Tecnopanico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 19 Apr 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tecnopanico. Il processo di mostrificazione dei media digitali https://www.carmillaonline.com/2025/04/19/tecnopanico-il-processo-di-mostrificazione-dei-media-digitali/ Sat, 19 Apr 2025 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87201 di Gioacchino Toni

Alberto Acerbi, Tecnopanico. Media digitali, tra ragionevoli cautele e paure immaginarie, il Mulino, Bologna 2025, pp. 192, € 15,00

Il celebre adattamento per la radio di Orson Welles della Guerra dei mondi di H.G. Wells, messo in onda dalla CBS il 30 ottobre 1938, continua ad essere portato a esempio di come un falso programma di giornalismo radiofonico abbia potuto, facendosi passare per vero, generare il panico tra la popolazione e, più in generale, per denunciare le potenzialità manipolatorie dei media sull’opinione pubblica. La vicenda che ruota attorno a questo programma radiofonico è indubbiamente affascinante, ma quanto c’è [...]]]> di Gioacchino Toni

Alberto Acerbi, Tecnopanico. Media digitali, tra ragionevoli cautele e paure immaginarie, il Mulino, Bologna 2025, pp. 192, € 15,00

Il celebre adattamento per la radio di Orson Welles della Guerra dei mondi di H.G. Wells, messo in onda dalla CBS il 30 ottobre 1938, continua ad essere portato a esempio di come un falso programma di giornalismo radiofonico abbia potuto, facendosi passare per vero, generare il panico tra la popolazione e, più in generale, per denunciare le potenzialità manipolatorie dei media sull’opinione pubblica. La vicenda che ruota attorno a questo programma radiofonico è indubbiamente affascinante, ma quanto c’è di vero in questa narrazione portata a esempio di come i media possano far passare il falso per vero?

Gli studi più recenti tendono a ridimensionare i numeri che raccontano di sei milioni di radioascoltatori  spaventati da quanto stavano sentendo alla radio, un milione dei quali letteralmente in preda al panico per l’arrivo degli alieni; evidentemente le cifre erano state gonfiate al fine di dare maggiore rilevanza all’evento. Se tanto è stato scritto a proposito di come il timore per l’invasione aliena avesse a che fare con il “pericolo rosso” diffuso nell’immaginario statunitense del periodo, varrebbe la pena guardare anche ad un altro fattore di inquietudine negli Stati Uniti alla vigilia del secondo conflitto mondiale, cioè l’avvento di un nuovo mezzo di comunicazione di massa: la radio.

Non a caso, ad enfatizzare gli effetti di isteria collettiva determinati dalla trasmissione radiofonica del falso sbarco alieno è stata soprattutto la stampa che, guardando al nuovo media come ad un temibile concorrente, non ha mancato di metterne in luce gli aspetti negativi. Il ricorso ai toni allarmistici negli articoli ha contribuito, come sempre accade nei media, ad attirare l’attenzione dei lettori e l’inquietudine generata dalla messa in scena della CBS si è rivelata un’occasione che i quotidiani non potevano farsi sfuggire per denunciare le potenzialità manipolatorie del nuovo medium concorrente.

È a partire da questo esempio che Alberto Acerbi, nel saggio Tecnopanico (il Mulino 2025), tratteggia una breve storia delle preoccupazioni legate alle nuove tecnologie di comunicazione da cui emerge come, spesso, siano proprio i vecchi media, mossi da un più o meno consapevole spirito di sopravvivenza, ad enfatizzare le negatività dei nuovi media dimenticandosi delle proprie.

Passando in rassegna le principali preoccupazioni con cui oggi si guarda alle tecnologie di comunicazione digitale – spesso indicate come causa di disinformazione, complottismo, estremismo e malessere esistenziale –, Acerbi si dice convinto che, per quanto si tratti di preoccupazioni assolutamente giustificate, queste abbiano assunto toni eccessivamente allarmistici. Inoltre, lo studioso mostra come diversi aspetti negativi associati ai media digitali non siano affatto peculiarità di questi ultimi, ma si ritrovino in maniera tutt’altro che marginale anche nei media tradizionali. Per quanto la comunicazione digitale introduca modalità e possibilità sue peculiari, tanti aspetti negativi presenti in essa non sono certo una novità e l’insistenza con cui vengono indicati come suoi derivati finisce spesso, più o meno consapevolmente, per celare vizi presenti nei media precedenti e nelle società che li hanno prodotti. Insomma, l’impressione è che, a volte, si tenda a spostare tutte le negatività sul nuovo al fine di assolvere il passato.

Come per altre tematiche, anche nell’ambito delle nuove tecnologie della comunicazione il ricorso a toni allarmistici nell’informazione risulta utile ad attrarre attenzione. A spingere verso una visione negativa del nuovo contribuisce in maniera importante anche il sentimento della nostalgia per il passato, soprattutto per la propria giovinezza, e il fatto che rapportarsi al nuovo richiede un faticoso adattamento. Se, come detto, la competizione tra media induce i vecchi a guadare ai nuovi con sospetto, dunque ad esasperarne le negatività, Acerbi si dice convinto che la paura con cui si guarda ai media digitali derivi in buona parte dal timore che si ha per la loro influenza sociale.

Reazioni allarmistiche, a volte persino apocalittiche, si sono manifestate al comparire di ogni grande innovazione nelle tecnologie di comunicazione: dall’avvento della scrittura a quello della stampa a caratteri mobili, dalla radio alla televisione, sino agli attuali media digitali. Secondo alcuni studiosi, a partire dall’inizio del secolo scorso, ad incrementare l’allarmismo nei confronti dei nuovi mezzi di comunicazione ha contribuito in maniera importante l’interesse che la società ha iniziato a manifestare nei confronti dell’adolescenza. Da qui la particolare attenzione nei confronti di tutto ciò che potrebbe influire su questo importante momento dello sviluppo umano ed i media, anche alla luce del tanto tempo speso dai giovani a contatto con essi, hanno finito per diventare oggetto privilegiato di preoccupazione.

Tra le caratteristiche ricorrenti nei “tecnopanici”, Acerbi indica: la disproporzione del danno (nell’esasperare e amplificare i danni, la comunicazione tradizionale tende a distorcere la percezione che si ha dei nuovi media); la tendenza ad estendere le conseguenze negative legate a questioni specifiche ad ambiti più allargati sino a farle diventare vere e proprie minacce per la società; la creazione di folk devils, di facili capri espiatori, su cui scaricare le colpe (per quanto riguarda le tecnologie digitali, i capri espiatori, a differenza del passato, anziché essere individuati in gruppi marginali, vengono indicati tra le figure più in vista delle grandi corporation digitali, dai proprietari agli sviluppatori più celebri); il guardare alle figure dei pentiti delle tecnologie digitali, che magari hanno lasciato il lavoro nel settore per i motivi più diversi, per avvalorare e rafforzare la negatività con cui si guarda a questo mondo; la tendenza a cercare soluzioni semplici per problemi complessi e ad assumere una visione deterministica del processo di diffusione tecnologico in cui si guarda all’essere umano che ne fa uso come ad un soggetto statico, incapace di rimodellarsi a contatto con le novità e, sostanzialmente, come ad un essere totalmente passivo, senza difese, dunque inevitabilmente influenzabile (curiosamente, ciò riguarda esclusivamente gli altri, di cui, paternalisticamente, si preoccupano quanti, evidentemente, si ritengono immuni alla manipolazione).

L’idea diffusa che vuole internet, soprattutto l’universo social, letteralmente inondato da disinformazione al momento fatica a trovare riscontro nelle ricerche di carattere scientifico che hanno tentato di quantificare il fenomeno. Ovviamente ciò non significa che non vi siano fake news in rete, bensì, sostiene Acerbi, che si è di fronte ad una credenza apocalittica diffusa che, ad ora, non è avvalorata da dati certi. Le difficoltà che si incontrano nel definire esattamente cosa si intende per disinformazione (figurarsi pretendere di quantificarla con precisione), dovrebbero indurre a una certa cautela nel dichiararla dilagante in rete, così come, del resto, sarebbe altrettanto errato minimizzarne la presenza.

La stessa convinzione che vuole le fake news più facilmente “virali” in rete rispetto alle notizie dotate di fondamento, stando a quanto afferma Acerbi, non trova riscontro certo nelle indagini che sono state sin qua svolte sulla comunicazione online. Ciò che piuttosto è emerso dagli studi effettuati è che a rivelarsi più facilmente “virali” sono notizie in grado di suscitare reazioni emotive, indipendentemente dalla loro veridicità. Il fatto che si tenda a prestare maggiormente attenzione alle notizie in base a fattori emotivi piuttosto che razionali apre, evidentemente, un altro ordine di problemi che però non coinvolge esclusivamente l’universo digitale.

Oltre a ricordare come una parte non irrilevante delle fake news presenti in rete riguardino questioni non particolarmente rilevanti e serie, Acerbi, citando diversi studi, sottolinea come i cambi di opinione su questioni importanti siano molto più difficili da ottenere rispetto a quel che si tende a credere, dunque la capacità delle informazioni menzognere di plasmare le credenze degli individui andrebbe, a suo avviso, soppesata con una certa cautela.

Spesso si accusa internet di diffondere teorie complottiste dimenticandosi di come queste fossero ben presenti e diffuse anche prima della nascita della rete. L’idea che con internet si sia entrati nell’era della “post-verità”, sostiene Acerbi, implica l’esistenza di un’era precedente all’insegna della “verità”, cosa, evidentemente, tutta da dimostrare. Quando si parla di post-verità si fa riferimento alla tendenza a concedere credibilità ad affermazioni i cui presupposti oggettivi e chiaramente accertati sono considerati di secondaria importanza rispetto alla loro capacità di toccare gli aspetti più emotivi e di confermare i pregiudizi del ricevente. Per quanto si tratti di un aspetto negativo della contemporaneità occorre sottolineare che di ciò non erano esenti le epoche passate ed è dunque difficile ricondurre le cause nell’avvento dei media digitali.

L’idea risibile che vuole la Terra piatta, tanto per fare un esempio, precede di gran lunga l’avvento dei social network. Ciò che questi ultimi permettono, rispetto al passato, è piuttosto una maggiore facilità di venire a contatto con tali credenze prive di fondamento, soprattutto da parte di chi, volontariamente, ne va alla ricerca. Ciò apre, nuovamente, un altro tipo di problema, di certo non privo di negatività, ma, sottolinea Acerbi, è ben altra cosa rispetto a dare per scontato che la disinformazione sia arrivata con internet e che questo abbia condotto alla “post-verità”. Piuttosto, rete o meno, suggerisce lo studioso, occorrerebbe riflettere ed indagare a proposito dei bisogni psicologici e sociali che inducono tanti individui a guardare a teorie complottiste o comunque prive di base scientifica.

Altra questione di cui si parla spesso a proposito dei social network digitali è la presenza in essi di echo chambers, ossia di gruppi polarizzati su questioni specifiche che tendono a seguire e condividere esclusivamente materiale in linea con ciò in cui credono senza prendere in esame posizioni diverse. Acerbi invita a domandarsi se tale fenomeno può essere imputato alla comunicazione digitale o se non sia piuttosto caratteristico anche della vita offline; le relazioni sociali che si instaurano fuori dalle rete sono forse meno omogenee di quelle vissute online? La tendenza all’isolarsi rispetto a ciò che contrasta le proprie convinzioni non è forse riscontrabile nella vita digitale come in quella fuori dagli schermi? La stessa polarizzazione politica che caratterizza gli ultimi tempi e di cui si incolpano i social, era davvero assente prima che arrivasse la rete?

Che l’impressionante numero di ore che gli adolescenti passano online, soprattutto ricorrendo allo smartphone, ed in particolare sui social, debba indurre a domandarsi quanto ciò sia salutare, soprattutto dal punto di vista mentale, è fuori di dubbio. Occorrerebbe, però, una certa cautela nel dare credito alle teorie, spesso non suffragate da dati certi, circa l’incidenza nefasta che tale frequentazione comporta sulla personalità e sui rapporti sociali dei più giovani. Da questo punto di vista, segnala Acerbi, gli studi empirici faticano a darci risposte certe. Quel che è certo, sostiene lo studioso, è che procedere dando per buone ipotesi esclusivamente negative (così, come, all’opposto, inclini a vedervi minimi effetti) non solo impedisce di trovare soluzioni, ma contribuisce a creare altri problemi, probabilmente non meno rilevanti.

Tecnoentusiasti e tecnocatastrofisti, sostiene Acerbi, sono accomunati dal pensare, per quanto in senso opposto, che gli effetti delle tecnologie digitali siano dirompenti, che il ruolo degli esseri umani, nell’avere a che fare con esse, sia sostanzialmente passivo e che, tutto sommato, le tecnologie progrediscano prescindendo dal rapportarsi con l’umano, quasi siano dotate di uno sviluppo indipendente da vincoli culturali e sociali. I primi guardano all’universo digitale riponendo in esso fiducia illimitata, dunque evitano di porsi interrogativi circa il portato negativo che possono avere, mentre i secondi, inclini a vedervi esclusivamente aspetti negativi, assumono atteggiamenti ostili senza approfondire ciò che contrastano. Entrambe le visioni sono incentrate sul pensare all’essere umano come utente delle tecnologie digitali, mentre invece, sostiene lo studioso, sarebbe decisamente più proficuo pensarsi come agenti che intessono con esse un rapporto bidirezionale.


L’immagine di apertura è tratta dal film Collingswood Story (2002) di Michael Costanza.

 

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