Televisione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Il calcio nell’era televisiva https://www.carmillaonline.com/2024/04/29/sport-e-dintorni-il-calcio-nellera-televisiva/ Mon, 29 Apr 2024 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82087 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

È stato detto che dal momento in cui il calcio ha incontrato la radio e, soprattutto, la televisione, questo si è per certi versi trasformato, come (e forse più di) altri sport, in «un genere drammatico». Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il saggio di Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv (Manni Editori, 2024). Il volume ripercorre il rapporto tra calcio e televisione operando una suddivisione per blocchi temporali segnati da svolte dettate da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

È stato detto che dal momento in cui il calcio ha incontrato la radio e, soprattutto, la televisione, questo si è per certi versi trasformato, come (e forse più di) altri sport, in «un genere drammatico». Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il saggio di Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv (Manni Editori, 2024). Il volume ripercorre il rapporto tra calcio e televisione operando una suddivisione per blocchi temporali segnati da svolte dettate da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali e di costume, oltre che da scelte economiche e politico-sportive.

A far incontrare nel 1936 il calcio con la televisione sono la Germania, all’interno delle 138 ore di copertura delle Olimpiadi berlinesi, e la Gran Bretagna con la trasmissione dell’incontro Arsenal-Leicester. Quella delle tv degli anni Trenta, sottolinea Simonelli, può dirsi però una «falsa partenza», presto soffocata dal secondo conflitto mondiale. Lo spazio concesso dalla televisione pubblica britannica al calcio alla ripresa postbellica deriva in parte dalla necessità tecnologica della televisione degli anni Quaranta e Cinquanta di tramettere sostanzialmente in diretta non potendo avvalersi di sistemi di registrazione se non ricorrendo alle tecnologie cinematografiche richiedenti tempi di produzione lunghi.

In ambito italiano la prima trasmissione di una partita calcio (Juventus-Milan) si ha nel febbraio del 1950, in via del tutto sperimentale, quando ancora l’emittente non ha iniziato a trasmettere con regolarità. In questa fase embrionale il rapporto della televisione italiana con il calcio secondo lo studioso è dettato tanto dalla volontà di consolidare l’identità nazionale, non a caso ad essere trasmesse sono soprattutto le partite della nazionale, quanto dall’esigenza di ampliare lo sguardo a livello internazionale grazie al confronto degli azzurri, e successivamente delle squadre di club impegnate nelle coppe europee, con le formazioni dei paesi stranieri. Durante questa fase pionieristica la programmazione del calcio nella televisione italiana ha carattere di eccezionalità, non avendo ancora uno spazio fisso e regolare nel palinsesto.

Il racconto delle vicende settimanali del campionato italiano è affidato alla radio e alla carta stampata mentre la televisione è alle prese con i suoi limiti tecnici dettati dal fatto che le registrazioni sono ancora su pellicola. Per qualche tempo i servizi calcistici coprono esclusivamente le partite giocate nelle vicinanze delle sedi milanese e romana della Rai, ove vengono consegnate le pellicole che poi devono essere sviluppate, sezionate e montate in tempo utile per ottenere i servizi da mandare in onda alla Domenica Sportiva, la più antica rubrica della tv italiana. I sevizi riguardanti le restanti partite devono attendere la trasmissione Telesport del lunedì sera.

L’avvento dell’RVM (Registrazione Video Metagenetica) alla fine degli anni Cinquanta contribuisce in maniera fondamentale a togliere al calcio televisivo il carattere di eccezionalità assegnandogli uno spazio fisso all’interno del palinsesto, tanto da prevedere la trasmissione domenicale di un tempo di una partita di calcio. Grazie alle nuove tecnologie di registrazione cambia anche la Domenica Sportiva che anziché limitarsi a mostrare i servizi di alcune partite, diviene una trasmissione con un conduttore (Enzo Tortora) che presenta, commenta e intervista i protagonisti degli eventi sportivi alla presenza di un pubblico.

Simonelli sottolinea anche come in questo periodo il grande interesse suscitato dalle dirette delle partite di coppa dei club italiani non detti il palinsesto che invece obbedisce a un progetto pedagogico che intende mantenere un certo equilibrio tra i contenuti offerti dal servizio pubblico televisivo. Allo spirito pedagogico appartiene anche la decisione di mandare in onda negli anni Sessanta una trasmissione volta a insegnare ai giovani telespettatori i fondamentali della tecnica calcistica come Lezioni di gioco del calcio tenuta da Silvio Piola e Giovanni Ferrari.

L’entrata in scena della moviola nel 1967, poi entrata a far parte della Domenica Sportiva a partire dal 1970, cambia il calcio in tv. «Il ruolo che la Rai affida alla tecnologia è soprattutto spettacolare, motivo di celebrazione dell’occhio infallibile della telecamera, spunto per discussioni che cominciano in studio e proseguono nei bar, sui giornali, momento atteso e popolarissimo tra i telespettatori, tanto che moviola diventa un termine usato come iperbole, metafora, metonimia» (pp. 53-54).

Il 1970 è anche l’anno in cui prende vita 90° minuto di Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci e l’anno di Italia Germania 4-3 ai mondiali messicani. Per quanto riguarda la nuova trasmissione Simonelli sottolinea come questa contribuisca a dare visibilità alle squadre provinciali attraverso giornalisti che, nel giro di poco tempo, ne diventano per certi versi portavoce.

Alcuni sono sobri e professionali, altri invece più confidenziali e originali sia nel look che negli atteggiamenti e per questo vengono criticati ma diventano popolari, il loro linguaggio spicca, la loro breve introduzione è un appuntamento atteso e gustato. 90° minuto non è più solo un programma di informazione calcistica, ma un rito domenicale non privo di una certa teatralità. Ma soprattutto, con la sua formula che consente di passare nel giro di pochi minuti da Genova a Vicenza, da Cesena a Catanzaro, trasforma il campionato di calcio e la sua rappresentazione televisiva in una manifestazione della compattezza del tessuto culturale del paese (pp. 57-58).

Circa i motivi per cui la famosa partita dei mondiali messicani è entrata nella leggenda, oltre all’avvincente andamento altalenante della partita e la presenza del replay immediato delle azioni più spettacolari, vi è chi vi ha visto un momento di rinnovata unità nazionale dopo le fratture dell’autunno caldo e chi hanno messo in luce l’eterogeneità delle squadre di provenienza della formazione azzurra. Simonelli vi aggiunge l’abbattimento del «tabù della notte»; la decisione della Rai di mandare in diretta l’evento nonostante l’orario in notturna.

A cambiare la narrazione del calcio in tv contribuisce il debutto televisivo di Dribbling nel 1973 «un magazine settimanale nato attorno a un gruppo di giornalisti, come Barendson o Minà, desiderosi di trattare il calcio con uno sguardo più ampio, che propone inchieste, interviste agli atleti in grado di andare molto più in profondità e in ampiezza rispetto alla semplice cronaca» (p. 70).

Tra gli altri momenti di svolta importanti per il calcio televisivo l’autore ricorda l’avvento del colore, che contribuisce alla spettacolarizzazione delle partite, e la concorrenza portata alla Rai dalle emittenti della Svizzera e di Capodistria che, per certi versi, anticipano problematiche che si dispiegheranno con l’avvento dei canali radiofonici e televisivi locali (che offriranno copertura capillare alle piccole squadre di provincia), dunque con l’avvento delle televisioni commerciali nazionali che, a livello sportivo a partire dai diritti del Mundialito del 1980, cambieranno l’universo televisivo italiano avviato a quella che Umberto Eco ha definito l’avvento della neotelevisione. Dal punto di vista del calcio in tv le emittenti private introducono «una telecronaca esuberante, gridata, appassionata, ricca di iperboli, di iterazioni, di linguaggi spregiudicati» (pp. 84-85), presto destinata a farsi egemone. Altra novità è data dai programmi che nelle diverse emittenti offrono una narrazione delle partite attraverso ospiti che le osservano in bassa frequenza.

Con gli anni Ottanta si entra nell’era segnata dalla contesa dei diritti televisivi ed un cambio di indirizzo all’interno del servizio pubblico televisivo che abbandona quello spirito pedagogico che lo aveva a lungo contraddistinto facendo prevalere le ragioni dell’audience, come attesta, simbolicamente, la cancellazione dalla programmazione di un evento culturale su uno dei canali Rai (la seconda parte di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman) per non intralciare la trasmissione sul canale principale della finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool nel maggio del 1984. Simonelli pone l’accento anche sul ruolo giocato dall’esultanza popolare del Presidente Pertini mostrata dalla tv nel corso della finale dei Mondiali spagnoli del 1982 vinta dall’Italia nel conferire al calcio un ruolo trasversale capace di infrangere distinzioni di sesso, di classe e di cultura.

Dopo anni in cui era considerato un tipico esempio della cultura di massa, una delle armi di distrazione che la società capitalistica metteva in campo e in cui gli uomini di cultura che nutrivano e confessavano quella strana passione erano un’assoluta eccezione, all’improvviso il calcio godeva di interesse e simpatia da parte del mondo intellettuale: scrittori, artisti, politici, attori si rivelavano appassionati e accaniti tifosi, persino con una punta di snobismo nei confronti di chi non condivideva la loro passione (pp. 90-91).

Ad un calcio sempre più orientato a divenire uno «spettacolo generalista» da prima serata televisiva si rendono necessari nuovi interpreti. A tale esigenza rispondono tanto la riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri, bloccate in seguito all’insuccesso della nazionale nel 1966, quanto l’adozione di una narrazione televisiva adeguata alla svolta votata alla spettacolarizzazione dell’evento calcistico. Le riprese televisive abbandonano «l’atteggiamento referenziale per cui la televisione era semplice testimone dell’evento che doveva trasferire al destinatario senza alterarne le caratteristiche ma una dimensione rielaborativa, di decostruzione e ricostruzione dell’oggetto, una costante scelta di spettacolarizzazione in senso televisivo» (p. 94). La fruizione televisiva si è fatta sempre più autoreferenziale ed ubiqua allontanandosi dalla visione dal vivo della partita, mentre il commento verbale, anche nel servizio pubblico, ha abbandonato il tradizionale tono compassato in favore di un linguaggio più esuberante, passionale, ricco di metafore, iperboli e formule proprie dei diversi giornalisti. A spingere sulla spettacolarizzazione dell’evento calcistico, ricorda Simonelli, sono anche alcune modifiche al regolamento come ad esempio il ricorso ai calci di rigore in caso di parità nelle partite a eliminazione, al posto della ripetizione della gara o del sorteggio, il divieto di passaggio con i piedi al proprio portiere, l’introduzione dei tre punti per le vittorie così da incentivare le squadre a non accontentarsi del pareggio. Inoltre, mal conciliandosi il calcio televisivo con i tempi morti, viene incentivata la ripresa veloce del gioco dai falli laterali grazie alla presenza massiccia di raccattapalle ed i direttori di gara vengono spronati a interrompere il gioco il meno possibile. Le stesse società di calcio, sempre più foraggiate dagli introiti televisivi, si adeguano alle esigenze del medium accettando orari di gioco differenziati e spalmati su diverse giornate.

A partire dagli anni Ottanta si sviluppano anche nuove modalità di seguire il calcio in tv; si pensi, ad esempio, al fortunato Processo del Lunedì di Aldo Biscardi che porta in tv a livelli sempre più iperbolici nel corso delle diverse edizioni le modalità sguaiate delle discussioni e delle polemiche da bar ricorrendo a giornalisti che ormai vestono letteralmente i panni dei tifosi schierati a difesa di questa o quella squadra. La trasmissione di Biscardi «affida al talk una dimensione antagonistica, contrappositiva, conflittuale in cui protagonisti appartenenti allo stesso mondo si scontrano su un tema molto preciso» (p. 103), anticipando per certi versi la stagione dei talk show televisivi che si occupano di attualità e politica ricorrendo alle medesime modalità.

Ai margini dei mondiali italiani del 1990 prendono altre trasmissione volte ad affrontare in maniera nuova l’universo del calcio; si pensi alla modalità ironica di Mai dire mondiali del trio di giornalisti noto come Gialappa’s Band, format destinato a prolungarsi nel tempo su Italia 1 nella variante Mai dire gol, oppure alla modalità salottiera introdotta da Galagol su Telemontecarlo, che affianca ai commenti enfatici di José Altafini una conduttrice come Alba Parietti digiuna sino ad allora di calcio. Nel 1993 prende il via la trasmissione Quelli che il calcio di Marino Bartoletti e da Fabio Fazio su Rai 3; in questo caso a informare puntualmente dell’andamento delle partite domenicali di campionato sono semplici tifosi, attorno ai quali il conduttore imbastisce bonari siparietti, che seguono sui monitor gli incontri delle rispettive squadre del cuore. Da tale trasmissione numerose televisioni private deriveranno programmi in cui ad incarnare le diverse tifoserie saranno non semplici sconosciuti ma ex calciatori o giornalisti che in maniera sempre più sguaiata esaspereranno la propria fede calcistica dando vita a iperboliche discussioni. I primi anni Novanta vedono anche la nascita di Pressing su Mediaset, in palese concorrenza con la Domenica Sportiva, di cui ricalca il format introducendo però un conduttore non giornalista, Raimondo Vianello, presto affiancato da Antonella Elia che impersona con «autoironia il ruolo della bionda un po’ svampita» (p. 119), a cui succede dopo quasi un decennio Controcampo che, pur condotto da un giornalista sportivo come Sandro Piccinini, esprime una vocazione teatrale.

Insomma, a partire dagli anni Ottanta il calcio in televisione non ha più quel carattere di eccezionalità che aveva caratterizzato l’incontro dell’evento sportivo con il medium, è diventato, sottolinea Simonelli, «un materiale di consumo come tanti altri, un consumo quotidiano, e ha perso il ruolo più discreto e affascinante di luogo e tempo di celebrazione della festa» (p. 108).

I primi anni Novanta inaugurano anche l’era calcio delle pay tv da Tele+ a Stream fino a Sky e, molto più recentemente Dazn. Se ci si poteva attendere dalle pay tv, rivolte come sono ad un pubblico selezionato di appassionati di calcio, programmi più sobri incentrati sugli eventi di campo forti anche di tecnologie di avanguardia, in realtà man mano si assiste a un sempre più marcato processo di spettacolarizzazione e teatralizzazione. «Nell’ultimo decennio del secolo si afferma un modello di rappresentazione del calcio verso cui convergono tutte le televisioni pubbliche, commerciali, a pagamento, una omogeneità basata su una grammatica, una sintassi e una retorica audiovisive comuni» (pp. 124-125).

Negli ultimi tempi le telecronache si sono fatte sempre più corali visto che, almeno negli incontri più importanti, il telecronista viene affiancato non solo da ex calciatori o ex allenatori a cui viene assegnato il commento tecnico, ma anche da altre voci a bordo campo che concorrono alla narrazione spettacolarizzata dell’evento. La vocazione a guardare al calcio internazionale, presente sin dagli albori del calcio televisivo è ulteriormente ampliata dalle coperture dei campionati stranieri da parte delle pay tv che però, rispetto al passato, non si limitano a mostrare le partite in sé ma allargano la visione alla storia delle società, ai loro stadi e alle tifoserie contribuendo così ad sprovincializzare la visione calcistica dello spettatore italiano. È importante notare, segnala l’autore, come a fronte della frammentazione, del consumo impressionistico ed effimero delle immagini sportive, si siano ultimamente ritagliate visibilità programmi di approfondimento dal taglio documentaristico, volti ad approfondire anche questioni di carattere culturale legate ai personaggi ed agli eventi sportivi. Si pensi ad esempio alle produzioni sviluppate da Sky, con giornalisti come Federico Buffa, Giorgio Porrà, Matteo Marani, o da Dazn, con Emanule Corazzi o, ancora, da altre piattaforme televisive.

Altra novità importante nella storia del rapporto tra calcio e televisione, sottolinea Simonelli, è la copertura totale del fenomeno sportivo, soprattutto calcistico, offerta da canali come Sky Sport 24 in cui l’evento è esteso ben al di là della performance sportiva in sé, contemplando la preparazione, l’attesa, le ipotesi, le analisi, i commenti trasmessi in una sorta di loop man mano aggiornato lungo l’intera giornata e settimana. Infine, a sancire quanto il rapporto tra calcio e televisione si sia fatto inestricabile, non si può che far riferimento all’introduzione del VAR sul finire degli anni Dieci del nuovo millennio. «L’immagine televisiva non è più solo il testimone maggiormente attendibile di ciò che è avvenuto in campo, capace di ristabilire la verità in astratto, ma un concreto attore dell’avvenimento agonistico, un “quinto uomo” che assiste i quattro giudici con potere decisionale, un’immagine che scende in campo» (pp. 149-150).

La conclusione di questo interessante volume di Simonelli sul rapporto tra calcio e televisione è dedicata a un episodio che stride rispetto all’invadenza dei un medium che ha preteso persino di entrare negli spogliatoi pochi minuti prima del calcio di inizio. Il riferimento è a quanto accaduto a Copenaghen durante la partita Finlandia-Danimarca, quando danese Eriksen è restato al suolo in arresto cardiaco e il capitano della squadra Kjaer fa prontamente schierare i compagni attorno all’attaccante a cui i sanitari praticano il massaggio cardiaco preservandolo dagli occhi delle televisione. Con quel gesto spontaneo Kjaer ribalta il rapporto comunicativo. «A scegliere la disposizione dell’inquadratura, a decidere cosa mostrare e cosa no, non è la regia ma un protagonista, un calciatore di solito oggetto e in quel caso autore della rappresentazione» (p. 156).


Serie completa – Sport e dintorni

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Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese https://www.carmillaonline.com/2023/06/30/il-mostruoso-femminile-nellimmaginario-giapponese/ Fri, 30 Jun 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77491 di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo [...]]]> di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo un affascinate e inquietante viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri cogliendone la messa in discussione dell’idea di normalità e del concetto di identità che strutturano le miopi comfort zone immaginarie in cui ci si illude di trovare rifugio.

Spesso nel mostro è possibile scorgere un corpo che, sottraendosi alla sottomissione, si manifesta come minaccia. I mostri femminili che attraversano la cultura giapponese, al di là della forma con cui si presentano, tendono ad assumere il volto dell’irriducibile Altra. «Un essere femminile che non si piega a un modello imposto, a uno schema previsto» (p. 10). Insomma, nel mostro aleggia un essere fuori controllo che, estrinsecando il suo furore, si trasforma in qualcosa di spaventoso che non può essere imbrigliato. Se di certo tutto ciò non è prerogativa esclusivamente nipponica, ricorda infatti Marangoni come in molte culture si guardi alla donna come fonte di contaminazione e impurità, come a un corpo che attrae e al tempo stesso intimorisce anche per il suo potere riproduttivo, in ambito nipponico assume caratteristiche del tutto peculiari.

Secondo la studiosa, i presupposti culturali della mostruosità femminile in Giappone vanno ricercati nell’ambito del sacro, nel corpus di credenze dell’universo arcaico, contadino, prebuddhista che, a partire dall’epoca moderna, si è soliti denominare shintō, la cui spiritualità ha nella purezza e nella contaminazione due temi fondamentali. Nel mondo arcaico giapponese gli elementi di contaminazione sono soprattutto la morte e il sangue e se quest’ultimo in un primo tempo riguarda indistintamente uomini e donne, lentamente, ma inesorabilmente, con l’affermarsi nel IX secolo di una società sempre più patriarcale, che ha letteralmente espulso le donne dalla ritualità religiosa e dal potere politico, ha preso piede un’idea di contaminazione legata esclusivamente al corpo femminile.

Durante la seconda metà del X secolo, il kegare, la contaminazione del sangue che riguardava, tra l’altro, il parto e le mestruazioni, si trasformò gradualmente in un concetto generale di impurità nelle donne e, dapprima limitato a momenti specifici nel corso della loro esistenza, passò a segnare una totale, definitiva impurità. […] E fu proprio quando i guerrieri presero il potere, alla fine dell’era Heian, che la nozione del kegare femminile si diffuse a livello popolare. Così, in un dato momento della storia giapponese, la donna si ritrova marginalizzata (p. 18).

Di ciò che è stata la donna nello shintō antico sono via via restati soltanto depotenziati ruoli di comparsa e lo stesso buddhismo, nelle molteplici sfacettature con cui si è sedimentato in Giappone, pur avendo nel corso del tempo attribuito anche ruoli importanti alle donne, ha contribuito, secondo la studiosa, al loro sostanziale annichilimento. Se, ad esempio, nel buddhismo primitivo la teoria dei Cinque Ostacoli limita la mobilità spirituale ascendente delle donne, a partire dal IX secolo, nel buddhismo giapponese medievale, con l’interdizione delle donne dai luoghi sacri, si giunge di fatto alla loro esclusione totale dalla buddhità realizzata.

A partire dal VII secolo, i due principali percorsi spirituali che attraversano il Giappone tendono a fondersi in una sorta di sincretismo shintō-buddhista, protrattosi sino almeno alla metà del XIX secolo, che si mescola con gli stereotipi di genere tradizionali.

Se, ad esempio, nel sutra apocrifo di origine cinese Bussetsu daizō shōkyō ketsubon kyō o Il sutra corretto del Buddha sulla ciotola di sangue – tradotto anche come Sutra della Piscina di Sangue – il “problema del sangue” tocca indistintamente donne e uomini, nella versione giapponese, dal momento in cui sono i guerrieri a comandare, viene posta maggiore enfasi sulle mestruazioni e sul parto piuttosto che sul sangue in generale. Insomma le donne vengono ritenute colpevoli, impure per la loro stessa natura. È, secondo la studiosa, proprio dall’affermarsi del concetto di impurità intrinseco alla natura della donna che occorre partire per comprendere la costruzione della sua mostruosità nella cultura giapponese.

Il mito che si sedimenta agli albori della civiltà nipponica si rapporta con la presenza nell’area di elementi della cultura cinese e del confucianesimo dando luogo a un’immagine ambivalente delle figure femminili: potenti e coraggiose ma anche soggette al volere maschile che le riduce al silenzio. Dal momento in cui sono gli uomini a narrare i miti e le storie, la figura femminile tende a essere via via annichilita dalle religioni e dalla civiltà del Giappone: «la donna è estromessa dal potere, allontanata dalla possibilità di compiere azioni di mediazione fra mondo dei vivi e mondo dei morti (ricordo che le prime regine erano anche sciamane) per ritrovarsi relegata a un ruolo decorativo, subordinato, ruolo che è ancora ben presente nel Giappone contemporaneo» (p. 35).

Un personaggio paradigmatico dell’indole femminile secondo la visione maschile che struttura il mito giapponese, presente anche nelle fiabe e nel folclore, è quello della donna dall’indole mutante e ingannatrice che irretisce l’uomo attraverso la sua bellezza nascondendo la sua vera personalità e, in definitiva, la sua mostruosità. Non sono rari i casi in cui la donna si trasforma in animale o si rivela tale. Altro elemento ricorrente nell’immaginario giapponese è quello della donna inafferrabile, costantemente in fuga, come nei casi della yukionna, “donna di neve”, e della kuwazu nyōbō, la “moglie che non mangia”.

La yukionna, diffusasi soprattutto nel Giappone nord-orientale, è una sorta di creatura la cui bellezza cela un essere vampiresco che succhia la vita degli uomini.

Nel personaggio della yukionna si rivela ancora una volta la duplicità della donna, una duplicità che si ravvisa, anche se in modi diversi, un po’ in tutte le storie che possiamo prendere come esemplari in un discorso sul mostruoso femminile. L’incapacità di definire questo Altro che è la donna, la sua inafferrabilità, la sua ostinazione a non voler sottostare alle regole, al controllo, infine l’impossibilità di capirla perché “è lei che non vuol farsi capire”, così come non vuole farsi catturare, imbrigliare in una rete: tutto ciò la rende fonte perenne di preoccupazione, di ansietà, di malessere (pp. 62-63).

Il personaggio della kuwazu nyōbō è presente in numerose varianti in tutto il Giappone: una donna ambita come moglie perché sembra non nutrirsi mai, una donna non problematica, che lavora alacremente senza consumare, ma che poi, osservata di nascosto, si mostra invece una divoratrice insaziabile che, vistasi scoperta, si rivela spietata nei confronti del marito.

L’onibaba, demone femminile vivente, non proveniente dall’aldilà, compare in numerose storie nipponiche sotto forma di donna in preda al risentimento e ad un insopprimibile desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo. Spesso questo demone si rivela come una vecchia dall’aspetto spaventoso.

Altro demone ricorrente nelle favole giapponesi è quello della yamauba, la “vecchia della montagna”, a volte benevola, altre molto meno tanto da rivelarsi un essere mostruoso stupido e crudele, che si ciba di carne umana e incline a bere il sangue dei neonati, spesso descritta come una creatura che vive rintanata nelle montagne a metà tra l’animalesco e l’umano, dai lunghi capelli bianchi scarmigliati, con piedi ferini, denti aguzzi e unghie lunghissime. Quando viene a contatto con gli uomini può avere con loro un atteggiamento passivo (soprattutto quando li riceve nel proprio territorio) o attivo (quando è lei a recarsi nelle abitazioni altrui) rivelandosi antropofaga.

Che si tratti di mostri o divinità, sono frequenti i casi in cui le figure femminili che popolano le storie giapponesi mostrano la loro duplicità, si rivelano indefinibili e mutanti, a volte benevole, altre spietate. La rōjo, ad esempio, è una presenza spettrale di vecchia dai lunghi capelli bianchi che indossa un kimono bianco, diafana, spesso intenta a filare, una figura isolata e liminale in bilico fra la vita e la morte. In alcune fiabe è presente la figura della donna vecchia che, considerata ormai improduttiva, viene abbandonata dai famigliari o dalla comunità; quasi a ricompensarla dell’accantonamento vine dotata del potere di produrre ricchezza materiale che solitamente dispensa a sconosciuti mostratisi compassionevoli nei suoi confronti.

Ricorrenti nelle storie giapponesi sono situazioni in cui la donna si rivela – “per sua natura” – in preda a un sentimento incontrollabile di gelosia che può renderla un essere demoniaco, oppure situazioni in cui la donna soggetta a fantastiche trasformazioni rivela l’incapacità di domare il proprio corpo, di conformarsi al modello di donna deciso per lei dal patriarcato, da tale inadeguatezza deriva il suo allontanamento dalla comunità.

Le forme di spettacolo e di letteratura popolare che si sono sviluppate in Giappone in epoca Edo, spiega la studiosa, hanno le radici tanto nelle antiche forme di religiosità popolare quanto in forme di devozione di derivazione buddhista.

Una delle convinzioni più diffuse e rintracciabili ancor oggi è quella riguardante i goryō, “spiriti inquieti” (o onryō, “spiriti irati”). È, questa, una credenza che sta alla base di molte storie di fantasmi. Alle radici della credenza negli spiriti inquieti è la preoccupazione generalizzata circa la contaminazione da varie fonti di impurità quali la morte, la nascita, il sangue e la presenza delle relative pratiche culturali che circoscrivevano l’impurità (p. 117).

A differenza di quanto accade nel Giappone antico, in epoca moderna, soprattutto nel teatro e nell’arte della stampa dal XVIII in poi, gli spettri sono esclusivamente donne che manifestano una rabbia di tipo interiore derivata dalla gelosia e dal risentimento. Spesso sono rappresentati con con un kimono bianco privo di cuciture, sul modello della veste funeraria, fluttuanti nell’aria accompagnati da fuochi fatui blu, verdi o violacei.

Tradizionalmente, nella cultura nipponica i capelli hanno tanto una connotazione positiva, legata alla forza e alla fertilità, che negativa, rinviante al selvaggio, al corpo incontrollato, dunque alla sessualità. Nel corso del tempo la lunga capigliatura nera spettinata diviene ricorrente dapprima nel folclore, poi nel teatro, dunque nel cinema manifestando la perdita del controllo del corpo e il tormento o il furore delle passioni. I fantasmi femminili che popolano l’inizio del periodo moderno sono dunque in buona parte legati a risentimenti privati derivati da tradimenti o amori non corrisposti.

A partire dal XIX secolo i nuovi personaggi mostruosi femminili non sono più, come accadeva precedentemente, intenti a ritrovare la pace o a riconciliarsi con il passato, quanto piuttosto ad agire nel presente per vendicarsi scatenando la rabbia che li anima contro chi viene individuato come nemico. Ciò che anima questi spiriti femminili è dunque «un desiderio di vendetta per la soddisfazione di veder trionfare la propria rabbia» (p. 126).

L’idea e l’immagine del dèmone spaventoso come la yamanba o la yukionna resta una costante nell’immaginario giapponese, ma alla fine del XIX secolo, con l’ingresso in Giappone di motivi legati ai movimenti letterari e filosofici europei e con il desiderio del Giappone di modernizzarsi anche dal punto di vista culturale smarcandosi dal feudalesimo di periodo Edo, muta velocemente la visione della donna: da dèmone spaventoso a bella e crudele, bella senz’anima. La belle dame sans merci, che si trasformerà in questo periodo di passaggio fra un secolo e l’altro in femme fatale, in dark lady, inizia a comparire nelle pagine della letteratura, dapprima accompagnata, da una vena di esotismo, poi riforgiata come personaggio giapponese (pp. 139-140).

Nel Giappone moderno, tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo, alla donna brutta che popola gli incubi maschili si sostituisce la donna bellissima e seducente che conduce alla perdizione: «bella ma crudele, bella ma glaciale, bella ma priva di morale. È la donna-vampiro, la dark lady, la femme fatale» che, secondo Marangoni, si contrappone

alla donna orripilante delle epoche precedenti perché, in passato, aspetto fisico e aspetto interiore si saldavano in un’unica visione spaventosa, mentre nella modernità si assiste a una separazione fra aspetto fisico – che in generale è di grande bellezza, una bellezza quasi sovrumana o comunque non-umana – e la natura della personalità, inquietante, crudele, malvagia, priva di sentimenti, e quindi capace di grande seduzione ma incapace effettivamente di amare. Una separazione, appunto. Vediamo che la donna è malvagia perché è corruttrice in quanto rende succube l’uomo al potere dell’erotismo, lo porta alla perdizione, a uno smarrimento non solo fisico ma ideale, a perdere di vista i suoi obbiettivi, i suoi schemi morali, per precipitarlo nell’inferno, un inferno di immoralità, di depravazione, di lussuria e così via (p. 141).

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo emerge un inedito desiderio di sovvertire le regole sociali, politiche e sessuali.

si attesta la visione di una nuova donna demoniaca, crudele nella sua arte della seduzione condotta con spietatezza, un personaggio che si sostituisce alle figure femminili del folclore. Non è però meno spaventosa né meno minacciosa di chi l’ha preceduta nell’immaginario fiabesco, poiché rappresenta una nuova sfida nei confronti del patriarcato e soprattutto del nuovo modello di femminilità imposto alle donne del nuovo stato Meiji, donne che devono fare la loro parte nell’avanzata verso la modernità, verso l’industrializzazione, verso la crescita bellica del nuovo Giappone. E il modello è quello, ricordiamolo, della buona moglie e madre saggia (p. 148).

Nel cinema giapponese il personaggio della femme fatale manifesta alcune caratteristiche ricorrenti strettamente collegate tra di loro: erotismo, morte, conflitto di genere. L’uomo, presentato come preda, subisce l’attrazione di una donna altera e sensuale a cui non può resistere ritrovandosi così intrappolato in preda a un erotismo distruttivo che si traduce in morte. In tale rapporto distruttivo l’uomo tende ad essere trascinato verso il baratro da una femme fatale dissimulatrice che, in preda a un desiderio di rivalsa di genere, «gioca, lucida e spietata, con il suo burattino, lo solleva, lo blandisce e in un moto di dispetto, lo abbatte. E trionfa» (p. 162).

Ovviamente, sottolinea la studiosa, in un contesto come quello giapponese, in cui «alle donne era stato imposto un ruolo subordinato non solo nella realtà, ma anche nell’immaginario» (p. 163), un personaggio come quello della femme fatale non può avere fortuna: troppo inquietante per l’immaginario maschile e pericolosa fonte di immedesimazione femminile.

Così la dark lady, che nella cinematografia hollywoodiana è caratterizzata da una potente sessualità e da un potere distruttivo, diventa nel cinema giapponese qualcun altro. Qualcos’altro. Un mostro, un fantasma, una creatura soprannaturale dalla vita breve: incanta l’uomo, lo innamora, lo seduce, e poi se ne va come era arrivata. Scompare come un sogno o, se mostro, viene placato con riti e incantesimi e infine, pacificato, reso inoffensivo, fatto scomparire. Un incubo notturno che la luce del mattino allontana (p. 163).

Le femme fatale fanno la loro breve comparsa nel cinema giapponese non come donne reali ma come fantasmi. Ben altri sono «i personaggi femminili accettabili: l’amante “bambina”, capricciosa e inoffensiva, la moglie diligente e devota, la nuora preziosa e filiale» (p. 166).

Nella cultura giapponese i mostri femminili sono una presenza costante; hanno saputo adattarsi alle epoche esprimendo nuove paure e lo hanno fatto occupando i nuovi media man mano disponibili. Dalle pagine sono via via passati ai cinema, ai manga delle edicole, ai videogiochi fino ai parchi a tema. «I contenuti dell’immaginario si rinnovano e alcuni mostri nuovi escono allo scoperto, rivelando, se ce ne fosse ancora bisogno, che le certezze del nostro tempo hanno piedi d’argilla, che le donne giapponesi faticheranno ancora a lungo prima di brillare. Il XXI secolo, in questo, non sembra molto diverso dal XX» (p. 169).

Sul finire degli anni Settanta del Novecento, nelle campagne della prefettura di Tochigi, a nord-est di Tōkyō, per poi diffondersi nel resto del Giappone, si diffonde una sorta di leggenda metropolitana che rivela inquietanti avvistamenti, riportati dai media, di un altro mostro femminile: la kuchisake onna, “la donna dalla bocca spaccata”, una donna dotata di una bocca spaventosamente larga.

La sua iconografia classica è quella tipica della office lady, indossa un completo da ufficio d’ordinanza (giacca, camicia e gonna), ma presenta a prima vista un elemento discordante. I suoi lunghi capelli neri, infatti, sono scomposti, spettinati in un turbine che già in sé rivela un che di mostruoso. La bocca va da un orecchio all’altro, spalancata, rivela denti aguzzi e un sorriso che più che amichevole è minaccioso (p. 170).

A caratterizzarla è inoltre il ricorso a una mascherina chirurgica, con cui cela la bocca spaventosa, e il possesso di una lama di grandi dimensioni (falce, forbici o  coltellaccio).

Ennesimo mostro femminile capace di terrorizzare. «Cosa c’è di così inquietante in un volto dalla bocca spropositatamente grande? La consapevolezza che non si tratta di un essere umano, ma dell’ennesima espressione femminile della minaccia» (p. 171). Variamente interpretata all’epoca, in questa mostruosità si è preteso vedere una denuncia dei guasti della chirurgia estetica – in voga soprattutto nel corso degli Ottanta –, oppure «una denuncia della kyōiku mama, o educational mama, un comportamento materno sempre più invadente sulla scolarizzazione dei ragazzi, competitivo e castrante» (p. 171). Nella simbologia della bocca larga vi è anche chi ha individuato

un chiaro riferimento alla femme castratrice, quella vagina dentata che è manifestazione delle paure maschili più nascoste. Una donna disposta a tutto pur di mantenersi giovane e bella. Una madre che si trasforma in un mostro malvagio e inibente. Una office lady che nasconde il desiderio delle donne di far carriera, spodestando gli uomini dal mondo del lavoro, dalla vita aziendale. Sostituendosi a essi. Una minaccia terribile. E quanto lontana dalla verità, verrebbe da aggiungere (p. 172).

Insomma, secolo dopo secolo, la donna sembra essere sempre associata a fenomeni empi, disordinati, subumani e sgradevoli, come se contenesse in sé qualcosa che la rende nemica dell’umanità (maschile), estranea alla sua civiltà.

Lo abbiamo visto, un lungo e sottile filo, rosso come il sangue, collega gli yōkai femminili, dalla rabbia esteriorizzata, dalle fauci spalancate e dalle corna minacciose, con le altrettanto – sottilmente ma inesorabilmente – pericolose dark lady delle pagine letterarie di fine XIX, inizio XX secolo. Ma non finisce qui, perché nuovi mostri si creano e la filiazione, dalle yomotsu shikome del mito alla kuchisake onna e oltre, prosegue lungo le linee dell’immaginario (maschile) giapponese (p. 173).

Marangoni conclude riflettendo sulle “cattive ragazze” che attraversano le megalopoli a ridosso del cambio di millennio sfrontate nell’infrangere il modello della “ragazza perbene”, la ojōsama, di buona e abbiente famiglia, istruita senza necessità di lavorare, sfoggiante un dress code classico, dal comportamento composto, cortese, non assertivo. È a tale modello che si contrappongono ragazze moderne, disinibite, spesso proveniente da famiglie di classe medio-bassa, caratterizzate da trucco appariscente, abbronzatura, abbigliamento trasgressivo e atteggiamento attivo, assertivo; una galassia di mutevoli tribù urbane (kogyaru negli anni 1995-1998, ganguro negli anni 1998-2000, yamanba dal 2000, manba dal 2003 ecc.). Sono forse mostri queste ragazze? Diverse letture sociologiche di tali fenomeni giovanili vi hanno individuato una volontà di sfida lanciata verso gli uomini, soprattutto anziani.

Queste sottoculture scardinano l’idea che noi abbiamo del Giappone, di una società omogenea: è quello che ci hanno fatto credere; ce l’hanno fatto credere per tutti gli anni Ottanta, ce l’hanno fatto credere studiosi che hanno voluto presentarci una società che nei loro intendimenti era totalmente armonica, in cui non c’era posto per la diversità, in cui non c’erano elementi fuori posto. […] Mi piace vedere come le ragazze anche quando non sono in gruppo non smettono di manifestare la propria unicità anche con piccoli particolari, lottando contro la sessualizzazione ancora fortissima del corpo femminile, contro la sua mercificazione (pp.175-176)

In comune con i mostri della tradizione queste cattive ragazze hanno il rigetto della società che sta loro attorno. Ma, in definitiva, conclude Marangoni, in cosa consiste la mostruosità della donna?

Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, contraddittori: orrore/meraviglia, attrazione/ repulsione. Creature liminali, in bilico fra due dimensioni (e, a volte, fra due generi): noi/l’altro, bene/male, passato/presente, questo mondo/l’altro mondo. Creature che mettono in discussione la nostra idea di normalità e il nostro concetto di identità. Queste ragazze che creano la propria moda per le strade delle megalopoli continuano a dirci che i mostri siamo noi, siamo noi nel nostro rifiuto, nella nostra incapacità di comprensione, nella nostra incrollabile fede nel giudizio degli altri e nel nostro desiderio di puntare l’indice contro gli altri senza tentare di capirli (p. 177).

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L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/lesperienza-umana-nellepoca-dellintelligenza-artificiale/ Wed, 10 May 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76777 di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto [...]]]> di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.

L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.

Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.

L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).

A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).

Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.

L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).

Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).

La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).

Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.

A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.

Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.

L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.

Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).

Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).

Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).

Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.

Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).

L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.

L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).

L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).

Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.

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Comunità seriali dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2022/12/06/comunita-seriali-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Tue, 06 Dec 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74990 di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità [...]]]> di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità – risulta  interessante analizzare alla luce di ciò la serialità televisiva degli ultimi decenni.

È proprio di questo che si occupa il volume di Massimiliano Coviello, Comunità seriali. Mondi narrati ed esperienze mediali nelle serie televisive (Meltemi 2022), e lo fa a partire dalla presa d’atto di come alla base dell’interazione e della partecipazione dell’intero universo digitale, e in qualche modo delle stesse serie televisive, vi sia una dimensione procedurale basata sulla ripetizione di regole e operazioni che collocano l’utente in un ambiente simulato che si presenta come una sorta di eterno presente [su Carmilla] riattivabile permanentemente. Videogame, piattaforme dell’intrattenimento e social strutturano nuovi immaginari attraverso la loro capacità di sfruttare forme di collaborazioni creative dei pubblici basate sul campionamento e sulla ricomposizione di materiali accumulati. [su Carmilla]

Alla classica struttura narrativa autoconclusiva nel nuovo millennio si sono affiancate narrazioni seriali costruite su molteplici linee narrative progettate per ottenere una fidelizzazione del pubblico attraverso un’espandibilità non solo nei termini di successione di episodi e stagioni ma anche transmediale.

A livello fruitivo le piattaforme di streaming audiovisivo, costruite su interfacce simili a quelle che strutturano i social, nella loro proposta a flusso continuo propongono particolari forme comunitarie. [su Carmilla]

Dalle famiglie disfunzionali de I Soprano, Ozark e Succession ai drammi familiari che scavano nel tempo come This is Us, dalle comunità segnate dal trauma della perdita di Lost e The Leftovers alla messa in scena dei conflitti sociali che uniscono e dividono i gruppi all’interno degli spazi urbani come in The Wire e Gomorra – La serie, dalla società distopica di Westworld a quelle che anelano e progettano un futuro alternativo in Station Eleven: negli ultimi venti anni la serialità ci ha messo a disposizione un catalogo molto ampio di racconti sulle forme di vita comunitarie. I mondi costruiti dalla serialità consentono ai loro spettatori di sentirsi accomunati dalla condivisione di un’esperienza e dalla possibilità di contribuire alle diverse espansioni narrative. Ecco allora che il concetto di comunità si allarga, prolungandosi al di fuori del testo e fornendo chiavi di lettura per comprendere i modi dello stare assieme e di esercitare quella creatività che prende le forme di una scrittura estesa (p. 11).

La fruizione dei testi seriali, con il loro sviluppo transmediale permesso dal digitale, ha sviluppato comunità in cui gli spettatori rielaborano gli immaginari proposti in funzione di nuove forme aggregative rispondenti al bisogno di comunità. «Grazie ai mondi raccontati dalla serialità, gli spettatori si riconoscono e costruiscono comunità lungo quel confine, sempre più labile, tra soggettività e mondo, tra corpo e ambiente, che è lo schermo nelle sue molteplici declinazioni tecnologiche» (pp. 12-13). [su Carmilla]

Le narrazioni seriali, così come si sono declinate soprattutto nel nuovo millennio, sottolinea Coviello, oltre a rappresentare una forma di intrattenimento utile a confermare e rafforzare paure e bisogni del pubblico, «sono una forma di rappresentazione che abita criticamente il contemporaneo: i processi di produzione e distribuzione, i temi che trattano e le modalità della loro ricezione restituiscono, nel loro insieme, un paesaggio grazie al quale è possibile osservare le trasformazioni delle forme di vita comunitarie» (p. 13). Tali forme di narrazione permettono modalità di cooperazione interpretativa che manifestano le potenzialità del sentire e dell’essere in comune arricchendo l’immaginario contemporaneo. Gli ecosistemi narrativi strutturati dalle logiche seriali

si fondano su strategie di continuità e ripetizione, dilatazione e apertura, dinamicità e modulabilità. A partire da un concept che funge da matrice tematica e da un brand che determina le logiche di marketing, gli ecosistemi narrativi sono in grado di stratificarsi ed evolversi secondo modalità non del tutto predeterminate, anche grazie alle pratiche di appropriazione e riuso compiute dagli spettatori. Se le strategie di messa in serie permeano i racconti e le esperienze contemporanee, allora è possibile espandere all’insieme degli ambienti mediali che ci circondano e nei quali siamo immersi il concetto di ecosistema narrativo nel quale “la produzione seriale è caratterizzata da una replicabilità costante, da una struttura aperta, da una immediata remixabilità e da una estendibilità permanente, che permettono al fruitore di avere un ruolo attivo nel processo di costruzione e sviluppo dell’universo narrativo” […]. Dagli spettatori agli utenti, fino ai fan: a seconda dei gradi partecipazione e di coinvolgimento messi in atto, le diverse comunità sono essenziali alla vita degli ecosistemi narrativi (pp. 21-22).

Il volume di Coviello analizza le narrazioni seriali del nuovo millennio ricavando una mappatura, per quanto inevitabilmente parziale, delle modalità con cui le comunità vengono rappresentate e interagiscono con tali produzioni audiovisive. Nel suo procedere all’analisi delle serie televisive e della loro incidenza sul tessuto sociale, lo studioso tiene puntualmente conto dei meccanismi produttivi, delle pratiche di fruizione e del loro rapporto con altre produzioni di immagini coeve. [su Carmilla 1  2] Sono numerose le serie televisive che hanno nella “tenuta della comunità” uno dei loro temi principali. [su Carmilla 1  2]

Dal punto di vista delle strutture narrative, le comunità sono il soggetto collettivo che abita i mondi seriali e ne garantisce la continuità orizzontale, da una stagione all’altra. Le linee narrative verticali, dedicate all’approfondimento dei personaggi e delle loro relazioni e che si esauriscono in una o più puntate, sono spesso contraddistinte dalle dinamiche familiari, oppure dalle affinità e dai contrasti che si generano all’interno di gruppi sociali più ampi. Infine, le comunità si trovano implicate anche a un livello riflessivo: sono gli stessi ingranaggi da cui dipende il funzionamento del testo a configurare uno spazio metaoperativo, che mette al centro le articolazioni e i risvolti comunitari del racconto (p. 153).

Dopo essersi occupato della complessità delle serie televisive contemporanee, della loro potenzialità in termini di apertura e replicabilità della narrazione e della performatività dei pubblici, Coviello si focalizza sugli eventi che nel nuovo millennio hanno inciso sia sulle modalità dello stare assieme sia sulla produzione e la circolazione degli audiovisivi. [su Carmilla]

Nella sezione intitolata Mediashock seriali lo studioso analizza le rappresentazioni mediatiche dell’11 settembre 2001 e della Guerra al terrore che ne è scaturita concentrandosi sull’immaginario costruito dalla serialità televisiva attorno a tali eventi passando in rassegna i modelli narrativi che hanno problematizzato la retorica della paura nei confronti del terrorismo. [su Carmilla] Vengono dunque analizzate in particolare serie come Lost, Mad Man, The Looming Towers, 24, Homeland, House of Cards e The Leftovers.

Successivamente, nella sezione intitolata Voglia di comunità, affrontando serie come Social Distance, This is Us, Utopia, Station Eleven e Anna, lo studioso analizza l’impatto esercitato della pandemia e dalle misure restrittive introdotte sulle forme di socialità a partire dall’utilizzo intensivo delle tecnologie per l’interazione a distanza sottolineando come ciò non abbia tanto comportato una «rottura epistemica dei paradigmi sociali, culturali e tecnologici preesistenti», come frettolosamente alcuni sostengono, quanto, piuttosto, un’accelerazione di processi di mediazione e rimediazione coinvolgenti l’esperienza sensibile già esistenti. La serialità ha indubbiamente saputo tematizzare tempestivamente gli effetti della pandemia offrendo ai pubblici sia storie in cui riconoscersi sopperendo alla carenza di socialità in presenza che prospettare futuri distopici o alternativi alla realtà.

Infine, nell’ultima parte del volume, intitolata Serial Crime, Coviello si occupa della serialità europea di genere crime – come Criminal, Black Earth Rising e Babylon Berlin – analizzandone le forme di rappresentazione, i processi produttivi e le strategie di fruizione mettendo in luce le ragioni della popolarità e della longevità di tali produzioni e invitando a pensare al genere come a un universo narrativo utile alla costruzione di comunità fondate su un immaginario una memoria condivisi anche alla luce degli eventi traumatici novecenteschi che hanno attraversato il continente europeo.

Comunità seriali propone importanti riflessioni circa il ruolo svolto dalle serie televisive contemporanee, a partire dalle loro architetture di coinvolgimento e fidelizzazione dei pubblici e dalle specifiche modalità di fruizione, non solo nella rappresentazione dei rapporti sociali ma anche nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza che si riverberano al di fuori degli schermi agendo su una quotidianità in cui distinguere tra esperienza dentro e fuori schermo, come tra online e offline è davvero sempre più arduo. «In un tempo in cui il bisogno di comunità si espone ai rischi molteplici, come la pervasività delle tecnologie del controllo, la frequente inconsistenza delle reti sociali online, a cui spesso si accompagna la tendenza all’utilizzo di un linguaggio violento, l’esclusione dell’alterità, interpretata pregiudizialmente come una minaccia, le narrazioni seriali ci aiutano a immaginare forme alternative di incontro e di scambio, supportandoci nella condivisione delle esperienze e delle memorie» (p. 154).

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Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale https://www.carmillaonline.com/2022/05/11/pratiche-e-immaginari-di-sorveglianza-digitale/ Wed, 11 May 2022 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71738 di Gioacchino Toni

[Di seguito una breve presentazione del volume in uscita in questi giorni – Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Prefazione di Sandro Moiso, Il Galeone, Roma, 2022, pp. 220, € 15.00 – Disponibile in pre ordine direttamente presso l’editore e presto in tutte le librerie on line e di fiducia – ght]

Ad un certo momento la finzione cessò di preoccuparsi di imitare la realtà mentre quest’ultima sembrò sempre più voler riprodurre la finzione, tanto che si iniziò ad avere la sensazione che le immagini si stessero sostituendo al reale. Ciò che abitualmente [...]]]> di Gioacchino Toni

[Di seguito una breve presentazione del volume in uscita in questi giorni – Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Prefazione di Sandro Moiso, Il Galeone, Roma, 2022, pp. 220, € 15.00 – Disponibile in pre ordine direttamente presso l’editore e presto in tutte le librerie on line e di fiducia – ght]

Ad un certo momento la finzione cessò di preoccuparsi di imitare la realtà mentre quest’ultima sembrò sempre più voler riprodurre la finzione, tanto che si iniziò ad avere la sensazione che le immagini si stessero sostituendo al reale. Ciò che abitualmente si chiamava realtà, sembrò divenire una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione e dalla pubblicità. L’impressione era quella di vivere ormai all’interno di un grande racconto in cui i personaggi che popolavano la fiction hollywoodiana sembravano ormai più reali dei vicini di casa. La finzione giunse così ad affliggere la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da far dubitare di essa, della sua realtà e del suo senso. La televisione continuava a raccontare la sua storia come si trattasse della storia di chi stava di fronte allo schermo; d’altra parte gli spettatori sembravano ormai da tempo vivere per e attraverso le sue immagini. Le stesse guerre smisero di essere viste per quello che erano e assunsero l’aspetto di un videogioco, così da risultare meglio sopportabili da chi ancora poteva viverle dal divano di casa.

I nuovi media digitali permisero agli esseri umani di farsi produttori e distributori di immagini, consentendo loro di costruirsi testimonianze di esistenza e così le metropoli iniziarono a essere attraversate da zombie dall’aspetto ben curato dotati di potenti attrezzature tecnologiche tascabili sempre più disinteressati della realtà che si trovavano di fronte intenti a immagazzinare senza sosta immagini da condividere sui social con comunità digitali composte da persone pressoché sconosciute. Il mondo, con i suoi parchi di divertimento, i club vacanze, le aree residenziali, le catene alberghiere, i centri commerciali riproducenti il medesimo ambiente, venne dunque organizzato per essere distrattamente filmato e condiviso, più ancora che visitato e vissuto.

La visione umana si era ormai assoggettata a una visione tecnologica capace di riscrivere le modalità di comprensione del mondo filtrandola attraverso schermi di computer, bancomat, smartphone e smart-tv che offrivano procedure operative già pronte, cui non restava che adeguarsi. Questa nuova visione guidava ormai i percorsi di soggettivazione, determinando le modalità con cui gli esseri umani si rapportavano nei confronti degli oggetti e degli altri individui fruiti quasi esclusivamente attraverso una visuale inorganica dell’occhio tecnologico.

Nei dibattiti, ormai svolti quasi esclusivamente attraverso sistemi digitali, raramente gli interlocutori entravano nel merito di ciò che commentavano, solitamente si limitavano a sfruttare l’occasione per ribadire fugacemente punti di vista e credenze già posseduti: l’importante era restare aggrappati alla bolla comunitaria in cui si era inseriti. La logica della spettacolarizzazione e dell’esibizione merceologica finì con l’estendersi dalle vetrine dei negozi agli individui obbligandoli a creare e gestire la propria identità al fine di catturare l’attenzione altrui adeguandosi agli standard di rappresentazione sociale prevalenti. I processi di digitalizzazione sembrarono disattendere le promesse di potenziare le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune per trasformarsi in amplificatori di fragilità, isolamento e alienazione sociale.

Le pratiche di sorveglianza raggiunsero livelli prima impensabili. Alcune corporation iniziano a tradurre l’esperienza privata umana in dati comportamentali da cui derivare previsioni su di loro. A molti tale trasformazione dell’esperienza umana in materia prima gratuita per le imprese commerciali, capace di rendere obsoleta qualsiasi distinzione tra mercato e società, tra mercato e persona, sembrò non procurare grandi fastidi. Si diceva che tutto ciò fosse potuto accadere anche grazie a una certa propensione alla servitù volontaria scambiata volentieri dagli individui con qualche servizio offerto dal Web e dai social, ma la carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi e la dipendenza dalla Rete derivavano in buon parte dallo smantellamento delle comunità e dei rapporti sociali tradizionali operato da un sistema che aveva fatto dell’individualismo più cinico e spietato il suo filo conduttore e l’asservimento digitale sembrava piuttosto la logica conseguenza di quella ricerca spasmodica di nuovi ambiti di sfruttamento giunti a coinvolgere anche gli aspetti più privati dell’individuo.

Questo sistema economico fondato sulla sorveglianza iniziò a incidere sul reale attraverso le applicazioni, le piattaforme digitali e gli oggetti tecnologici utilizzati quotidianamente sfruttando i tempi ristretti imposti agli individui dalla società della prestazione, la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso, l’accesso selettivo alle informazioni utili a esigenze immediate di relazione, il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali. Insomma ci si trovò di fronte al più sofisticato sistema di monitoraggio, predizione e incidenza comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale erano nelle mani di grandi corporation private che sembravano ormai divenute le nuove superpotenze.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline parve annullarsi: Internet divenne lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità circoscritta all’uso degli schermi a una modalità diffusa nel quotidiano. Ci si ritrovò online anche senza volerlo o saperlo. Si diceva che tutto ciò serviva per migliorare la vita umana, ma molti di questi miglioramenti riguardavano i tempi e i fini imposti dalla società della prestazione, della mercificazione e del controllo.

La cultura della sorveglianza reciproca venne presto percepita come parte integrante di uno stile di vita, un modo naturale con cui rapportarsi al mondo e agli altri. A differenza delle ansiogene forme di sorveglianza tradizionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, le nuove seppero rendersi desiderabili e farsi percepire come poco invasive, inducendo così ad accettare con estrema disinvoltura di farsi contemporaneamente sorvegliati e sorveglianti. Si diffuse una vera e propria ossessione per la trasparenza e una propensione all’esibizionismo. In cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, sancito dal consenso digitale, si iniziò a mostrarsi e condividersi costruendosi identità adeguate agli standard graditi ai più.

In un tale panorama, invocare libertà impugnando un cellulare mossi dall’urgenza di postare al più presto sulle piattaforme social quel che restava del desiderio di libertà si scontrava con l’impossibilità di liberarsi da quei gratificanti intrattenimenti digitali di cui si continuava, nei fatti, a essere prigionieri nel timore di subire la morte sociale e perdere l’occasione di esprimere dissenso in un contesto che sembrava però ormai irrimediabilmente viziato.

Tutto ciò può sembrare la trama di una fiction distopica ma la realtà in cui viviamo non sembra essere molto diversa. Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale intende dar conto di ciò tratteggiando le trasformazioni in atto senza alzare per forza bandiera bianca e lo fa riprendendo: l’idea di messa in finzione della realtà di Marc Augé; le riflessioni sul visuale contemporaneo di Horst Bredekamp, Nicholas Mirzoeff e Andrea Rabbito; il palesarsi di relazioni sempre più strette tra guerra, media e tecnologie del visibile messe in luce da Paul Virilio, Jean Baudrillard e Ruggero Eugeni; i rapporti tra l’universo videoludico e quello militare suggeriti da Matteo Bittanti; le annotazioni di André Gunthert sull’avvento dell’immagine fotografica digitale e sulla pratica della sua condivisione; il fenomeno della vetrinizzazione e del narcisismo digitale approfonditi rispettivamente da Vanni Codeluppi e Pablo Calzeroni; il capitalismo e le culture della sorveglianza ricostruiti da Shoshana Zuboff e David Lyon; l’affievolirsi della distinzione tra online e offline tratteggiata da Laura DeNardis e Stefano Za a partire dall’internet delle cose; la diffusione dell’intelligenza artificiale, della dittatura degli algoritmi e delle piattaforme digitali di cui si sono occupati Carlo Carboni, Massimo Chiariatti, Dunia Astrologo, Kate Crawford, Luca Balestrieri e il gruppo Ippolita; la privacy digitale e le pratiche di profilazione che coinvolgono gli individui sin da prima della nascita indagate da Veronica Barassi…

Questo volume è dedicato a Valerio Evangelisti

 

 

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Culture e pratiche di sorveglianza. Il nuovo ordine mediale delle piattaforme-mondo https://www.carmillaonline.com/2022/01/12/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-il-nuovo-ordine-mediale-delle-piattaforme-mondo/ Wed, 12 Jan 2022 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70009 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

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di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

Se c’è un settore in cui emerge con chiarezza l’importanza assunta da tale modello questo è il comparto dei media ed è proprio a questo che si riferisce il volume di Luca Balestrieri, Le piattaforme mondo. L’egemonia dei nuovi signori dei media (Luiss University Press, 2021), in cui vengono descritte le trasformazioni culturali e industriali dei media che il “centro del mondo” – che, attenzione, significa certo Stati Uniti ma anche Cina – sta imponendo alle sue periferie.

In generale, quando si parala di “piattaforma” si fa riferimento a «uno spazio per transizioni o interazioni digitali che crea valore attraverso l’effetto network, il quale si manifesta tramite la produzione di esternalità positive» (p. 14). Visto che la creazione di valore deriva soprattutto dalla conoscenza dei clienti e del mercato, diventa fondamentale la capacità di estrazione e di interpretazione dei dati comportamentali dei consumatori.

Essendo la piattaforma a organizzare i flussi di informazione all’interno del network, la sua forza risiede proprio in questa sua capacità di connettere e ottimizzare gli scambi di informazioni tra gli elementi che coinvolge che prima erano invece disseminati lungo una filiera lineare. Si tratta pertanto di una forma organizzativa meglio capace di sfruttare le potenzialità offerte dall’intrecciarsi di intelligenza artificiale, cloud computing e connessioni ultraveloci e che, strada facendo, ha dato luogo a quelle che l’autore definisce come vere e proprie “piattaforme-mondo”:

ecosistemi che organizzano in rete produzione e consumi, sviluppano e gestiscono la tecnologia con cui governano i mercati e tendono a espandersi attraverso il controllo dei dati. La piattaforma diventa mondo, tende a dilatare sena limiti i suoi servizi e le opportunità che offre. È la versione dell’one stop shop sviluppata, con il massimo di rigore e coerenza, per le prime dalle grandi piattaforme cinesi. Una sorta di paese dei balocchi nel quale il consumatore, idealmente, non deve cercare altrove per soddisfare digitalmente ogni suo bisogno (p. 19).

Si sta parlando di colossi statunitensi come Alphabet (gruppo Google), Amazon, Facebook, Apple e Microsoft e cinesi come Baidu, Alibaba e Tencent. A un livello inferiore in questa gerarchia di potenza si collocano invece piattaforme come Netflix e Spotify in quanto impegnate in un segmento di mercato limitato, audiovisivo la prima e musicale la seconda. Per dare un’idea della potenza di fuoco di cui dispongono tali colossi si pensi che nel 2021 tra le dieci imprese a maggior capitalizzazione mondiale figuravano ben sette piattaforme-mondo.

Per comprendere come le piattaforme si siano evolute da semplici sistemi informatici nell’infrastruttura chiave dell’economia globale in grado di erodere le sovranità nazionali, sfruttando la capacità di ottenere ed elaborare dati, lo studioso ritiene sia necessario partire dalle “guerre dello streaming” per il controllo dell’industria audiovisiva statunitense che si sono scatenate negli anni Dieci del nuovo millennio. A una prima fase in cui le piattaforme S-VOD (sevizi video-on-demand richiedenti un abbonamento per una visione senza limiti dei contenuti) sferrano il loro attacco alla televisione multicanale uscendone vincitrici, succede una seconda fase in cui queste piattaforme si scontrano tra di loro per il dominio del mercato in una competizione giocata sul volume di dati raccolti e sull’ampiezza dei servizi che tali dati permettono di proporre in maniera profilata ai consumatori.

Per oltre un trentennio, a partire dagli anni Novanta del Novecento, il sistema della tv via cavo statunitense ha regnato sul sistema mondiale dei media grazie soprattutto alla sua indubbia capacità creativa (che ha portato a fare della serialità la narrazione privilegiata della contemporaneità e del suo immaginario) e all’aver messo in piedi un efficace sistema produttivo e di aggregazione di media company capace di integrare il comparto hollywoodiano tanto a livello creativo che organizzativo. Ne corso degli  anni Dieci le piattaforme streaming hanno dunque saputo assimilare e prendere il controllo tanto della creatività seriale che della base produttiva sviluppata nel frattempo dal sistema della tv via cavo.

A risultare vincente, scrive Balestrieri, non è dunque il prodotto in sé (la serialità), che le piattaforme hanno trovato già strutturato dalle cable tv, ma il rapporto con il consumatore, che nello specifico significa la fruizione on demand e la valorizzazione della libertà di scelta. Quando compare Netflix, ad esempio, la cosiddetta complex tv2– la tv della complessità narrativa – era già un dato di fatto così come, almeno parzialmente, le sue innovative modalità produttive. Si potrebbe dire che Netflix arriva quando HBO ha già cambiato la serialità.

Esiste dunque una contiguità ideativa e realizzativa a livello di prodotto; ciò che le piattaforme on demand hanno innovato è la modalità di fruizione e la rapidità con cui il pubblico statunitense si è convertito a questa sembra essere derivata dalla possibilità di controllare autonomamente il tempo di consumo svincolandosi così dal flusso imposto dai palinsesti: «è lo stesso bisogno di differenziare e personalizzare il consumo audiovisivo che, due decenni prima, aveva determinato la rivoluzione creativa e la diversificazione produttiva della tv via cavo e che, negli stessi anni, aveva portato al boom prima dei videoregistratori e poi del Dvr» (pp. 27-28).

A risultare vincenti sono le piattaforme che rinunciano a richiedere il pagamento per ogni singolo atto di consumo – come avveniva nelle prime sperimentazioni on demand – e che propongono invece all’utente, tramite abbonamento, l’esperienza di consumare senza vincoli e senza limiti: «la bulimia di esperienze fictional, di universi narrativi e di immagini che ne deriva è l’atto fondante di un nuovo tipo di consumatore mediale» (p. 29). Nell’offrire allo spettatore immediatamente tutti gli episodi di una serie si sollecita un cambiamento radicale delle abitudini di fruizione allontanandolo ulteriormente dalle proposte delle tv a palinsesto tradizionali, broadcast o cavo/satellite.

Oltre alla possibilità di consumare un’intera serie nei tempi preferiti, il consumatore si trova a poter disporre di una sorta di luna park all’interno del quale può attingere liberamente vivendo un’esperienza di assoluta libertà nella scelta. Si tratta di un’offerta che ha fatto breccia sopratutto tra le generazioni più giovani, e non è forse un caso che gli stessi sistemi educativi, da qualche tempo, siano sempre più inclini a sostituire un’istruzione pianificata in maniera strutturata a “palinsesto”, con una proposta sempre più a “buffet”, ove lo studente vive la sensazione di poter scegliere liberamente tra una molteplicità di offerte formative sempre meno strutturate e bilanciate tra di loro.

Le piattaforme hanno vinto perché, sostiene lo studioso, sono state abili nel creare il consumatore a loro più funzionale.

La piattaforma non mette astrattamente in contatto i soggetti che vi partecipano, ma li plasma e li ridefinisce in funzione dell’ottimizzazione delle loro interdipendenze – in termini di valore per i partecipanti e, soprattutto, per la piattaforma stessa. L’innovazione investe il prodotto, il soggetto che lo offre e il consumatore, educato a scoprire e apprezzare un’esperienza di fruizione diversa. La piattaforma, insomma, è al contempo il legislatore e l’educatore del mondo nuovo che costruisce (pp. 66-67).

Essendo che le piattaforme estraggono valore dall’offerta di servizi regolati dalla profilazione e dall’elaborazione dei dati derivati dal consumatore, quest’ultimo deve essere educato alla fruizione del maggior numero di servizi possibile all’interno di uno spazio digitale unico e alfabetizzato celermente alle regole della piattaforma in maniera che le viva come del tutto naturali inducendolo a comportamenti automatici vissuti come spontanei.

Il consumatore deve essere progressivamente portato a ricercare all’interno di quello spazio il soddisfacimento di bisogni originariamente eterogenei, quali l’informazione e la creazione di comunità, l’esplorazione ludica e l’autoaffermazione, il contratto di vicinanza e lo sguardo sul mondo. I social propongono una user experience facile, immersiva, senza strappi: facilità e immersività apparentemente simili a quelle del flusso televisivo, ma in realtà con un rovesciamento del rapporto tra soggettività e flusso, perché la passività dello spettatore televisivo è trasfigurata in (apparente) protagonismo e l’esperienza sembra ruotare attorno a continue scelte del fruitore attivo (p. 69).

Al di là della percezione del consumatore, modi e forme della partecipazione attiva alla creazione dell’esperienza immersiva sono in buona parte diretti dalle strutture logico-tecnologiche della piattaforma; «quello che sembra un percorso di naturale espansione degli interessi e della socialità del singolo segue un tracciato di messa a valore dei dati estratti e analizzati nell’insieme dello spazio digitale della piattaforma» (pp. 69-70) che lavora incessantemente per ottenere una vera e propria bulimia di contatti e di consumo. Le piattaforme social, in particolare, educano il loro fruitore a una particolare centralità visuale che lo lusinga di essere lui l’oggetto della cultura visiva:

i selfie che intasano i social mostrano i fruitori al centro di spiagge, di montagne, di luoghi di socialità, a riprova che – mentre la televisioni parlava di altro, al più, poteva suggerire un’identificazione con altri, come nei reality – adesso le piattaforme parlano del fruitore stesso, del consumatore che si specchia nell’immagine di sé. Si ottiene così l’effetto network da cui la piattaforma estrae valore. Per questo, l’autoreferenzialità dell’immagine deve essere condivisa e il narcisismo deve diventare contenuto di comunicazione attraverso i like o i retweet (p. 72)

Balestrieri si sofferma particolarmente nell’evidenziare l’asimmetria di potere esistente tra le piattaforme-mondo e i sistemi mediali nazionali.

Il flusso televisivo, nel Novecento e nel passaggio al nuovo secolo, ha svolto una fondamentale funzione costitutiva della socialità e dei percorsi identitari, contribuendo a disegnarne le forme espressive e i valori comunicativi, sostituiti dalle ideologie nella mappatura dello spazio politico e generatrici di rappresentazioni del contemporaneo e del suo significato. Anche nella sua banalità quotidiana, e forse proprio grazie a questa, il flusso televisivo raccontava una grande storia di appartenenza e di identità. Adesso questa capacità di racconto si è logorata, e solo in occasioni eccezionali riesce a trovare nuova potenza emotiva e forza aggregante. La società segue in generale percorsi di soggettività plurime, sempre più estranei alla cultura di massa ereditata dal Novecento, di cui la televisione era elemento costitutivo (pp. 58-59).

Per certi versi, sostiene lo studioso, l’indebolimento della tv broadcasting spodesta la televisione dal ruolo di cerniera e organizzatrice della creatività mediale che aveva assunto; «la crisi della televisione costituisce il segno più evidente della disarticolazione della centralità nazionali della cultura e della creatività» (p. 91). Dunque, il particolare processo di globalizzazione mediale imposto dalle piattaforme-mondo, secondo Balestrieri, pone una pietra tombale sulla «possibilità di esercitare, attraverso un autonomo sistema dei media, una consapevole, trasparente ed efficace gestione dello spazio in cui si forma i discorso pubblico e si producono dinamiche culturali che in una comunità creano identità (al plurale)» (p. 93).

Se le realtà locali non sembrano davvero più in grado di dare forma alla cultura di massa creando o adattando contenuti pensati quasi esclusivamente in funzione di un consumo interno, soppiantate come sono dalle piattaforme-mondo capaci di assimilare tratti culturali locali per poi manipolarli in maniera da renderli appetibili al mercato mondiale, non sono mancati casi di “resistenza” locali che, per qualche tempo, hanno saputo anche oltrepassare i confini nazionali.

Balestrieri ricordata ad esempio la capacità in America Latina di dar vita a un prodotto originale come la telenovela capace di insinuarsi nel mercato internazionale; si pensi a come la telenovela brasiliana negli anni Sessanta abbia saputo trasfigurare in modalità melodrammatiche la quotidianità e il senso di appartenenza e di comunità all’interno di un contesto autoritario sapendo trasformarsi nel corso del decennio successivo al pari della società che stava faticosamente uscendo dalla dittatura.

Nei decenni finali del vecchio millennio e nell’inizio del nuovo permane una certa dialettica tra sistemi nazionali e circuiti internazionali, tra centro e periferie a riprova di ciò si pensi al successo del fenomeno “format” soprattutto negli anni Novanta: «formidabile sintesi di globalizzazione del prodotto audiovisivo e di persistenza del mercato nazionale: si prende un’idea che ha avuto successo da qualche parte nel mondo e la si traduce in un contenuto vicino alla cultura del pubblico di un altro Paese» (p. 107). Ebbene, continua lo studioso, le piattaforme operano in maniera inversa: trasformano contenuti locali in prodotti globali e lo fanno forti dell’incredibile potenza di fuoco economica di cui dispongono nell’operare investimenti.

L’era del trionfo delle piattaforme-mondo ridisegna l’universo mediale riconfigurando anche le modalità di globalizzazione sia a livello di organizzazione industriale delle filiere e dei consumi che delle ibridazioni cultuali. Alla centralità dei flussi internazionali di capitali e prodotti propria della prima fase del processo di globalizzazione si sovrappone l’internazionalizzazione dei servizi al consumatore e delle infrastrutture tecnologiche. Il servizio è venduto direttamente al consumatore di ogni angolo del pianeta «disintermediando le filiere che si articolano nei sistemi nazionali dei media. La raccolta delle risorse e le decisioni strategiche sul loro reimpiego passano di mano e saltano il livello locale, lasciando a quest’ultimo magari il ruolo subalterno di fucina creativa a comando. Benvenuti nella globalizzazione mediale 4.0» (p. 109).

Se è pur vero che l’offerta audiovisiva di colossi come Netflix (che nel 2021 vantava oltre 200 milioni di abbonamenti disseminati in ben 190 paesi) o come Amazon è in buona parte fatta di contenuti statunitensi, sarebbe errato secondo Balestrieri vedere in queste piattaforme una semplice prosecuzione del processo di americanizzazione culturale del mondo iniziato con Hollywood.

Nella fase attuale, nella quale l’internazionalizzazione riguarda i sevizi diretti all’utente, lo scopo di un soggetto che opera globalmente come Netflix o Google non è vendere prodotti statunitensi sugli altri mercati, ma vendere il proprio servizio, che può benissimo prevedere anche la valorizzazione dei prodotti locali. Le piattaforme non vogliono americanizzare il consumatore globale, ma creare una nuova specie di consumatore mediale, impegnato nell’ibridazione dei propri linguaggi, valori estetici, strutture narrative all’interno delle interazioni e transazioni governate dalle piattaforme stesse (p. 124).

Attenzione, avverte lo studioso, ciò non significa affermare che le multinazionali non hanno nazionalità; tutt’altro, rispetto alle piattaforme di inizio millennio, nelle odierne il «governo dello sviluppo industriale e dei flussi culturali è ancora più localizzato negli Stati Uniti» ma non si tratta più di un controllo di tipo novecentesco dei mercati contraddistinto da merci culturali vendute e investimenti per acquisire la proprietà dei media, bensì di un controllo delle piattaforme-mondo che «innovano i flussi culturali e creano i propri consumatori attraverso la vendita diretta di servizi, personalizzati sul profilo di fruizione dei singoli individui» (p. 125). Queste piattaforme non necessitano per forza di acquistare media; spesso è sufficiente svuotarli e riconfigurarli all’interno dei propri ecosistemi reindirizzando le catene di distribuzione economiche e culturali in direzione transazionale.

Gli Stati Uniti non sono soli nella creazione di piattaforme-mondo; ad essi si aggiunge la Cina, Paese che ha saputo sfruttare le economie di scopo offerte dalla datification. Si tenga presente, sostiene Balestrieri, che in Cina le piattaforme-mondo non hanno dovuto ingaggiare una battaglia interna nei confronti del vecchio mercato dei media; in buona parte lo hanno creato. Nel paese asiatico si può dire che il sistema dei media sia nato con la digitalizzazione e l’industria audiovisiva con le piattaforme. In Cina lo streaming è infatti giunto diffusamente alla popolazione prima ancora delle sale cinematografiche: nel 2010 si contavano nel paese di un miliardo e trecento milioni di persone poco più di seimila schermi in duemila sale concentrate nei grandi agglomerati urbani. Il cinema nelle sale è arrivato praticamente insieme alle piattaforme strizzando l’occhio a una popolazione giovane nativa digitale che nel primo decennio del nuovo millennio ha imparato a consumare audiovisivi soprattutto attraverso queste piattaforme.

La densità di servizi offerti dagli ecosistemi delle piattaforme-mondo cinesi si traduce anche in un accelerato sviluppo della base produttiva e delle industrie creative che alimentano questa totalizzante user experience. Senza l’ingombro d un robusto sistema dei media preesistente, le piattaforme hanno potuto costruire secondo le proprie esigenze le fabbriche dei contenuti e i bacini di professionalità necessari, sfruttando al massimo le sinergie offerte dalla crescente complessità e articolazione degli ecosistemi (p. 136).

In generale, statunitensi o cinesi che siano, le piattaforme-mondo vivono della conoscenza del consumatore in modo non solo da poter estendere la gamma di sevizi da offrirgli ma anche di poter anticipare e guidare le decisioni dell’utente sia nell’ambito del consumo/acquisto che nelle connessioni sociali. L’obiettivo è dunque quello di plasmare il consumatore.

In chiusura di volume, Balestrieri si concentra sul potere acquisito dalle piattaforme-mondo a proposito del controllo delle tecnologie che alimentano la quarta rivoluzione industriale. In un panorama in cui la capacità di incidere su economia, società e cultura di queste piattaforme sembrerebbe ormai essere sfuggita al controllo statale, quest’ultimo sembra del tutto intenzionato a rifare capolino dopo decenni di inerzia più o meno pianificata. Si pensi che Amazon fornisce servizi cloud a ben 6500 agenzie governative che vanno dal settore della difesa a quello dell’educazione fino ai tanti apparati governativi.

Le tecnologie che in misura significativa cadono sotto il controllo delle piattaforme-mondo costituiscono il nucleo essenziale della sovranità digitale e politico-istituzionale» (p. 163) e quando ciò si è “improvvisamente” palesato, il potere statuale è sembrato svegliarsi dal torpore con l’intenzione di imporre una rinegoziazione del livello di autonomia concedibile. Insomma, la questione geopolitica è sembrata voler riguadagnare il primato che ritiene le aspetti rispetto alla mera efficienza di mercato. Una delle conseguenze di questa volontà di riallineamento delle piattaforme alle esigenze geopolitiche sembra essere «la fine dell’ideologia della globalizzazione neutrale: le piattaforme sono americane o cinesi, al massimo le prime si vestono del ruolo di campioni dell’occidente, o campioni delle autodefinite tecno-democrazie contro le cosiddette tecno-autocrazie (p. 163).

Se in Cina, dopo un decennio di deregolamentazione che ha riguardato tanto l’ambito finanziario quanto quello delle piattaforme, lo Stato ha potuto ribadire la propria supremazia celermente, negli Stati Uniti, dopo diversi decenni di neoliberismo spinto, il confronto tra piattaforme e Stato appare più travagliato. Resta il fatto che dalla negoziazione anche aspra tra piattaforme-mondo, preoccupate a non perdere competitività sui mercati internazionali, e Stati, con annessi interessi geopolitici, sembrerebbe derivare la presa d’atto che interessi economici e sovranità possono andare di pari passo: i primi hanno necessità di accedere ai dati di cui è in possesso lo Stato (sanità, istruzione ecc.) mentre i secondi necessitano degli efficientissimi oligopoli tecnologici che consentono la sovranità digitale.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Cfr. Nick Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, Roma 2017. 

  2. Cfr. Jason Mittel, Complex TV. Teoria e tecnica dello Storytelling televisivo, Minimum fax, Roma 2017. 

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Porte sul buio: Ti piace Argento? https://www.carmillaonline.com/2021/12/25/porte-sul-buio-ti-piace-argento/ Sat, 25 Dec 2021 21:33:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69789 di Franco Pezzini

Marco Chiani, Dario Argento e la televisione, pp. 206, € 24,90, Profondo Rosso, Roma 2021.

(Per i tipi Profondo Rosso è uscito da pochi giorni questo interessante saggio a cura di Marco Chiani, giornalista esperto in cinema e coordinatore della redazione di Cinemonitor, l’Osservatorio Cinema e Media Entertainment della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

Negli anni Sessanta, abitavo con i miei in un alloggio grazioso, ma certo non di lusso, in una zona di negozi animata dal boom [...]]]> di Franco Pezzini

Marco Chiani, Dario Argento e la televisione, pp. 206, € 24,90, Profondo Rosso, Roma 2021.

(Per i tipi Profondo Rosso è uscito da pochi giorni questo interessante saggio a cura di Marco Chiani, giornalista esperto in cinema e coordinatore della redazione di Cinemonitor, l’Osservatorio Cinema e Media Entertainment della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

Negli anni Sessanta, abitavo con i miei in un alloggio grazioso, ma certo non di lusso, in una zona di negozi animata dal boom del periodo. Una casa luminosa, sulla confluenza tra due corsi – eppure ricordo come, dalla luce del salotto dove vedevo Carosello sulle gambe di mio padre, la sera il riquadro della mia stanza oltre l’atrio apparisse una porta sul buio. Questa immagine mi è sorta spontanea, come una bolla gorgogliata dal fondo di me stesso, recuperando il titolo di una serie televisiva per cui l’Italietta di qualche anno dopo arruolerà al timone nientemeno che Dario Argento.

A fronte di una ormai quasi ingovernabile bibliografia argentiana, con il bel volume che avete in mano Marco Chiani riesce a colmare un vuoto: un saggio a 360 gradi sul rapporto tra il regista e la televisione, fino a pubblicità e interviste. Considerate le trasformazioni dei prodotti per il piccolo schermo dal mondo RAI di un tempo al panorama dell’età di Game of Thrones, con un passaggio da “nuovo” focolare familiare a matrice di diramazioni immaginali più pervasive persino di quelle cinematografiche, riflettere sul rapporto con la tv di un autore quale Argento è di interesse particolare.

Complice un altro piccolo schermo, quello del pc e di internet coi suoi mille blog, parlare di Argento rischia oggi (ma non è il caso di Chiani) di avvitarsi nei soliti discorsi sulla crisi di un regista, a colpi di battute ingenerose e magari gratuite. Fatte salve le critiche puntuali – motivate, a volte anche affettuose – a questa o quell’opera, è un dato di fatto che se abbiamo smesso di trovare innovative le idee di Argento è soprattutto perché la sua poetica ci è entrata tanto sotto pelle da avvertirla come già nota. Forse per questo chi (come il sottoscritto) ha avuto la ventura di avvicinarsi piuttosto tardi al suo lavoro riesce con minor fatica a restare colpito da guizzi visionari, felicemente deliranti, anche in film in genere demoliti da critica e fan.

Ma nell’Argentoverse ci siamo in qualche modo entrati tutti, più o meno a scatti generazionali: il sangue iniziatico che la mia leva aveva visto orgiasticamente spargere in rito di passaggio dalla Hammer, con connotazioni un po’ diverse la successiva lo ritroverà in grazia delle coltellate di Argento. Tutti riconosciamo, solo a pensarci un po’, che con lui in misura maggiore o minore siamo cresciuti, e quel tipo di poetica (ripeto il termine, che non mi pare incongruo) ha influenzato a largo raggio non solo – in genere – il thriller italiano degli anni Settanta, ma il nostro modo di percepire il linguaggio dell’inquietudine.

Un impatto che non rappresenta solo una svolta rispetto al vecchio film de paura italico, ma assume valenza internazionale per il successo planetario delle sue pellicole, e influisce sullo stesso orizzonte della scrittura. In Italia la narratrice che ha recuperato in modo più lucido e avvertito il passo argentiano è direi Cristiana Astori, che rende i suoi polizieschi – emblematico Tutto quel rosso, Il Giallo Mondadori, 2012, proprio in zona-Argento – anche intriganti saggi di storia del cinema (e non a caso viene ogni tanto imitata dagli alfieri dell’usato sicuro). Ma è chiaro che un regista – e produttore, non dimentichiamolo – come Argento ha influenzato un po’ tutti gli autori di thriller nostrani (e non), sia nella cifra di uno sparagmòs non esaurito nel gore fine a se stesso, sia nell’enfasi sullo sguardo perturbante – il dettaglio conosciuto/non riconosciuto da recuperare per sciogliere il nodo della trama. Dove poco importa che si parli di thriller o di horror (un genere cui Argento approda, senza vera soluzione di continuità, con Suspiria, 1977): l’abbinamento tra tensione estrema e dettaglio perturbante rimonta ad Ann Radcliffe, e una venatura gotica è avvertibile in gran parte della produzione argentiana. A partire in fondo dal suo modo di trattare i luoghi, con una Torino e una Roma – tappe congrue al gotico da Grand Tour – da atlante dell’incubo. D’altra parte, proprio alla luce della poetica dello sguardo perturbante, del tassello sfuggito e da recuperare, il referente televisivo assume una speciale dimensione provocatoria: per molti anni, ciò che restava estraneo alla televisione, ciò che restava fuori dal suo schermo era per il grande pubblico davvero perturbante, intuito e conosciuto ma non riconosciuto o non ricordato, e dunque tutto da affrontare.

La rabbia (se ci pensiamo, degna di miglior causa) avvertibile oggi in tanti commenti di fan sugli ultimi film di Argento assomiglia a quel punto all’uccisione simbolica del padre: ma fatto salvo l’orizzonte del simbolo, proprio Argento è la prova che con i padri si può fertilmente lavorare. L’impatto della collaborazione con suo padre Salvatore, veterano del mondo cinematografico fin nelle più delicate operazioni amministrative, è in effetti tanto significativo che si potrebbe vedere proprio nella scomparsa di lui la vera cesura nell’opera del figlio. Il che richiama però a un altro aspetto che interessa direttamente il referente televisivo: non sempre tra i fan si mette a fuoco che un’opera non è solo del regista, ma dell’intera sua squadra, fino a montatori, tecnici di fotografia e altri fondamentali uomini-ombra. La storia dei film di Argento è anche la storia dei suoi collaboratori e comunque dei suoi interlocutori (Chiani vi offre ampio spazio), più o meno stimolanti anche a prescindere dalla professionalità in sé: e il rapporto appunto interlocutorio con un’altra istanza genitoriale – stavolta “materna”, la vecchia mamma RAI con cui Argento fa i conti in più momenti – rende più evidente i tipi di dinamica intrecciati.

Quando quel rapporto inizia, non è strano che il giovane Dario tenda a sottovalutare le potenzialità creative di un mezzo che – tra fremiti e tremiti di funzionari intimiditi – riduce drasticamente le possibilità del presentabile, che non gli permette (ancora) di giocare col colore, che sembra inibire la sua cifra artistica. Mentre oggi ci è chiaro che è una RAI straordinaria, quella degli anni Settanta: una RAI che osa sperimentare (pensiamo solo all’impatto degli sceneggiati di giallo e mistero, a partire da Il segno del comando, 1971, dove la televisione di stato di un paese ancora cattolicissimo e reduce da un tentato golpe si misura con le sirene epocali del Grande revival magico e coi misteri dei servizi). E a quel punto arruola “l’Hitchcock italiano”, come Argento viene chiamato, con un ministero di grande cerimoniere – grazie a un suggerimento di Luigi Cozzi – simile a quello svolto tra gli anni Cinquanta e Sessanta nella celebre serie Alfred Hitchcock presenta. Ma sono cambiati i tempi: Hitch giocava sornione a moralizzare – con la sua fisionomia tondeggiante da ecclesiastico di campagna del Settecento inglese – sullo sfondo della Guerra Fredda, mentre quando Argento presenta (e in parte dirige) gli episodi di La porta sul buio, 1973, ha piuttosto il physique du rôle dei sessantottini e lo scenario dietro di lui è quello degli anni di piombo (e in realtà di molto altro, perché sarebbe grottesco e limitante ridurre utopia, colore e fantasia degli anni Settanta a tale cifra asfittica).

In ogni caso, a fronte delle porte che il piccolo schermo si è sempre proposto di aprire al mondo nelle case degli spettatori – prima nel contesto di una programmazione nazionalpopolare, oggi con i percorsi labirintici dei canali a pagamento – quella che Argento schiude sul buio va ben oltre i limiti concessi alla prima serie del 1973: e proprio il rapporto con la “normalità” televisiva può dirla lunga su un’evoluzione. Iniziando il grande pubblico al proprio teatro di paure (tanto che le fantasie dei suoi ultimi film, per quanto estreme, ci sembrano “già viste”) Argento ha fornito un linguaggio efficace: qualcosa che non solo confuta in radice un certo modo superficialotto di sminuire i fantasmi – “che sarà mai, hai paura del buio?” – protestando invece la liceità e dignità delle nostre paure, ma lo fa fin dalla penombra delle nostre case. Quelle stesse dove il televisore ci tiene compagnia durante il lockdown e dove il buio oltre una porta può effettivamente celare l’assassino fatto sbarellare dalla clausura (la grande emergenza trascurata dai nostri governanti, il rovinoso impatto sulla psiche – in un paese già depresso da anni – di un sequestro prolungato in casa) o le streghe del profondo, che grattano alle finestre della nostra vita. Come nel teatro onirico del gotico che sovrapponeva il dedalo claustrofobico di corridoi e sotterranei del castello d’Otranto e quello dell’interiorità del suo usurpatore, in Argento delitto/thriller e ossessione/horror non possono essere troppo nettamente separati dai sussiegosi distinguo della critica: e la porta sul buio, in anni lontani come oggi in tempo di lockdown, si apre nel nostro alloggio e contemporaneamente tra le nostre pieghe (e piaghe) interiori.

Torino, marzo 2021

 

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Processi di ibridazione. L’immagine (è) mutante https://www.carmillaonline.com/2020/09/21/processi-di-ibridazione-limmagine-e-mutante/ Mon, 21 Sep 2020 21:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62275 di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio [...]]]> di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio televisivo, vero e proprio generatore di immagini all’interno della realtà domestica che, come scrive Riccardo Sasso – L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018) –, agisce «come un organismo patogeno, inizializzando un meccanismo virale grazie al quale l’uomo è stato trasformato, mutato in un un nuovo individuo, un homo tecnologicus, che ha incorporato in sé la tecnologia e da essa trae un sostentamento vitale necessario alla sua sopravvivenza»1. L’essere umano contemporaneo è giunto a cibarsi di televisione, tanto che i poveri che nel film si recano alla Cathode Ray Misison, al posto di un pasto caldo, ricevono la loro dose quotidiana di immagini televisive. Non è difficile leggere in Videodrome la convinzione mcluhaniana della televisione come strumento antropogenetico in grado di incidere sulla biochimica umana.

La televisione, suggerisce l’opera cronenberghiana, non si limita più a riprodurre la realtà, si è fatta «più reale della realtà stessa: ha agito fisicamente sulla struttura del […] cervello, creando al suo interno dei tumori, veri e propri organi di senso, capaci di costruire in lui un nuovo sistema percettivo»2. L’immagine è mutante, in questo caso nel senso che agisce, mutandolo, sull’individuo che ne viene a contatto. L’essere umano messo in scena da Cronenberg, a partire da Videodrome, è un essere che «ha assorbito in sé la tecnologia e nello stesso tempo l’ha corporeizzata»3; il protagonista del film, dopo essere stato contagiato dal virus, si è ibridato con la macchina, «ha penetrato la tecnologia (come nella famosa scena in cui si fonde con il televisore), l’ha resa carne pulsante (la televisione è divenuta un organismo, che respira e vomita frattaglie) e al contempo ne è stato violato, penetrato – gli si è formata un’apertura sull’addome dal quale escono ibridi biomeccanici»4.

Con Videodrome, sostiene Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)5 – «Cronenberg riflette sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della tv sta apportando all’apparato percettivo umano»6. Il film pone inquietanti interrogativi «sulla natura riproduttiva delle immagini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente riprodotti sullo schermo della tv»7. Il regista decide di mettere in scena un mondo condannato a vivere in uno stato di perenne allucinazione, in cui gli esseri umani sembrano poter essere programmabili al pari degli apparecchi di registrazione audiovisiva. In anticipo di alcuni decenni rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), Videodrome si pone come opera audiovisiva politica in quanto riflettendo sul consumo di immagini fa provare direttamente allo spettatore «le potenzialità e le aberrazioni insite nel […] desiderio di consumare tecnologicamente immagini»8.

Oltre a palesare i processi di contaminazione fra organico ed elettronico, con una televisione che diviene carne e una carne che a sua volta funziona come un videoregistratore, in Videodrome, suggerisce Canova, Cronenberg «applica anche al linguaggio (al cinema) quei processi di contaminazione e confusione che mostra all’opera sul piano dei corpi»9. Ecco allora che il film può essere visto come il paradigma di uno stile fondato sull’instabilità enunciativa: Videodrome non permette allo spettatore di considerare la macchina da presa come un “narratore onnisciente”, diviene impossibile, continua Canova, attribuire alle immagini un aprioristico statuto ontologico di verità. Il continuo cambiamento di punti di vista non consente di stabilire se ciò che si osserva è “realtà”, allucinazione o sogno. Insomma, ad essere messa in discussione in questa pellicola è (anche) la stessa nozione di “realtà” cinematografica.

La questione della mente come terreno di conflitto presente in Scanners (Id., 1981) e Videodrome, torna prepotentemente anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) con il protagonista che, risvegliatosi da uno stato comatoso dopo un incidente, si ritrova alle prese con una vera e propria mutazione mentale che gli permette di viaggiare nel passato e nel futuro degli individui con cui viene a contatto. Come in Scanners, anche in questo film non è difficile individuare suggestioni cristologico-messianiche; il protagonista in questo caso “muore” (in un incidente), “risorge” (dal coma) e si “immola” per la salvezza dell’umanità. Se rispetto ad altre opere cronenberghiane qua i personaggi sembrano più definiti nel palesarsi buoni o malvagi, basta attendere la parte finale della pellicola per veder vacillare tali certezze.

In La zona morta Cronenberg rilegge Stephen King con la lente di McLuhan, interpretando la “seconda vista” [del protagonista] come una prerogativa tipicamente mediale, cioè come un’estensione illimitata dei suoi organi di senso. La “zona morta” [del protagonista], quel buco nero coscienziale che gli consente non solo di “vedere” l’altrove spazio-temporale, ma anche di alterare e cambiare il corso degli eventi, significa proprio questo. Che l’utopia mass mediale si è come “incistata” nel suo corpo, si è fatta corpo essa stessa. O che il suo corpo si è trasformato in una sorta di medium totale10.

Se nel romanzo le capacità mentali del protagonista vengono ricondotte a un trauma infantile, Cronenberg fa derivare la “nuova vista” dall’incidente stradale, a sua volta causato da una carenza visiva: il non aver saputo vedere l’autocarro, «un’insufficienza visiva funziona insomma da preludio all’acquisizione di una visione “panottica”: e proprio qui, in questa mirabolante onnipotenza del vedere, si insinua il “virus” cronenberghiano dell’ambiguità»11. Dunque, conclude Canova, a essere messo in dubbio dal regista è ancora una volta lo statuto di verità delle immagini. Allo spettatore non resta che dubitare di esse: messa da parte la convinzione di trovarsi di fronte a una macchina da presa che funziona come “narratore onnisciente”, non è più possibile accordare incondizionata fiducia alle immagini; da un momento all’altro tutto potrebbe palesarsi come allucinazione di un personaggio.

Se così stanno le cose, allora il protagonista di La zona morta non è tanto un “eroe positivo”, quanto piuttosto, continua lo studioso, un semplice testimone del fatto che ormai l’unica realtà è quella percepita dai sensi. Rispetto al romanzo, inoltre, il regista elimina i riferimenti politici diretti «per concentrarsi esclusivamente su ciò che negli anni Ottanta sta trasformando radicalmente le forme e le strutture di una civiltà mass mediale planetaria che obbliga tutti a fare i conti con la viralità delle immagini e con la necessità di ridefinire lo statuto comunicativo»12.

A ben guardare è la medesima convinzione a cui, qualche tempo prima, è giunto James Ballard che, infatti, in un’intervista sostiene esplicitamente che «ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica»13. Dunque, conclude lo scrittore inglese, ai giorni nostri risulta “più reale” la pubblicità di un film di un mito di fine Novecento come Arnold Schwarzenegger che non un prato ai bordi di una strada.

L’interesse per le modalità con cui l’individuo contemporaneo percepisce e vive una realtà ormai trasformatasi (anche) sotto la spinta dei media audiovisivi è sicuramente uno degli aspetti che accomunano Ballard e Cronenberg, autori che anticipano con le loro opere quel dibattito teorico che nel corso degli anni Novanta vede numerosi studiosi porsi “il problema della realtà”, ragionando a proposito della progressiva scomparsa del “reale”. A tal proposito l’antropologo Marc Augé, ad esempio, giunge a parlare di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà14.

Nel film La zona morta viene messo in evidenza anche un altro aspetto del ruolo mutageno televisivo: l’invadenza esercitata da tale medium nei confronti del protagonista nel momento in cui le sue facoltà diventano di pubblico dominio. Sull’incidenza televisiva sulla vita dei personaggi, una volta che questi finiscono per qualche motivo sotto l’occhio morboso delle telecamere, torna anche A History of Violence (Id., 2005). Come a dire che non importa da che parte dello schermo ci si trovi: la televisione si rivela in grado di mutare la vita degli individui anche soltanto prendendoli di mira e mettendoli sotto i riflettori.

Oltre a riprendere la riflessione sulla “nuova carne” intrapresa, sotto diverse sfaccettature, da Videodrome, Scanners e La zona morta, con La mosca (The Fly, 1986) Cronenberg presenta un film mutante al pari del corpo che mette in scena, tanto che Charles Tesson15 vi individua un’opera di finzione che mette in scena la natura e il meccanismo dell’immagine-video palesando il problema della “perdita” che tocca inevitabilmente ogni passaggio dalla realtà alla sua riproduzione. Scrive a tal proposito Canova che il teletrasporto messo in scena dal film rinvia al trasporto dei corpi dalla realtà all’immagine attuato dai mezzi audiovisivi: in tutti i casi nel trasporto qualcosa si perde per strada. «Ed è su questo qualcosa che si concentra Cronenberg in La mosca. Che è dunque, ancora una volta, un film sul meccanismo generativo delle immagini e sull’orrore che la perdita (cioè la “mutazione” sottrattiva) implica in questo procedimento non può non generare»16. La capsula di teletrasporto del film potrebbe allora essere letta, suggerisce lo studioso, come metafora dell’impotenza visiva del cinema, come esplicitazione della «sua “cecità” nei momenti cruciali: quelli in cui l’immagine nasce staccandosi dal corpo e facendosi altro da lui»17 e l’orrore scaturirebbe proprio dalla percezione di tale impossibilità.

Riflessioni sulla natura delle immagini sono presenti anche in Inseparabili (Dead Ringers, 1988). Se nei due gemelli ginecologi alcuni studiosi hanno individuato riferimenti al ruolo del regista, ossia colui che mette al mondo immagini, il film è però anche un’opera che si confronta con l’attrazione per ciò che abita l’interno dei corpi umani e con l’ossessione di mostrare il non-filmabile. «Inseparabili è uno straordinario film su questo paradosso. Non solo un film sul “doppio”, sui gemelli, sulla simmetria e sulla specularità, ma anche (e soprattutto) un vertiginoso periplo intorno all’irrappresentabiltà del corpo, sempre in bilico fra il visibile e il non mostrabile, fra ciò che vediamo e ciò che non potremo mai (o non possiamo ancora) vedere»18. In questo caso il regista opta per un’opera implosiva anziché esplosiva decidendo di non mostrare la carne, di non squarciare i corpi e di lasciare che le immagini scivolino sulle superfici concentrandosi piuttosto sull’orrore del guardarsi dentro.

Con eXistenZ (Id., 1999) ancora una volta Cronenberg inserisce in una sua opera la questione dell’obsolescenza del corpo, la sua inadeguatezza di fronte alle nuove tecnologie. A tale inadeguatezza eXistenZ risponde con un coinvolgimento diretto del corpo umano nella dimensione del gioco, senza bisogno di ricorrere a macchine, schermi ecc. La connessione avviene tramite una consolle semiorganica che attraverso una bioporta si lega, con una sorta di cordone ombelicale artificiale, alla spina dorsale, dunque al sistema nervoso dell’essere umano. Non si tratta più di un collegamento con l’universo simulatorio ottenuto tramite lo sguardo; qua è l’apparato percettivo umano ad essere condotto in un’altra dimensione.

Si può affermare che con questo film Cronenberg estremizzi ulteriormente Videodrome a proposito della «indicibilità circa lo statuto linguistico e mediatico delle immagini di volta in volta proposte, in una perenne oscillazione fra il registro mimetico-riproduttivo e quello allucinatorio-visionario »19. La percezione dello spettatore viene lasciata in balia del dubbio nell’impossibilità di distinguere tra realtà del mondo e realtà videoludica. Per far ciò Cronenberg elimina ogni artificio retorico codificato con cui la grammatica audiovisiva è solita indicare il livello di rappresentazione. eXistenZ è film del tutto privo di sviluppo narrativo, costruito su una vertiginosa mise en abime in cui reale e virtuale risultano indistinguibili, combacianti, forse ormai persino inseparabili.

Di nuovo Videodrome, praticamente: ma al posto di una video-arena nella quale emittenti televisive si contendono il possesso delle menti a scapito di spettatori persi in un ginepraio allucinatorio, qua è nella game-arena della realtà simulata che le corporazioni e le sette […] combattono fra loro per conquistare le masse, e che i personaggi gareggiano per sopravvivere, in quella forma di allucinazione consensuale che è il videogioco. […] Ai poveri che ricavavano la loro “dose di televisione” nella basilica tecnologica della Cathode Ray Mission [di Videodrome] si sostituiscono gli uomini e le donne di tutti i giorni per la loro dose di evasione, la loro dose di esistenza20.

L’impossibilità dell’essere umano di prescindere dal processo di “vetrinizzaizone”21 mediatica la si ritrova in Maps to The Stars (Id., 2014), opera dalla struttura più convenzionale che insiste tanto sulla dipendenza dell’individuo dall’immagine quanto sull’instabilità della sua identità e lo fa ambientando la narrazione nella fabbrica di immagini e immaginari per eccellenza: Hollywood.


Processi di ibridazione


  1. R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 64. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Ibid

  4. Ibid

  5. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 

  6. G. Canova, op. cit., p. 52. 

  7. Ibid

  8. Ivi, p. 59. 

  9. Ivi, p. 56. 

  10. Ivi, p. 64. 

  11. Ivi, p. 65. 

  12. Ivi, p. 67. 

  13. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. 

  14. Si veda la serie di interventi Il reale delle/nelle immagini di G. Toni pubblicati su “Carmilla”. 

  15. C. Tesson, Les yeux plus gros que le ventre, “Chaier du cinéma”, n. 391, gennaio 1987. 

  16. G. Canova, op. cit., p. 74. 

  17. Ibid

  18. Ivi, p. 79. 

  19. Ivi, p. 109. 

  20. R. Sasso, op. cit.,  pp. 120-121. 

  21. La tendenza alla “vetrinizzazione”, secondo il sociologo Vanni Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità attraverso una pratica di esposizione/narrazione di sé attuata soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso i social media. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti. Si vedano i volumi: V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano-Udine 2015. 

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Processi di ibridazione. La realtà (è) nella mente https://www.carmillaonline.com/2020/09/07/processi-di-ibridazione-la-realta-e-nella-mente/ Mon, 07 Sep 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62110 di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e alla pulizia delle geometrie funzionaliste si nasconda l’orrore che si palesa sotto la forma di efferati omicidi.

Il regista ricorre allo spazio architettonico residenziale come a una metafora del corpo umano: «il residence dove è ambientato il film è in tutto e per tutto un corpo visto dall’interno, con le sue aperture (bocca, naso, orecchie), i corridoi (i vasi sanguigni), i sotterranei e il garage (le viscere)»1, ed è all’interno di queste pareti/epidermide umana che prolificano quei vermi che conducono alla mutazione. In questo caso l’agente di contagio determina la riattivazione di appetiti sessuali eliminando ogni freno inibitorio; è dunque un desiderio sfrenato a dilagare nelle viscere di quelle Starliner Towers che si volevano totalmente assoggettate alla razionalità architettonica, dunque dei corpi umani che, allo stesso modo, si volevano totalmente sottoposti al controllo della ragione.

Attraverso il verme che entra e penetra nelle tubature e nelle intercapedini, il palazzo sembra animarsi diventando il vero antagonista del film: dopo essere stato infetto, il residence “prende vita” condizionando gli abitanti che vivono al suo interno. Così che l’eleganza stilistica della scena, con ambienti puliti, sgombri, arredati con fare moderno, si sporca del germe che muta quegli appartamenti; a un tratto, come spettatori capiamo che non è tanto il parassita a rappresentare il pericolo del contagio, ma il fatto stesso di trovarsi all’interno di quelle mura. Siamo all’interno di un corpo malato, corrotto e irrecuperabile.2

Una volta contagiato anche l’ultimo degli abitanti, questi abbandonano l’edificio per propagarsi all’interno delle arterie della città: l’orda selvaggia – che non manca di rinviare all’immaginario zombie romeriano – potenzialmente può estendere il contagio all’intera città e con essa al mondo intero. Ed è proprio nell’ambientazione metropolitana che nel film successivo, Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977), si diffonde l’orrore. Se in Shivers il parassita permette ancora agli esseri umani un’esteriorità “normale”, con Rabid, sostiene Altobelli, la mutazione pare compiere un passo ulteriore intaccando anche l’aspetto esterno.

Anche in questo caso non mancano anaologie con gli zombie romeriani ma, scrive Gianni Canova nella sua monogrfia dedicata al canadese (Editrice Il Castoro, 20073) che se in un film come La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di Geroge Romero «si ha una struttura centripeta che conduce tutte le creature risorte dalla tomba a concentrarsi attorno alla casa isolata che diventa il simbolo dell’ultima resistenza degli umani, Rabid sete di sangue presenta invece una struttura centrifuga che porta i personaggi ad allontanarsi dalla clinica Keloid, lungo un percorso narrativo che si sfrangia e si ramifica nel territorio urbano, seguendo i rigangoli capillari del propagarsi della malattia»4.

Anche in Rabid le ambientazioni assumono un valore simbolico: «la Keloid Clinic è il ventre che partorisce il mostro, dopo averlo tenuto in incubazione, esattamente come le Starliner Towers del film precedente; i viali della città di Montreal diventano flussi sanguigni dove si consuma la follia»5. L’esperimento scientifico – il trapianto di pelle necessario alla protagonista – diviene elemento mutante che, incontrollato e incontrollabile, dilaga in una città presentata come estensione del corpo della donna, ulteriore passo verso l’infezione dell’intero pianeta.

A ben guardare, sostiene Altobelli, Shivers e Rabid, nonostante l’apparenza, non sono poi così distanti da La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007 ), ultima tappa di questo terzo itinerario. Si tratta, in questo caso, di un film costruito sulla pelle, un’epidermide solcata da tatuaggi, cicatrici e ferite che si fa testimone della storia dei personaggi attraverso un linguaggio che però, al pari delle diverse lingue che si intersecano e dei codici comportamentali delle diverse parti in lotta, risulta pressoché incomprensibile. Ancora una volta, in fin dei conti, sostiene lo studioso, si tratta di un film sulla convivenza di diverse identità all’interno di un unico corpo e di nuovo, suggerisce Cronenberg, la convivenza di più entità appare impossibile. Nel film ogni corpo è in qualche modo connesso a un altro e il regista racconta il legame tra i personaggi e tra gli spazi. «L’identità passa per forza di cose dal corpo, dice Cronenberg, ma passa anche […] dalle ferite che su quella pelle sono inferte. Sono loro – i segni, i tagli, i tatuaggi – a svelare l’identità. Ma cos’è diventato l’uomo, quando alla fine del percorso si è rivelato?»6.

Il quarto itinerario proposto dal volume – Alla Civic Tv per la proiezione di A Dangerous Method – parte da Videodrome (Id., 1983), un viaggio allucinatorio in cui la percezione dello spettatore si fonde con quella del protagonista, a sua volta ormai inestricabile dalla televisione in un intrecciarsi di piani che confonde il grado di mediazione dell’immagine. Chi guarda cosa? Attraverso quale mediazione? Quando per il protagonista, e per gli spettatori, la video-allucinazione ha iniziato a intrecciarsi, sovrapporsi, sostituirsi alla realtà? Se, riprendendo Marshall McLuhan, si pensa al monitor televisivo come a un’estensione del sistema nervoso umano, la distinzione tra i piani sembra allora farsi davvero impossibile.

In una celebre sequenza del film viene mostrato un talk show televisivo in cui O’Blivion «parla attraverso la televisione. Anzi, è lui stesso la televisione. Lo show televisivo, infatti, invita un televisore (!) che proietta l’immagine del professore che interagisce con gli ospiti come se fosse presente con loro»7. Lo spettatore, al pari dei personaggi, subisce un vero e proprio martellamento visivo fatto di schermi e richiami al concetto stesso di vedere e alla sua ambiguità. La realtà, suggerisce il film, è la nostra percezione della stessa e «per concepirla l’unico elemento sono le immagini. Se lo sguardo convince il nostro cervello che ciò che vediamo è vero, il corpo si adeguerà di conseguenza»8.

Il rapporto tra realtà e percezione del reale viene ripreso in eXistenZ (Id., 1999), che per certi versi rappresenta un aggiornamento di Videodrome, una fase successiva del processo di mutazione in atto in cui Cronenberg elimina ogni punto di riferimento per lo spettatore costretto ad accontentarsi di perdere atto di ciò che vede «alla ricerca di una via di uscita da quel corpo in cui, non si sa bene quando, come o perché, ci si è ritrovati»9.

Rispetto a Videodrome, secondo Altobelli, eXistenZ pare persino più inquietante in quanto ogni situazione mostrata viene percepita dallo spettatore come del tutto reale nel momento in cui si sta svolgendo e ciò perché, una volta che si accetta di entrare insieme ai protagonisti nel gioco, tutto può essere accettato. Forse, si potrebbe aggiungere, nel frattempo è cambiato, e parecchio, anche lo spettatore rispetto ai primi anni Ottanta… qualche “decennio televisivo” in più e massicce dosi di schermi sempre più indissociabili dal corpo hanno mutato drasticamente l’individuo e il livello di ciò che è disposto ad accettare nella fruizione10.

In eXistenZ Cronenberg, oltre alla percezione del reale, azzera persino lo spazio e il tempo (la protagonista a un certo punto si mette persino “in pausa”), «eXistenZ non inizia e non finisce, i suoi confini sono sfumati al punto da essere impercettibili: l’inizio di eXistenZ può tranquillamente essere considerata la sua fine, in un circolo infinito della percezione»11. Al termine della proiezione il dubbio di aver assistito a una mera allucinazione senza capo né coda può far capolino ed ecco allora che l’itinerario proposto da Altobelli ci conduce al film A Dangerous Method (Id., 2011) ove ci si trova a chiedersi cosa la protagonista femminile realmente veda e cosa no. Altobelli definisce l’opera un elegante «dramma della perversione» che narra del triangolo relazionale vissuto per qualche anno da Freud, Jung e la giovane Sabina Spielrein. «Pericolosi (dangerous) echi (method) della coscienza che, al netto dell’uso che ne vogliamo fare, porteranno comunque all’annientamento. I sogni, appunto, le visioni. Come quelle che avevano invaso la realtà in Videodrome e eXistenZ. Epiloghi concettuali iniziati in uno studio di psicanalisi»12.

Il quinto itinerario – In macchina. Cosmopolis e la fusione possibile – proposto da Altobelli prende il via da Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), un film spesso considerato un corpo estraneo all’interno della produzione cronenberghiana ma che a suo modo, secondo lo studioso, risulta comunque utile per comprendere la poetica del regista canadese in quanto, pur essendo ancora ben lontani da quelle «intuizioni apocalittico/emotive» che si ritroveranno in Crash (Id., 1996), già in questo film si intravedono i germi di alcune tematiche ricorrenti nel cinema del canadese. «Il film è un’appendice che già mostra, dietro il rassicurante racconto della rivalsa di un corridore contro un sistema corrotto, tutti quei dispositivi tossici che andranno a insinuarsi nella poetica di Cronenberg e che porteranno all’ossessione morbosa (corporale e mentale) descritta in Crash»13. In quest’ultimo film Altobelli vede un’opera sull’incomunicabilità,

un’allarmante e lucida riflessione sulla natura umana e sul suo bisogno di esprimersi a un livello primordiale, usando il corpo e il sesso. È un film sussurrato dove i protagonisti subiscono i fatti che si susseguono con un atteggiamento passivo e remissivo; la loro unica reazione è dettata dal desiderio carnale dell’accoppiamento. Dall’illusione che il breve momento di estasi derivato da questo impulso possa far loro dimenticare le rispettive inquietudini, i malesseri, la sottintesa depressione che, in effetti, sembra caratterizzare tutti i personaggi.14

James Ballard, a proposito della sua prova letteraria, ne parla come del primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia. D’altra parte anche il film che ne ha tratto Cronenberg tratta del rapporto perverso uomo/macchina, natura/tecnologia. «Ecco quindi un’altra contrapposizione impossibile: la natura (l’uomo, il sesso, il corpo) e la tecnologia (le macchine, che rappresentano anche il cosiddetto progresso) sono due entità inconciliabili»15. Tale fusione, sottolinea Altobelli, al pari di altre trattate dal canadese, vedono la ricerca della convivenza infrangersi sul desiderio del singolo individuo. Se in altre opere la razionalità capitolava sotto l’illusione di un orizzonte comune, «in Crash è l’istinto a prevalere e a far capitolare già per questo ogni possibilità di buon esito dell’incontro»16.

Pur chiamato a essere testimone delle perversioni dei personaggi, lo spettatore sembra restare, per quanto stupito, abbastanza indifferente di fronte alla sessualità esibita in Crash: «l’assenza di una vera struttura narrativa coinvolge anche noi come spettatori che vaghiamo, come fa Ballard, attraverso una serie di ambienti urbani e industriali»17. Nastri d’asfalto, garage ospedali… come nei primissimi film di Cronenberg – Stereo (1969) e Crimes of the Future (1970) – i protagonisti, e con essi gli spettatori, si spostano da un ambiente a un altro senza una logica particolare. In Crash al regista, sostiene lo studioso, sembra interessare cosa c’è “dietro” l’atto sessuale, più che quest’ultimo e qui abbiamo soprattutto disperazione e solitudine.

La città è l’altro corpo che viene stuprato, scorticato, scoperto totalmente. Cronenberg mostra le corsie stradali come mostrerebbe le arterie che scorrono sotto pelle. In quelle strade i personaggi diventano globuli rossi, sono cellule, piastrine pronte a defluire e a emergere quando qualcosa (la lamiera, il ferro) taglia quel corpo, quella pelle (la strada, la città). Come a dire: facevamo già parte di un tutto e non lo sapevamo. L’esito di una separazione è necessariamente la morte. Senza appello. E nel confronto tra vita e morte, non ci resta che la tragica fine di un’esistenza vissuta senza scopo.18

È in Cosmopolis (Id., 2012) – atto d’accusa senza appello nei confronti di un sistema che non riesce, non può, fare a meno di rende tutto moneta di scambio – che secondo Altobelli si assiste alla fusione desiderata in Crash: «il corpo è già all’interno della macchina, è già fuso in essa. […] è un corpo (visivamente) immateriale all’interno di un guscio (l’automobile) che lo irrobustisce fino a dargli quella forma che nella sua natura manca [in quanto] morto prima del tempo»19. Qua la carne diviene inconsistente; siamo di fronte a un fantasma alla ricerca di «una sua identità fisica lontana dall’involucro ipertecnologico della limousine in cui è costretto a vivere in una simbiosi che rimanda naturalmente a film come Crash o Veloci di mestiere, ma certamente anche alle mutazioni di La mosca, o alle coesistenze metafisiche di Videodrome»20.

L’ultimo tragitto tra le opere cronenberghiane proposto da Altobelli – A Hollywood, per Maps to the Stars – prende il via con M. Butterfly (Id., 1993), film in cui «il sesso è una liberazione, un atto naturale e anche, per la prima volta nel cinema di Cronenberg, sentimentale. Eppure il dramma è dietro l’angolo»21, forse perché, ancora una volta nulla è come pare. In questo film a mutare non è il singolo ma la coppia stessa. «La coppia di amanti dall’equivoca identità, sfocerà nella mutazione quando l’uomo diverrà la donna di cui (non) si è innamorato. È come se Cronenberg tentasse di rivelare cosa si nasconde sotto la (nuova?) carne. La pelle è un coperchio fatto per essere divelto dal furore passionale del sentimento»22.

In Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), il regista mette in scena l’impossibilità di una famiglia di concretizzarsi come entità e lo fa attraverso un percorso a tappe allegorico disseminato di sottotesti. Nel film si è posti di fronte a immagini mentali che prendono vita e si danno a vedere, allucinazioni visive o percettive che attraversano la mente anche dei personaggi di Maps to The Stars (Id., 2014), punto d’approdo di questo ultimo percorso proposto da Altobelli. Questo ultimo film mette lo spettatore di fronte a un’umanità distorta quanto il sistema a cui appartiene e da cui è stata plasmata. Maps to the Stars insiste sulla necessità dell’essere umano di mostrarsi, sulla dipendenza dall’immagine che lo rappresenta e lo Star System hollywoodiano mostra qua di contenere al suo interno il germe dell’autodistruzione innescata dal desiderio di essere altro, dramma che, sostiene Altobelli, può facilmente essere esteso all’universo televisivo o dei social network.


 Serie completa Processi di ibridazione

 


  1. D. Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione, Bakemono Lab edizioni, Roma 2020, p. 87. 

  2. Ivi, p. 89. 

  3. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata  aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007. 

  4. Ivi, p. 30. 

  5. D. Altobelli, op. cit., p. 94. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi., p. 106. 

  8. Ivi, p.109. 

  9. Ivi, p. 114. 

  10. Cfr. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine, 2020. Si veda anche G. Toni, Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo, “Carmilla”. 

  11. D. Altobelli, op. cit., p. 117. 

  12. Ivi, p. 121. 

  13. Ivi, p. 128. 

  14. Ivi, p. 129. 

  15. Ivi, p. 130. 

  16. Ivi, p. 130. 

  17. Ivi, p. 132. 

  18. Ivi, p. 132. 

  19. Ivi, pp. 133-134. 

  20. Ivi, p. 134. 

  21. Ivi, p. 142. 

  22. Ivi, p. 145. 

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