe però di una polarizzazione sbagliata, per Mensvoort. «Tradizionalmente, vediamo la natura come tutto ciò che nasce (le piante, gli animali, il clima, l’universo) e la cultura come le cose costruite dall’essere umano. Con la convergenza tra nato e costruito, questo confine è sempre più labile». Ormai manipoliamo a tal punto le cose nate che «la natura diventa cultura»: pensiamo alle nostre coltivazioni, in cui abbiamo agito sulla natura per adattarla alle nostre esigenze. Allo stesso modo, alcune tecnologie che abbiamo creato sono sfuggite al nostro controllo, diventando autonome: «la cultura diventa natura». L’esempio più estremo di Mensvoort sono le corporation, che considera come creature vive. Nessuno infatti potrebbe davvero sostenere di riuscire a controllarne il comportamento.

Per spiegare che cosa intenda, Mensvoort riprende una teoria chiamata dell’operatore: «Jagers op Akkerhuius afferma che l’evoluzione sia progredita dalle particelle più elementari verso strutture di complessità sempre maggiore. Ogni livello prevede un cosiddetto operatore (qualsiasi cosa sia, da un quark a un animale) che possiede una chiara interfaccia in cui sia incluso il livello precedente. Sebbene il cambiamento avvenga anche all’interno dei livelli, questi atti di inclusione sono i gradini evolutivi più importanti. Ciascun gradino permette, a sua volta, l’evoluzione dello stadio successivo». Ci sono sette livelli di complessità naturali, in cui quello successivo ingloba il precedente, per esempio pensiamo alla cellula formata dalle molecole, oppure agli organismi pluricellulari formati dalle cellule. Ogni livello quindi ha in sé più forme di vita, tale per cui la somma delle parti non coincide mai con il suo insieme: noi non siamo la somma delle nostre cellule, ma siamo anche le nostre cellule. All’ottavo livello si collocano invece delle nuove specie che Mensvoort definisce creature memetiche, perché non si basano sui geni, ma sui memi, teorizzati da Richard Dawkins come «unità di trasmissione culturale». Questa tecnologia globale starebbe inglobando così i livelli precedenti, diventato però qualcosa di metamorfico: una tecnologia viva.

Ecco qui dove si piazza il focus più problematico della teoria sulla natura prossima. Torniamo sull’esempio delle corporazioni: sono formate da esseri umani, ma agiscono per proprio conto. Si riproducono, creando nuove corporazioni, o muoiono andando in bancarotta. Hanno un proprio metabolismo. Il loro scopo è sopravvivere, anche se questo potrebbe danneggiare i suoi stessi creatori: «Una volta superato lo sciovinismo al carbonio del genere umano e aperta la mente all’idea che le aziende siano un nuovo tipo di organismo sulla Terra, il motivo per cui sembriamo non riuscire a risolvere problemi ambientali come la deforestazione e il cambiamento climatico diventa chiaro. Le compagnie non respirano aria pura. Le emissioni delle fabbriche ne aumentano, in realtà, il fatturato e ne rafforzano il metabolismo». È vero che l’insieme non coincide con la somma delle parti, ma qui Mensvoort sembra proporci una forzatura retorica. Leggiamo un passaggio da Howl di Allen Ginsberg: «Moloch whose mind is pure machinery! Moloch whose blood is running money! Moloch whose fingers are ten armies! Moloch whose breast is a cannibal dynamo! Moloch whose ear is a smoking tomb! / Moloch whose eyes are a thousand blind windows! Moloch whose skyscrapers stand in the long streets like endless Jehovahs! Moloch whose factories dream and croak in the fog! Moloch whose smokestacks and antennae crown the cities!» Moloch vive, si nutre, respira. Noi siamo dentro Moloch, incapsulati in Moloch. E soprattutto, Moloch è sfuggita al nostro controllo. È una personificazione efficace, in poesia. Ma Moloch, come tecnologia senziente, esiste davvero? La stessa costruzione discorsiva potrebbe valere per le galassie: collidono, si mangiano a vicenda o si espandono. Una galassia non è l’insieme delle sue parti e potrebbe essere l’ottavo livello di complessità evolutiva più di una corporazione o una rete bancaria. Mensvoort opera una traslazione di caratteristiche biologiche su delle creazioni non biologiche, cercando di giustificare il gioco linguistico attraverso la sostituzione dei geni con i memi. Manca però, in NextNature, uno sprofondo accurato proprio nella teoria dei memi. Sono gettati là, come quelli di internet.

Uno studioso a cui Mensvoort deve molto, ma che non viene mai citato, è probabilmente James Lovelock con la sua teoria di Gaia, da cui le logiche della tecnosfera non sembrano essere differenti: l’idea cioè che il pianeta Terra sia un gigante vivo, che inglobi in sé altri livelli di complessità evolutiva che collaborano con la parte inorganica al mantenimento delle condizioni necessarie alla vita biologica. Leggiamo le parole di Lovelock: «La parola Gaia mi serve a indicare la mia ipotesi che la biosfera sia un’entità autoregolata, che stabilisca le condizioni materiali necessarie per la propria sopravvivenza […] e che risulta perciò distinta dalla pura somma delle parti che la compongono» (da Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, 2021). Per quanto affascinante possa sembrare, la teoria di Lovelock non è stata accolta dalla maggioranza della comunità scientifica, anche se è sopravvissuta nell’immaginario per la forza poetica con cui riesce a farci sentire più vicini al nostro pianeta. La problematicità di una simile traslazione è quella di attribuire una coscienza a delle logiche reticolari, come osserva Telmo Pievani nell’introduzione alla nuova edizione: «Su questo versante Lovelock cammina però su un crinale potenzialmente scivoloso […] Leggiamo per esempio che questa entità globale avrebbe facoltà e poteri superiori di molto a quelli dei suoi singoli costituenti, che Gaia cerca e costruisce un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita come sua finalità intrinseca, e così via, il che chiaramente è diverso dal dire che si è instaurata una regolazione biologica attiva che mantiene condizioni geofisiche relativamente costanti». Che si possa parlare di un debito di Mensvoort verso le teorie di Lovelock, sembra confermato anche dalla lettura di Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2019): qui lo scienziato a cento anni torna sull’ipotesi Gaia, immaginando un passo successivo. L’Antropocene sarebbe un modello di lettura del mondo già obsoleto, perché molto presto sarà sostituito da una nuova era: quella del Novacene, in cui homo sapiens e macchine super-intelligenti collaboreranno tra di loro in un rapporto co-evolutivo ed entrambi avranno interesse a mantenere su Gaia le condizioni necessarie alla vita organica. In poche parole, una tecnosfera; con la differenza, che per Lovelock avvierebbe con noi una collaborazione interessata.

La teoria della natura prossima ha senza dubbio degli aspetti interessanti, su cui vale la pena di interrogarci e che sono stati illustrati fino a qui. Se da una parte è illuminante il discorso attorno alla produzione culturale della natura, dall’altra quando Mensvoort scrive che «Con “cultura” indichiamo tutto ciò che viene creato dal genere umano» sembra essere più vicino a una definizione tyleriana di cultura, immaginata come un «insieme complesso» che include le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume eccetera eccetera, rispetto a quella «ragnatela di significati» di cui ha scritto Clifford Geertz nella sua Interpretazione di culture (1973) e che ha rivoluzionato gli studi antropologici, immaginando invece «la cultura come un testo» che l’antropologo deve interpretare. Forse sarebbe meglio indagare la tecnosfera attraverso la teoria delle reti, a partire dal lavoro dello scienziato Albert-László Barabási in Link. La nuova scienza delle reti (Einaudi, 2004). È proprio il paradigma della teoria delle reti, che ha trovato negli ultimi anni un felice campo di attuazione nell’informatica, nell’economia, nell’ecologia (pensiamo solo ai lavori di Stefano Mancuso sull’intelligenza delle piante), nella sociologia, nell’antropologia e nelle neuroscienze, a rappresentare uno dei paradigmi contemporanei su cui fare maggiore affidamento. Anche le teorie di Barabási partono dall’assunto che un insieme non sia la somma delle sue parti. Per formare una rete, c’è bisogno di un numero di nodi che siano in connessione tra di loro. Barabási però presta una particolare attenzione a un tipo specifico di rete, quella «a invarianza di scala»: la differenza è che nelle reti casuali ogni nodo ha la stessa possibilità di avere dei link rispetto agli altri, mentre la rete a invarianza di scala è regolata da una legge di potenza che presenta degli «hub», cioè dei connettori con un numero maggiore di link rispetto agli altri nodi e che con il tempo sono destinati ad averne sempre di più, secondo la formula per cui «i ricchi diventano sempre più ricchi». Gli altri nodi sono destinati invece ad averne sempre di meno. Una rete a invarianza di scala è caratterizzata quindi dalla presenza di un «collegamento preferenziale» formato da tutti i suoi hub e dal fatto che possa crescere. Sebbene si evolvano però le reti sono immaginate come modelli di «una tela senza il ragno». Sarebbe bello guardare all’Antropocene come a un’era da lasciarsi dietro. Siamo però intrappolati nella ragnatela del cambiamento climatico. E il ragno, in questo caso, esiste: il ragno siamo noi.

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Effimeri cercatori di senso https://www.carmillaonline.com/2021/01/20/effimeri-cercatori-di-senso/ Wed, 20 Jan 2021 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64567 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno ad un dialogo immaginario e mai avvenuto tra il genetista Jacques Monod e lo scrittore Albert Camus, riesce a trasformare in un autentico inno alla vita e alla sua specificità nel contesto di un universo che non è sicuramente adatto ad ospitarla.

L’autore immagina che Camus non sia deceduto nell’incidente d’auto che pose fine alla sua vita il 4 gennaio 1960 e che l’amico Jacques Monod si rechi ripetutamente in ospedale per portargli conforto e dare vita, insieme a lui, ad un testo dedicato appunto alla finitudine e, paradossalmente, alle enormi potenzialità di “liberazione” che tale coscienza può portare con sé. Testo che, all’occhio attento del lettore che anche solo conosca in parte le opere dei due premi Nobel (assegnato al primo nel 1957, per la Letteratura, e al secondo nel 1965, per la Fisiologia e la Medicina) risulterà costituito proprio dall’essenza delle opere dei due intellettuali. In particolare, per il libertario Camus, tratte da L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo e per lo scopritore del controllo genetico della sintesi delle proteine (insieme a agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, tutti e tre uomini della Resistenza francese contro l’occupazione tedesca e il nazifascismo) da Il caso e la necessità. Testo pubblicato nel 1970 e destinato, dopo L’origine delle specie di Darwin, a suscitare uno dei più importanti dibattiti scientifici e filosofici.

I due, inoltre, al momento della morte avevano lasciato incompiuti gli appunti per due possibili testi 1, cosa che permette a Pievani di immaginare un loro ulteriore testo a quattro mani, completato nella finzione narrativa al momento della morte di Camus, posticipata al 26 giugno 1960.
Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, può essere considerato come una sorta di fuorilegge del sapere italiano. Da anni, infatti, il suo lavoro disobbedisce alla regola che informa la scuola, l’università e i pensieri che in quelle si sono formati: la regola secondo cui da una parte (e più in alto) ci sarebbero le discipline umanistiche, dall’altra ci sarebbero quelle scientifiche.

Proprio per abbattere queste barriere, oggi decisamente superate, ha studiato fisica, poi filosofia della scienza e, infine, biologia evoluzionistica, finendo per applicare la filosofia della scienza alla biologia e creando così un sapere che in Italia non c’era, Un sapere e una concezione della scienza che lo accomuna ai due grandi “eretici” protagonisti del dialogo intellettuale contenuto nel romanzo. Un sapere mai precluso, però, agli avvenimenti del mondo circostante e sempre conscio dell’obbligo alla rivolta contro l’ingiustizia compreso nel ruolo dello scienziato autentico e degli intellettuali degni di questo nome (oggi in Italia piuttosto scarsi, se non assenti del tutto).

Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative […] Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica.
Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri […] Lo scienziato disobbedisce
ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori […] Quale migliore interprete
della rivolta?
[…] Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani [ma] deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso– è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune [poiché] suo unico nemico è la menzogna2.

Sulle moderne tracce di Lucrezio e del suo De rerum natura e, perché no, anche di Leopardi e delle sue riflessioni poetico-filosofiche, ecco allora che il discorso scientifico sulla finitudine di tutte le cose (dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi). ci rivela, fin dalle pagine iniziali del libro che non solo la Terra è vecchia:

per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo.
[…] In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali […] Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo […] Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri3.

Si chiede poi ancora l’autore Pievani/Monod/Camus:

Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca
3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, peri cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens4.

Nulla rispetto alla, soltanto presunta, eternità del cosmo, ancor meno se riferito soltanto alla nostra specie.
A questo punto il senso di insignificanza del tutto, del vuoto che ci circonda e che ci attende, così come attende l’Universo in tempi appena più lunghi, potrebbe schiantare qualsiasi speranza o velleità, precipitandoci nel nichilismo più assoluto. Eppure, eppure…
Pievani immagina che Monod e Camus leggano e discutano le bozze praticamente sul letto di morte dello scrittore francese mentre, allo stesso tempo ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi oppure commentano i tragici fatti che hanno accompagnato la rivolta d’Ungheria, pochi anni prima, e le sue conseguenze sulle vite di amiche e amici conosciuti. Oppure commentano le infinite casualità in cui la possibile morte, per mano del nemico o per scherzo del destino, è stata evitata per un soffio. Ed è altamente simbolico il fatto che le bozze siano completamente lette e approvate un soffio di tempo prima che Camus si addormenti per sempre (e per davvero).

Perché l’uomo, forse l’unico animale simbolico del pianeta e quindi, probabilmente, dell’intero universo, porta con sé la grande capacità di aver saputo concepire, allo stesso tempo, la propria finitudine e immaginare il modo di vincerla. In questo secondo aspetto sembrano infatti risiedere l’emergere sia del desiderio che della rivolta, purché questo, ammonisce il testo, non si lasci abbindolare dalle illusioni religiose: siano queste di carattere monoteistico, politeistico o animistico.

Cogliere il miracolo autentico della momentanea esistenza della nostra specie e delle nostre brevissime vite non può essere un fatto religioso, ma piuttosto l’assunzione della piena coscienza della durata di questo attimo, proprio perché unico e irripetibile.
«Come onde del mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto»5. Compreso ciò, ci sarà probabilmente dolce naufragare in questo mare, anche se l’inquietudine continuerà ad animare e pervadere il nostro modo di essere effimere creature volte alla ricerca di un senso delle cose.

Ma, una volta coscienti dell’istantaneità del tutto, una volta divelte le illusorie paratie della potenza del destino manifesto dell’Uomo, tutt’altro che al centro dell’Universo, non potremo e non dovremo dedicarci ad altro che alla rivolta contro tutto ciò che vuole ridurre questo breve istante di eternità, vissuto da ognuno e dalla specie nel suo insieme, a miserabile commedia di potere, violenza, sfruttamento, ricerca della ricchezza e consumo smoderato e senza scopo. Solo in tal modo sarà possibile, pur nei limiti del tempo concessoci, godere pienamente della vita, ben consci che «anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla»6.

Una concezione esclusivamente utilitaristica della Scienza la ritiene

un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”7.

Così, nella sua essenza, al di là dell’illusione di vincere la morte contenuta nelle religioni o nel suo uso meramente “tecnico”, ci ha insegnato che

Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo
più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.
Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme8.

Nel restituirci il “senso” della fine ultima e della rivolta come strumento di emancipazione non solo sociale ma umana e vitale, il libro di Pievani, da leggere e rileggere proprio nei momenti difficili e apparentemente più disperanti, si rivela un autentico livre de chevet destinato ad accompagnare il lettore per molto tempo, rivelandogli ad ogni successiva lettura come il confine tra vera scienza e autentica poesia sia, talvolta, assai sottile.


  1. si tratta di L’ultimo uomo per Camus e di L’uomo e il tempo per Monod  

  2. Telmo Pievani, Finitudine, pp. 272-273  

  3. T. Pievani, op. cit., pp. 12-14  

  4. ibidem, pp. 16-17  

  5. ibidem, p. 245  

  6. ibid., pp.276-277  

  7. ibid., p. 274  

  8. ibid., p.252  

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Soltanto una specie tra le altre https://www.carmillaonline.com/2019/11/13/umilta-e-materialismo-per-comprendere-davvero-cosa-siamo/ Wed, 13 Nov 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55923 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, La Terra dopo di noi, fotografie di Frans Lanting, Contrasto – Roberto Koch Editore, Roma 2019, pp. 184, 22,90 euro

“Selvaggia, indomita, potente , indifferente alle nostre sorti, nuovamente rigogliosa. Questa è la Terra, senza di noi, prima di noi, dopo di noi.” (Telmo Pievani)

Il libro di Telmo Pievani, recentemente edito da Contrasto, ha un grande, forse grandissimo merito: quello di ricordarci quanto davvero conti la nostra specie per il pianeta e, più in generale, nell’Universo che la ospita. L’autore, che ricopre la prima cattedra italiana [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, La Terra dopo di noi, fotografie di Frans Lanting, Contrasto – Roberto Koch Editore, Roma 2019, pp. 184, 22,90 euro

“Selvaggia, indomita, potente , indifferente alle nostre sorti, nuovamente rigogliosa. Questa è la Terra, senza di noi, prima di noi, dopo di noi.” (Telmo Pievani)

Il libro di Telmo Pievani, recentemente edito da Contrasto, ha un grande, forse grandissimo merito: quello di ricordarci quanto davvero conti la nostra specie per il pianeta e, più in generale, nell’Universo che la ospita.
L’autore, che ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova dove insegna anche Bioetica e Divulgazione naturalistica, ci guida infatti alla riscoperta di un’antica verità ovvero quella della evidente insignificanza dell’umano all’interno del sistema vivente e del cosmo in cui si trova ad operare.

Insignificanza che l’autore sottolinea sin dalle prime pagine:

“Nulla di scandaloso, noi siamo una specie contingente e la nostra è una storia di periferia, la periferia dell’impero noto come super-ammasso della Vergine. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale come ve ne sono tante nell’universo, la Via Lattea, per la precisione in uno dei suoi bracci laterali, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono appunto il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni. Non sappiamo se ci sarà qualcuno ad assistere a quel grande spettacolo di fuochi d’artificio cosmici. In ogni caso, allora per la Terra sarà tutto finito, con o senza di noi.”1

Una verità intuita, più che scientificamente compresa, da tutti i popoli antichi o, ancor meglio, da quelli sprezzantemente definiti come primitivi, ma di cui è rimasta traccia nella nostra cultura almeno fino al Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi.
Una verità con cui la specie umana ha dovuto fare i conti fin dai suoi primi passi e che l’ha costretta, per sopravvivere, ad unirsi per lungo tempo in social catena come avrebbe detto Giacomo Leopardi e a rispettare allo stesso tempo i ritmi, i tempi, le condizioni di partenza dell’ambiente e della natura in cui si trovava ad operare.

Una verità che le religioni animistiche e politeistiche meglio riassumevano, fungendo da interpretazione del mondo, di quanto invece abbiano fatto le religioni monoteistiche, in particolare quella cristiana che vede nel mondo terreno e nel pianeta qualcosa di cui l’uomo è signore e padrone, essendo stata la Terra creata da dio per lui e a suo uso e consumo.
Una visione perpetratasi, quest’ultima, nei secoli in maniera tale da far pensare, oggi, che questo mondo sia destinato ormai ad una fine prematura.

In realtà, il testo di Pievani e le bellissime fotografie di Lansing lo dimostrano, la fine prematura sarebbe soltanto quella della nostra specie. Una specie che, abituata ad un modo di produzione devastante che affonda però le sue radici in pratiche e convinzioni più antiche, marcia orgogliosamente verso un’autentica auto-distruzione che finirebbe col costituire, anche in questo caso, soltanto una delle tante estinzioni di massa che hanno caratterizzato la storia della vita sul pianeta.

Certamente non ci sarebbe nell’immediato un ritorno ad una natura vergine, che ha smesso di essere tale almeno fin dalla comparsa dell’agricoltura, e per migliaia o decine di migliaia di anni sarebbero in atto quei processi climatici e bio-chimici necessari alla scomparsa di ogni tipo di manufatto umano, plastiche e metalli, dall’ambiente terrestre, mentre le onde radio diffuse profondamente nello spazio dalla nostra volontà di pubblicizzare le grandi conquiste della nostra specie, da Guglielmo Marconi in poi, attraverso radio e televisioni continuerebbero a viaggiare nel cosmo portando notizie di una civiltà ormai estinta.

“Tutto questo è molto cinico, ammettiamolo. Possibile che solo la nostra scomparsa possa far rifiorire la natura? A tale misantropica distruzione dovremo ridurci? Ma lo scenario triste e desolato appena descritto cambia subito di segno se abbandoniamo per un momento l’ottica antropocentrica che solitamente adottiamo. Dal punto di vista del pianeta e dell’evoluzione è un messaggio di speranza. Perdendo tutto sommato una sola specie di mammifero, una sola, quindi con una minima riduzione di biodiversità,la vita ricomincerebbe più rigogliosa che mai, coprendo le nostre rovine. Un affare. L’evenienza in sé non avrebbe alcunché di eccezionale: siamo una specie mortale, come tutte le altre, e nessuno sentirebbe la nostra mancanza. Ovviamente il messaggio, qui non è che l’estinzione umana non sarebbe una tragedia. Lo sarebbe eccome. Anzi, sarebbe una tragedia assurda proprio perché conoscevamo i rischi e avremmo potuto evitarla. Altrimenti perché chiamarci così presuntuosamente e prematuramente sapiens?”2

E’ una coscienza molto antica quella di cui parla l’autore. Presente non soltanto nei riti di popoli ritenuti selvaggi (non cristiani e non moderni), ma anche nella filosofia e nel pensiero che hanno precorso il superficialismo progressista odierno.

“Abbiamo un problema con l’ambiente globale e lo sappiamo da parecchio tempo. Sembra un dibattito recente, ma non lo è . Forse un dibattito vecchio quanto l’Antropocene stesso. Nel Seicento infatti già si discuteva dottamente dei fumi mefitici di Londra, delle loro cause e della loro ricaduta sulla salute. Un secolo dopo Buffon denunciava la depredazione della natura per mano dell’uomo colonizzatore e ne prevedeva con precisione le conseguenze. Lo stesso diranno nell’Ottocento i socialisti utopisti e i critici del capitalismo predatorio. Degli effetti ambientali della rivoluzione industriale si dibatte da almeno due secoli. Alla corte dei re di Francia si analizzavano le relazioni tra le deforestazioni e il clima globale, su cui si soffermerà tempo dopo anche il grande naturalista, esploratore e geografo berlinese, ma francese di simpatie, Alexander von Humboldt. […] Per lui la natura era una trama globale di relazioni, un’immensa rete vitale priva di un piano trascendente e tenuta insieme da un’unità profonda. […] L’olismo della ‘fisica generale’ di Humboldt lo portò a diventare un antesignano dell’ ambientalismo e un difensore degli ‘animi oppressi’: denunciò le devastazioni dei colonizzatori (le foreste decimate dalle piantagioni di canna da zucchero e miniere, il brutale sfruttamento delle risorse, la caccia e pesca indiscriminate) associandole ai cambiamenti climatici (fu tra i primi a capire che la foresta era cruciale per evitare l’erosione del suolo e rinfrescare il clima) e alle barbarie inflitte ai popoli indigeni.”3

Alexander von Humboldt (1769-1859), non era un autore di nicchia. Attraverso i suoi scritti molti all’epoca, compresi forse i padri del socialismo scientifico considerate le sue dichiarate simpatie per la rivoluzione del 1848 e la sua netta opposizione alla servitù della gleba ancora in uso in Russia a quel tempo, presero coscienza di quell’unità, ma oggi nell’età degli specialisti, dei laboratori scientifici finanziati dalle imprese e degli investimenti nelle grandi opere inutili e dannose, il vate della grande unità della natura è dimenticato, passato di moda.

Bene, il testo provocatorio, bello e divulgativo allo stesso tempo, di Pievani ci invita a riscoprire tutto ciò: l’umiltà necessaria a comprendere la nostra giusta posizione come specie nel sistema e nella rete della vita del pianeta e lo sviluppo di una conoscenza disinteressata, lontana dalle logiche del profitto e del dominio, che ci permetta di tornare a relazionarci con l’ambiente e l’emergenza climatica privi dei paraocchi impostici da secoli di sottomissione al capitalismo e alle ideologie dello sviluppo e del profitto che ne sono derivate.


  1. T. Pievani, La Terra dopo di noi, cit. p. 7  

  2. T. Pievani, op.cit., pp. 28-29  

  3. Op.cit., pp. 121-122  

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Gerusalemme ovvero come abbiamo perso la memoria https://www.carmillaonline.com/2017/03/30/gerusalemme-ovvero-perso-la-memoria/ Wed, 29 Mar 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37211 di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa. Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea [...]]]> di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa.
Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea di demarcazione costituita dall’esistenza, o meno, di una documentazione scritta continua a differenziare la Storia dalla Preistoria.

Eric H. Cline, docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e Direttore del Capitol Archaelogical Institute presso la George Washington University, ha al suo attivo 30 campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti. La sua professione di studioso e di archeologo lo pone pertanto nella posizione più vicina a quella di una possibile “paleontologia storica” destinata a superare anche i confini di quella storia di “lunga durata” di cui sono stati maestri, in Francia, la cosiddetta Scuola delle Annales, Marc Bloch, Lucien Febvre (entrambi suoi fondatori), Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Mentre la scuola francese, infatti, esercitò i suoi studi soprattutto sulla storia del Medio Evo e sulla transizione dall’Età Moderna all’attuale società contemporanea (o capitalistica), studiando le trasformazioni lente avvenute all’interno delle società nell’ambito dell’economia, delle pratiche quotidiane e dell’immaginario politico e/o religioso, da diversi anni l’archeologo e ricercatore americano si dedica alla ricostruzione di fatti complessi e drammatici, e talvolta decisivi per la sopravvivenza o meno delle antiche civiltà, che coinvolsero società e ambiente nell’Antichità.

Prova ne sia il suo testo più famoso, e più recente, 1177 BC. The Year Civilization Collapsed 1 in cui sono individuate e descritte le molteplici cause di uno dei più impressionanti punti di svolta della Storia. Quando forse il primo “mercato mondiale” formatosi attorno alle civiltà del Vicino Oriente e della Mezzaluna fertile fu travolto dall’arrivo dei cosiddetti “Popoli del mare” e dagli sconvolgimenti di ordine climatico e naturale che si manifestarono in quel periodo.

Anche nei suoi testi precedenti, The Battles of Armageddon. Megiddo and the Jezreel Valley from the Bronze Age to the Nuclear Age (2000)2 e Jerusalem Besieged. From Ancient Canaan to Modern Israel (2004),3 Cline si era spinto molto indietro nel tempo per ricostruire i percorsi storici e mitici che hanno determinato, soprattutto, la complessità, la contraddittorietà e la violenza (ancora attuale) dei conflitti sviluppatisi intono alla “nascita” e alla “storia” dello Stato di Israele.

Nel primo dei due testi si ricostruisce la storia della valle di Jezreel, Esdraelon per la Bibbia, integrata nell’attuale Israele, che ha forse visto il maggior numero di battaglie al mondo. A partire dall’antica città-stato di Megiddo, in una regione abitata fin dal 7000 a.C., ha visto infatti gli imperi scontrarsi per il suo possesso e dominio, almeno dal 2350 a.C., considerata la sua importante posizione strategica posta proprio al crocevia tra i sentieri, più che le strade, che collegavano tra di loro le antiche potenze economiche e militari: Mesopotamia ad Oriente, Egitto verso Sud , Anatolia verso il Settentrione, lasciando lo spazio mediterraneo ad Occidente.

gerusalemme 1 Un territorio, considerate soltanto le testimonianze riportate, teatro di guerre da almeno 4500 anni e di cui Gerusalemme fa parte. Da qui il testo in questione, interamente dedicato alla ricostruzione e alle motivazioni dei 118 conflitti che hanno interessato il suo territorio negli ultimi quattro millenni.
La lotta per il controllo di Gerusalemme e di tutto Israele continua senza tregua ai nostri giorni, perpetuando quattromila anni di scontri nel cuore della terra un tempo chiamata Canaan. Là dove anticamente le armi erano spade di bronzo, lance e asce da guerra, oggi sono diventate granate stordenti, elicotteri da combattimento, autobombe innescate a distanza e giovani uomini e donne suicidi imbottiti di esplosivo. Se da un lato sono cambiati gli individui e i loro armamenti, dall’altro le tensioni e le ambizioni sottostanti sono rimaste immutate. Per Meron Benvenisti, ex-vicesindaco di Gerusalemme, le opposte rivendicazioni ebraiche e musulmane sul Monte del Tempio sono «una bomba a orologeria di proporzioni apocalittiche»4

Il famoso geografo Strabone, vissuto nei secoli a cavallo dell’inizio dell’era cristiana, aveva scritto che Gerusalemme era sorta in un luogo che nessuno poteva invidiare e per il quale “nessuno avrebbe voluto pigliar guerra seriamente […] Infatti il terreno di Gerusalemme è tutto pietroso; e benché nella città si trovi abbondanza d’acqua, il paese all’intorno peraltro è sterile, arido e […] tutto roccioso”.5 Eppure, eppure…quanto si sbagliava!

Dove oggi volano droni israeliani e carri armati Merkava presidiano il territorio circostante, intorno al 1350 a.C. un piccolo monarca di una località che gli Egizi chiamavano Urushalim chiese aiuto al faraone , implorandolo: “Sono una nave in mezzo al mare!”, probabilmente circondato da qualche popolo cananeo. Manifestando così per la prima volta nella Storia conosciuta l’angoscia da accerchiamento di chi di volta in volta si è trovato a rivendicare o difendere la città o, più in generale, il territorio che corrisponde oggi all’attuale Israele.

Il moderno Stato di Israele– che si accinge a festeggiare il suo settantesimo compleanno – è stato definito un’isola circondata e assediata da un mare di forze arabe ostili. Riuscirà a durare quanto il Regno crociato di Gerusalemme? Il futuro del nuovo Stato palestinese, la cui nascita6 fa ancora sentire i suoi postumi dolorosi, è ancora più incerto; i suoi due avamposti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania possono essere dipinti a loro volta come isole circondate da un mare di forze israeliane sempre più ostili.7

Il primo a conquistare la città, narra la ricostruzione biblica, fu il re Davide, poi sarà la volta di Hazael, re di Aram, seguito da Sennacherib l’assiro, Nabucodonosor il babilonese, Tolomeo, Antioco, i maccabei, Ircano, i parti, Erode, Tito e Adriano. Dopo si aggiungeranno il califfo Umar, gli abbasidi, i fatimidi, i selgiuchidi, i crociati, Saladino, Federico II, gli ottomani e poi gli inglesi del generale Allenby che porteranno in Palestina i primi carri armati. Fino ai conflitti degli ultimi decenni.

Cline ci tiene a ribadire che “per nessun’altra città del pianeta si è combattuto tanto aspramente nel corso della storia. La denominazione di «città della pace» che spesso le viene attribuita è con buona probabilità un errore di traduzione e senza alcun dubbio un termine fuorviante”,8 considerato che “la città è stata completamente distrutta due volte, assediata ventitre volte, attaccata altre cinquanta volte e riconquistata quarantaquattro volte. E’ stata teatro di venti rivolte e innumerevoli tafferugli9

E torna anche a sottolineare, come già aveva fatto Strabone, che “anche ai nostri giorni, il paesaggio che si offre agli occhi di chi guarda a oriente da qualsiasi punto elevato della moderna città di Gerusalemme è quello riarso del deserto di Giudea, con le sue rocce scintillanti di calore. Le vestigia di fauna e flora sepolte nei suoi strati antichi testimoniano che l’ambiente non era molto diverso intorno al 1000 a.C. […] La presenza della sorgente di Gihon e la protezione garantita proprio dalle gole circostanti furono con buona probabilità tra le ragioni principali che, nel corso del III millenio a.C., spinsero i cananei a insediarsi per primi in questo luogo relativamente abbandonato. Di primo acchito, i suoi vantaggi sembrano finire qui. Il sito si trovava a notevole distanza dalle principali rotte commerciali che dall’Egitto a sud conducevano alle regioni dell’Anatolia e della Mesopotamia a nord e a est. Era immerso in un’area per lo più priva di risorse naturali e lontano dai porti marittimi che punteggiavano le coste del Mediterraneo.10

gerusalemme Quindi apparentemente nulla sembrerebbe giustificare l’utilità o le ragioni materiali dei drammatici eventi che l’autore ricostruisce nelle più di quattrocento pagine del testo.
Resta soltanto la presenza austera del Monte del tempio, un’altura chiamata in arabo Haram al-Sharif (Nobile Santuario) che domina sull’abitato circostante. “Su questa altura alberga una grande roccia che […]un tempo si trovava entro le mura del Tempio di re Salomone e più tardi in quello di Erode. Ancora oggi questa enorme pietra ha una presenza imponente sul Monte del Tempio. Riposa infatti sotto il tetto dorato della Cupola della Roccia e costituisce in elemento vitale del terzo sito più sacro del mondo islamico. In base alla tradizione musulmana, il profeta Maometto ascese al cielo proprio da questa roccia. Secondo la tradizione ebraica, invece, si tratta della pietra su cui Abramo offrì il figlio Isacco in sacrificio a Dio, E fu sempre qui che Davide fece collocare la sacra Arca dell’Alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.11

Intorno e su quell’altura hanno finito col depositarsi le rivendicazioni identitarie e nazionali sia della parte ebraica, che rivendica Gerusalemme e tutto il territorio della Palestina in quanto facente parte dell’antica Israele biblica, sia di quella araba e palestinese che, troppo spesso ha separato le rivendicazioni di classe e antimperialiste da una rivendicazione di carattere storico e nazionalistico che affonda anch’essa le sue ragioni nei millenni e nei conflitti trascorsi. Risalendo fino ai popoli che l’avevano abitata e fondata prima dell’avvento di Re Davide.

«I nostri antenati, i cananei e i gebusei», ha dichiarato Yasser Arafat, […] «hanno costruito le città e seminato la terra; hanno edificato la monumentale città di Bir Salim (Gerusalemme)». Il suo fidato consigliere Faysal al-Husaynī non la pensava diversamente. «Innanzitutto», affermò, «sono palestinese. Sono discendente dei gebusei, coloro che vennero prima di re Davide. Questa [Gerusalemme] era una delle più importanti città gebusee nella regione. […] Sì, è la verità. Noi siamo i discendenti dei gebusei»12

Oppure agli imperi che avevano sottomesso e tradotto in schiavitù gli ebrei. Come fece Saddam Hussein che “celebrò la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a.C. nonché la sua riconquista da parte del Saladino dalle mani crociate nel 1187 d.C. in quanto precedenti delle sue azioni e intenzioni personali. In Iraq, spettacoli di luci laser, tabelloni e statue raffiguravano Hussein come il moderno successore di quegli antichi guerrieri13
Mentre, dall’altra parte “Theodor Herzl, Max Nordau, Vladimir Žabotinskij e altri sionisti impegnati a fondare l’attuale Stato di Israele evocarono nell’immaginario collettivo le gesta eroiche dei guerrieri maccabei nel 167 a.C. e la rivolta di Bar Kokhba contro le legioni romane del 135 a.C.14

Eppure nel testo curato da Telmo Pievani per una recente mostra tenutasi al MUDEC di Milano,15 intitolata “HOMO SAPIENS. Le nuove storie dell’evoluzione umana”, si afferma chiaramente che “E’ la storia del popolamento umano della Terra: una giovane specie africana si è irradiata ovunque, dando origine a migliaia di popoli diversi. Il nostro passato sembra lontano e dimenticato, sepolto una volta per tutte nel tempo profondo dell’evoluzione, ma in realtà si manifesta ogni giorno nei teatri dei conflitti mondiali più sanguinosi. Il Medio Oriente, il Caucaso, il Sudan, l’Afghanistan, il Corno d’Africa; la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta”.16

Ecco allora che ci si accorge di come la Storia con la S maiuscola, non abbia fatto altro che rivestire di incrostazioni ideologiche, religiose, in fin dei conti mitiche, un percorso complesso, in cui, probabilmente, una stessa pietra poteva servire ad indicare una fonte d’acqua perenne e un luogo, quindi, sacro per coloro, singoli individui o gruppi più consistenti, che transitavano da lì, stretti tra il mare salato e i deserti orientali. Un luogo che le religioni animistiche potevano condividere, ma che le grandi religioni rivelate e del Libro avrebbero finito col rendere luogo di infiniti massacri ed infinite tragedie in nome di un’unica, mitica verità.17

Il libro di Cline è quindi interessante, utile e, soprattutto, di forte stimolo a superare non solo le barriere del tempo per comprendere il presente, ma anche, e forse involontariamente, a fare opera di disincrostazione di un immaginario talvolta troppo segnato dall’imperativo nazionalista o imperiale, frutto di una società divisa in classi recente, sconosciuta ai nostri antenati, ma che pretende di allungare i propri tentacoli sulle decine di migliaia di anni durante i quali la specie ha potuto farne tranquillamente a meno.

Purtroppo con la fasulla divisione tra Storia e Preistoria, tra natura e storia dell’uomo, abbiamo finito col perdere la memoria profonda della specie. Quella più importante e più vera di quella affidata ai re, agli imperatori, agli stati, ai loro scrivani e ai loro libri portatori di verità “certificate”.
Sotto questo punto di vista, Gerusalemme diventa allora, grazie anche alle pagine di quest’opera, il simbolo del passaggio della società umana dal nomadismo all’agricoltura, dalla condivisone dei beni alla proprietà privata.18 Anche di quell’acqua così sacra un tempo e posta al centro oggi di conflitti sempre più sanguinosi per il suo controllo, soprattutto nei territori che si trovano sotto il controllo sionista.

Passaggi che hanno richiesto la formazione di stati, imperi, ideologie e religioni rivelate che hanno contribuito ad affogare le popolazioni nel sangue e a cancellare la memoria comune dell’animale uomo. In nome di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare “progresso”.


  1. Pubblicato anche qui in Italia, dove è giunto già ad una sesta edizione: Eric H. Cline, 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri 2014  

  2. Anch’esso tradotto in Italia come Armageddon. La valle di tutte le battaglie, Bollati Boringhieri 2016  

  3. Il testo qui recensito  

  4. pag. 17  

  5. Strabone, XVI.2.36, Della geografia di Strabone. Libri XVII, volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Paolo Andrea Molina, Milano 1835 cit. in Cline, pag. 20  

  6. L’indipendenza dello Stato di Palestina fu proclamata nel 1988 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, poi sancita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012, mentre Israele non ne riconosce l’esistenza. Lo Stato di Palestina proclama Gerusalemme Est sua capitale anche se Israele controlla tutta la città, ma le Nazioni Unite e tutti gli Stati del mondo non riconoscono l’annessione di Gerusalemme Est a Israele proclamata con la legge israeliana del 1980. Il Parlamento europeo con la Risoluzione 2014/2964 del 17 dicembre 2014 ha votato a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina “in linea di principio”  

  7. pag. 23  

  8. pag. 17  

  9. pag. 18  

  10. pp. 18-19  

  11. pp. 20-21  

  12. pag. 29  

  13. pp. 22-23  

  14. pag. 23  

  15. dal 30 settembre 2016 al 26 febbraio 2017  

  16. Telmo Pievani (Testi e consulenza scientifica di), HOMO SAPIENS, Libreria Geografica, Novara 2016 (Prima edizione 2012), pag. 220  

  17. Si consulti sul tema della differenza politica e culturale tra religioni inclusive, politeistiche e orientate al mondo, e religioni esclusive, monoteistiche e negaatrici del mondo, l’ormai classico Jan Assman, La distinzione mosaica, Adelphi 2011  

  18. Prova ne sia la provocatoria affermazione che il Monte del Tempio possa rappresentare “la proprietà immobiliare più contestata sulla faccia della Terra“. Gershom Gorenberg, The End of Days. Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount, Free Press, New York 2000 (cit. pag. 20)  

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Futuro prossimo o remoto: mala tempora currunt https://www.carmillaonline.com/2016/12/19/futuro-prossimo-remoto-mala-tempora-currunt/ Mon, 19 Dec 2016 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35013 di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente [...]]]> di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente percepite difficoltà e paure odierne di pensare, immaginare, progettare il tempo futuro. La società nel suo insieme ed ogni singolo individuo per la propria parte vivono a capo chino, con lo sguardo rivolto ad un angusto presente, come timorosi di guardare davanti a sé o impossibilitati a farlo per la miopia di un occhio per cui la linea dell’orizzonte è così lontana da risultare sfocata ed indefinita.

È alla cultura allora che si richiede di diradare le nebbie, di tracciare e definire i contorni delle cose, immaginando la società del futuro, prossimo o remoto ed è uno sforzo predittivo ed immaginativo non facile a compiersi nell’epoca di quella post-modernità che sembra aver mortificato ed inibito le moderne speranze/velleità di leggere e comprendere in continuità il passato ed il presente e di indirizzare/immaginare il futuro; non facile – scrive Bordoni – per «lo spirito odierno, permeato d’incertezze, che spinge ad aggrapparsi al presente e a farne una nicchia di sopravvivenza, di cui si conoscono almeno i contorni e le criticità» (p. 9). Il presente critico e problematico impaurisce e preoccupa, ma il futuro – osserva l’autore – indefinibile, inafferrabile, insomma ignoto, sembra atterrirci e immobilizzarci con il raggelante sentimento dell’angoscia oppure ci sprofonda nella più rassicurante, ma sterile, nostalgia del passato.

Dalle opinioni raccolte in questo volume risulta evidente come non solo nella percezione comune, ma anche sul piano dell’immaginario colto oggi prevalgano le letture in negativo del futuro che ci attende, visioni talvolta catastrofiche, che «richiamano gli echi delle apocalissi medievali che predicavano la fine del mondo se gli uomini non si fossero pentiti dei loro peccati e non avessero seguito gli insegnamenti della religione» (p. 15). Ma al posto del pentimento del peccatore, oggi si richiederebbe il «ravvedimento dei sistemi politici e dei governi che non si preoccupano dell’esaurimento delle risorse e del degrado del pianeta. […] La differenza è però evidente: allora la minaccia della fine del mondo era strumentale, serviva a controllare il comportamento delle moltitudini in assenza di un forte potere sovrano, lo Stato-nazione. Adesso la minaccia è concreta, fondata e quantificabile. Più che una maledizione, è una denuncia pubblica al fine di risvegliare le coscienze e spingere a prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi» (p.15).

Il tempo, la storia, il loro senso costituiscono una materia complessa ed opaca che spesso la filosofia si è sforzata di mettere a tema e per questo iniziamo la presentazione di alcuni dei tanti contributi raccolti da Carlo Bordoni proprio da un filosofo, Remo Bodei, che muove da un assunto fondamentale: l’idea di una storia orientata da una logica intrinseca che la guida appare ormai tramontata definitivamente; abbiamo dovuto rinunciare ad essa e scivolare dal piano di una Storia a quello di molteplici particolari storie che faticano a rientrare in un quadro comune di destini interconnessi. La prospettiva escatologica o comunque variamente finalistica del tempo storico che aveva spronato e sostenuto la progettualità umana nel corso dei secoli ha lasciato il posto ad una storia “invertebrata”, di cui si dimentica la provenienza e si ignora la destinazione.

Tre – ritiene Bodei – sono le conseguenze immediate di questa situazione i cui effetti a lungo termine ancora non sono del tutto evidenti. In primo luogo, la difficoltà odierna di rapportarsi al futuro secondo una modalità proiettiva, che sia in grado di collocarvi traguardi da raggiungere. Ne consegue che la prospettiva della nostra attesa viene a tal punto ridotta da risultare tutta schiacciata sul presente, ma un presente immediato e puntuale, o poco più, che fatica a costruire relazioni con un tempo che lo trascenda. Viene meno la possibilità di pensare ad un riscatto prossimo di qualsivoglia specie – il progresso, la libertà, la società senza classi – e questo alimenta l’indifferenza, la rassegnazione o induce all’angoscia. Ma produce anche qualcosa di peggiore: l’assolutizzazione del presente, un presente senza futuro che induce all’opportunismo predatorio, proprio di uomini e società, sistemi economici e politici che non sono più in grado di «preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato» (p. 33).

In secondo luogo, lo sbriciolamento di aspirazioni e progetti collettivi, pubblici ed universalistici, che dal secolo dei Lumi in poi avevano tracciato l’orizzonte di senso dell’uomo in Occidente, ha dato spazio ad aspettative sempre più private e quindi particolaristiche ed atomizzate, ad una privatizzazione del futuro che si trasforma nella «fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa» (p. 33). In terzo luogo, sia il pensiero politico sia la sua prassi non sono più in grado di proporsi come strumenti di ideazione e realizzazione di traguardi venturi, prossimi o remoti e finiscono per essere imprigionati nel ristretto spazio amministrativo del presente contingente.

Conclude pertanto Bodei che il «presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. […] Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico ed insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro — che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto — tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente» (p. 33).

L’arroccamento nella cittadella fortificata del presente per fuggire da un futuro che ci terrorizza è – secondo Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma – il nostro odierno atteggiamento verso il tempo e l’esistenza. Seguendo concetti e stilemi di pensiero heideggeriani, Di Cesare fissa il mal-essere attuale «nella chiusura dell’avvenire» (p. 61), in quanto “l’aspettare” (erwarten) ha sostanzialmente sostituito “l’attendere” (warten) come modalità di rapportarsi al futuro. “L’aspettativa” riguarda qualcosa di conosciuto, programmato, immaginato che, pertanto, induce l’uomo al calcolo, alla previsione, alla proiezione statistica, nell’estremo tentativo di estendere il controllo anche sul tempo, sul futuro per renderlo anticipatamente familiare, per disinnescarne la carica di potenziale inquietudine. «Il dominio del futuro è l’aspirazione ultima, il contrassegno e il sigillo della nostra epoca. Quanto più il futuro ci terrorizza, tanto più vogliamo dominarlo. In una vertigine senza fine, dove si moltiplicano analisi, misurazioni, sondaggi, previsioni» (p. 62).

“L’attesa” invece riguarda qualcosa di inaspettato, di non calcolabile, contempla l’alterità, l’eterogeneità dell’imprevedibile; l’attesa è apertura dell’avvenire. Abbandonarsi all’attesa vuol dire aprirsi all’avvenire. «Nell’attesa di ciò che viene, e avviene […] l’apertura non è preclusa e il futuro si rivela perciò a-venire, tempo che porta con sé la possibilità dell’impossibile. Nell’avvenire aperto dell’attesa si mantiene l’eterogeneità dell’evento che interrompe il presente, lo oltrepassa, eccedendo ogni estremo, superando ogni éschaton» (p. 62).
Pare essere proprio l’attuale incapacità di attendere il tempo a-venire che ci induce a rifugiarci nella cittadella fortificata del presente assediata dai fantasmi di un futuro che, disorientati ed impauriti, aspettiamo.

Zygmunt Bauman ritiene che se prevedere il futuro è operazione di per sé difficile, a maggior ragione lo è oggi, in un’epoca in cui si moltiplicano gli «eventi che testimoniano l’assenza di una logica di sviluppo nella condizione umana e quindi anche di conseguenza nelle imprese umane» (p. 25). Le società contemporanee si trovano nella condizione di non essere più in grado di concepire le forme del proprio futuro e i modelli del proprio sviluppo, in particolare a causa del fatto che è venuta meno la fiducia riposta nelle principali «agenzie di azione collettiva – i partiti politici, i parlamenti, il governo – di riorganizzare/riformare e mantenere le loro promesse» (p. 26).
A monte di questa inettitudine di istituzioni ed organi socio-politici, il sociologo polacco colloca la separazione attualmente prodottasi tra potere e politica, «tra il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose devono essere fatte)» (p. 26); una divergenza che a sua volta è conseguenza della globalizzazione in atto, che ha investito il potere, ormai globalizzato, ma non la politica. «La maggior parte dei poteri epocali», scrive Bauman, «che determinano la condizione e la capacità umana di agire in modo efficace sono già sul globale, sfidando il principio della sovranità territoriale degli organismi politici – mentre gli attuali organismi politici, le cui competenze sono racchiuse entro i confini di uno stato territoriale, rimangono confinati a livello locale come un centinaio di anni fa. I poteri globalizzati si trovano oltre la portata delle attuali istituzioni politiche. Ci sono poteri esenti dal controllo politico, a fronte di una politica spogliata di gran parte del suo antico potere» (p. 26-27).

In assenza di strumenti socio-politici adeguati a poteri globalizzati, l’attuale condizione degli uomini, considerati individualmente o collettivamente, è del tutto simile – sostiene Bauman con una immagine oltremodo efficace – a quella del plancton: siamo come organismi acquatici, sospesi in balia delle correnti, per i quali non è ragionevolmente possibile prevedere alcuna direzione di spostamento.

Sul piano dell’analisi economica dell’odierno capitalismo globalizzato si sviluppa il ragionamento di un altro sociologo, Wolfgang Streeck, docente dell’Università di Colonia, che vede le società occidentali avviate a proseguire nei prossimi decenni un trend complessivo di declino sociale che già da anni si manifesta nelle forme della disuguaglianza crescente, della stagnazione economica, dell’aumento dell’insicurezza e della frammentazione politica. Si tratta di un piano inclinato lungo il quale la società contemporanea sta precipitando con accelerazione crescente e senza che si intravedano possibilità concrete di frenare tale corsa rovinosa. Questo processo ha «a che fare con la rapida espansione dell’economia capitalista su scala globale. Vale a dire una scala che le regole della politica democratica e le altre forze contrarie al capitalismo non possono assolutamente arginare, benché in passato fossero riuscite nell’insieme a contenerle e a incorporarle» (p. 143).

Rifacendosi al pensiero di Karl Polanyi, Wolfgang Streeck ritiene che la globalizzazione abbia ormai impresso una forma “mercantile” all’intero mondo e abbia prodotto un’accelerazione mai vista prima alla mercificazione del lavoro, del denaro e della natura, che possono «essere trattate come merci pure e semplici solo a rischio di una catastrofe sociale. Si stanno cominciando a vederne i risultati: mercati del lavoro deregolamentati con successo e declino a livello globale delle condizioni di lavoro, a fronte di un rapido avanzamento del degrado ambientale e di sempre più gravi crisi finanziarie. Al centro del marciume sociale che vedo avanzare trovo l’economia capitalista liberata di ogni controllo, avendo sciolto il suo matrimonio forzato con la democrazia, che era stato consumato dopo la seconda guerra mondiale» (p. 144).

Pertanto, continua Streek, il neoliberismo mondializzato, liberatosi da ogni vincolo o condizionamento politico, ha fatto sì che oggi l’economia capitalista non sia più capace di sostenere la società capitalista e abbia prodotto disordine, ingovernabilità e ingiustizia dilaganti.
«L’ascesa inarrestabile della disuguaglianza nei paesi che una volta avevano fatto dell’uguaglianza uno dei loro obiettivi etici e politici più importanti, è solo un altro aspetto della crescente ingovernabilità del capitalismo globale» (p. 144), che conduce Streek a conclusioni desolanti riguardo l’immediato futuro che ci attende. «L’ordine sociale del momento è rappresentato da lavoratori precari trasformati in consumatori fiduciosi (Colin Crouch) per effetto di continue pressioni sociali generate dalla grande industria della pubblicità e dello spettacolo, alleata a uno sproporzionato settore finanziario. […] Gli immigrati, che in numero sempre maggiore forniscono alla classe media servizi privati a prezzi accessibili – in forza della sottomissione a un modello orientato al mercato e sempre meno in grado di rinunciarvi – saranno esclusi formalmente o di fatto dai diritti civili. Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico, essendo abituate dalla privatizzazione a difendersi e a pagare per sé, perderanno interesse per la politica. Ciò corrisponderà alla crescita del dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali, imponendo ai governi l’austerità e il consolidamento per fare spazio al consumo privato e dare nuova fiducia ai mercati finanziari. La partecipazione politica diminuirà ancora di più tra il sottoproletariato, che non ha più nulla da aspettarsi dalla politica pubblica» (p. 145-146).

Questi qui considerati sono solo alcuni degli interventi che compongono l’interessante lavoro curato da Carlo Bordoni che fornisce un contributo apprezzabile allo sforzo odierno di pensare ed immaginare il futuro, in un contesto di incertezza e disorientamento crescenti ad ogni livello della vita sociale, ma anche con la consapevolezza che – come dice J.M.Keynes, da Bodei citato nel suo breve saggio – l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

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Il libro raccoglie saggi di: Marc Augé, Zygmunt Bauman, Remo Bodei, Edoardo Boncinelli, Valerio Castronovo, Vanni Codeluppi, Domenico De Masi, Donatella Di Cesare, Àgnes Heller, Giuseppe O. Longo, Michel Meffesoli, Patrizia Magli, Paolo Maria Mariano, Michel Meyer, Edgar Morin, Elga Nowotny, Alberto Oliverio, Telmo Pievani, Stefano Rodotà, Alessandro Scarsella, Denise Schmandt-Besserat, Wolfgamg Streeck, Keith Tester, Silvia Vegetti Finzi.

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